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Pestilenze PDF Stampa E-mail

9 Novembre 2014

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Da Rassegna di Arianna del 28-10-2014 (N.d.d.)

 

Se qualcuno mi chiedesse un parere “da storico”, circa il problema dell’Ebola e della “grande paura” che essa minaccia di provocare, come qualche anno fa della “Sars” (la polmonite atipica e il suo carattere epidemico), dovrei cominciare con il richiamare il fatto che i nostri media, alternando notizie a carattere minimalizzante e confortante ad allarmi quasi apocalittici, anche se non lo sanno ripercorrono una via di millenarie incertezze e contraddizioni.

In effetti, è proprio così che cominciano i “grandi flagelli annunziati”: sia quelli poi tradottisi in effettive generali calamità, sia quelli poi finiti in bolle di sapone. O, quanto meno, che sono cominciati finora quelli storicamente attestati: dalla grande peste di Atene del 429 a.C., descritta da Tucidide, fino alla peste di Roma del 66 d.C. di cui ci ha parlato Tacito, alla “peste di Giustiniano” del 542 sulla quale c’informa Procopio da Cesarea, a quella del 1347-50 da cui parte il Boccaccio per avviare il suo Decameron fino a quella del 1630, nota a tutti quelli che hanno fatto le scuole medie, almeno fino a qualche anno fa, perché ne tratta diffusamente il Manzoni in un saggio storico, La colonna infame, oltre che – naturalmente – ne I promessi sposi.

Se non altro, bisogna dire che alle pestilenze – in genere accompagnate, “a spirale”, da un tipico fenomeno di “strozzatura maltusiana”, le carestie – sono se non altro toccati sempre in sorta grandi scrittori che ne hanno parlato. O sarà vero il contrario: che le circostanze tragiche, le grandi tragedie, suscitano e affinano gli ingegni?

 

Noi diciamo “peste”, “pestilenza”: ma sono termini vaghi, imprecisi. Tra le peste polmonare, quella setticemica e e quella ghiandolare (“bubbonica”), per esempio, c’è una bella differenza. Si tratta di affezioni del tutto diverse. I nostri padri definivano spesso “peste” altre cose: come le epidemie di tifo esantematico, con il quale il pur temibile bacillo della pasteurella pestis,scoperto da J. E. Yersin nel 1894, non ha nulla a che vedere. Casi di peste si verificarono ancora in Italia meridionale nel 1945; attualmente essa è ancora endemica in Asia centrale. Ma altre epidemie hanno colpito il genere umano con terribile violenza: si pensi al colera, la cui ultima vera e propria pandemia – cioè epidemia che ha interessato un’area molto vasta del globo – si è avuta tra 1961 e 1970. Oppure si pensi alla cosiddetta “spagnola”, in fondo una volgarissima epidemia influenzale, ma che tra 1918 e 1920 flagellò tutto il mondo: con 300.000-400.000 vittime solo in Italia.

Eziologia e tipologia della diffusione sono sempre le stesse: e, mi duole dirlo, nelle descrizioni del passato somigliano dannatamente a quel che a quanto pare sta succedendo ai giorni nostri. Il Manzoni lo descrive benissimo: prima l’epidemia viene nascosta e negata, le autorità rassicurano che tutto è sotto controllo, la gente ci scherza su; poi, repentinamente, ci si rende conto ch’è un vero flagello, che le vittime sono troppe, che non si sa come arrestarlo, si cerca invano di chiudere i confini e d’impedire la circolazione di uomini e di merci. E allora nascono infinite forme di psicosi: ogni “peste” ha avuto anche i suoi “untori”: nel caso di oggi, si è già cominciato a parlare di al-Quaida, di Saddam e del terrorismo; ma non manca chi parla di un virus “nato in provetta” e si chiede come mai si sia sviluppato proprio in Cina, oggi forse l’unica potenza al mondo in grado di tener testa agli USA. Il “picco” dei contagi si tocca in genere qualche mese dopo che ci si è arresi all’evidenza, quindi la malattia perde forza da sola, mentre la s’impara a combattere e si diffondono cure e forme di autoimmunizzazione. Caratteristica è anche la fiducia in rimedi inefficienti. Le fumigazioni profumate delle pestilenze tre-seicentesche, fondate sul principio che l’epidemia si diffondesse “a causa della corruzione dell’aria”, erano tanto inefficaci quanto le mascherine dei cinesi di oggi, che arrestano le micropolveri ma sono inefficienti contro i virus.

 

L’epidemia più celebre e più terribile che la storia europea ricordi è quella della “Peste nera” del 1347-50. Essa giunse nella fase culminante di un processo di espansione che aveva portato uomini e navi dai porti dell’Europa cristiana a quelli del Mediterraneo orientale. Su quelle navi viaggiarono anche i topi e su di essi le pulci: i due animali portatori della peste. Nel 1346 l’epidemia aveva colpito Tabriz e Astrakan; nel 1347 i mongoli del khanato dell’Orda d’Oro (Russia meridionale) all’attacco di una base commerciale genovese sul Mar Nero gettarono corpi di appestati oltre le mura, inventando senza saperlo la guerra batteriologica. Alla fine di quello stesso anno 1347, la peste aveva raggiunto Messina e poi Marsiglia e Genova; un anno dopo, stava devastando le città interne del mondo mediterraneo e aveva già raggiunto i porti atlantici francesi, inglesi, danesi. Attraverso i documenti specie commerciali e notarili si può seguire drammaticamente il “film” della peste che risale la penisola italica, espandendosi dal sud verso nord e dalle coste verso le città dell’interno.

La strage fu di dimensioni paurose: si calcola che la popolazione dell’Europa occidentale fosse allora di circa 80 milioni. Ebbene, l’epidemia di peste ne uccise ben 25 milioni circa tra il 1347 e il 1351. Sono stime incerte, si badi bene: comunque, si parla di una falcidie che in certe zone colpì tra il 40 e il 60% degli abitanti.

La guerra favorì l’arrivo delle peste: la guerra e la fame ne resero gli effetti ancor più devastanti e ne radicarono per molto tempo la presenza nell’Europa occidentale. Si è discusso molto se le carestie che colpirono quest’area furono una causa della peste o piuttosto una sua conseguenza: si è fatto notare che l’aumento della popolazione e l’espansione eccezionale delle città avevano già incontrato nei decenni precedenti un limite naturale nella produzione cerealicola delle campagne; le masse umane falciate dalla peste furono, insomma, masse di gente affamata o sottoalimentata, con scarse difese organiche da opporre all’aggressione. D’altra parte è anche vero che la peste spopolò le campagne - sia per le vittime che mieteva, sia perché la popolazione tendeva a raccogliersi intorno ai centri urbani, veri e propri granai dove un sistema vincolistico raccoglieva e conservava le derrate, sia infine per l’insicurezza diffusa nel mondo extraurbano da guerre, banditismo e allentato controllo sociale. Le terre coltivate diminuirono, le carestie si fecero più violente, legandosi in un terrificante circolo vizioso ai ritorni di fiamma dell’epidemia.

Chi ha tentato una stima complessiva per l’insieme della popolazione europea è stato più prudente nel valutare il crollo demografico: si è parlato di 73 milioni di abitanti nel 1300, e 45 nel 1400; oppure, escludendo dal computo l’Europa orientale, rispettivamente di 54 e 35 milioni. Ma si tratta, ripetiamolo, di cifre puramente ipotetiche. Resta il fatto, indiscutibile, di un declino diverso da regione a regione, ma complessivamente rilevante, e tale da influire in modo decisivo, come ora vedremo, sulla congiuntura economica e sui livelli di vita della popolazione.

L’Italia era a quel tempo l’area più urbanizzata d’Europa, con oltre 150 città di 5000 o più abitanti ( nel Nord Europa si usano considerare città centri di appena 2000 abitanti), di cui 72 sopra i 10000 abitanti, 11 sopra i 40000, e le 5-6 città più grandi d’Europa, fatta eccezione per Parigi. Di queste, decine e decine persero la metà degli abitanti, alcune i due terzi. Non ci fu un calo demografico repentino, la popolazione di molte città subì piuttosto una discesa graduale, “a scalini”, raggiungendo il punto più basso solo nei primi decenni del Quattrocento, come nel caso di Firenze, che a quella data aveva perso i due terzi della sua popolazione pre-peste (da 100-120000 a 37000). La peste, infatti, fece più volte la sua comparsa dopo il 1348: si può dire che restasse endemica nel macrocontinente eurasiatico del tempo tra i due grandi episodi pandemici del 1347 e del 1630, facendo la ricomparsa in forma acuta molte volte tra XIV e XVII secolo.

È ancora presto per valutare sul serio il fenomeno attuale. Certo, le condizioni di oggi – in particolare i voli aerei – inducono un’epidemia a diffondersi con molta maggior rapidità di quanto prima non accadesse.In cambio, i sistemi di controllo e quelli diagnostici e terapeutici sono senza dubbio molto più efficaci. La peste del Boccaccio ebbe bisogno di tre-quattro anni per fare il giro. Partendo dal Mar Nero, per tutta l’asia e per l’intero Mediterraneo, dalla Cina al Maghreb. La “spagnola” ci mise due anni a fare il giro completo del mondo. Nel caso attuale, sarà forse faccenda di qualche mese: qualcuno parla di un “picco” già raggiunto, ma forse si tratta di voci un po’ troppo ottimistiche. Rapidità del contagio e mutabilità del DNA del virus appaiono gli elementi negativi specifici: il virus sta circolando nell’autunno inoltrato, e in questi casi dovrebbe arrestarsi o sospendersi. Gli elementi positivi sono naturalmente legati al progresso nelle scienze mediche e alle prospettive di business, tali da impegnare al massimo le industrie farmaceutiche. Senza dubbio è la globalizzazione che rende più temibile Ebola, perché velocizza il contagio: ma, data la rapidità con cui si diffondono le notizie e gli scambi tecnici relativi a diagnosi e terapie, è anche grazie alla globalizzazione se siamo in grado di difenderci meglio.

Ma attenzione: le epidemie hanno sempre un risvolto politico. Nel 1347-50 si disse che erano stati gli ebrei, d’accordo con i “mori” di Spagna, ad avvelenare i pozzi. Per l’epidemia del 1630, francesi e spagnoli – i grandi contendenti del tempo: si era in piena “guerra dei Trent’Anni – continuarono a lungo a scambiarsi accuse. Fra esse, ce n’era una caratteristica: il nemico aveva sparso il contagio, avvalendosi dei turchi infedeli. Un legame molto stretto collega il periodo della pandemia pestosa 1347-1630 con la caccia alle streghe. Ogni tempo ha l’Usama bin Laden o il califfo al-Baghdadi che si merita.


Franco Cardini 

 
Ingerenze clericali PDF Stampa E-mail

7 Novembre 2014

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Papa Bergoglio ha stufato. La deve smettere di intromettersi negli affari interni dello Stato italiano. La settimana scorsa, ad un convegno, ha dichiarato: «La carcerazione preventiva quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso, costituisce un'altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità». Ora, per quanto si voglia dilatare il magistero della Chiesa, non solo religioso ma anche sociale, non può comprendere l'organizzazione giudiziaria di uno Stato. Sarebbe come se un ministro della Repubblica mettesse in discussione il dogma della verginità della Madonna. Non sono affari suoi. «Libera Chiesa in libero Stato» ha detto il conte Camillo Benso di Cavour che l'Italia l'ha fondata, al contrario dei politici attuali che la stanno sfondando. Il che vuol dire che la sfera statuale e quella religiosa devono rimanere ben separate e distinte. È invece da almeno trent'anni, dall'avvento di Wojtyla, che Papi, cardinali, vescovi e altre sottane hanno il malvezzo di entrare a piedi uniti nelle questioni del nostro Stato. Wojtyla arrivò a lanciare anatemi contro la Lega per le sue pulsioni indipendentiste (da che pulpito vien la predica: la Chiesa ha sempre cercato di impedire in tutti i modi, finché ha potuto, l'unità del nostro Paese) come se un popolo fosse più morale e spirituale se unito invece che trino.

Finché c'è stata la cara, vecchia e mai troppo rimpianta Democrazia Cristiana, quella vera, d'antan, queste intrusioni non erano permesse, almeno su questioni così prettamente statuali (aborto e divorzio sono fatti di coscienza e quindi anche religiosi). Perché i democristiani, anche quando cattolici convinti, avevano la consapevolezza di essere classe dirigente di uno Stato laico e non teocratico.

I politici di oggi invece fanno a gara per baciare le babucce papali, cardinalizie e vescovili convinti di procacciarsi con ciò il voto dei cattolici. Oltre a contravvenire al dettame di Cavour si sbagliano. A parte qualche nicchia in Italia non esistono più cattolici, è sparito, come in tutto l'Occidente, il senso del sacro e la sua assenza si avverte in particolare proprio a Roma, dove il Papa risiede, la città più pagana che io conosca (e questo vorrà pur dir qualcosa). Il cattolicesimo è stato sostituito da forme di superstizione quasi medioevali.

Ma Papa Bergoglio piace. O, per essere più precisi, è un 'piacione'. Io lo definisco «il Renzi della Chiesa». È destino che i Papi, siano polacchi o argentini, quando arrivano in Italia cadano preda di forme di narcisismo e di protagonismo dove l'apparire è più importante dell'essere. Wojtyla si spinse fino a telefonare a 'Porta a Porta' di Bruno Vespa, arrivando a un passo dal distruggere quel che resta di Santa Madre Chiesa (durante il quarto di secolo del suo Magistero Superstar le vocazioni sono crollate, i monasteri desertificati, i conventi pure e anche le vecchie, care suorine, che io rispetto profondamente perché nel momento del bisogno loro ci sono, forse l'ultimo baluardo di un credo in gravissima crisi, hanno perso colpi). Papa Bergoglio mi pare avviato sulla buona strada. Forse, fra non molto, lo vedremo condurre un talk insieme a Renzi e a Barbara D'Urso. Che male ci sarebbe? Siamo o no moderni?

Massimo Fini 

 
L'anima dei popoli PDF Stampa E-mail

5 Novembre 2014

 

 

Da Rassegna di Arianna del 28-10-2014 (N.d.d.)

Oggi è possibile parlare di un'anima dei luoghi, delle case, perfino delle cose, ma è arduo evocare lo spirito dei popoli. Eppure una millenaria tradizione culturale e civile, politica e religiosa, che ha sorretto civiltà, comunità e dato vita a nazioni e nazionalismi, ha creduto all'esistenza di un'anima dei popoli. L'ultimo studioso che vi si dedicò fu Gustave Le Bon, medico e antropologo francese, fisico, archeologo e soprattutto fondatore della psicologia delle masse, vissuto a cavallo tra l'ottocento e il novecento. Meno noto è che Le Bon fu lo scopritore di una radiazione chiamata luce nera e fu l'inventore del cefalometro, uno strumento che serviva a misurare il cranio e a dedurre differenze tra gli uomini. Era il tempo in cui il positivismo usava la scienza per le classificazioni antropologiche e credeva di poter misurare, pesare le facoltà mentali e spirituali; fisiologia e psicologia si intrecciavano. Le Bon influenzò Hitler e Mussolini, ma anche Theodore Roosevelt, Lenin e Stalin. Di Le Bon sono famosi i saggi dedicati alla psicologia delle folle, in particolare latine, che subiscono il contagio degli umori collettivi, sono d'indole femminile e cercano un conquistatore, un Cesare, che le seduca e le governi. «Non so quante volte ho riletto La psicologia delle folle», scrisse Mussolini, definendola «un'opera capitale». L'opera in cui Le Bon teorizza l'esistenza di un'anima dei popoli è L'evoluzione dei popoli che uscì nel 1894, l'anno precedente alla sua opera capitale, e fu poi tradotta in Italia nel 1927, l'anno dopo i lusinghieri giudizi espressi da Mussolini. Per Le Bon «ogni popolo possiede una costituzione mentale altrettanto fissa quanto i suoi caratteri anatomici». Fissità che poi egli stesso smonta quando invece si sofferma sulle modificazioni e gli influssi che agiscono nel tempo. I popoli hanno antenati comuni, sono fatti «della stessa argilla, recano la stessa impronta»; anzi, «un popolo è guidato più dai suoi morti che dai suoi vivi». L'anima del popolo è formata da una rete di tradizioni, idee, sentimenti, modi di pensare comuni. Per Le Bon ci sono due sovrani più dispotici di un tiranno: sono la tradizione e l'opinione. Le manifestazioni esteriori dell'anima dei popoli sono la lingua, le istituzioni, le credenze, le arti e la letteratura. La storia dei popoli è la conseguenza del loro carattere. Le idee rappresentano le molle invisibili che guidano il mondo. Il discorso assume poi una piega biologico-positivista inquietante quando passa a classificare le razze; ma non dobbiamo giudicare la sua teoria col tragico senno di poi; non va dimenticato che alla fine dell'ottocento era comune nella cultura scientifica, oltre che ideologica e pure nel sentire comune, parlare di razze. Il passaggio dall'anima dei popoli alle razze segna la traduzione biologica e naturalistica di una visione culturale e spirituale. Dalla diversità delle razze si passa così alla distinzione tra razze superiori e razze inferiori e si gettano le basi per il dominio sulle razze inferiori o l'eliminazione delle razze ritenute degeneri.

Secondo Le Bon la vitalità di un popolo è in contrasto con la sua evoluzione. Quando l'intelligenza si fa più raffinata decadono il carattere e l'energia di un popolo. «Solo i fanatici, d'intelligenza ristretta, ma di carattere energico e di forti passioni, possono fondare religioni, imperi e sollevare il mondo». Resta fondamentale l'eredità, ma con i progressi della civiltà sia gli individui che le razze tendono a differenziarsi progressivamente. La specializzazione nel lavoro su cui si fonda la modernità, anziché accrescere l'intelligenza la riduce, fino ad atrofizzarla. Nel cuore dello sviluppo industriale Le Bon scorgeva dunque una forma di involuzione. Le Bon descrive con vent'anni d'anticipo su Spengler il tramonto della civiltà occidentale. L'individualismo, a suo dire, è un fattore di decadenza, «l'individuo finisce di non avere altra preoccupazione che se stesso». Le coscienze capitolano, la moralità generale s'abbassa e si spegne, l'uomo perde ogni dominio su se stesso, è in balia delle cose. La perdita del carattere è contrassegnata da una crescita di egoismo, così come il declino dello spirito pubblico produce l'egemonia del privato. Ma questa diagnosi di Le Bon va di pari passo col rifiuto radicale del socialismo e del pregiudizio egualitario. «Il socialismo sarà un regime troppo duro per poter durare», sarà una delle ultime tappe della decadenza che manderà in rovina i Paesi che lo abbracceranno.

La conclusione è che la vita di un popolo e di una civiltà sono il riflesso della sua anima, i segni visibili di una cosa invisibile. La coscienza di avere un'anima collettiva segna il fiorire di una civiltà e la dissociazione indica invece la sua decadenza: «Appena scompare l'anima nazionale i popoli si disgregano».

Oggi può valere ancora la lettura di Le Bon? A prima vista il cosmopolitismo e l'individualismo, la tecnica e il mercato, hanno reso del tutto antiquata, obsoleta, la sua teoria. Però quando osserviamo le inquietudini e le insofferenze dei nostri anni, l'esigenza di ritrovare radici comuni e consonanze di fondo, il sorgere di movimenti popolari che si richiamano alle identità dei popoli e dunque alla loro anima, quando vediamo persino i leader meno legati al passato appellarsi, per dare consenso e coesione, al Partito della Nazione o alla tutela degli italiani rispetto ai flussi migratori clandestini, allora s'insinua il sospetto che occorre rifare i conti con l'anima dei popoli. C'è un nesso tra il perdersi d'animo della società depressa e la perdita dell'anima di un popolo. Esiste davvero la personalità delle nazioni, c'è un'impronta comune, un carattere e uno spirito pubblico che fa sentire una società come una comunità di destino. L'anima dei popoli è forse un'espressione troppo aulica, enfatica, per giunta sporcata dalla sua caricatura biologica, la razza. Ma se le civiltà hanno un'energia spirituale e una volontà di vivere e durare, una molla che le muove e le unisce, quel fuoco interiore è «l'anima dei popoli». Una fiaccola per attraversare la notte del nichilismo senza ricadere nell'oscurità del razzismo. Senz'anima un popolo regredisce a massa, così come senz'anima la persona è solo un individuo e una famiglia è solo un agglomerato. L'anima di un popolo è la sua vitalità.


Marcello Veneziani 

 
Di male in peggio PDF Stampa E-mail

4 Novembre 2014

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«Pagherete caro, pagherete tutto» ero il motto dei sessantottini. Da molti anni io l'ho riformulato così: «Rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto». Visto Renzi, temo che toccherà anche a noi, che gli siamo ostili da sempre, rimpiangere Silvio Berlusconi. Per una patologica ipertrofia dell'io Renzi e Berlusconi sono alla pari, ma quanto a spocchia, arroganza, villania, volgarità e persino «una ridicola autocrazia mascherata da riformismo parolaio», come scrive Piero Ostellino sul Corriere (29/10), il primo batte il secondo e di parecchie lunghezze.

Questo signore che non è stato eletto da nessuno, che non ha avuto il consenso di nessuno (perché le elezioni europee poco o nulla hanno a che fare con quelle italiane), che dice, tronfio di sè, di rappresentare il 40% della popolazione mentre, se va bene, ne rappresenta solo un quinto, perché solo la metà dei cittadini è andata a votare, ci informa che governerà fino al 2023, altri nove anni, e solo dopo, bontà sua, si farà da parte. Credo che nemmeno Berlusconi sia arrivato a tanto.

Provvedimenti importanti del governo li annuncia via twitter o nei talk show, in cui è onnipresente aggirandovisi come una trottola impazzita, e il cittadino è frastornato perché non capisce se si tratta già di leggi dello Stato o di semplici boatos propagandistici destinati ad approdare nel nulla, come finora è quasi sempre avvenuto. E se invece qualcuno di questi provvedimenti diventa effettivamente una legge si scopre che manca la copertura economica, e tutto viene rinviato a degli imprecisati decreti attuativi, o si rivelano una solenne presa in giro. Come per le tasse. Anche se su questo terreno Berlusconi ha la coscienza assai sporca, ha buon gioco nel dire che «Renzi quel che dà con una mano lo toglie con l'altra».

Parla di sè in terza persona, come il Re Sole. Tende ad abolire ogni dibattito interno nel suo partito. È un'esperienza già fatta da Craxi e abbiamo visto com'è andata a finire. Si sente 'novo', 'novissimo' ma in realtà è entrato nel partito che oggi vuole distruggere, identificandolo con la sua persona, all'età di 22 anni, godendo del privilegio, come quasi tutti i politici, di non aver fatto una sola ora di lavoro vero (almeno Berlusconi ha lavorato per più della metà della sua vita ed è diventato, sia pure con metodi che per carità di patria chiameremo solo 'disinvolti', un grande imprenditore).

Ha affermato che «i piccoli partiti sono stati la sciagura dell'Italia». Per la verità una sciagura molto più grave è stata proprio il suo partito, non intendo il Pci che era una cosa seria ma quel Pds in cui milita da diciassette anni. In realtà approfittando di un vuoto politico, del collasso di una destra che non è mai riuscita ad esser tale, vuole arrivare a 'un partito unico nazionale' di cui sarà ovviamente il Capo. Beh, se è per questo andiamo a Predappio e riesumiamo la salma di Benito Mussolini. Almeno il Duce aveva in testa un'idea di Stato e di Nazione, costui in testa ha solo se stesso.

Dicono che ha un linguaggio giovanilistico. Non è giovanilistico, è solo volgare. «Burraco tua sorella» è un'espressione che ho sentito, l'ultima volta, trent'anni fa, in bocca a un ragazzotto di un paesino romagnolo.

Dicono sia un bel ragazzo. I gusti son gusti. Ma se si entra in questo terreno lombrosiano sia consentito anche a noi di fare qualche osservazione. Guardategli gli occhi: sono ambigui, sfuggenti, infidi, come ambigua, sfuggente, infida è la sua persona. Del resto ha detto al suo compagno «stai sereno» e due giorni dopo gli ha soffiato il posto. Se si fosse comportato così in un bar non avrebbe più potuto metterci piede. E invece è presidente del Consiglio della Repubblica italiana.

Massimo Fini 

 
Salvini e la Russia PDF Stampa E-mail

2 Novembre 2014

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Da Rassegna di Arianna del 28-10-2014 (N.d.d.)

Partiamo dalla svolta eurasiatica e filorussa del Carroccio. In realtà questa tendenza è presente tra le fila leghista almeno da quindici anni. Nel 2000 fa capolino dalle parti di Bossi, il serbo Dragos Kalajic teorico dell'Eurasia e sodale dell'attuale consigliere del Cremlino Aleksandr Dugin. La recente infatuazione per la Russia, secondo taluni, in realtà ha radici profonde. Ben prima di Putin e ben prima di Salvini. Al più bisognerebbe riconoscere all'attuale segretario leghista di aver reso questo interesse parte integrante della politica estera del Carroccio e, al suo interno, un tema da rafforzare grazie alla creazione dell'associazione Lombardia-Russia.

 

Secondo punto è la presunta svolta nazionalista. In realtà Salvini ripone provvisoriamente nel cassetto il mito della Padania indipendente solo perché rispetto ai suoi due predecessori - Bossi e Maroni - non è colpito da miopia politica. Lui sa bene che la partita si gioca ben oltre i confini nazionali ed europei. La Ue è parsa per molti versi non un rimedio alla globalizzazione, un baluardo contro una deregolamentazione generalizzata su scala planetaria, bensì come una tappa di quella stessa globalizzazione. Il nemico, diceva Bossi a fine anni '80, è un’ Europa che rappresenta l'abbozzo di una Repubblica universale o di uno Stato mondiale gestita dalla finanza virtuale e dal sistema bancario internazionale. Ma non per questo Salvini è per ripristinare lo Stato-Nazione. Non è dunque tanto la nazione che bisogna cercare di ritrovare a livello europeo, ma secondo il segretario federale del Carroccio è la politica che bisogna reintrodurvi. Il rifiuto di Salvini, come per la stragrande maggioranza degli euroscettici, è verso il modello "atlantico", quello di una zona di libero scambio, senza altri scopi al di fuori di quello economico, decorato per sembrare democratico, dell'apparenza di una concertazione governativa. In questa cornice i leghisti sono consapevoli che gli Stati nazionali sono troppo grandi per rispondere alle aspettative quotidiane della gente e troppo piccoli per far fronte alle problematiche che si sviluppano oramai su scala planetaria. Figuriamoci, in questo contesto storico, la creazione ex novo di una nuova entità quale potrebbe essere la Padania. Valutazione per la quale la Lega oggi propone un'alleanza degli italiani partendo dalle loro regioni e dalle comunità locali. Non un'apologia dello Stato giacobino o del tricolore del Ventennio ma un'azione di base che privilegi il localismo e la vita comunitaria. La Padania fa parte di uno schema futuro per una nuova Europa in cui, secondo il Carroccio, le macroregioni prenderanno maggior peso in una prospettiva federalista e sussidiaria.

 

Il terzo punto è rappresentato dall'accusa di fascismo. Ora che alcune idee diffuse dal Carroccio siano evidentemente condivisibili da ampi strati di quello che si potrebbe tranquillamente chiamare "ambiente neofascista" è un dato di fatto. L'antieconomicismo, il rifiuto dell'immigrazione, il protezionismo e l'autarchia energetica, una visione geopolitica che guardi ad est e non più a Washington. Premesso che i cosiddetti neofascisti andrebbero suddivisi in categorie, per poi scoprire che di fascismo ce ne è poco o nulla, si però deve ragionare in termini di attualizzazione del pensiero politico. Salvini apre ai lettori di Alain De Benoist, teorico dell'Europa federale e del comunitarismo, e non di certo agli apologeti di Giovanni Gentile o di Giovanni Preziosi. Tutti ammassati, secondo una certa pubblicistica, nel novero dei neofascisti ma ben distanti gli uni dagli altri. Merito di Salvini aver aggregato, attraverso obiettivi e strategie, vari soggetti apparentemente distanti dal Carroccio, senza paraocchi e pregiudizi. Né di destra né di sinistra o per dirla tutta sia di sinistra e sia di destra.


Marzio Brusini 

 
Rapporto SVIMEZ PDF Stampa E-mail

1 Novembre 2014

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SVIMEZ è una associazione senza scopo di lucro, fondata nel 1947, che promuove studi e iniziative sullo sviluppo del Mezzogiorno d' Italia e annualmente pubblica un dettagliato rapporto sulla situazione socio-economica del Meridione.

L' ultimo rapporto, relativo al 2013, ha visto la luce in questi giorni e si presume che la situazione rispetto ad un anno fa non sia migliorata, anzi il contrario.

La fotografia che emerge del Sud è impietosa: si parla di desertificazione industriale, desertificazione umana , 600 mila posti di lavoro persi in un quinquennio, aumento del 40% delle famiglie povere, 116 mila emigrati in altre Regioni italiane o all'estero, 54% dei posti persi a livello nazionale, 60% delle imprese in difficoltà, minimo storico delle nascite (177.000 nati) dal 1918 (ma allora c' era un affare chiamato "Prima Guerra Mondiale") e prospettive di perdere oltre 4 milioni di abitanti nei prossimi 30-35 anni.

Difficilmente sono stati emessi bollettini più devastanti.

Balza all' occhio soprattutto il dato negativo delle nascite: anche negli anni peggiori, il Mezzogiorno aveva la voglia di mettere al mondo figli e il fenomeno delle culle vuote riguardava Regioni come, ad esempio, il Trentino-Alto Adige, non Sicilia o Campania.

Ora, della desertificazione industriale non dovremmo per nulla preoccuparci, in quanto tutte le industrie impiantate al Meridione sono delle cattedrali nel deserto: carrozzoni elettorali targati Prima Repubblica, per ottenere voti e feudi di partito, impianti mastodontici l' uno scollegato dall' altro, come macchie sulla pelle di un leopardo.

Industrializzare una area geografica che potrebbe benissimo vivere di terziario avanzato, agricoltura avanzata, turismo di élite, enogastronomia, artigianato di alto livello, il tutto magari collegato in una rete di piccole-medie imprese o cooperative, è stata una delle demenzialità degli anni dello "sviluppo".

Dobbiamo perdere il sonno sulla desertificazione umana, quella sì irreversibile.

Nemmeno negli anni più cupi il Meridione ha rinunciato a far figli.

Nella Napoli del secondo dopoguerra c' erano allegre orde di scugnizzi e la povertà picchiava peggio di oggi, in Puglia, Calabria, Sicilia nonostante i flussi migratori la popolazione rimanente riusciva benissimo a tenere in piedi la piramide demografica.

In 153 anni di Italia unita il Meridione ha sempre avuto un "gap" nei confronti del Settentrione (non è questa la sede per analizzarne le cause) eppure anche nelle avversità la società era vitale e metteva al mondo figli; oggi non più.

Ad un dimezzamento dell’ ITALSIDER  si può sopravvivere, a quello dei reparti di Ostetricia no.

Questi dati dovrebbero far riflettere anche il Settentrione, che si sta lentamente meridionalizzando.

Il rapporto SVIMEZ  dimostra come in epoca postmoderna anche la povertà sia diversa da quella che si respirava nelle età premoderne e preindustriali.

In quelle antiche società il povero vivacchiava e riusciva anche a fare figli; nella nostra, invece, non solo i figli diventano mangiasoldi ancora prima di nascere e costosissimi durante la crescita ma addirittura è proibitivo metterli al mondo se non si hanno lauti conti in banca.

E ricordiamoci che chi rinuncia a far figli significa pure che ha perso la speranza nel futuro e in un domani migliore.

E perdere la speranza è come perdere la vita, è come trascinarsi nei grigi meandri di una lenta sopravvivenza.

Mai, nella storia delle umane genti, è capitato che una società demotivasse alla fondazione di nuove famiglie, alla nascita di nuovi figli: neppure nei momenti più atroci della Storia le culle sono rimaste vuote, nel sempiterno gioco della vita e della morte e della staffetta di passaggio delle generazioni.

Sbaglia chi pensa che il rapporto SVIMEZ riguardi solo la gente da Roma in giù.

Questo rapporto riguarda tutti noi, che dobbiamo tenere la fiaccola alta e diffondere la consapevolezza che una epoca è finita e si può, si deve, già a livello individuale, voltare pagina e avere un diverso approccio alla visione e ai valori della vita, rifiutando le sirene mortali di un "way of life" d' un Occidente in preda ad un cupio dissolvi.

Oggi questo succede in Meridione, domani succederà in tutta Italia, postdomani in mezza Europa...

Simone Torresani

 

  

 
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