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Ne va della nostra civiltà PDF Stampa E-mail

28 Dicembre 2014

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Da Rassegna di Arianna del 18-12-2014 (N.d.d)

 

Il matrimonio e la famiglia sono sotto attacco, e l’attacco è sferrato da forze occulte e insidiose, che si servono della buona fede di un pubblico manipolato ad arte e ormai abituato a pensare, o piuttosto a credere di pensare, secondo categorie demagogiche preconfezionate: pubblico che si illude di condurre una battaglia di civiltà per i diritti dei “diversi” e, quindi, in teoria, dei più deboli, mentre è in gioco una posta altissima e ben diversa: la sopravvivenza della nostra civiltà, nel senso letterale dell’espressione.

Non è “soltanto” la nostra società che si trova in estremo pericolo, sospesa ormai sull’orlo dell’abisso: non  soltanto l’insieme pratico dei cittadini, con le loro reciproche relazioni affettive, professionali, culturali; è la nostra stessa civiltà che rischia il tracollo definitivo e irreparabile, vale a dire l’insieme dei nostri valori, delle nostre tradizioni, dei nostri sistemi di pensiero. Dal crollo di una società si può anche risorgere; dal crollo di una civiltà, no. Certo, al posto di essa ne sorgerà una nuova; ma basata su altri principi e su valori profondamente diversi, di cui saranno protagonisti altri soggetti: altri popoli, altre comunità, altre maniere di vedere il mondo e d’intendere il significato della vita. L’arte, la scienza, il senso del bello, il senso del vero, il senso del giusto: tutto verrà ricostruito su nuove basi, su diverse fondamenta. Non è detto che sarà una brutta cosa, anzi, può darsi benissimo che la nuova civiltà sarà migliore dell’antica: ma sarà un cambiamento doloroso. Nessuna civiltà tramonta e scompare in modo indolore; e coloro che vivono quella fase storica pagano sulla loro pelle un prezzo altissimo, senza alcuno sconto e, per lo più, senza un orizzonte di speranza: per loro, il mondo che sta finendo è tutto il mondo. Così l’hanno vissuta i Romani della tarda antichità, quando i templi del paganesimo venivano abbattuti e Roma, la Città Eterna, veniva presa e saccheggiata dai barbari: fu un trauma sconvolgente, senza precedenti.

 

Ora, la nostra civiltà, la civiltà europea, così come si è definita da oltre un millennio e così come noi la conosciamo, la amiamo o forse la detestiamo, ma sempre sentendo, pensando, giudicando dall’interno di essa, dei suoi valori, dei suoi punti di vista, si fonda sulla famiglia; e la famiglia si basa sul matrimonio, inteso come l’unione stabile fra un uomo e una donna, aperta alla procreazione e impostata su un comune progetto di vita e di bene scambievole. Nessuna norma giuridica potrebbe sostituire queste caratteristiche spirituali, né imporle dall’esterno: o ci sono, o non ci sono. Se ci sono, la famiglia fondata sul matrimonio potrà affrontare le prove più dure e, magari, anche soccombere, ma senza smarrirsi, senza perdere la propria coesione e i propri valori; se non ci sono, nessuna cerimonia e nessun patto legale potranno infonderle quella intima forza che non possiede, e che proviene non solo dall’amore, ma anche dalla fiducia nella fonte inesauribile da cui l’amore umano discende e a cui si rinnova, ma che non appartiene alla dimensione contingente.

Il matrimonio, nel mondo antico, era contemporaneamente una cerimonia civile e religiosa; col cristianesimo, l’aspetto religioso divenne predominante, perché nella civiltà cristiana è lo spirituale ad includere il temporale, e non viceversa, così come l’Impero è incluso nella cristianità. Quando sorge l’idea che l’Impero sia una istituzione autonoma e parallela alla Chiesa, il Medioevo è alla fine: Dante la pensa così, ma con lui lo spirito medievale è già tramontato. Per qualche secolo ancora la civiltà europea si ammanta di cristianesimo, mentre sta svuotando quest’ultimo di ogni reale influenza sulla società civile e mentre il potere statale (non dell’Impero, con la sua idea universalistica, ma degli Stati nazionali, ciascuno portatore del proprio particolarismo) erode e distrugge lentamente le prerogative della Chiesa. Con il giurisdizionalismo e con l’Illuminismo, il processo giunge a compimento: cadono anche i veli esteriori, e la proclamata separazione tra sfera civile e sfera religiosa significa, né più né meno, la privatizzazione del fatto religioso e quindi anche del matrimonio religioso. La cerimonia si sdoppia in un rito civile e in un rito religioso; poi, lentamente ma irresistibilmente, il secondo comincia ad essere soppiantato dal primo, o – il che è lo stesso – viene a perdere le sue caratteristiche profonde e specifiche, spirituali, trascendenti, per divenire una copia del rito civile, conservando solo la vernice superficiale di ciò che era stato un tempo. Il matrimonio religioso, secolarizzandosi, perde non solo il suo prestigio, ma anche la sua funzione e la sua ragion d’essere: si riduce allo sfarzo di un giorno, di un’ora; non è più un progetto comune che l’uomo e la donna si impegnano a portare avanti sino alla fine della loro vita, nella buona e nella cattiva sorte. E non è più una promessa fatta davanti a Dio, ma una occasione di mondanità e un omaggio formale al conformismo e al quieto vivere.

Oggi il matrimonio cristiano è ormai quasi scomparso, e, con esso, anche la famiglia è andata profondamente in crisi; ma - sorpresa per i laicisti convinti di esser giunti a coronare i loro sforzi secolari - ecco che anche il matrimonio civile, nel medesimo tempo, sembra aver subito lo stesso logoramento, però in un tempo enormemente più breve. Ora che pochi si sposano in chiesa, e non più con lo spirito religioso d’un tempo (prova ne siano le coppie che si sposano dopo anni di convivenza, e con la sposa in abito bianco, simbolo di purezza, come una vergine), sono ancor meno quelli che decidono di sposarsi in municipio. Sposarsi, e perché mai? Perché sobbarcarsi gli oneri e i sacrifici di una promessa di lunga durata, quando la maggioranza delle persone ha ormai scelto il modello della libera convivenza, ossia delle cosiddette unioni di fatto? Niente promesse, niente impegni, niente figli, a meno che se ne senta il desiderio, magari più tardi, magari quando i genitori sarebbero in età di fare i nonni: la famiglia non è più costruita sul progetto della procreazione, dell’apertura alla vita che nasce, ma sul contratto stipulato fra due individui interessati a stabilire i rispettivi diritti e a garantirsi il massimo della libertà personale.

Non è poi così strano se, in questo quadro culturale e spirituale, non solo le unioni di fatto, ma anche le unioni omosessuali ambiscono a ottenere il riconoscimento giuridico dello Stato, mediante l’assoluta equiparazione al matrimonio, o meglio, ottenendo la qualifica di “matrimonio”, punto e basta. I figli si possono sempre adottare; oppure, nel caso di una coppia lesbica, si possono ottenere con l’ausilio della fecondazione eterologa. Curioso fenomeno, ma strano solo in apparenza: mentre l’uomo e la donna sono sempre più restii a sanzionare la reciproca unione mediante il vincolo matrimoniale, le coppie omosessuali si battono ovunque per ottenere la fine della loro pretesa “discriminazione” e per potersi sposare in municipio, e magari anche in Chiesa – come già avviene in alcuni Paesi del Nord Europa. E mentre le coppie eterosessuali sono sempre più esitanti a fare figli, quelle omosessuali sembrano più che mai impazienti di poterne avere.

 

Tutto questo avviene non come effetto, ma come risultato di una lenta, metodica, paziente e poco vistosa campagna culturale preparatoria, portata avanti, negli ultimi decenni, da centinaia e migliaia di film, di romanzi, di concerti, di inchieste, dibattiti, tavole rotonde, salotti televisivi e notizie di cronaca abilmente sfruttate, manipolate, gonfiate o sgonfiate secondo le circostanze, così da creare nell’opinione pubblica l’impressione che vi sia una “emergenza omofoba” e che, per contrastare la persecuzione degli omosessuali, sia indispensabile, nonché urgentissimo, riconoscere loro tutti i diritti del caso, compreso quello di sposarsi e avere o adottare dei figli. Frotte di volonterosi psicologi  e psichiatri ci hanno spiegato, dall’alto del loro discutibile sapere, magari dalle colonne di qualche rivista modaiola, che non c’è alcuna differenza sostanziale fra sposarsi con una persona dell’altro sesso, oppure del proprio; che chi la pensa diversamente è un razzista, un sessista, un incorreggibile reazionario; che i bambini crescono altrettanto bene, altrettanto equilibrati e sereni, in un contesto familiare eterosessuale, così come in uno omosessuale; e che gli eventuali complessi o anche solo i disagi, cui sarebbero esposti nel secondo caso, sono soltanto e unicamente il frutto delle nostre paure e dei nostri assurdi e incivili pregiudizi.

Di più: in diversi Paesi d’Europa si è deciso, per non offendere la sensibilità dei bambini che vivono con genitori omosessuali, che gli educatori non devono più adoperare l’espressione “bambino” o “bambina”, anzi, non devono proprio adoperare il pronome “lo” o il pronome “la”, riferito ai propri compagni di scuola o d’asilo, ma il neutro. Tutto questo è stato votato e approvato già da alcuni Parlamenti ed è stato presentato all’opinione pubblica come una battaglia di civiltà, incoraggiando nei giovani l’idea che il matrimonio è, semplicemente, la sanzione del legame affettivo che unisce due persone, indipendentemente dal genere sessuale. Tanto, si dice, l’importante è che ci sia l’amore: purché ci sia l’amore, il fatto che a sposarsi siano un uomo e una donna, oppure due uomini o, ancora, due donne, diventa del tutto ininfluente; e lo stesso vale per l’eventuale adozione di figli. Eppure è evidente, se appena si vi pone un minimo di attenzione, che dietro queste pretese “battaglie di civiltà”, e dietro l’apparente ragionevolezza e l’apparente minimalismo di codesti paladini dei “diritti civili”, si cela un progetto di vasta portata, mirante a scardinare il principale puntello della nostra civiltà: la famiglia fondata sul matrimonio e formata da un uomo, una donna e, potenzialmente, dalla prole da essi generata. Infatti, nel matrimonio la posta in gioco è molto più alta di quel che potrebbe apparire di primo acchito, e cioè – come osserva il filosofo Francesco Botturi - l’idea antropologica che qualifica una intera civiltà, la nostra. Ed è altrettanto evidente, aggiungiamo noi, che tale consapevolezza si va offuscando, al punto che molte persone, apparentemente in buona fede, reclamano la fine del “matrimonio tradizionale” in nome di un matrimonio più “aperto”, più “libero”, più “moderno”: un sedicente matrimonio nel quale la nozioni di impegno, di fedeltà, di durata, di assunzione di responsabilità, tendono a passare del tutto in secondo piano, lasciando il posto alla pretesa del massimo vantaggio personale, della massima libertà individuale, del massimo esercizio dei diritti. Esso diventa, così, il luogo istituzionalizzato in cui riceve una sanzione definitiva quell’individualismo egoistico e calcolatore che già in pensatori come John Locke aveva trovato la sua consacrazione filosofica.

In questa prospettiva, la società cessa di essere una rete armoniosa di soggetti fondati, a loro volta, su quella società in miniatura, essenziale e insostituibile, che è la famiglia: luogo di affetti, ma anche di maturazione, di educazione ai valori, di preparazione alle responsabilità della vita adulta; e diventa, sempre più – almeno nella propaganda di questi chiassosi paladini dei “nuovi diritti” – la quintessenza e la somma di due egoismi che si studiano a vicenda, si delimitano, si riconoscono e si accordano per ricevere il minimo del disturbo l’uno dal’altro, e il massimo del vantaggio quanto all’esercizio sfrenato della libertà personale, intesa non come libertà di perseguire il bene – quello proprio e quello altrui -, ma come inesausta rincorsa del piacere.

Il matrimonio diventa così peggio di una finzione: diventa la contraffazione di quel che esso è realmente, la caricatura orribilmente deformata di ciò che, per secoli e secoli, ha rappresentato per la nostra civiltà; diventa la consacrazione ufficiale dell’edonismo e del narcisismo eretti a sistema e il riconoscimento che nulla vi si deve opporre, in nome di un relativismo etico che si basa sul «perché no?». Un matrimonio, che sia ufficialmente riconosciuto come tale, fra due persone del medesimo sesso: perché no? Un figlio a sessant’anni: perché no? Un bambino adottato da due uomini o da due donne: perché no? Cosa c’è di male? Se esiste l’amore, perché bisognerebbe impedire a queste persone di cercare la felicità? In nome di quale diritto, di quale dovere? Se la vita non è che la ricerca del piacere e se la società e lo Stato ad altro non servono che a garantire tale diritto, mediante una meticolosa e capillare casistica giuridica, si può forse sostenere che tali conseguenze non siano perfettamente coerenti con le premesse? Evidentemente no.

Dunque, bisogna avere il coraggio di guardare dritto al cuore del problema, e non lasciarsi distrarre da aspetti del tutto secondari. Per esempio, bisogna avere l’onestà di riconoscere che una cosa è il riconoscimento del diritto alla ricerca della felicità individuale; altra cosa è affermare che questa è l’unica cosa che conta e che tutti gli altri scopi e valori, specialmente di ordine collettivo, devono esserle subordinati. Il relativismo etico si è affermato sfruttando il senso di colpa nei confronti di taluni eccessi di severità da parte della società d’un tempo: eccessi che non si verificano più da alcuni secoli. Ma i campioni dei “diritti umani” si sono dimenticati di dirlo alle masse; così come si son dimenticati di dire che, da secoli, nessun omosessuale viene più processato e arso vivo, ma che, in compenso, vi sono ambienti nei quali l’eterosessuale, se non si sottomette alle voglie omosessuali di persone potenti (datori di lavoro, produttori cinematografici, editori, registi teatrali, proprietari di case discografiche, dirigenti sportivi), può vedersi discriminato, ostacolato, ricattato in mille modi...


Francesco Lamendola 

 
Ministri stranieri PDF Stampa E-mail

26 Dicembre 2014

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 Da Rassegna di Arianna del 18-12-2014 (N.d.d.)

La notizia gli italiani l’hanno appresa dai telegiornali di qualche sera fa: il parlamento ucraino ha votato il nuovo governo; e di tale governo fanno parte tre cittadini stranieri, cui il Presidente della Repubblica ha prontamente conferito la cittadinanza ucraina. La maggior parte degli ascoltatori non ha attribuito particolare importanza alla vicenda, dai più giudicata una semplice bizzarrìa. L’indomani, quasi tutti i giornali italiani hanno relegato la notizia negli angoli più remoti dedicati alla politica internazionale. Con qualche eccezione, come quelle rappresentate dai quotidiani “La Stampa” e “Il Sole 24 Ore”. Da queste fonti ho appreso delle notizie che (condite con alcune mie riflessioni più che mai eretiche) ritengo possano servire a capire qualcosa di più sulla spinosa vicenda ucraina. Ma non solo su questa: anche sui fatti italiani di un recente passato, e forse – spero di sbagliarmi – su certi scenari che determinati ambienti vorrebbero riproporre anche in Italia.

 

Procediamo con ordine. I tre ministri stranieri – uno dei quali neanche parla l’ucraino – sono Natalie Jaresko (statunitense) alle Finanze, Aivaras Abromavicius (lituano ma già dipendente dal Dipartimento di Stato USA) all’Economia, e Aleksandr Kvitashvili (georgiano ma di accese simpatie filoamericane) alla Sanità. Un’altra ventina di elementi stranieri, inoltre, saranno collocati nei vari Ministeri, come Sottosegretari o comunque in posizioni-chiave. La qualcosa comporterà immancabilmente che, anche nei dicasteri guidati da cittadini ucraini, le linee-guida della pubblica amministrazione saranno stabilite da soggetti estranei. La formazione del nuovo governo – si tenga presente – era stata pubblicamente sollecitata dal Vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Il figlio di Biden, Hunter (sia detto tra parentesi) ha trovato anche lui il modo di “piazzarsi” in Ucraina: per la precisione, nel consiglio d’amministrazione della società petrolifera Burisma Holdings. Guarda caso, la Burisma – apprendo da “La Stampa” – è titolare dei diritti di sfruttamento dei giacimenti di gas scisto del Donbas; ma tali diritti potrà sfruttare soltanto dopo aver sottratto quella regione al controllo delle milizie filorusse. Chiusa la parentesi.

Alle amorevoli sollecitazioni del vice di Obama si era prontamente associato il Fondo Monetario Internazionale, l’organismo internazionale (ma egemonizzato dagli USA) i cui prestiti hanno finora consentito alla “nuova” Ucraina di sopravvivere, ma che dovrebbe allargare ulteriormente i cordoni della borsa per non far fallire una Ucraina privata del “soccorso invernale” russo.

Ma non è tutto. Perché l’elemento più interessante dell’intera vicenda è che la composizione del nuovo governo – quel governo che oltreatlantico tanto trepidamente attendevano – era stata commissionata non so da chi (ma probabilmente dal Presidente-magnate Porošhenko) a due società di “cacciatori di teste”, cioè – fuori dal gergo – specializzate nella individuazione dei manager cui affidare particolari incombenze. Attenzione: non l’incarico di individuare dei candidati all’interno dei partiti ucraini, ma fra gli ucraini residenti all’estero, fra gli stranieri residenti in Ucraina, e fra i cittadini stranieri che potessero vantare una qualche origine o relazione con l’Ucraina.

Procediamo; e chiedo scusa ai lettori per questo intricato gioco dell’oca. Sembra che la parcella per questa singolare ricerca di personale non sia stata pagata dalla Presidenza della Repubblica, ma dalla International Renaissance Foundation, organizzazione “non governativa” ufficialmente ucraina, ma in realtà eterodiretta. È infatti una costola della Open Society Foundations, l’organizzazione di George Soros che opera in molte nazioni per promuovere governi ispirati al concetto americano di democrazia e, naturalmente, alla libertà dei “mercati”. George Soros – ed è questo il primo aggancio con le vicende italiane – è un ebreo ungherese divenuto cittadino americano, che si è segnalato per la sua spregiudicatezza nelle speculazioni finanziarie. A noi italiani quella spregiudicatezza («come operatore di mercato non mi preoccupo delle conseguenze delle mie operazioni finanziarie») ha fatto molto male nel 1992, quando le sue manovre speculative ci causarono una perdita valutaria di 48 miliardi di dollari, all’origine della successiva svalutazione del 30% della lira italiana.

Tornando al nuovo governo ucraino, la sua singolare composizione non mi sorprende. È semplicemente la certificazione che questo sia espressione di quei poteri forti che – lo ho sempre sostenuto – sono all’origine della rivolta “spontanea” del febbraio scorso.

*   *   *

C’è un aspetto dei fatti ucraini che mi inquieta particolarmente. La sensazione che si tratti di un assaggio, di un ballon d’essai, per dirla alla francese. Che si sia voluto far passare il messaggio – diretto agli europei – che non è detto che i popoli debbano essere governati da elementi tratti dal loro seno, e che possano benissimo essere amministrati da soggetti stranieri, purché “competenti”. Dove la “competenza” coincide con la disponibilità a massacrare le popolazioni in nome della libertà dei mercati.

Anche l’ultimo declassamento decretato da Standard & Poors per i titoli italiani (siamo oramai appena ad un gradino più su dei titoli-spazzatura) mi sembra compatibile con un disegno più vasto: quello che porterebbe ad un sostanziale commissariamento dell’Italia da parte del Fondo Monetario Internazionale e dei suoi reggicoda europei. Ecco che, in un contesto del genere, il governo italiano potrebbe essere integrato da una pattuglia di “competenti” made in USA, cui spetterebbe il còmpito di adottare le misure più dure.

Intanto – lo scrive Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa – Opinioni” – il giulivo cinguettatore fiorentino ha annunziato, proprio in questi giorni, che sarà dato l’incarico a manager stranieri di sovrintendere ai nostri principali “giacimenti” di beni culturali. Avete capito? L’Italia, che esporta “cervelli” in tutto il mondo e per tutte le materie dello scibile umano, non riesce a trovarne qualche decina che si occupino dei suoi siti archeologici e dei suoi monumenti. Ma forse questi manager stranieri avranno qualche particolare “competenza”. Chessò, per esempio, nel campo delle privatizzazioni.

Certo, non siamo ancora ai livelli brutalmente colonialisti dell’Ucraina. Ma, nel nostro piccolo, facciamo la nostra porca figura. D’altro canto, noi italiani siamo stati tanto bravi che, dopo essere stati affossati da George Soros, gli abbiamo conferito una laurea honoris causa in scienze politiche. Per comportamenti analoghi – cioè per aver speculato contro le rispettive monete nazionali – in Indonesia lo hanno condannato all’ergastolo in contumacia e in Malesia alla pena di morte. Noi gli abbiamo dato una laurea. Possiamo ben prenderci il lusso, quindi, di assumere esperti stranieri per un settore in cui siamo maestri.

E speriamo che ci si fermi lì.

 

Michele Rallo

 

 

 
Il Natale di un a-natalizio PDF Stampa E-mail

23 Dicembre 2014

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Dal quotidiano on line Il Ribelle del 22-12-2014 (N.d.d.)

Non essendo cristiano, il Natale per me è un vero strazio. Dies Natalis Solis Invicti: il giorno di nascita del dio Sole invincibile, questo al massimo significa la natività di Gesù per un “onesto pagano” (così si definiva in una lettera Friedrich Nietzsche, e con quell’onesto intendeva dire che non adorava Giove o Saturno, ma ne provava una cosciente nostalgia). Però, siccome tocca fare gli auguri ogni due per tre in questi giorni di Saturnalia, allora mi permetterete una piccola vendetta. Ecco cos’è il Natale per uno spirito né natalizio né anti-natalizio, ma semplicemente a-natalizio. 

Per cominciare, il Natale non fa tutti più buoni: fa tutti più vuoti. Il cristiano che fa shopping di regali e strenne rappresenta un caso di sdoppiamento della personalità: in buona fede crede che Gesù nacque figlio di Dio a Betlemme, segnando in una stalla lo spartiacque decisivo della storia umana; ma al tempo stesso sa benissimo che tale evento non condiziona la sua vita reale, che procede disincantata e secolarizzata, cioè scristianizzata. Siccome l’economia tende a inglobare ogni forma umana, qui in Occidente, quegli appuntamenti che nonostante tutto mantengono viva una debole fiammella di fede ultraterrena si trasformano in orge di bancomat e scontrini. Babbo Natale e l’albero dei doni, americanizzazioni di antichi miti europei, vincono sul Bambinello e sulla Vergine, perché più adatti a innescare la corsa agli acquisti commerciali. 

Questo, il devoto che va alla messa del 25 dicembre, lo accetta di buon grado. Per quieto vivere, per abitudine, perché così fan tutti. Ma soprattutto perché, dopo due secoli di sistematica estirpazione del sacro, non riesce a percepire il divino. E lo sostituisce malamente con una fedeltà a riti di massa che non sono morti solo perché una parvenza di tradizione serve ad appagare il bisogno innato di trascendenza e di comunità. E’ la sensazione di una notte. Per il resto c’è la carta di credito. 

Eppure quel bisogno preme, non si dà pace, è insoddisfatto. Non è umanamente sostenibile una religiosità circoscritta a qualche giornata di contrizione ipocrita, o alla particola domenicale. È nelle difficoltà quotidiane che all’ateo travestito da credente manca la forza rigenerante del divino, del numinoso. L’aura sacra che un tempo avvolgeva ogni momento della nostra esistenza terrena si è eclissata, scacciata con ignominia dalla spasmodica ricerca di ritrovare in tutto una causa dimostrabile – sia maledetto lo scientismo, perversione della scienza. 

La morte di Dio ci ha lasciati soli con una Tecnica che ha razionalizzato la natura mortificandola, e con un’Economia che va per conto suo, incontrollata e senz’anima, rubandoci la libertà di cambiare il corso della storia. Siamo soli col denaro, vero nostro Signore. Dice bene Sergio Sermonti, scienziato anti-scientista: «Come insegnava Goethe, non dovremmo chiederci il perché ma il come delle cose. Nel chiedere il perché c’è un tacito presupposto che dietro ogni cosa ci sia un’intenzione, un proposito (appunto, un “perché”) e quindi che ogni cosa sia scomposta o scomponibile in fini e strumenti, o mezzi di produzione, come un’azienda umana. Sotto tutto questo c’è una sottile mentalità ottimistica, economicistica, produttivistica. No. Il mondo opera su un’altra dimensione, galleggia nell’eterno, è sospeso nell’infinito, ed è per l’appunto questo spostarci nelle sue dimensioni incantate il più raffinato e prezioso risultato della conoscenza, e non, al contrario, quello di rovesciare il mondo ai nostri piedi» (“L’anima scientifica”, La Finestra, Trento, 2003).  

Per recuperare il divino, il Cenone cristiano serve a poco. È troppo compromesso con la modernizzazione, da cui troppe volte si è lasciato usare come puntello e bandiera. Le Chiese sopravvivono accettando, tutto sommato, lo stile di vita radicalmente anticristiano dell’uomo consumato dai consumi. Il cristiano ha dimenticato il pauperismo di San Francesco d’Assisi, ha rinnegato l’umanesimo dei pontefici rinascimentali, ha sepolto l’antimodernismo del Sillabo, con Lutero e Calvino è stato all’origine stessa dell’etica capitalistica. Si è adattato al materialismo con il Concilio Vaticano II e allo showbusiness con Woityla, e oggi ha Bergoglio, una specie di rockstar, sul Soglio di Pietro: rinunciando alla lotta contro il mondo, non costituisce nessuna minaccia per il MacMondo. Anzi: gli fa da angolo cottura spirituale. 

Oggi la stragrande maggioranza della popolazione mondiale vive concentrata come formiche in centri urbani sovraffollati, dove il verde è rinchiuso in minuscole riserve talmente artificiose che la regola più ossessiva è di non calpestare le aiuole. I bambini non fanno più conoscenza con la terra perché non ne hanno più sotto casa, non s’incuriosiscono scoprendo insetti e animali perché abitano circondati dal cemento e non si sporcano nemmeno più, perché passano il tempo ipnotizzati davanti a computer, televisione e videogiochi. Nei weekend o in vacanza le famigliole si recano diligentemente al mare o in montagna, ma a parte qualche bagno o escursione, inquadrati in ferie organizzate a puntino con tutti i comfort, il contatto con le forze naturali è minimo, povero, addomesticato. Sempre insufficiente a resuscitare una risonanza interiore fra l’io individuale e il cosmo, fra il sentimento della propria limitatezza personale e il sentimento di appartenere al tutto, all’organismo della vita. È in questa corrispondenza che si può provare la percezione che in un orizzonte, in un albero, in un filo d’erba, in un soffio di vento, in ogni singolo nostro respiro, in me stesso, esista un dio. Ma se non si sperimenta in sé questa immediatezza, anche il discorso più ispirato resta lettera morta, una pia intenzione romantica. 

Ecco, siamo stressati dai discorsi: un sovraccarico di costruzioni mediate, calcolate, pesate, soppesate, interessate, ragionate, mirate. Il nostro bosco profondo è desertificato da questa irragionevole e malata razionalità: abbiamo perso il lume della Ragione per eccesso di razionalismo. E così il gregge si rifugia dai pastori di una fede debole, svuotata, ipocrita, insufficiente e senza più l’orgoglio di disprezzare la carne. Per forza: di carne e sangue è rimasto ben poco, siamo più macchine che uomini, ormai. Tenetevi dunque il Natale, risparmiatemi la mielosità evangelica e lasciatemi banchettare brindando al ritorno degli déi.  

Alessio Mannino

 

 
L'ombra del TTIP sull'Europa PDF Stampa E-mail

22 Dicembre 2014

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Da Appelloalpopolo del 20-12-2014 (N.d.d.)

 

Matteo Renzi, fedele alla sua linea politica iperliberista, ha di recente affermato che “il TTIP ha l’appoggio totale e incondizionato del governo Italiano” e che “non è un semplice accordo commerciale come altri, ma è una scelta strategica e culturale per l’UE”. Ne è convinto e non ammette critiche, poco importa se arrivano anche da premi Nobel come Joseph Stiglitz che, in una lectio magistralis di fronte ai gruppi parlamentari della Camera, ha sostenuto che il TTIP “accresce le disuguaglianze sociali, dando profitti a poche compagnie multinazionali a spese dei cittadini … i costi per la salute, l’ambiente, la sicurezza dei cittadini sono enormi … e neppure valutabili, perché è in atto un tentativo di sottrarre il TTIP dal processo democratico”. A conferma di ciò basti osservare come esso sia assente dal dibattito pubblico.

Lo scopo dichiarato del TTIP, accordo UE-USA su commercio e investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership), è comunque noto a tutti: abbattere le barriere per costruire la più grande area di libero scambio al mondo.

Le barriere da abbattere sono per il 20% tariffarie (dazi e dogane) e per l’80% non tariffarie, ossia consistenti nel nostro sistema di sicurezza alimentare e ambientale.

 

Gli standard UE si fondano sul principio di precauzione, che impone cautela in caso di decisioni politiche ed economiche su questioni scientificamente controverse; in base a tale principio, di fronte a minacce di danno serio o irreversibile, si adottano misure di prevenzione anche in assenza di certezze scientifiche. Se questo principio venisse superato sfumerebbe gran parte del sistema normativo europeo sulla sostenibilità ambientale. In questo modo, ad esempio, approderebbe anche in Europa il fracking, fratturazione idraulica che sfrutta la pressione di un fluido immesso in uno strato roccioso per liberare il gas naturale intrappolato; tecnica devastante per i suoli sottostanti, le aree vicine e le falde acquifere.

Il sistema UE di sicurezza alimentare si basa sull’etichettatura dei cibi, comprendente tutto il flusso di informazioni raccolte lungo la filiera; secondo il principio “dall’azienda agricola alla forchetta” (farm to fork) ogni passaggio della produzione è monitorato e tracciabile.

Gli USA, invece, garantiscono la sicurezza alimentare a valle, testando il prodotto finale, che può essere vietato solo quando matura un consenso scientifico unanime sulla sua pericolosità e tossicità. In assenza della prova della sua tossicità (naturalmente a carico della vittima) l’alimento resta in commercio. È chiaro però che si può dimostrare che un prodotto è nocivo solo dopo un numero elevato di intossicazioni anche mortali, confermate dall’esito di procedimenti giudiziari nei quali le multinazionali sono certamente avvantaggiate, o da ricerche troppo spesso finanziate da chi ha interesse a condizionarle. Ecco che, per fare un esempio, un pollo allevato senza controlli viene reso commestibile lavandolo con dei composti clorinati; questa pratica, al momento vietata in Europa perché tossica, è molto utilizzata negli USA in ragione dei suoi costi molto ridotti.

USA e EU divergono fortemente anche nell’elaborazione e nell’applicazione delle misure SPS (sanitarie e fitosanitarie); riguardo agli OGM, inoltre, la differenza è abissale: in Italia il mangime animale a base di OGM deve essere etichettato con evidenza, oltreoceano non vi è tale obbligo perché comprometterebbe i profitti delle imprese.

Le società multinazionali ritengono le attuali valutazioni di rischio dell’UE gravate da eccessiva burocrazia, e i “camerieri” dei mercati che ci governano (Renzi in primis) usano la solita retorica secondo la quale dovremmo liberarci dal rigore delle nostre procedure per attrarre gli investimenti di queste società! La nostra classe dirigente è brava a giocare con gli equivoci, ma per burocrazia da abbattere, in questo come in altri casi, intende quel sistema di regole che tutelano la nostra sicurezza. I grandi investitori devono muoversi liberamente e senza incomodi, perciò stanno spingendo affinché il TTIP costringa dentro meccanismi deregolati e ademocratici il mercato europeo. Ecco che i mezzi di comunicazione, espressione del pensiero unico neoliberista, parlano di “..costi e ritardi non necessari e dannosi per le imprese..” (parole sentite e risentite, testualmente citate anche da Max Baucus, attuale presidente della Commissione Finanze del Senato Americano); chi ascolta, purtroppo, non sempre capisce che si stanno facendo passare, ingannevolmente, per inutili fardelli, norme irrinunciabili in un mondo equo e sostenibile; senza contare che rinunciarci esporrebbe le nostre imprese agricole dalla concorrenza statunitense.

Il sistema USA, infatti, è sicuramente più economico e semplice per gli investitori, peccato che ad armonizzarsi ad esso ha poco da guadagnarci l’Europa e tantomeno l’Italia (eccetto poche multinazionali, ma si tenga conto che l’economia italiana si regge su piccole e medie imprese). Vedremo crescere le disuguaglianze sociali e ci impoveriremo, come Joseph Stiglitz ha ufficialmente spiegato ai parlamentari italiani, mentre poche compagnie aumenteranno i loro profitti? Purtroppo sì, perché deve essere questa, secondo Renzi, la svolta strategica e culturale dell’UE.

Nel quadro non confortante delle esportazioni italiane verso il resto dell’Europa, che nel 2013 hanno registrato un andamento di segno negativo, il settore agro-alimentare rappresenta un’eccezione positiva: + 2,6% i prodotti dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca, e +5,6% prodotti alimentari e bevande.

Vogliamo erodere questa positività? O crediamo di sacrificare un po’ di sicurezza per esportare di più? Ciò non accadrà mai, perché nel TTIP si prevede il principio del “mutuo riconoscimento” tra prodotti dalle indicazioni geografiche autentiche “IG” e i marchi registrati “IG sounding”! Alla luce di ciò chi, in Europa, rifiuterà sdegnato un prosciutto italian style, a prezzo più basso, prodotto in America, per acquistare un prosciutto effettivamente prodotto in Italia?

Mentre in economie emergenti come il Brasile, l’India e la Cina, si moltiplicano le azioni che favoriscono le imprese agricole locali, i nostri “camerieri” accettano i diktat delle multinazionali fregandosene di quanto ci penalizzano, e anziché preoccuparsi di rafforzare le nostre produzioni, ci lasciano invadere da cibi spazzatura a tutto vantaggio di poche multinazionali.

Il TTIP inoltre, in linea con la deriva neoliberista che ci sta distruggendo, spoglia rovinosamente gli stati della loro sovranità. Prevede infatti la creazione di un istituto arbitrale, cioè un tribunale “privato” gestito da avvocati commerciali internazionali, al quale le multinazionali potranno ricorrere ogni volta che leggi o provvedimenti democraticamente assunti dagli stati danneggino i loro interessi, in modo tale da cancellarli. Gli stati non potranno più neanche legiferare a favore della sicurezza dei cittadini, perché rischierebbero di essere pesantemente sanzionati. Altro organismo che garantisce le multinazionali, e lede gravemente la sovranità degli stati, è il Consiglio per la cooperazione sui regolamenti, composto da non meglio definiti tecnici di livello transatlantico, al quale ricorrere, dopo l’approvazione del TTIP, per “armonizzare” le regole e ridisegnarle qualora gravassero troppo su interessi corporativi. In questo modo potrebbero svanire, ad esempio, le prescrizioni che limitano le tossine in grani e granaglie, o quelle contenute nella direttiva Reach (Regulation on Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) per la chimica sicura che oggi ci proteggono dall’invasione di prodotti farmaceutici potenzialmente nocivi.

Sempre nell’esclusivo interesse dei tanto desiderati investitori, nonostante i molti diritti ai quali abbiamo già rinunciato, sarà necessario aggiustare il nostro mercato del lavoro, ancora troppo poco mobile e liberalizzato in confronto a quello americano! Non vogliamo? Come lamenta Renzi, ci opponiamo al “cambiamento”? Insieme al TTIP avrà anche l’arma di ricatto per farci accettare quest’ulteriore “cambiamento”, perché ci dirà che, altrimenti, le produzioni dei nostri brand saranno delocalizzate negli USA! Molte politiche europee sono state costruite allo scopo di incentivare le cosiddette “riforme strutturali” per demolire i nostri diritti e il nostro welfare! Non sono state dovutamente recepite? Ci penserà il TTIP!

 

Giuliana Nerla 

 
Scelta giusta, motivi sbagliati PDF Stampa E-mail

21 Dicembre 2014

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La nuova politica annunciata nei confronti di Cuba prevede cambiamenti significativi, tra cui  l’instaurazione di relazioni diplomatiche e la rimozione di Cuba dalla lista degli stati promotori del terrorismo, nonché - questione ben più significativa - la ripresa di relazioni commerciali. 

Come mai questa svolta, visto che Obama non ha mantenuto altre promesse importanti, come la chiusura di Guantanamo o la fine delle guerre di aggressione in Asia?

 

Il punto è che Obama sta facendo una scelta giusta ma per motivi sbagliati. 

In realtà la scelta di abbandonare la politica di guerra fredda nei confronti di Cuba non avrebbe dovuto essere disgiunta dall’ammissione che tale politica è stata immorale e illegale. 

Ora, nella logica del peggiore presidente della storia americana il motivo principale di questo storico cambiamento di prospettiva sarebbe il fatto che le sanzioni "non hanno funzionato”.

Dunque Obama, invece di prendere atto che le sanzioni sono state un errore morale e legale e dunque sospenderne l’attuazione, si accorgerebbe, solo ora, che non hanno ottenuto gli effetti sperati.

"In una delle più significative svolte nella nostra politica da oltre 50 anni - ha detto ieri Obama in un discorso in diretta televisiva dalla Casa Bianca - porremo fine ad un approccio obsoleto che, per decenni, non ha funzionato nel difendere i nostri interessi, e, a questo punto, cominceremo a normalizzare le relazioni tra i nostri due Paesi”.

Il punto chiave per comprendere tutta la vicenda è ben espresso da quella frase secondo cui l’embargo "non ha funzionato nel difendere i nostri interessi". 

A quali interessi si riferisce Obama?  Si tratta evidentemente di interessi commerciali delle Corporation, non certo dell'interesse delle popolazioni. 

La verità che il presidente si guarda bene dal rivelare è che il sistema socio-economico di Cuba ha rappresentato per decenni una minaccia per le Corporation americane. Una minaccia che da Cuba ha contagiato, negli anni, gli altri Paesi dell’area sudamericana. 

Cuba doveva essere punita per far capire cosa sarebbe accaduto ad altri Paesi, se questi avessero voluto seguire l’esempio dell’isola caraibica. L’embargo serviva dunque a bloccare la diffusione, nel continente americano, di politiche indipendenti dall’egemonia a stelle e strisce.

"Ma ora - aggiunge Obama - è tempo per un cambiamento. Faremo del nostro meglio per portare i nostri migliori valori anche laggiù”.

 

L’eccezionalismo americano non perdona; se le sanzioni “non hanno funzionato” non è naturalmente perché erano sbagliate, o illegali, o immorali, ma solo perché erano semplici errori. E adesso - dopo Iraq, Afghanistan e Libia - è venuto il momento di “esportare la democrazia” anche a Cuba.

"Anche se questa politica nasceva dalle migliori intenzioni, nessun'altra nazione si è unita a noi nell’imporre quelle sanzioni" afferma ancora Obama.

E quali erano queste “migliori intenzioni”?

Promuovere la democrazia e i diritti umani, è chiaro! 

Ma questa è smaccata propaganda, destinata esclusivamente ai propri cittadini, il cui cervello è oggi totalmente lavato da media del tutto allineati con il potere.

“Dopo tutto, questi 50 anni hanno dimostrato che l’embargo non ha funzionato" ha continuato Obama.

Ma il problema non è che “non ha funzionato”, bensì che esso era ed è immorale ed illegale; tuttavia a questo nessun giornalista americano ha fatto cenno alcuno.

La cosa più esilarante è leggere oggi, in un editoriale del New York Times, che Cuba "rimane uno stato di polizia repressivo" e questo appena una settimana dopo la pubblicazione della relazione sulla tortura nei confronti dei prigionieri politici nelle carceri segrete a stelle e strisce, e mentre gli Stati Uniti sono scossi da proteste anche violente contro la brutalità della polizia che ha assassinato degli inermi cittadini di colore.

L’editorialista del NYT deve avere davvero una straordinaria faccia di bronzo per riuscire a scrivere una tale assurdità!

Inoltre va sottolineato che l’embargo economico  continuerà a restare in vigore sino a quando non sarà ufficialmente revocato dal Congresso e l'iter, vista la feroce opposizione dei repubblicani, non sarà certamente una passeggiata. 

 

Altro argomento da approfondire in questa nuova strategia geopolitica che, se da una parte “sdogana” parzialmente lo stato-canaglia Cuba, dall’altra evoca lo spettro dello stato islamico e spinge per l’isolamento della Russia, è quello dell’intervento del Vaticano che, grazie a trattative segrete bilaterali, ha reso possibile questa svolta.

Chi segue gli eventi internazionali sa bene come la vera e propria “destituzione” di papa Ratzinger e l’elezione al soglio di Pietro di papa Bergoglio non è altro che l’atto finale della vittoria della piramide gesuita-massonica che - pienamente allineata con Washington - punta a realizzare a tappe forzate il Nuovo Ordine Mondiale.

Il papa sudamericano, che ha espresso "vivo compiacimento per la storica decisione" rappresenta un tassello essenziale di questo programma; la sua influenza sui Paesi del centro e sud America è, infatti, perfettamente funzionale ai piani dell’Impero.

Non essendo più accettabili da parte dell'opinione pubblica mondiale le contro-rivoluzioni alla Pinochet, oggi la strategia di dominio assoluto perseguita dagli Stati Uniti passa attraverso la propaganda smielata di personaggi che si presentano come riformatori, difensori della democrazia, paladini dei popoli, ma che in realtà sono veri e propri lupi travestiti da agnelli.

Oggi l’azione dei più pericolosi nemici dell’umanità passa attraverso il travestimento, la contaminazione del linguaggio, la manipolazione delle coscienze, da cui è necessario difenderci con sempre maggiore lucidità.

Oggi, come mai in passato, nulla è come appare.

 

Piero Cammerinesi 

 
La NATO prima dell'euro PDF Stampa E-mail

20 Dicembre 2014

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La campagna referendaria di M5S contro l’euro è partita.

Valgono poco le obiezioni di quanti rilevano la non praticabilità di un referendum di questo tipo con le attuali regole costituzionali. Infatti il significato dell’iniziativa è tutto politico ed è legittimo utilizzare una raccolta di firme come pretesto per stimolare un dibattito e far prendere coscienza di un problema.

L’obiezione più consistente è un’altra.

Si promuovono battaglie politiche quando c’è una fondata speranza di vincerle, non quando la sconfitta è certa.  Andare incontro a una sconfitta certa significa recare danno a quella stessa causa che si voleva promuovere.

Perché una consultazione popolare largamente partecipata sull’euro sarebbe perdente per chi volesse uscire dalla moneta comune?

Le persone mature o anziane hanno in genere un gruzzoletto in banca, magari modesto ma per loro di vitale importanza. Ai difensori dell’euro sarebbe facile dimostrare che con l’abbandono della moneta comune, o anche solo con l’adozione di un euro dal valore diverso rispetto a quello vigente nel nord Europa, il gruzzoletto sarebbe dimezzato dalla perdita di valore della moneta e dall’inflazione. Economisti come Bagnai avrebbero un bel contestare questo ragionamento, che si imprimerebbe comunque nelle menti dei cittadini con la forza che viene dalla paura.

Quanto ai giovani, che sono generalmente grandi viaggiatori, con l’euro sono cresciuti e ne vedono la comodità nei loro spostamenti. La causa dell’antieuro è presso di loro ben poco popolare.

La decisione di adottare una moneta comune per economie e sistemi giuridici e fiscali profondamente diversi, è stata probabilmente una fesseria, o il frutto di un calcolo da parte di interessi che non sono quelli della grande massa. Tuttavia oggi uscirne non può essere l’obiettivo da porsi da parte di una singola nazione o di un partito. L’euro è stato adottato non per una volontà popolare ma per decisione di potentati politici e finanziari. Saranno loro a dichiarare chiuso l’esperimento della moneta comune, quando la forza delle cose ne mostrerà l’insostenibilità. E la fine dell’euro sarà la fine anche dell’UE, almeno di quella che conosciamo. Questi processi si sono realizzati passando sopra le nostre teste e saranno arrestati e invertiti per decisioni che passeranno sopra le nostre teste.

La battaglia che dovrebbe essere prioritaria è quella per l’uscita dalla NATO e dalle servitù militari.

Per la verità, anche la NATO è stata creata senza l’avallo popolare e difficilmente si potrà uscirne con semplici agitazioni delle piazze.

Tuttavia questo è l’obiettivo che può convincere, può mobilitare, può iniziare a smuovere delle coscienze.

L’indifferenza con cui il popolo-gregge va incontro a una guerra di proporzioni tragiche, è qualcosa di angoscioso.

Da decenni il dibattito sulla politica internazionale è scomparso dalle prime pagine.

Mentre l’Impero prepara la guerra spostando le sue basi sempre più vicino ai confini russo e cinese, provocando crisi regionali per seminare il caos, utilizzando strumentalmente il fanatismo islamico, manipolando il prezzo delle fonti energetiche per mettere in difficoltà i Paesi antagonisti; mentre Russia e Cina, ben consapevoli delle manovre avversarie, stringono relazioni sempre più vincolanti nonostante le storiche diffidenze reciproche, riarmandosi e costituendo un blocco continentale da opporre alla supremazia aero-navale dell’Impero marittimo, Giulietto Chiesa e pochissimi altri sono rimasti a levare le loro deboli voci contro i rischi di guerra imminente e ad ammonire che una mobilitazione popolare contro il massacro che si profila dovrebbe essere la priorità assoluta.

Ecco, una raccolta di firme per far uscire l’Italia e l’Europa dalla NATO sarebbe un’iniziativa sterile ai fini dei risultati immediati ma significativa per costringere finalmente a discutere la nostra collocazione internazionale.

L’euro finirà per la sua insostenibilità, per decisione di coloro che lo introdussero, non per un referendum popolare che sarebbe sicuramente vinto dagli euristi.

Nemmeno la NATO verrà sciolta per iniziativa popolare, ma una discussione sul suo ruolo oggi sarebbe il veicolo per cominciare a sensibilizzare una massa inebetita che marcia compatta e incosciente verso il macello.

 

Luciano Fuschini 

 
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