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C'era una volta l'antiamericanismo PDF Stampa E-mail

20 Marzo 2015

 

Da Rassegna di Arianna del 17-3-2015 (N.d.d.)

 

C’è un’avversione che in Italia si fa sempre meno sentita: quella rivolta contro il modello culturale, la politica estera ed economica degli Stati Uniti d’America. Non è sempre stato così. Al tempo della guerra fredda (quando i partiti avevano ancora una funzione e non erano esclusivamente liste elettorali e comitati d’affari) c’era stabilmente nel nostro Paese un blocco sociale che si rifaceva al modello sovietico, sullo scacchiere mondiale alternativo a quello americano. Questa vasta area non si limitava a votare il Pci mantenendolo costantemente oltre il 30% dei consensi ma aveva forti influenze nei luoghi decisionali e di produzione e diffusione del sapere, come le scuole e le università, nei media cartacei, televisivi e radiofonici. Tutto ciò, almeno a livello superficiale, contribuiva alla diffusione di un sentimento antiamericano, che rivestendo una fetta consistente della popolazione e una buon parte della sua intellighentsia, aveva una sua legittimità e non era relegato a pochi emarginati considerati con un sorriso di sufficienza dall’opinione pubblica. Invero, una certa dose di antiamericanismo si poteva trovare nella base militante dell’Msi, in special modo nelle sue organizzazioni giovanili o in organizzazioni extraparlamentari che non si riconoscevano nella visione estera ufficiale (quella sì, assai atlantista) del partito neofascista. Questo antiamericanismo, seppur ultraminoritario rispetto al primo, esisteva ed aveva una sua dignità e ragione d’essere in nome di un’Europa vista come terza forza da contrapporre ad ambedue i sistemi che si spartivano allora il mondo, cioè quello capitalista e quello comunista.

Ora come ora invece, l’opposizione all’influenza americana (che forse ormai è talmente invasiva da passare paradossalmente in secondo piano?) è pressoché scomparsa dal panorama politico italiano. Con il crollo del Muro e la fine della divisione del mondo in due blocchi, quasi nessuno ha voglia d’affannarsi a contrastare l’unica superpotenza rimasta. Gli ex comunisti ortodossi di una volta, perso il faro e i rubli di Mosca, si sono in fretta uniti alla schiera che osanna ‘la più grande democrazia del mondo’ e ‘il Paese della libertà’. Di uscire dalla Nato, un tempo leitmotiv dei ‘rossi’, non se ne parla neanche. E così le 113 installazioni militari sul suolo italiano dei nostri alleati rimangono beatamente al loro posto (con tutto il correlato che ne comporta come l’inquinamento elettromagnetico e l’arroganza del personale americano sulle popolazioni autoctone), con l’apparato bellico pronto a scattare per esportare un po’ di democrazia, naturalmente anche a scapito dei nostri sempre più risicati interessi nazionali, vedasi guerra alla Libia del 2011. D’altro canto l’occupazione militare non è di certo l’unico segno dell’ingerenza statunitense.

La colonizzazione culturale ha raggiunto livelli così disarmanti che ormai si fa fatica anche a pensare che di modello culturale ne possa esistere un altro. Il 90% dei film che escono nelle nostre sale cinematografiche è di marca hollywoodiana, i format televisivi in onda sui nostri canali vengono tutti da oltreoceano e veicolano una deculturazione spaventosa. Nelle grandi e medie città le plebi (che sono sempre più ‘multiculturali’ e ‘multietniche’ come recita lo spartito dell’american way of life) vestono esclusivamente indumenti sintetici e jeans, vedono il Mc Donalds come meta ideale e si spengono sugli smartphone. Il modello aggregativo di riferimento è la gang e il consumo di droga (a proposito indovinate qual è il primo Paese al mondo consumatore di stupefacenti?) viene considerato assolutamente normale.

Per quanto riguarda l’asservimento politico delle nostre cosiddette classi dirigenti meglio stendere un velo pietoso. Non crediamo neanche che le amministrazioni USA debbano muoversi per imporsi: i nostri fanno a gara per essere sciuscià. Quando per tutta una serie di irripetibili circostanze viene fuori un soggetto politico non dico indipendente ma che cerca un po’ di autonomia, ne trovano a bizzeffe di servi pronti a defenestrarlo (vedasi vicenda Wikileaks con i cablogrammi che trovavano irritanti i tentativi fatti dal governo Berlusconi IV verso la Russia e la Libia per l’emancipazione energetica dell’Italia e la successiva rovinosa caduta dell’esecutivo per la defezione dei suoi ex alleati). In campo economico non mancano poi le acquisizioni da parte di colossi a stelle e strisce di pezzi storici della produzione italiana come Indesit, Negroni, Simmenthal, Gruppo Fini, Splendid, Saiwa, Ruffino, Poltrona Frau. I campi di schiacciante predominanza americana sull’Italia e sull’Europa tutta sono così tanti e così strategici, basti citare il satellitare e il campo dei motori di ricerca su internet, monopolizzato da Google, che ci si trova in una tale posizione di subalternità che è difficile immaginare anche a lungo termine un’inversione di rotta.

E forse è perché la situazione è così ineluttabile che si è smesso anche di denunciarla. Le invettive contro i servi di Bruxelles hanno sostituito quelle contro i servi di Washington. L’ondata euroscettica, che accontentandosi di far leva sugli umori popolari non ha voglia di andare alle cause prime della attuale e tragica situazione dei popoli europei, monta sempre di più. C’è la disoccupazione? È colpa dell’Ue. C’è la crisi economica? È colpa dell’euro. C’è immigrazione massiccia e non più tollerabile? Colpa di Bruxelles. In realtà non si capisce bene cosa dovrebbe cambiare passando da una moneta emessa da una banca privata per interessi privati con sede a Francoforte ad una moneta emessa da una banca privata per interessi privati con sede a Roma. L’Ue è totalmente da riformare e non rappresenta degnamente il mito dell’Europa Unita. Ma negandola, quasi fosse una sorta di transfert dal ‘nemico principale’, ci si preclude così l’unica opzione per l’emancipazione delle nostre genti ovvero l’unificazione politica continentale, per un ritorno impossibile a Stati che ormai non esistono più, se non nella loro funzione di amministratori per conto d’altri. Che sono sempre gli stessi da ormai settant’anni.

 

Giovanni Pucci 

 
Junk generation PDF Stampa E-mail

19 Marzo 2015

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Da Rassegna di Arianna del 17-3-2015 (N.d.d.)

 

Ogni periodo storico ha la sua generazione. Non che tutte le persone degli anni ’60 fossero hippies o tantomeno che tutti i ragazzi degli anni ’80 fossero yuppies, ma, di sicuro, ogni decennio-ventennio ha i suoi miti, i suoi stili e le sue mode, seguiti dalla gran parte di chi ci cresce, ovvero i giovani, i quali vengono plasmati da ciò che li circonda. Così ogni generazione assume dei caratteri specifici, che sono espressione della società nella quale si forma.

Se si dovesse definire con una parola la generazione odierna, questa sicuramente sarebbe junk, “spazzatura”. La gioventù del nuovo millennio è circondata dall’immondizia, ma non sembra preoccuparsene, anzi ci fonda la propria esistenza. Ogni fase della vita di un adolescente medio infatti è sinonimo di spazzatura. L’esempio più lampante è rappresentato dal cibo che consuma quotidianamente nei fast food, chiaro esempio di junk food, in quanto scadenti, pericolosi per se stessi e dannosi per l’intero Pianeta. In questo senso, i McDonald’s sono un vero e proprio simbolo della gioventù attuale: posti dove si mangia male e non si fa niente di interessante, ma all’interno dei quali migliaia di ragazzi trascorrono ore della propria vita nell’apatia totale. Oltre al cibo, però, pensiamo alla televisione, strumento di comunicazione di massa per eccellenza. Inutile dire come questo mezzo sia degradato nella sua totalità, non solamente verso i giovani. Tuttavia, è significativo sottolineare come la rete televisiva più seguita dai ragazzi, mtv, non sia altro che un calderone di sesso, feste ed inviti al consumismo, come se la vita degli adolescenti si fondasse su questi elementi. La verità, purtroppo, è proprio questa.

Perché, al di là dei casi specifici di spazzatura (la lista potrebbe continuare con la musica, i libri e le attività seguite dalla massa della gioventù odierna), è l’atteggiamento di base ad essere junk, caratterizzato dal totale disinteresse per la cosa pubblica e la mancanza di ideali nella propria vita, due elementi da concepire come strettamente connessi. Questo perché, gli ideali spesso ci sono, ma non sono altro che espressione della cultura dominante, competitiva e progressista, in una parola: individualista. I giovani del ventunesimo secolo sono apolitici, nel senso più ampio del termine. Insomma, al contrario di quello che sosteneva Aristotele, non sono più animali sociali, ma del tutto indifferenti a ciò che li circonda ed unicamente interessati a ciò che li riguarda. Forse, molte altre generazioni sono state così, ma quello che caratterizza la junk generation è che quest’alienazione dalla vita pubblica è (quasi) totale, complice anche l’onnipresente tecnologia, divenuta oramai un fine e non più un mezzo. Si nasce con l’i-pad e si cresce con l’i-phone: su questo binomio i giovani del duemila si (s)formano. Questi oggetti, non vengono usati per qualcosa, ma a forza di utilizzarli in continuazione li si fa diventare qualcuno. Ovviamente, in linea con i dettami dell’iper-consumo, appena esce la nuova versione dello stesso attrezzo, il precedente viene buttato e si fanno anche due giorni di fila per spendere diverse centinaia di euro. Un atteggiamento decisamente junk, legato al fenomeno dell’obsolescenza programmata, altro fattore decisamente ignorato oggi.

Tornando però alla questione della tecnica, così come verrebbe identificata da Heidegger, vera e propria caratteristica del nuovo millennio e quindi della nascente generazione, sono significative le parole di Massimo Fini, nel suo libro Il ribelle: «[la tecnica] ha creato un meccanismo che, invertendo le posizioni, ha subordinato l’uomo a sé e alle proprie esigenze e procedure astratta e anonime, appiattendolo, massificandolo, omologandolo, togliendogli identità e soggettività, attaccandone i nuclei costitutivi, indebolendolo e rendendolo sempre più incapace di opporsi al mostro che lo sta divorando lentamente come il serpente che inghiotte il coniglio». La tecnologia è, infatti, un vero e proprio mostro, non tanto in sé, ma soprattutto nell’uso che l’essere umano ne fa. Tra gli usi più sbagliati c’è quello di considerarla come una vera e propria seconda natura, da cui è impossibile dissociarsi, anche solo per un giorno. I giovani incarnano alla perfezione questa visione, essendo sempre attaccati alla schermo (quasi sempre del proprio telefonino), chattando e, cosa più grave, discutendo attorno a tutto per comunicarsi tra di loro il niente. Di fatto, il circolo vizioso della junk generation si risolve proprio nell’assenza di orizzonti di senso, nelle quotidiane perdite di tempo e nel nichilismo esistenziale di un mondo senza ideali.

Ma, in questo scenario degradante, non tutti hanno smesso di credere in qualcosa, anche perché, sennò, tutto sarebbe irreversibile e non avrebbe senso scrivere articoli del genere. Ci sono (centinaia di) ragazzi che non si accontentano di avere il cellulare nuovo o di passare le proprie serata in discoteca, ma vogliono essere parte di una comunità e portatori di valori. Giovani che dedicano gran parte del proprio tempo ad ideali nobili in vista di un bene comune. Non si farà qui la lista dei vari movimenti giovanili attivi in questo senso, perché sarebbe sinonimo di propaganda, mentre si vuole semplicemente informare. Starà al lettore documentarsi e semmai sostenere le diverse iniziative dal basso. In conclusione, citando ancora Massimo Fini: «Bisogna cercare di riportare l’uomo al centro di se stesso». Ebbene, in contrapposizione ad una società in preda al cretinismo economico e dominata dalla tecnologia, c’è una gioventù, anche oggi, che lo sta cercando di fare, non solamente riprendendo il controllo di se stessa, ma riconoscendosi come parte attiva della comunità umana e naturale di cui fa parte. La Natura contro l’immondizia.

 

Lorenzo Pennacchi 

 
Finale hollywoodiano PDF Stampa E-mail

18 Marzo 2015

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Un “finale hollywoodiano” era quello che ci si aspettava dal piano terroristico del ventisettenne di origine kosovara, instabile mentalmente, che avrebbe dovuto farsi saltare in aria in un affollatissimo Casinò di Tampa in Florida.

Houston, 16 Marzo 2015 - Nel corso degli otto minuti del “video da martire”, girato nel Days Inn di Tampa, il giovane, Sami Osmakac, promette, infatti, di vendicare le uccisioni di fratelli musulmani in Afghanistan, Iraq, Pakistan e in ogni altra parte del mondo.  “Occhio per occhio, dente per dente, una donna per ogni donna, un bambino per ogni bambino”. Registrato il video, Sami aveva in programma di recarsi all’Irish bar di Tampa e poi al Casinò locale, dove avrebbe preso degli ostaggi prima di farsi esplodere all’arrivo della polizia. Per questo piano, peraltro non portato mai a termine, oltre che per possesso di armi di distruzione di massa – un’auto-bomba, sei granate, un giubbotto esplosivo e varie armi tra cui un AK-47 - il giovane è stato condannato, il 26 Novembre scorso, a 40 anni di carcere dalla corte di Tampa.

Fin qui nulla di strano.

Solo che oggi emerge – da un clamoroso scoop di The Intercept, il nuovo giornale di Glenn Greenwald, meglio noto come colui che realizzò le prime interviste ed il ‘lancio’ di Edward Snowden  - che il giovane squilibrato kosovaro era stato irretito, condizionato, finanziato e armato niente meno che da una rete di agenti FBI sotto copertura.

Dov’è la novità? direte voi.

La novità è che questa volta c’è la smoking gun, la pistola fumante, vale a dire le intercettazioni che mettono nei guai i federali. Il meccanismo è sempre lo stesso. S’individuano giovani instabili mentalmente, preferibilmente di origine araba, spesso in disperate condizioni economiche e li si trasforma, con tecniche di controllo mentale, in informatori e talent scout di potenziali terroristi. I soggetti che questi infiltrati trovano vengono poi armati e motivati per compiere attentati o – come nel caso di Sami – per divenire capri espiatori per la war on terror, che ha bisogno di divorare quotidianamente nuove vittime per mantenere sempre alto il livello dell’emergenza, della paura instillata nelle masse. Pronte a barattare sempre maggiori spazi di libertà a fronte di una presunta sicurezza.

Le operazioni condotte da informatori sotto copertura sono dunque al centro del programma antiterrorismo dell’FBI. Dei 508 imputati processati per casi terrorismo nel decennio dopo l’11 Settembre, in ben 243 casi erano coinvolti informatori dell'FBI, mentre 158 sono stati gli obiettivi di operazioni sotto copertura. In questi ultimi un informatore dell'FBI o un agente sotto copertura ha spinto 49 imputati a realizzare o pianificare atti di terrorismo, in modi analoghi a quello che è stato attuato con Sami Osmakac. Naturalmente, l’FBI ufficialmente pretende di pagare informatori e agenti sotto copertura per sventare gli attacchi prima che si verifichino. Ma le prove indicano chiaramente - e un recente rapporto di Human Rights Watch lo dimostra - che l’FBI, piuttosto che acciuffare aspiranti terroristi imbranati, induce ad azioni terroristiche soggetti malati di mente o economicamente disperati. Individui che da soli non potrebbero mai realizzare piani criminali complessi. Nel caso di Osmakac, gli stessi agenti dell'FBI confermano pienamente questo stato di cose, anche se non lo ammetteranno mai pubblicamente. In questa operazione, l’agente sotto copertura dell’FBI agisce con lo pseudonimo di “Amir Jones”. È il tipo dietro la telecamera nel video che annuncia il martirio di Sami. Amir, che si presenta come il rivenditore delle armi da utilizzare nell’azione terroristica, nasconde su di sé un registratore. Oltre ai dialoghi con Sami, il dispositivo registra però anche le conversazioni che si svolgono nella sede dell’FBI a Tampa, tra agenti e collaboratori che credono di parlare in assoluta privacy.

Ora, queste conversazioni permettono di ricavare un’immagine estremamente precisa e accurata di quella che sono le operazioni anti-terrorismo dell'FBI, e mostrano come, a volte, anche agli occhi degli stessi agenti dell'FBI coinvolti, i soggetti di queste operazioni sotto copertura non siano sempre inquietanti e minacciosi come li si vuole far apparire.

Nell’audio – del 7 Gennaio del 2012 – che segue la registrazione del video del martirio di Sami, l’informatore “Amir” e altri si fanno beffe di tale video, che l’FBI ha realizzato per Osmakac.

Ecco alcune battute:

“Quando stava indossando la roba, si muoveva in modo nervoso” dice qualcuno ad Amir. “Continuava a indietreggiare ...” “Sì”, risponde Amir. “Sembrava nervoso davanti alla telecamera” qualcun altro aggiunge. “Sì, era eccitato. Penso che si sia eccitato quando ha visto la roba”, risponde Amir, riferendosi alle armi che erano lì sul letto della stanza dell’hotel. “Oh, sì, lo puoi dir forte” dice una terza persona. “Era proprio come, come, come un bambino di sei anni in un negozio di giocattoli”.

In altre conversazioni registrate, Richard Worms, il supervisore della squadra dell’FBI, descrive Osmakac come un “mentecatto ritardato” che non “riuscirebbe neppure a pisciare nel vaso”. Poi ci sono degli agenti che sottolineano che la pubblica accusa - nonostante gli obiettivi di Osmakac siano “inconcludenti”, e le sue ambizioni terroristiche dei “miraggi” – ha bisogno di avere un “finale Hollywoodiano” dell’operazione.  La registrazione del colloquio indica, poi, come gli agenti dell'FBI facciano fatica persino a mettere 500 dollari in mano a Sami per dare un acconto sulle armi. Quelle stesse armi che il Tribunale ha poi considerato la dimostrazione delle capacità terroristiche di Osmakac e del suo impegno a compiere la strage pianificata. “Il denaro è la prova che lui è disposto a farlo, perché anche se non siamo in grado di farlo ammazzare qualcuno, possiamo mostrare che paga le armi” afferma l’agente speciale dell’FBI, Taylor Reed, in una conversazione.

Chi avrebbe mai immaginato che queste trascrizioni potessero essere rese pubbliche? Ma a volte il diavolo, come si sa, fa le pentole…

Naturalmente, appena ciò è avvenuto, grazie al coraggio di un bravo giornalista, Trevor Aaronson, il governo ha sostenuto che le registrazioni potrebbero danneggiare il governo degli Stati Uniti, rivelando le “strategie e i metodi di indagine delle forze dell’ordine”. Ma esse, fornite da una fonte confidenziale a The Intercept in collaborazione con l’Investigative Fund, costituiscono una preziosa rivelazione di ciò che accade dietro le quinte di una operazione antiterrorismo sotto copertura dell’FBI, rivelando come gli agenti federali abbiano sfruttato il loro rapporto con un informatore prezzolato, lavorando per mesi con l’obiettivo di trasformare lo sventurato Sami Osmakac in un terrorista.

Naturalmente né l’FBI di Tampa né il quartier generale dell’FBI a Washington hanno risposto alle richieste da parte di The Intercept di un commento sul caso Osmakac o sulle osservazioni fatte da agenti e collaboratori dell’FBI sull’operazione sotto copertura. […]

Purtroppo per l’FBI e per la fortuna di decine di persone innocenti, in questo caso il “finale hollywoodiano” è mancato, ma non certo per merito dei difensori della legalità e della giustizia, ma solo perché il capro espiatorio scelto era troppo imbranato persino per farsi esplodere in un bar.

Piero Cammerinesi 

 
Riforme pericolose PDF Stampa E-mail

16 Marzo 2015

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 Da Appelloalpopolo del 10-3-2015 (N.d.d.)

 

L’attuale classe politica alla guida di questo Paese non è soltanto in larga parte palesemente inadeguata, è anche pericolosa. Inadeguati e senza spessore sono coloro di cui si circonda il Premier, il quale, dal canto suo, è invece un uomo politico abile, infido e senza scrupoli, che non esiterebbe a tradire chiunque pur di realizzare i suoi fini. Per utilizzare una metafora calcistica, il buon Matteo si appresta a mettere a segno una doppietta che stenderà gli avversari, ovvero far approvare una riforma costituzionale solo a prima vista mal congegnata e una riforma elettorale perfettamente congeniale ai suoi obiettivi da reuccio. Che il livello delle nostre classi dirigenti non sia eccelso ce ne siamo accorti ormai da qualche tempo e a nostre spese, ma questi provvedimenti, inerenti le uniche dimensioni attorno alle quali peraltro ruota l’interesse di un Parlamento ormai destituito di qualsiasi altra facoltà di intervento, se non nascondessero dell’altro, sarebbero troppo brutti anche per essere l’opera di inguaribili incompetenti. La regia dell’inquilino di Palazzo Chigi è imperniata in modo evidente sulla scelta di contornarsi di personaggi opachi e completamente privi di capacità e di mordente al fine di poterli muovere a suo piacimento, imponendo il suo volere e la sua strategia senza che nessuno si azzardi a dissentire (la cosiddetta fronda interna dei Fassina e dei Civati è uno scherzoso passatempo). Renzi è il Re Sole, almeno così si percepisce quando si guarda nello specchio, e nessuno dei suoi accoliti deve oscurarlo quel sole.

Andiamo con ordine e cominciamo dalla riforma costituzionale. Com’è noto, il pilastro portante di tutta la riforma è il definitivo superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto. In conseguenza di ciò, il ddl prevede che l’unico titolare del rapporto fiduciario con il Governo rimanga la Camera dei Deputati. Il Senato della Repubblica, che avrebbe dovuto trasformarsi nel Senato delle Autonomie e che invece conserverà la sua denominazione (l’unica cosa che conserverà) è rimodulato secondo un disegno solo apparentemente senza senso. I senatori, dai 345 attuali, verrebbero ridotti a 100; 95 di essi proverrebbero dalle varie amministrazioni territoriali (Consigli Regionali, Province autonome e Municipalità), mentre 5 sarebbero nominati direttamente dal Presidente della Repubblica e rimarrebbero in carica “solo” sette anni non rinnovabili. Il nuovo testo dell’art. 55 della Costituzione, desunto dall’art. 1 del ddl 2613 appena approvato alla Camera, recita testualmente: “Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali. Concorre, paritariamente, nelle materie di cui agli articoli 29 e 32, secondo comma (dello stesso ddl), nonché, nei casi e secondo modalità stabilite dalla Costituzione, alla funzione legislativa ed esercita funzioni di raccordo tra l’Unione europea, lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea e ne valuta l’impatto. Valuta l’attività delle pubbliche amministrazioni, verifica l’attuazione delle leggi dello Stato, controlla e valuta le politiche pubbliche. Concorre a esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge”. Il ddl, all’art. 2, prosegue: “I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori“. Ricordiamo infine le uniche funzioni legislative che il Senato potrà ricoprire, enunciate all’art. 10 del ddl in questione: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche, di referendum popolare, per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, secondo comma, lettera p), per la legge di cui all’articolo 122, primo comma, e negli altri casi previsti dalla Costituzione”. Tralasciamo in questa sede le altre importanti innovazioni previste, soprattutto in riferimento al Titolo V, e volgiamoci ora ad una sintetica disamina dell’altra riforma che ci interessa ai fini del nostro discorso, quella elettorale.

Il cosiddetto Italicum, nella sua ultima versione, prevede che i 630 deputati della Camera vengano eletti in cento collegi (non più nelle 26 circoscrizioni in cui fino alle ultime elezioni è stato suddiviso il territorio nazionale) con un sistema proporzionale contraddistinto da mini-liste composte in media da sei candidati ciascuna. Alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale che ha rigettato sia le liste bloccate che il premio di maggioranza previsti dal Porcellum, solo i capi lista, ovvero i primi ad essere eletti, saranno bloccati. Gli altri candidati saranno scelti tramite preferenze, ma se ne potranno esprimere solo due. Collegi uninominali saranno previsti solo per la Valle D’Aosta e per le Province autonome di Trento e Bolzano. Per quanto riguarda le soglie di ingresso, per i partiti in coalizione è previsto una sbarramento al 4,5%, per le liste non coalizzate uno al 3% (inizialmente era all’8%) e per le coalizioni vi sarà una soglia del 12%. La vera novità tuttavia sta nella previsione del doppio turno. Infatti, qualora nessuna lista riuscisse ad ottenere al primo turno il 40% dei suffragi, in seguito al quale scatterebbe un premio di maggioranza del 55% dei seggi, pari a 340 deputati, si affronterebbero al secondo turno le due liste maggiormente votate. Alla lista vincente spetterebbe un premio di maggioranza del 53% dei seggi, pari cioè a 327 deputati, ovvero pur sempre la maggioranza assoluta dei deputati della Camera.

Molto bene, anzi, molto male, perché ora facciamo due conti e sviluppiamo le considerazioni finali. Partendo dalla riforma costituzionale, i detrattori bollano la nuova struttura del Senato come un insensato pastrocchio. Non proprio, perché Renzi i suoi conti li sa fare, e anche bene. Un Senato formato dai rappresentanti dei governi locali significa una cosa molto semplice: un Senato di marca Pd, considerando che a livello amministrativo il Pd governa in via maggioritaria in gran parte del Paese. A questo punto entra in scena l’altro capolavoro, l’Italicum. Ora, rimanendo sostanzialmente inalterati gli attuali equilibri politici, il Pd, ballottaggio o meno, avrebbe la quasi certezza di affermarsi come il partito vincente, piazzando i suoi 340 o 327 bei parlamentari sugli scranni di Montecitorio. Attenzione però, perché le leggi le farà solo la Camera, e ciò significa che il Pd potrà fare tutto quello che vorrà senza più alcun contrappeso, con un Senato ugualmente di marca Pd totalmente ammansito in caso di esame di leggi costituzionali o di revisione costituzionale, uniche reali prerogative legislative che gli verranno riconosciute oltre alla partecipazione all’elezione del Presidente della Repubblica. E il gioco è fatto. Un combinato disposto micidiale che servirà a far digerire ad un Paese inebetito una guida politica a partito unico, con buona pace della rappresentanza democratica e della partecipazione delle minoranze, più o meno nutrite che siano. Il disegno lungimirante dei padri costituenti, i quali avevano sapientemente contenuto i rischi derivanti da un eccessivo potere affidato all’esecutivo (l’esempio del ventennio allora appena superato era un insegnamento ancora presente e vivo) incanalando il sistema verso un modello parlamentaristico e partitico, verrebbe senza troppi riguardi riposto per sempre nel cassetto. L’unica speranza per annullare la finalità di un tale progetto risiederà nel referendum confermativo che scatterà qualora la riforma dovesse passare solo con la maggioranza assoluta e non con quella rafforzata dei 2/3. E pensare che proprio la Consulta, nella sentenza sopra richiamata, ha fatto tabula rasa del premio di maggioranza definendolo portatore di una “oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica”. Ma, si sa, quello era un Porcellum, mica un sovrano illuminato come il buon Matteo. Siamo sicuri che al Re Sole sarà riservata molta più indulgenza.

Evviva il Re!

 

Davide Parascandolo

 
Ideologia gender PDF Stampa E-mail

15 Marzo 2015

 

 

Da Rassegna di Arianna del 10-3-2015 (N.d.d.)

 

L'educazione sessuale dei più giovani viene data in appalto alle associazioni Lgbt contro il consenso di docenti e genitori. Nel silenzio dei nostri Media, le istituzioni si ostinano a chiamare l'ideologia gender una banale "educazione alle differenze". Cosa si nasconde sotto il mantra politicamente corretto della lotta all'omofobia?

Dopo anni di rapporti confidenziali tra istituzioni scolastiche e associazioni Lgbt, con il ddl 1680 – di cui la prima firmataria è Valeria Fedeli del Partito democratico – l’educazione di genere sarà educazione di Stato. L’istruzione in materia di famiglia e sessualità è data in appalto ad entità extrascolastiche che – in barba all’art. 30 della Costituzione – intercedono su materiali didattici, corsi di formazione per docenti e alunni, comunicati per i genitori, modifiche dei programmi scolastici e organizzazioni di eventi. Vendutoci come una lotta all’omofobia, il genderismo si adopera per destrutturare le identità sessuali.

Cosa prevede questo tipo di avviamento? La teoria gender, che a detta delle istituzioni non esiste – ufficialmente è un’educazione alla diversità (sic!) – si basa sulla distinzione tra sesso e genere. Se il sesso è considerato un inutile corredo genetico, un semplice complesso di caratteri biologici che creano la distinzione maschio/femmina – e a cui la Tecnica può porre rimedio – il genere è invece quella compagine di fattori culturali e convenzionali che fasciano storicamente il bagaglio biologico dando vita ai diversi comportamenti, ruoli e status associati all’uomo o alla donna. Secondo questa separazione la produzione di gameti maschili non ha un legame naturale con l’essere e il sentirsi uomo ed assolvere alle pratiche convenzionali che ne derivano. I gender studies sostengono l’idea che la percezione soggettiva della propria sessualità non sia un’estensione del fattore biologico. Il genere è un fatto culturale. Nascere maschi ed adempiere alle pratiche convenzionali associate a questo sesso in passato (il lavoro fisico, la caccia, l’aggressività, la virilità) viene considerato dagli ideologi in questione, uno stereotipo di genere. Sono detti ugualmente stereotipi: il semplice fatto che un bambino giochi con dei soldatini piuttosto che con delle bambole; che una donna porti una gonna anziché dei pantaloni e che sia lei ad occuparsi dei figli e del focolare domestico al posto del padre.

Secondo la lobby Lgbt e i sostenitori del ddl 1680, l’identità di genere si forma durante il periodo infantile, attraverso agenti socio-culturali quali la famiglia e la scuola, ed è perciò proprio in quell’arco di tempo che bisogna intervenire per superare i ruoli e gli stereotipi. In Francia, per esempio, Paese all’avanguardia in termini di “diritti”, nell’asilo Nido di Saint-Ouen, acclamato come faro del progresso dai media nazionali, si è istituita la prima struttura atta a scardinare questi cliché. Sotto lo sguardo staliniano dei pedagoghi vediamo bambini invitati a giocare con le bambole e bambine impegnate nel bricolage. In diversi asili gli insegnanti affiliati ai sindacati vicini alla lobby Lgbt si sono armati della letteratura transgender per patrocinare i propri corsi: “Papà porta una gonna”, “Tango ha due papà”, “Jean ha due mamme”. Anche in Italia sono già state introdotte le pubblicazioni di favole con lo scopo di decostruire i preconcetti relativi ai sessi e sempre in Francia i manuali di biologia Hachette in vigore a partire da settembre 2014 definiscono l’identità sessuale, come “la percezione soggettiva che si ha del proprio sesso”. Un simile approccio va ben oltre il riconoscimento della parità dei sessi o della lotta all’omofobia – omofobia di cui l’Oscad non rileva nessuna minaccia in Italia – ma interviene a fondare una nuova concezione antropologica. Un passaggio d’epoca che segna la fine del ruolo della natura per dare all’individuo la possibilità di determinarsi secondo le sue inclinazioni soggettive. Il corpo a questo punto cessa di rappresentare l’incarnazione carnale dell’Io per diventare un oggetto di cui l’Io sarebbe il proprietario e il soggetto. Già lo slogan femminista “il corpo è mio, decido io” implica questa dualità tra corpo e proprietario, una separazione tra le due istanze in cui il soggetto prevarica sulla determinazione biologica che può modificare. Accettata filosoficamente ed eticamente questa separazione, tra io e corpo, tra genere e sesso, saranno i primi a decretare le attitudini dei secondi. Lo sconvolgimento dell’ordine immanente da parte dell’ideologia gender si accorda perfettamente al timbro della postmoderna ambizione di affrancarsi da qualsiasi tipo di limite e di predeterminazione in nome della individualistica smania di libera disposizione di sé. Ma dov’è l’errore? La libertà risiede davvero in un anti-naturalismo sfrenato? Il dato biologico non gioca davvero nessun ruolo? Il processo di civilizzazione è un’evasione dal contesto naturale?

A dire di diversi studiosi tra cui il viennese Otto Weininger, il carattere – o genere - ha rapporto continuativo con il sesso. Lo psicologico e il fisiologico sono legati l’un l’altro, anche se Weininger ammette che non può esistere il “maschio assoluto” e entrambi i sessi hanno una percentuale di caratteri del sesso opposto. Di conseguenza la visione del mondo, il comportamento, le prerogative e l’immaginario associati comunemente all’uomo o alla donna, non sono solo stereotipi ma estensioni culturali del dato naturale. L’aggressività insita nei caratteri genetici maschili, porta inevitabilmente il bambino a picchiarsi con i suoi coetanei, mentre la sensibilità femminile è naturalmente propensa a prendersi cura degli altri. Dice Alain De Benoist: “a tutte le età e durante qualsiasi fase dello sviluppo, le ragazze si mostrano anche più sensibili dei ragazzi nei confronti dei loro stati emotivi e quelli degli altri (il sesso dimostra così di essere un eccellente fattore predittivo dei sentimenti di empatia). Dalla tenera età, i ragazzi ricorrono a strategie di tipo fisico, mentre le ragazze ricorrono a strategie verbali. Le ragazze sono più loquaci, i ragazzi più aggressivi”. Fino a che punto è legittimo non dare dei riferimenti ad un bambino? E soprattutto annullare le differenze in nome di un ibrido modello unisex, valido per entrambi i sessi, non equivale a dire che nessuno dei due sessi potrà trovare un compimento soddisfacente? Le differenze tra l’uomo e la donna non sono originate da fattori puramente culturali, e anzi questi fattori sono il diretto risultato di talune necessità naturali. Come sostiene Massimo Fini nel suo Dizionario erotico, “attraverso i cicli lunari, le mestruazioni, la fecondazione, la gestazione, la placenta, il parto, le mammelle, il latte e tutti i complessi processi fisiologici che si svolgono all’interno del suo corpo, la donna è legata alla natura molto più intimamente di quanto lo sia l’uomo” e ovviamente da qui si creano esigenze diverse a cui la cultura provvede dando ruoli, compiti, status diversi.

In definitiva, più che tendere verso un reale miglioramento delle condizioni di vita individuali e collettive, l’ideologia gender si impegna ad eliminare le differenze e ad uniformare i caratteri. Perché la differenza è vissuta irrimediabilmente come una gerarchia, e il mondo dell’identico per capitalizzare al meglio ogni forma di espressione necessita, a dire di Alain De Benoist, di “trasformare l’esistenza quotidiana in un immenso mercato, dove desideri e bisogni si somigliano”. Questo smantellamento si attua mediante la straordinaria retorica del “diritto” e, sostiene Caroline de Haas – sindacalista del Ps francese – “la decostruzione dei ruoli sociali che attribuiamo a ciascuno dei sessi è determinante per costruire una società di uguaglianza reale”. L’eterosessualità sembra, così posta, un’ideologia culturale, tanto che Eric Fassin – professore di scienze politiche all’università Paris VIII – vorrebbe poter “pensare un mondo in cui l’eterosessualità non sarà più normale” e parlare “in termini di genere – secondo Marc Guillaume e Marie Perini – manifesta il rifiuto di essere assegnati a risiedere in un’identità”.

Si rischia di far sparire l’equilibrio che deriva dall’essere donna e dall’essere uomo, che implica l’unione nella diversità, che si scopre nel diverso approccio alla realtà, alla vita, nella diversa sensibilità nei confronti del mondo. Dalla confusione generalizzata che si ottiene, dalla perdita dei caratteri e delle differenze tra i sessi (e differenza non sta per gerarchia) su cui si fonda la storia dell’umanità ne conseguirà una società piatta e indifferenziata, deprivata della famiglia intesa come ultimo argine al definitivo collasso delle relazioni umane comunitarie e come agente garante di un’identità che si eredità e si tramanda. Diceva Pierre-Joseph Proudhon: “Uomo e donna sono solo equivalenti (non uguali, dunque), ognuno avendo in predominanza una prerogativa speciale: l’uomo la forza, la donna la bellezza. In questo caso l’equilibrio dei loro diritti e doveri rispettivi deve essere fatto in una maniera diversa, ma in una maniera per cui tra i due sessi vi sia eguaglianza di benessere e onore”

 

Lorenzo Vitelli 

 
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13 Marzo 2015

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Da Rassegna di Arianna del 10-3-2015 (N.d.d.)

 

Nimrod era uno dei siti archeologici più incredibili del mondo, con le sue sculture ciclopiche erette al centro di un anfiteatro di cime montane desolate e bellissime. Dico “era”, eppure continuo a sperare che si possa continuar a dire “è”, che i danni arrecati alcuni giorni or sono al complesso storico-archeologico dai fanatici dell’IS non siano totali e definitivi. Si è ripetuto, quattordici anni dopo, l’innominabile e imperdonabile scempio dei colossali Buddha di Bamiyan in Afghanistan, voluto dai talebani: e anch’esso teso, attenzione!, formalmente a cancellare le tracce dell’”idolatria” dal mondo, sostanzialmente ad allibire e indignare gli occidentali.

Le ragioni teologiche e religiose dell’infamia sono tanto evidenti quanto fallaci: Il Corano, proseguendo in ciò la linea aperta della Torah ebraica, proibisce qualunque tentativo di rappresentazione materiale della divinità. La giurisprudenza musulmana, concorde sulla proibizione di rappresentare in sculture o in pitture l’immagine di Dio, si mostra discorde nel valutare la liceità delle immagini riproducenti figure umane o animali. La cultura musulmana ha prodotto notevoli rappresentazioni artistiche. Dalle pitture e addirittura dalle vere e proprie statue dei califfi umayyadi di Damasco (secc. VII-VIII) a quelle del mondo iberico medievale che era appunto in rapporto con la civiltà espressiva siriana umayyade (a sua volta debitrice all’arte bizantina) fino alle numerose e preziose scuole di miniaturisti persiani e indiani dei periodi abbaside, irano-tartarico e moghul. Non solo vi si rappresentano uomini e donne, ma lo stesso profeta Muhammad il volto del quale appare tuttavia coperto da un velo o fasciato da una fiamma.

In effetti, nel passato l’Islam ha sostanzialmente sempre rispettato le opere d’arte dell’antichità: se alcune cose sono andate perdute in seguito a eventi bellici, non tutti questi episodi vanno certo attribuiti al fanatismo musulmano; del resto noialtri occidentali, tra iconoclasti, ugonotti, giacobini e incursioni aeree a tappeto – spesso inutili, come quella che condusse alla distruzione dell’abbazia di Montecassino; talvolta puramente terroristiche, come quella che spianò Hildesheim, gioiello dell’architettura ottoniana, il 20 aprile del 1945 -, non hanno nulla da insegnare a nessuno. Dall’Hindu Kush dei Buddha di Bamiyan alla piana nilotica delle piramidi e della sfinge, siamo in presenza di terre sulle quali l’Islam ha ininterrottamente dominato per tredici secoli senza che a nessun musulmano venisse in mente di attentare a opere d’arte che in alcun modo potevano essere interpretate come un’offesa a Dio. Che cosa sta dunque accadendo?

Premettiamo di trovarci dinanzi a un fenomeno a sua volta non proprio nuovo. Quella della distruzione della biblioteca di Alessandria per volontà di un califfo musulmano è una leggenda priva di fondamento per quanto ancora continua ad esser narrata (si sarebbe allora detto che i libri erano inutili se dicevano la verità, in quanto essa era tutta nel Corano; e dannosi se invece dicevano bugie). La Bibbia, nel nome dell’opposizione rigorosa a qualunque forma d’idolatria, è a sua volta insofferente verso la pittura e la scultura in quanto vi scorge il concreto pericolo del cedimento al paganesimo ch’era proprio di tutti i popoli che circondavano Israele. I cristiani a loro volta, per quanto la loro fede avesse avuto modo di sia pur problematicamente convivere con le forme pagane più varie proposte dai molteplici culti pagani presenti nell’impero, una volta che la loro fede fu divenuta alla fine del IV secolo d.C. l’unica religione lecita nell’impero, si dettero con sistematica violenza a distruggere le immagini divine: scomparvero così dalla faccia della terra innumerevoli preziosissime opere della stragrande maggioranza delle quali non sappiamo nulla. Qua e là sappiamo però che quelle distruzioni provocarono orrore e proteste. L’ultimo episodio ragguardevole sotto il profilo storico è dato dalla fortuna e dalla posizione egemonica attribuita alla corrente ereticale detta appunto “iconoclastica”, tra VIII e IX secolo, che scosse con lotte dinastiche feroci la stessa stabilità del potere imperiale bizantino. Ancor oggi si discute se gli iconoclasti, che agirono soprattutto in Asia minore, potessero essere rimasti influenzati dalle dottrine musulmane: tuttavia pare di no, anche perché l’eresia iconoclastica coincise nella sua diffusione con l’età dei califfi umayyadi, fin troppo inclini ad accettare la tradizione della figura umana nel suo complesso.

L’Islam moderno aveva accettato e continua ad accettare nel suo complesso ogni forma di rappresentazione umana: nel campo religioso, specie sciita, circolano perfino immaginette sacre, veri e propri “santini” dedicati ai martiri della lotta contro i sunniti. Altre forme espressive comportanti l’immagine umana, dalla fotografia alle arti plastico-visive, circolano abitualmente e sono comunissime nella vita quotidiana.

E allora, dove vogliono arrivare gli uomini del califfo? Il loro conclamato proposito è quello di far tabula rasa di qualunque tradizione non appartenente alla loro: per far ciò, d’altronde, bisogna costringere il mondo musulmano a distinguersi in tutti i modi possibili dalle stesse “religioni sorelle”, cioè cristianesimo ed ebraismo. Ma questo non basta ancora. Non c’è alcun modello nel passato della storia musulmana che possa giustificare la barbarie attuale. Non siamo in presenza di un Islam “tornato al medioevo”, in quanto nel medioevo o più tardi nulla del genere si è mai visto. Questa è una barbarie postmoderna. Il jihadismo è un Islam futurista e modernista: e l’iconoclastia è difatti, come tutti sanno, parte dell’etica e dell’estetica futuriste. Lo scopo è intimidire, scandalizzare, atterrire, indignare, scatenare delle reazioni. Nimrod non è stato distrutto in quanto luogo “pagano”, ma in quanto si sa quale valore la Modernità occidentale attribuisce all’arte e al passato. E, d’altronde, a indignarsi sono state anche persone che, mentre avrebbero potuto visitare nelle loro vacanze il sito di Nimrod, lo ignoravano e gli preferivano le Mauritius; o che non lo avevano mai sentito nominare. Se il califfo, i consiglieri mediatici del quale sanno bene quanto peso nominalistico e teorico abbia la cultura in Occidente ma forse anche quanto scarso ne abbia di reale, s’illude di scandalizzarci poi troppo, si ricreda.

C’è comunque del metodo, nella follia dell’IS. Esso, obbedendo alle disposizioni dei suoi patroni, sta facendo di tutto per obbligarci ad attaccarlo, magari ripetendo i medesimi errori del 2001 e del 2003 o facendone addirittura di peggiori (al peggio non c’è mai fondo). Ma questa è politica culturale e strategia militare. L’Islam non c’entra. Siamo dinanzi a una spregiudicata strategia dell’orrore, che nessuna fede religiosa può giustificare ma che una dura Volontà di Potenza sta lucidamente dirigendo. Attenzione a non cascarci. L’Islam, il vero Islam, è Dio misericordioso e compassionevole, è Maria che veglia amorevole su Gesù, è la saggezza di Avicenna, è la magnanimità del Saladino, è il coraggio di Sindbad, è la Cupola della Roccia di Gerusalemme, è l’Alhambra di Granada, è il Taj Mahal, è la serena saggezza dei sufi, è la poesia di Omar Kayyam e di Rumi: non la follia distruttiva di una banda di fanatici imbottiti di petrodollari e incapaci di proporre se non l’oscura forza di un Dio del Nulla.

 

Franco Cardini 

 
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