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Fine della democrazia? PDF Stampa E-mail

1 Dicembre 2014

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 All'indomani delle elezioni amministrative della primavera del 2012 in un articolo intitolato «Ecco perché il voto del 2013 potrebbe segnare la fine della democrazia» (Il Gazzettino, 11/5/2012) di fronte a un'astensione che stava montando di tornata in tornata, scrivevo: «Nel 2013...l'astensione potrebbe diventare valanga. I partiti non sembrano rendersi conto che stanno ballando sull'orlo di un vulcano in eruzione. La crisi ha aperto gli occhi ai cittadini che scoprono di essere presi in giro da almeno trent'anni, governasse la destra o la sinistra o tutte e due insieme». E concludevo: «Le elezioni del 2013, Grillo o non Grillo, potrebbero segnare, con un' 'astensione colossale', la fine della democrazia rappresentativa». Nel 2013 ci fu un'ulteriore erosione dell'elettorato, ma quell'«astensione colossale» che io prevedevo già per quell'anno è arrivata ora, nell'autunno del 2014. E solo adesso, tranne Renzi che fa il pesce in barile e definisce l'astensione 'secondaria' e Matteo Salvini che finge di aver vinto un'elezione che invece ha perso, come tutti, perché dai 116.394 voti delle europee è passato ai 49.736 di oggi, tutti gli esponenti di partito, i commentatori, i giornalisti scoprono l'esistenza del fenomeno. Naturalmente cercano di sminuirne la portata attribuendolo al tempo ridotto per votare, agli scontri in atto all'interno del Pd e a quelli con i sindacati, agli scandali emersi in Emilia Romagna, alle inchieste della magistratura e a qualsiasi altra causa cui possano appigliarsi. Ma tutte queste ragioni non possono aver avuto che un'incidenza molto parziale, direi minima, su un fenomeno così esteso.

La realtà è che la gente non crede più a questo sistema, non crede più al balletto delle elezioni, non crede più alla democrazia rappresentativa e, forse, alla democrazia 'tout court'.

I partiti che si scannano per dividersi quel poco di elettorato che gli è rimasto appiccicato fanno la stessa impressione di chi, in un castello che sta andando in fiamme, si preoccupi di assicurarsi comunque gli appartamenti migliori, mentre là fuori sono circondati da milioni di arcieri che non hanno ancora trovato il loro Robin Hood ma che prima o poi occuperanno quelle macerie fumanti.

Il fenomeno non è solo italiano. Negli Stati Uniti un deputato, in un momento di sincerità, ha affermato che «gli elettori contano poco o nulla e non sanno neanche perché e per chi votano». Tuttavia, come ho già avuto modo di osservare, l'Italia è, storicamente, un 'paese laboratorio' e la fine della democrazia da noi potrebbe preludere alla fine anche delle altre democrazie occidentali.

A differenza di quanto ha scritto Antonello Caporale sul Fatto, non ha vinto 'il partito della pantofola'. Chi è rimasto a casa è uno che ha esaurito ogni pazienza e, non essendo vincolato, a differenza di Grillo, a una rivoluzione pacifica che agisca all'interno delle regole democratiche, il giorno che, esasperato, deciderà di uscire allo scoperto lo farà, per usare un eufemismo, con le mazze da baseball, cioè con la violenza. E scorrerà del sangue. Perché, come dice la Bibbia, «terribile è l'ira del mansueto».

Massimo Fini

 
Giochi di prestigio PDF Stampa E-mail

30 Novembre 2014

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Da Il Ribelle (quotidiano on line) del 27-11-2014 (N.d.d.)

Secondo la Federal Reserve - voce dunque piuttosto interessata - i rischi relativi alla crisi in corso sarebbero rimasti solo per Europa, Cina e Giappone. Si dà per scontato che gli Usa siano ormai fuori dalle secche, malgrado quella statunitense sia tutt’altro che una ripresa, anzi. Ma la Fed si spinge ancora oltre, in modo quasi incredibile: dopo aver terminato il terzo round di Quantitative Easing iniziato nel 2012 (gli altri furono varati nel 2008 e nel 2012) adesso i rischi per gli Stati Uniti “deriverebbero dalle condizioni economiche critiche del resto del mondo”. Come dire: origine dagli Usa (2007), esportazione nel resto del Mondo, e ritorno. Solo che ora la responsabilità sarebbe degli altri. 

A livello di G7, altro carrozzone, i fanalini di coda sarebbero l’Italia e il Giappone. 

Sul nostro Paese sappiamo ormai tutto, e il governo Renzi si barcamena con l’Europa e la finanza creativa - e illusionista - per spuntare quello zero virgola in più che gli permetterebbe di far continuare la sceneggiata ancora per qualche trimestre.

In merito al Giappone le cose sono quanto meno più chiare: malgrado la politica ultra accomodante della Banca giapponese, e l’inondazione di denaro stampato di fresco, le cose vanno male. Malissimo. La terza economia mondiale è in recessione per la terza volta in quattro anni, con un calo del Pil di 1.6 punti percentuali. Shinzo Abe, a differenza di come avviene e avverrà da noi in Italia, ha posticipato l’aumento dell’Iva che era comunque programmato per ottobre 2015, ma sono soprattutto le scelte relative alla politica monetaria a destare sconcerto: malgrado tutti gli sforzi sino a questo momento siano risultati vani, le misure di allentamento continuano. Rotative a pieno regime, insomma.

È sulla Cina, invece, che occorre focalizzarsi. Siamo di fronte, anche in questo caso, a una situazione paradossale. E preoccupante. Perché anche qui le cose vanno male. La People’s Bank of China ha ufficialmente annunciato il proprio “allentamento monetario”, e secondo molti analisti seguiranno a breve ulteriori tagli dei tassi. Per il governo cinese è arrivata l’ora di aiutare le piccole e medie imprese locali e i risparmiatori. Tutto ciò ha un una duplice chiave di lettura. Da una parte il fatto che anche lì, e la cosa è di portata enorme, la propulsione è in difficoltà. La seconda è che anche lì, come altrove, le misure che verranno prese è molto difficile che potranno sortire effetti differenti da quelli inesistenti già sperimentati nel resto del mondo. 

A conferma di questa previsione, largamente condivisa senza che però quasi nessuno sia in grado, o voglia, tirarne le conseguenze, c’è il fatto che dall’estremo Oriente si sia iniziata senza neanche troppa timidezza la guerra valutaria. L’intenzione della banca cinese è quella di alzare il rapporto dollaro/yuan, aspettandosi uno yen e un euro più debole. E, ovviamente, di proseguire verso la dedollarizzazione dei mercati: sempre meno biglietti verdi per gli scambi commerciali.

Sul tavolo globale, al momento, il tutto si gioca dunque nei quartieri generali delle Banche Centrali. Il che conferma una cosa lapalissiana: la famosa “mano invisibile” non funziona (e mai ha funzionato) e così l’economia reale in ogni ordine e grado, tanto che, appunto, il tutto viene spostato nelle capacità illimitate dei numeri. Virtuali.

Anche da noi la strada è stata intrapresa, e a sentire Draghi si continuerà su questa rotta, se è vero - e lo vedremo presto - che alle “misure non convenzionali” già varate faranno seguito ulteriori manovre. Ha poco di che lamentarsi la Germania, per bocca dei tanti esponenti interni o piazzati in vari posti di rilievo dalle parti di Bruxelles e Francoforte. Anche i tedeschi sono sulla soglia della recessione, e certo non possono aspettarsi di continuare ad andare a velocità da locomotiva quando il resto del mondo rallenta, è fermo oppure, nella maggior parte dei casi, indietreggia.

Per ora la BCE non ha imbracciato il bazooka, e si è limitata (si fa per dire) a varare alcune norme che sono solo lontane parenti dei Quantitative Easing veri e propri. Ha offerto denaro alle Banche a più riprese a costi irrisori, ha comperato titoli di Stato in diverse occasioni, ed è recentemente tornata in soccorso sempre delle Banche acquistando crediti in difficoltà. Risultato? Per l’economia reale, praticamente nullo.

Mentre le altre Banche centrali sono già in guerra, a Francoforte ancora si attende a rispondere colpo su colpo. Naturalmente il motivo non è il fatto di sapere che a nulla vale, in senso risolutivo, una guerra del genere, quanto nel fatto che in Europa ancora si attende che alcuni “lavori” a livello nazionale siano portati a termine. Quello relativo al mercato del lavoro in primis e quello inerente le privatizzazioni in seconda battuta. 

In altre parole, sinteticamente: la crisi deve essere spinta ancora più in profondità per rendere necessarie e improcrastinabili quelle riforme che servono a portare a termine l’obiettivo. Poi sarà pronta e messa sul tavolo l’illusione. Insomma prima la (ulteriore) cura dimagrante e poi, solo poi, qualche endovena per tenerci ancora in vita.

Ne abbiamo conferma proprio in queste ore, con il “piano” prospettato da Juncker, secondo il quale si devono mettere in campo 315 miliardi per aprire questa “nuova fase” di crescita. 

Al di là del mero numero in sé - 315 miliardi, che non ci sono - occorre mettere a fuoco un punto sopra ogni altra cosa: da dove arriveranno (arriverebbero…) questi denari. Dunque: il sedicente piano prevede che gli Stati possano investire in “attività produttive” senza far entrare tali investimenti nel computo per il controllo del rapporto deficit/pil. Cioè, in estrema sintesi, si dà l’ok per iniziare nuovamente a spendere a debito. Ancora più importante questo: i fondi necessari a raggiungere la cifra di 315 miliardi ventilata dal presidente della Commissione Europea, ovviamente, dovranno pervenire dagli Stati stessi, ma tali fondi, dice Juncker, non entreranno nel computo economico per il rispetto del Patto di stabilità.

È sconcertante: Stati praticamente in bancarotta dovranno tirare fuori denaro da far confluire alla Ue la quale poi lo distribuirà ai bisognosi. Siccome bisognosi sono praticamente tutti, non si capisce come potranno tirare fuori tale denaro, e soprattutto, una volta che lo avranno versato alla Ue, e una volta che sarà tornato (eventualmente) indietro, ci si dovrebbe spiegare quale sarebbe il vantaggio: ci rientra dall’Ue quello che all’Ue abbiamo dovuto versare. Ah, naturalmente: non si tratta (tratterebbe) di denaro “nostro” ma, come da oltre un decennio, di denaro che la BCE ci presta dietro interesse.

Ricapitoliamo: l’Ue ci dice ok, potete spendere a debito, e anzi, vi prestiamo dei soldi, a patto che quei soldi ce li date prima voi a noi. E ovviamente, per procurarci quei soldi, dobbiamo mendicarli alla BCE.

Domandona finale: lasciando da parte le probabilità di efficacia dell’operazione nel suo complesso, quale è il soggetto che guadagnerà di più e sicuramente al termine del giro delle tre carte?

Ma per quanto riguarda l’Italia, prima che inizi la giostra, naturalmente, il Jobs Act (e tutto quello che ne consegue e che gli è collegato) deve essere portato a compimento, sia chiaro. Altrimenti, dall’Ue, niente aperture…

E allora si può, anzi è utile farlo, tirare alcune somme, visto che sono ormai diversi anni - e non solo trimestri - che le varie “cure” imposte a vario titolo e latitudine per contrastare la recessione iniziata nel 2007 negli Usa stanno servendo a molto poco. O meglio a nulla, se consideriamo, e questa è poi la prova del nove, che da molte più parti rispetto a un paio di anni addietro ove erano solo in pochi a prevederlo, si inizia a parlare con sempre maggiore insistenza della seconda ondata recessiva globale. Come se la prima fosse terminata. Come se la seconda in arrivo non fosse che una conseguenza della prima e ancora di più degli squilibri che la causarono.

Ciò che non cambia è dunque la traiettoria generale: un sistema già nell’abisso per i meccanismi stessi che non potevano che portarlo in tale sprofondo non può fare altro che continuare a rotolare verso il basso. Da allora a oggi, dal 2007 al 2014, tutta una pletora di misure che hanno avuto il solo obiettivo di radere al suolo il lavoro, ciò che rimaneva dei servizi sociali dei vari Stati e il risultato di preparare il terreno a quel mondo nuovo tanto caro, di fatto, a chi risiede stabilmente all’interno dei consessi dei centri di potere. Intere popolazioni di nuovi schiavi - tra disoccupazione, mini-jobs e accettazione di pseudo occupazioni pur di sopravvivere - in uno scenario in cui le uniche entità che hanno guadagnato e guadagneranno dalla situazione sono le stesse che hanno originariamente innescato il processo. A parte i fallimenti roboanti, operati più come monito e foglia di fico, di alcune Banche d’investimento e di qualche colosso assicurativo, per il resto i dividendi e i lauti compensi dei manager hanno ricominciato a circolare, gli utili di questi soggetti a crescere, a fronte delle macerie che si sono accumulate e stratificate negli anni. E della povertà diffusa nei vari Paesi.

Si può dunque, almeno adesso, a fatti compiuti e comprovati, sperare in una analisi differente da parte dei più rispetto a quanto fatto negli anni precedenti? A parte qualche malumore generale fatalmente incanalato in forme di dissidenza e protesta sempre ben irregimentate, a parte manifestazioni sparse e mai unitarie, per cercare (inutilmente) di rivendicare i diritti inerenti al proprio particolare caso (una azienda, un settore della produzione, un mestiere…) non ci sembra di poter registrare nessuna nuova e più generale presa di coscienza.

L’attualità scorre a colpi di news irrilevanti, e anestetizzanti, ma a livello più alto - che poi è l’unico in grado di poter offrire una visuale d’insieme per far arrivare a una conoscenza più completa dello stato delle cose - nulla di nulla. La maggior parte si aggrappa alla speranza e alle parole di ripresa lanciate dai vari maggiordomi nazionali. E tutto procede, senza che nessuno riesca a capire dove si dovrebbe andare a parare, o meglio, attaccare, per reagire a chi ci sta guidando verso il baratro.

E allora le prospettive sono molto semplici da supporre: se a livello più generale e di massa, ancora oggi, malgrado quanto successo e malgrado quanto sta succedendo giorno dopo giorno, ancora non si è neanche capito chi sono i nemici principali, si può sul serio sperare in un cambiamento della situazione?

Valerio Lo Monaco 

 
Ungheria nel mirino? PDF Stampa E-mail

29 Novembre 2014

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Le manifestazioni contro il Governo Orbán che si svolgono in questo periodo servono all’Unione Europea e  agli Stati Uniti per fare un colpo di stato perché Orbán Viktor non segue i loro interessi. Non è il popolo ungherese che vuole far cadere il governo, anche perché alle elezioni di aprile esso ha preso di nuovo i 2/3 dei voti. I nemici sono degli estranei che vogliono intromettersi negli affari interni del paese. Usano degli schemi già ben collaudati, sono finanziati da Soros György e sono capaci di qualunque cosa per non perdere il loro potere ed i loro profitti sul mercato ungherese. Trovano dei traditori della patria –l’opposizione- che per soldi li appoggiano e della „gente semplice” che gli crede. 

Orbán Viktor vuole far pagare le tasse alle multinazionali che hanno vari benefit in Ungheria. Non pagano tasse, o ne pagano poche, sfruttano i dipendenti, portano via tutto il profitto dal paese e rendono impossibile l’attività delle piccole-medie imprese. Vuole inoltre far pagare le tasse alle banche che con dei crediti in valuta estera hanno ingannato migliaia di famiglie rovinandogli la vita. Ha abbassato le spese dell’elettricità, del gas e dell’acqua e vuole continuare a farlo per alleggerire ulteriormente le bollette degli ungheresi, ma i fornitori di questi servizi sono in mano a israeliani risiedenti in Francia e in Germania che non vogliono perdere del profitto. Un altro motivo è il possibile gasdotto che arriverebbe dalla Russia ed evitando l’Ucraina passerebbe per Bulgaria, Serbia ed Ungheria fino all’Austria (il flusso meridionale).

Insomma si tratta di danni all’interesse (il profitto enorme rischia di diminuire), quindi tutte queste attività del Governo per loro sono fastidiose e per questo motivo intervengono. Soros György finanzia varie organizzazioni dell’opposizione e gli oppositori Gyurcsány Ferenc e Bajnai Gordon. Arriva André Goodfriend incaricato d’affari americano, straordinariamente attivo negli affari interni dell’Ungheria. Qua tra parentesi menzionerei che lo stesso „Bravo Amico” tra il 2009-2012 come console generale ha cercato di far cadere il governo siriano. E adesso vuole dire al popolo ungherese cosa è buono. Inventano delle finte corruzioni e false accuse dei confronti del Governo -che non riescono mai a documentare, a testimoniare- mescolano un po’ le notizie, reclutano degli ungheresi traditori, ignoranti, pronti a fare un po’ di casino, dopodiché trasmettono in Occidente che il Governo Orbán è inaccettabile e che il risultato 2/3 delle elezioni non conta. 

Qua di nuovo aprirei una parentesi perché devo mettere in chiaro che le marce della pace organizzate per il Governo Orbán avevano un’atmosfera particolare, non è mai successo nessun’ atrocità, nessuna violenza e la gente cantava, chiacchierava serenamente. Se invece andiamo a vedere le attuali manifestazioni contro il Governo Orbán ci sono prove su come i manifestanti hanno picchiato alcuni giornalisti, gli hanno sputato in faccia, hanno distrutto la sede del partito FIDESZ (quello di Orbán Viktor) causando dei danni enormi, urlavano parolacce e volgarità senza scrupoli. Si vede lontano anni luce la differenza tra le due folle, sono opposte, la civiltà da una parte e l’inciviltà e anarchia incorporate dall’altra parte.

Era così incivile anche la manifestazione contro le tasse su internet “organizzata” da Gyurcsány Ferenc e le forze che stanno dietro di lui, finanziato da Soros György ed a cui ha partecipato Goodfriend. Prima di tutto la tassa dell’internet era un pretesto, perché senza un motivo concreto che all’apparenza tocca quasi tutti non sarebbe scesa tanta gente in piazza su richiesta di Gyurcsány che ultimamente ha perso popolarità. Con lo slogan “tasse su internet” è riuscito a muovere una modesta folla. Comunque la proposta di legge parlava di tasse da pagare da parte dei fornitori, non ricaricabili sugli utenti e con un tetto massimo di 3 euro, ma c’è sempre gente che non conosce tutti i dettagli ed è pronta a fare un po’ di caos. Ed ecco pronta la notizia da pubblicare in tutto il mondo su come gli ungheresi sono scontenti, su come è inaccettabile il Governo Orbán, ecc.

Questo scenario ed iter sono ben riconoscibili nel colpo di stato nella Repubblica Ceca, dove con lo stesso sistema hanno fatto cadere il Governo Necas, negli eventi in Ucraina, in quelli della primavera araba (Tunisia, Libia, Egitto, Siria). Purtroppo riescono a mimetizzare bene la loro attività segreta, imbrattano l’immagine di chi è contro di loro e dopo difficilmente noi, gente comune, possiamo capire chi aveva ragione. Per questo dobbiamo ragionare sulle notizie trasmesse, guardare gli eventi anche da un altro punto di vista, altrimenti crederemo anche noi ai nostri nemici.

Per il momento noi ungheresi che appoggiamo il governo Orbán Viktor non intendiamo manifestare ma aspettiamo lo svolgimento di tutta la faccenda.Se gli attacchi esteri non finiranno allora é nostra intenzione scendere nelle piazze e dimostrare quanto siamo vicini al nostro governo e quanto vogliamo difenderlo.

Grazie per aver letto l'articolo e vi auguro ogni bene.

 

Edina Karossy

Kovács Andras

  

 
Ripopolamento dell'Italia PDF Stampa E-mail

27 Novembre 2014

 

 

Da Rassegna di Arianna del 19-11-2014 (N.d.d.)

 

 

È stato pubblicato il recente piano dell’ONU che si presenta come un apparente studio: «Replacement Migration: is it a solution to declining and ageing populations?». [...}

Le Nazioni Unite prospettano come soluzione al problema demografico dell’Italia (e di altri paesi europei) quello di «rimpiazzare» (come riportato nel titolo del dossier) l’Europa che invecchia con un massiccio afflusso di immigrati dall’Africa e dall’Asia. Lo studio prende in considerazione gli immigrati, quasi sempre giovani, che dopo lo sbarco molto probabilmente si stabiliranno in Italia, dal nord al sud della penisola. Questi dovranno convivere con la popolazione autoctona, saranno molto più prolifici degli italiani. Di conseguenza in un arco medio di tempo, l’Italia degli italiani si trasformerà in un «melting pot», un insieme di razze, culture, religioni dove tra quarant’anni ci sarà ancora un nucleo di italiani che non saranno più la maggioranza della popolazione.

Lo studio dell’ONU calcola circa ventisei milioni di immigrati e i loro discendenti che risiederanno nelle varie città italiane nel 2050. Attualmente sono quasi 5 milioni, contro i 7,8 presenti in Germania.

Potrebbe sembrare assurdo e poco razionale un piano che prospetti di incrementare a tal punto una popolazione in un territorio già super popolato e problematico come quello italiano. Considerando poi che in Italia esiste una disoccupazione giovanile che equivale al 43% non si capisce su quali basi si possa proporre un aumento di masse di immigrati che apporterebbero una completa destabilizzazione degli equilibri sociali già compromessi, a meno che non  si voglia disporre di una massa di mano d’opera da sfruttamento per le nuove imprese transnazionali che si installeranno nel paese. Dai soloni dell’ONU, che non hanno mai risolto una sola situazione internazionale,  ci si può aspettare di tutto e di più.

 

Questo dell’ONU in realtà non è soltanto uno studio teorico  ma un preciso piano elaborato da uno dei massimi organismi della strategia mondialista, quale è l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Un piano che prevede la distruzione degli Stati nazionali, l’omologazione di tutti i paesi, di ogni cultura, nella creazione di un unico grande mercato globale, dominato dall’élite finanziaria, nel progetto globale di quello che sarà un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) obiettivo finale di tutti gli strateghi del mondialismo.

Di fatto questo piano dell’ONU rientra perfettamente nel vecchio piano Kallergi che pochi conoscono ma che è alla base del progetto originario dell’Unione Europea. Non a caso il progetto viene appoggiato e sostenuto dalla Commissione Europea che ha imposto all’Italia, come ad altri paesi europei, di accogliere le masse dei migranti clandestini che arrivano dall’Africa.

Richard Coudenhove Kalergi (1894-1972), personaggio storico sconosciuto all’opinione pubblica, mai citato nei libri di storia ufficiali e sconosciuto anche tra i deputati europei è considerato come il vero padre di Maastricht, fondatore del paneuropeismo e del multiculturalismo.

 

Questo personaggio ( austriaco ma nato a Tokio) nel suo libro «Praktischer Idealismus» pubblicato nel 1925, esponeva una sua visione multiculturalista e multi-etnicista dell’Europa, dichiarando che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una nuova popolazione multietnica ottenuta da un processo di mescolanza razziale”
Kalergi, con le sue teorie, ebbe allora il sostegno finanziario del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). Consideriamo che il fratello di Max Warburg, Paul Warburg, trasferitosi negli USA, fu uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR), uno dei più importanti organismi della élite dominante.

 

In sintesi il piano teorizzato da Kallergi prevedeva la necessità che i popoli d’Europa dovessero essere mescolati con africani ed asiatici per distruggerne l’identità originale e le culture e creare un’unica popolazione meticcia, multiculturale, un concetto che sta alla base di tutte le politiche comunitarie volte all’integrazione e alla tutela delle minoranze. Secondo il Kalergi, questa popolazione, mescolata e privata di una propria identità, avrebbe reso più facile il dominio della élite di potere sovranazionale. Benché nessun libro di scuola parli di Kalergi, le sue idee sono rimaste fra i principi ispiratori dell’odierna Unione Europea.

Da notare che, in suo onore, è stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo piano criminale. Tra di loro troviamo nomi del calibro di Angela Merkel o Herman Van Rompuy.

I cittadini italiani non sono ancora consapevoli di cosa si stia preparando alle loro spalle e quale sia il livello di complicità dei governanti ed esponenti politici nazionali, dagli alti rappresentanti delle istituzioni come Matteo Renzi, al ministro Alfano, alla Laura Boldrini, noti esponenti del mondialismo e del modello multiculturale al pari di Giuliano Pisapia, sindaco di Milano e del sindaco di Roma, l’ineffabile dr. Marino.

C’erano stati gli allarmi lanciati da una scienziata antropologa come Ida Magli sul prossimo avvento dell’africanizzazione dell’Italia ma non era stata ascoltata né presa sul serio. Le sue previsioni si stanno rivelate serie e fondate. Piuttosto la scienziata è stata emarginata dagli ambienti ufficiali della cultura e della docenza poiché le sue affermazioni sono ritenute non allineate al pensiero “politicamente corretto”.

 

Luciano Lago 

 
Autarchia europea PDF Stampa E-mail

25 Novembre 2014

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Cosa sarebbe successo, in epoca preindustriale, se su un campo dove lavoravano e si mantenevano dieci persone si fossero accorti che otto erano sufficienti a coltivarlo tutto? Avrebbero cacciato i due 'in esubero' a pedate? Nient' affatto, si sarebbero diminuiti proporzionalmente i carichi di lavoro e il tempo così guadagnato se lo sarebbero andati a spendere in taverna, a giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa o a cornificare, fra i cespugli, quella che avevano. Perché per quegli uomini il vero valore era il tempo, che noi abbiamo trasformato nel mostruoso 'tempo libero', un tempo non da vivere ma da consumare altrimenti le imprese vanno a rotoli. Anche l'artigiano lavora per quanto gli basta. Il resto è vita. Se leggiamo gli Statuti artigiani medioevali sbalordiamo: era proibita la concorrenza. Ognuno doveva avere il suo spazio vitale. Dice: ma allora cosa impediva all'artigiano di fornire prodotti scadenti? Gli Statuti che stabilivano minuziosamente gli standard e lo stesso artigiano cui l'orgoglio per proprio mestiere (che è un concetto diverso dal lavoro) gli imponeva di dare il meglio di sè, il capolavoro in senso tecnico. Quel mondo non era basato sulla competizione economica. Non che quella gente snobbasse la ricchezza. Come nota sarcasticamente Max Weber «la sete di lucro...si trova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts and conditions of men». La sconvolgente novità che porta il borghese è che il guadagno si fa attraverso il lavoro (robb de matt). È questa la folgore che cambierà tutti i rapporti economici, sociali, esistenziali e renderà centrale la figura ripugnante del mercante e dell'imprenditore perché è colui che dà lavoro. Sono patetiche le masse di uomini e di donne che oggi premono ai cancelli per poter diventare, o ridiventare, degli 'schiavi salariati'. La competizione chiude poi il cerchio. Per un imprenditore che vince magari usando la tecnologia al posto degli esseri umani ce n'è un altro che perde e deve liberarsi dei suoi dipendenti. A livello globale per un Paese che apparentemente si arricchisce ce n'è un altro che va in default. 'Apparentemente' perché la 'ricchezza delle Nazioni' di smithiana memoria non corrisponde affatto a quella delle loro popolazioni (la Nigeria è il Paese più ricco dell'Africa ma ha il più alto tasso di poveri).

La soluzione? Tutti, da Obama a Camerun, da Renzi a Camusso, la indicano nella crescita. Chiunque parli di crescita è un lestofante. Perché le crescite infinite, su cui è basato un modello di sviluppo ormai planetario, esistono in matematica ma non in natura. E noi abbiamo ormai superato abbondantemente il confine. Può crescere ancora qualche settore come l'informatica ma anche' essa troverà presto il suo limite (dopo aver ridotto l'iPod a 6 millimetri a tre a uno ed essersi inventati qualche ulteriore applicazione, che altro?). Adesso la parola magica è 'banda larga' che significa una maggiore velocizzazione delle comunicazioni, come se uno dei nostri problemi non fosse proprio la velocità cui stiamo andando, che permetterebbe, si dice, una maggior produttività. Ma produrre che cosa e soprattutto per chi, inducendo nuovi bisogni di cui l'uomo non aveva mai sentito il bisogno, caricando il pianeta, già al collasso, di un surplus di fardello?

Non si può più crescere, bisogna, sia pur gradualmente, decrescere. Una soluzione, per quanto circoscritta e limitata, io l'avrei. Si chiama Europa. Ma un'Europa molto diversa da quella attuale: unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica. Una formula dove la parola chiave è 'autarchica'.

Massimo Fini 

 
La Buona Scuola PDF Stampa E-mail

23 Novembre 2014

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Da Appelloalpopolo del 19-11-2014 (N.d.d.)

 

Pur riconoscendo il «rischio che le nuove funzioni legate all’autonomia abbiano distolto l’attenzione dalla relazione con lo studente» (p. 47), il Rapporto firmato da Renzi e Giannini, La buona scuola, lungi dal ricusarla o almeno ripensarla, proclama di volerla «realizzare pienamente» (p. 62). Così corrobora il sospetto che l’autonomia scolastica sia un errore tecnico intenzionale, una delle tante riforme che, ad onta dell’augurio contenuto nel nome, mirano soltanto ad «attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere …», per ricreare il mondo di cinquanta, cento anni fa, in cui «il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento» (sono le parole austere dell’europeista Padoa Schioppa in un articolo sul Corriere della Sera del 26 agosto 2003).

 

Di fatto la legge sull’autonomia scolastica dell’8 marzo 1999 non ha indicato finalità culturali o pedagogiche, ma si è limitata ad estendere il principio di sussidiarietà all’area dell’istruzione (cfr. p. 64 del Rapporto). Quantunque caldeggiato innanzitutto dalla sinistra, si tratta di un principio schiettamente liberale: polemico con lo stato, con il Leviatano feudale che opprime gli individui e perturba il mercato, esso esige che ne siano trasferite le funzioni agli enti periferici (ai corpi intermedi di Montesquieu) e sia ammansito in un ruolo appunto sussidiario. La storia europea mostra però che già da metà Ottocento gli stati sono passati dalla connivenza con la rendita feudale a quella con la proprietà capitalistica; poiché concepisce la libertà soprattutto come esercizio della proprietà privata entro il meccanismo di mercato, la polemica liberale non avrebbe più vere ragioni da almeno un secolo e mezzo, e si fatica a comprendere perché essa sia così viva ancora oggi. È la storia del secondo Novecento che viene in aiuto alla comprensione: per evitare le crisi devastanti di un’economia regolata soltanto dal mercato, lo stato si fa liberal-democratico e interviene nell’economia a fini anticiclici, con conseguenze redistributive del reddito. A questo punto si desta dal suo sopore la polemica liberale; poiché però lo stato esprime ormai non l’aristocrazia feudale, del tutto estinta, ma la volontà dei cittadini e ha il fine di garantirne anche i diritti sociali, di schiettamente liberale la risorta polemica ha soltanto l’apparenza: nella sua essenza essa è neoliberismo antidemocratico. In definitiva, non meno della cessione di sovranità statale a organismi sovrastatali, il principio di sussidiarietà funge soltanto da contenuto manifesto del sogno neoliberale, il cui pensiero onirico latente è la duplice pulsione a smantellare il welfare state e a spogliare il lavoro dei diritti acquisiti con le costituzioni democratiche, per creare la società della disuguaglianza selvaggia.

 

La scuola, in quanto istituzione propria dello stato democratico, è colpita alla radice dall’imposizione del principio di sussidiarietà. Rendendola autonoma, esso la atteggia ad azienda e vi dissemina esigenze mai avvertite, incomprensibili sul piano tecnico: 1) burocratizza e sindacalizza la didattica intrappolandola in un groviglio di rapporti di  diritto privato:  offerta formativa, contratto formativo, programmazione, debiti, crediti, griglie di valutazione; soffocandola col proliferare dei dipartimenti, dei consigli, delle commissioni, dei gruppi di lavoro, degli inutili coordinatori, delle vane funzioni-obiettivo e dei superflui piani e delle insulse relazioni finali; 2) suscita la competitività tra le scuole, così da indurle a incrementare la loro clientela carezzandone i desideri con un fantasioso ventaglio di attività divertenti e creative e con l’aspettativa di successo senza fatica; 3) dissolve la didattica severa, volta alle competenze («Vede,» – diceva ancora lo scorso 10 maggio l’ex-ministro Berlinguer, lo spensierato e impenitente ispiratore della legge dell’autonomia scolastica – «non possiamo più presentare ai giovani un trattato, un complesso di conoscenze strutturate, statiche, come spesso in molti fanno ancora oggi, perché a loro non piace. Bisogna cambiare linguaggio, cambiare metodo.»), e la sostituisce con la didattica flessibile e innovativa, versata nella progettualità estemporanea, ansiosa di sviluppare il tipo antropologico dell’ homo precarius.

La conseguenza dei cambiamenti, documentata dalle indagini degli organismi internazionali, è che a 15 anni dalla riforma gli studenti italiani non padroneggiano né la lingua italiana né le lingue straniere né la matematica né le scienze.

Proprio come Renzi affronta la catastrofe economica provocata dall’unione monetaria con la fede nell’unione monetaria, cioè lascia desertificare l’economia italiana per imporre la flessibilità totale al lavoro, allo stesso modo il suo Rapporto affronta la catastrofe didattica provocata dall’ autonomia con la fede nell’ autonomia: riconosce e insieme dimentica il contrasto tra competenza e competitività, chiede ai docenti una didattica efficace e insieme li sprofonda ancora di più nell’ aziendalismo improvvisatore e cosmetico, fino ad abbozzare un mostruoso ibrido tra l’ospizio e la palestra di flessibilità. Non poteva essere altrimenti: dovendo sbalordire il pubblico con le innumerevoli possibilità della Buona Scuola, i compilatori non erano in grado di prestare attenzione alle umili necessità della scuola, che sono la scienza, la severità e l’amore per i giovani. Così, tirando le orecchie ai docenti con indulgenza paternalistica (già il sottotitolo del documento suggerisce che la recessione sia da imputare alla loro inerzia, non all’euro) e senza sottilizzare sulle responsabilità delle riforme da Berlinguer in poi, dopo essersi diffuso in eroiche promesse di assunzioni, che certo offrono alle forze sindacali un alibi per l’ennesima ritirata, il Rapporto, in una retorica affine a quella dell’uomo nuovo, emana una processione di idee, ognuna delle quali è un incastro ingegnoso tra umiliazione degli insegnanti e sabotaggio della didattica: 1. l’ulteriore ampliamento dell’offerta formativa e la spinta ossessiva all’innovazione, contro il laborioso concentrarsi sulle competenze scientifiche; 2. l’orientamento dell’istruzione all’impresa, anziché alla cittadinanza, in base al dogma sublime che l’occupazione dipenda dalla scuola, non dalle scelte di politica economica; 3. il meccanismo di progressione di carriera che estende la competitività dagli istituti, nei quali ha già dato prove di sé non proprio brillanti, agli insegnanti e li riduce a sgomitare tra loro accattando ogni razza di crediti; 4. l’esasperazione della loro mobilità e della loro dipendenza da dirigenti scolastici sempre più estranei alla didattica; 5. una valutazione della scuola che, sospesa tra le competenze effettive raggiunte dagli studenti (menzionate solo a p. 66) e i balocchi dell’arricchimento e dell’innovazione dell’offerta formativa, rifluisce impotente in ulteriori rapporti e piani.

Il Rapporto Renzi-Giannini si incatena alla riforma dell’autonomia scolastica; dal suo apparire questa riforma invita gli insegnanti a fare tutto meno che insegnare; infatti non ha fini pedagogici: segue dal piano neoliberista di distruzione dello stato democratico; ma la scuola è un organo vitale della democrazia; il processo che vi realizza l’autonomia è la via crucis della sua degenerazione.

 

Paolo Di Remigio 

 
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