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Meteo mercificato PDF Stampa E-mail

13 Ottobre 2014

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 L' ultimissima tragedia alluvionale di Genova ha fatto esplodere, come da copione, una dura polemica in Rete tra gli esperti meteo delle varie agenzie ufficiali (ARPA, Regioni, Aeronautica, etc) e i loro colleghi dei siti meteo privati, che spopolano nel cyberspazio.

Primi e secondi si arrogano il diritto di lanciare le allerte meteo, che in teoria spetterebbero ai primi, e puntano il dito su chi dovrebbe far eseguire tali allerte alla macchina della Protezione Civile.

La verità è che oggi, nell' era della "reificazione ", sintomo del "capitalismo assoluto", anche una scienza fondamentale come il meteo è ormai mercificata a fini di lucro e fatalmente è scaduta di contenuti, di forme e di credibilità.

Tra introiti pubblicitari, applicazioni per smartphone e vendite di bollettini meteo, i siti specializzati hanno un giro di affari milionario: basti andare su un sito a casaccio e vedere tutti i banner pubblicitari per rendersene conto.

Per alimentare il mercato, si deve ovviamente incentivare il consumatore del tempo atmosferico a cliccare sul sito: da qui le iperboli, le esagerazioni, le previsioni a venti giorni di distanza che vengono sempre stravolte ogni ora, ogni cosa fa brodo per attirare utenze e incrementare gli introiti pubblicitari.

Anche dividere, nei commenti degli articoli meteo, i visitatori in "caldofili vs freddofili", con tanto di attacchi, insulti gratuiti, tifo da stadio tra le due opposte fazioni: solo questo fa capire che la scienza degli elementi è ormai ad uno stadio terminale, ridotta a Circo Barnum, a meteorine, ad annunci di Armageddon in ogni istante.

Oltre a queste tare, la scienza meteo moderna si basa su un pensiero meccanicista, cartesiano, che nulla ha a che fare con il tempo atmosferico, il quale è entropico, è il Caos più assoluto e raramente si inquadra nelle gabbie mentali schematiche umane.

Anticicloni, basse pressioni, linee di convergenza tropicali, monsoni, temperature delle acque di superficie oceaniche, sono le conseguenze di determinate leggi scientifiche, è vero, ma nessuna legge naturale permette che debbano muoversi in un determinato modo sulla scacchiera globale,come se fossero ingranaggi di un motore prodotto dall' uomo.

Questo pensiero cartesiano, che riduce l' atmosfera ad una "macchina", ha fatto sì che gli "esperti" ora si basino eccessivamente sui "modelli matematici", costruiti da complicatissimi algoritmi elaborati al computer per prevedere il tempo: tutto viene triturato a indici, a sigle, ad una mole di dati, di elaborazioni, di congetture.

E il paradosso è che tali modelli, che contengono a loro volta un pizzico di Teoria del Caos, non fanno altro che sfornare emissioni a medio-lungo termine che dicono tutto ed il contrario di tutto.

Dove è finito il senso della misura, il senso della osservazione quotidiana, il vecchio fiuto dell' esperto meteo come un Bernacca od un Baroni?

A questo punto il vecchio contadino o marinaio che fiuta il tempo o lo stregone tribale che recita la "danza della pioggia " hanno, da un punto di vista scientifico, la stessa validità dei soloni meteo moderni.

Abbiamo sputtanato e ridotto a merce anche una scienza fondamentale come il meteo, essenziale per un organismo come quello umano che vive nella biosfera e dipende dagli elementi, dalla pioggia, dal sole, dal giudizio delle stagioni.

Ormai la meteorologia non è più credibile e non saremo noi di certo a condannare un sindaco perplesso o meno su una allerta.

Ridotti così dobbiamo solo fare una cosa: riprenderci il nostro caro istinto, che mai falla e sapere da noi stessi quando si deve stare sul chi va là.

Simone Torresani

 
La potenza del nemico PDF Stampa E-mail

12 Ottobre 2014

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Da Appelloalpopolo del 6-10-2014 (N.d.d.)

Continuo le riflessioni sul “perché la gente non si ribella”. Tempo fa leggevo, dal sito del “Corriere”, un articolo sull’Università, il cui contenuto non ricordo e adesso non è importante. Mi colpì un commento. Si trattava di un precario universitario che lamentava, del tutto giustamente, la propria condizione. Ciò che era interessante era la sua proposta per risolvere i problemi dell’Università e, se non ho capito male, anche quelli dei precari come lui: ovvero, rendere precari una metà degli attuali docenti e ricercatori non precari. Non è importante adesso recuperare quel commento e discutere su cosa intendesse veramente l’autore. La cosa davvero interessante è che esso è un piccolo segnale che permette di capire qualcosa sullo “spirito del tempo”. È chiaro infatti che nessuno, se subisce un’ingiustizia, chiederebbe che essa fosse subita anche da altri. Chi viene derubato in autobus se la prende con la sorte, con la mancanza di sicurezza, magari con gli immigrati, ma difficilmente dichiara che anche gli altri dovrebbero venire derubati. Una donna che subisce violenza chiede che il responsabile sia punito e che le altre donne siano più protette, non che subiscano la stessa violenza. Ma lo stesso vale per chi subisce non una ingiustizia (cioè un danno ingiusto derivante da un’azione altrui) ma una disgrazia non legata a volontà altrui: se qualcuno cade per le scale se la prende con la sfortuna o con la propria disattenzione, magari con il cattivo funzionamento della sanità se viene curato male, ma di certo non chiede che anche gli altri debbano cadere per le scale. In base a queste semplici considerazioni, uno si aspetterebbe che la richiesta di un precario sia quella di non essere più precario, cioè di essere assunto con un contratto a tempo indeterminato. Magari, addirittura, uno si aspetta che un precario manifesti solidarietà agli altri precari, e chieda quindi che non ci siano più precari, cioè che anche gli altri precari siano assunti. Invece, sorprendentemente, abbiamo un precario che chiede di precarizzare anche chi precario non è.

Cosa significa questo? Dalle osservazioni appena fatte, sembrerebbe di capire che la condizione di precarietà non è percepita come una ingiustizia e nemmeno come una disgrazia. Ma allora come viene percepita, da chi fa una proposta come quella citata? Evidentemente, viene percepita come uno stato normale, giusto e benefico per la società (perché rende più efficienti e produttivi, immagino), che purtroppo, per la solita arretratezza del nostro paese, non è distribuito secondo giustizia. Si tratta allora non di combattere la precarietà ma di rendere precario chi se lo merita, chi non è abbastanza produttivo, efficiente e così via. Si potrebbe sollevare qualche serio dubbio sul fatto che chi non è abbastanza produttivo (qualsiasi cosa significhi “essere produttivo”) lo diventi una volta reso precario, ma non è questo il punto. Il punto è, naturalmente, che chi ragiona in questo modo ha perfettamente assorbito l’ideologia dominante. E non vale, temo, rispondere che si tratta solo di un commento ad un articolo, perché penso si tratti invece della manifestazione particolarmente chiara di un problema di fondo, del fatto cioè che le vittime condividono i principi su cui si basa il sistema di potere di cui sono vittime. È questa la base vera della potenza del nemico. Ma se questa è la situazione, è evidente che un peggioramento delle condizioni materiali di vita di per sé non porta alla ribellione, perché verrà vissuto o come una disgrazia di fronte alla quale arrangiarsi, o come l’esca per una guerra fra poveri. Solo strappando i ceti subalterni dalla loro adesione al pensiero dominante, si può sperare di trasformare il disagio in rivolta. Ma come farlo, non lo sappiamo.

Marino Badiale 

 
Sentinelle in piedi PDF Stampa E-mail

10 Ottobre 2014

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Da Rassegna di Arianna del 7-10-2014 (N.d.d.)

 

In questi giorni la manifestazione delle “Sentinelle in piedi” contro il “ddl Scalfarotto” sull’omofobia e transfobia ha suscitato non poco clamore. Come è noto, un gruppo di cittadini è sceso in piazza per rivendicare l’intoccabilità “biblica” della famiglia naturale. I cittadini si sono piazzati in silenzio e in fila nel bel mezzo delle piazze italiane, con i libri alla mano. Nel mentre, è sopraggiunto un altro gruppo di cittadini che ha espresso il proprio disappunto: e l’ha fatto organizzando una contro-manifestazione e sostenendo che la sola famiglia è quella ove vi è amore. Da un lato, dunque, le “sentinelle” che leggevano in biblico silenzio i loro libri, e, dall’altra, i contromanifestanti che urlavano scompostamente, tra bandiere policrome.

 Al di là della carnevalata della divisione in tifoserie calcistiche pro e contro la famiglia tradizionale, occorre rilevare un aspetto: il fanatismo economico aspira a distruggere la famiglia, giacché essa – Aristotele docet – costituisce la prima forma di comunità ed è la prova che suffraga l’essenza naturaliter comunitaria dell’uomo. Nasciamo in comunità e – con buona pace della Thatcher e dell’individualismo robinsoniano dei neoliberali – l’individuo è già sempre collocato in una comunità originaria, senza la quale non sarebbe possibile. L’individuo si sviluppa e può pensarsi come individuo solo all’interno di un processo di soggettivazione la cui base è sempre e comunque comunitaria. La comunità viene prima. Ora, come anche ho cercato di mostrare nel mio recente “Il futuro è nostro” (Bompiani, 2014), il capitale vuole vedere ovunque atomi di consumo, annientando ogni forma di comunità solidale estranea al nesso mercantile.

 

Essere per la famiglia tradizionale non significa essere necessariamente omofobi: anzi, si può benissimo pensare che la famiglia esista e vada tutelata e, insieme, che le coppie gay abbiano tutto il sacrosanto diritto di esistere e di instaurare rapporti in forme legalmente tutelate. Chi ha detto che una cosa esclude l’altra? L’opposizione tra famiglia e coppie omosessuali è falsa e, di più, gravida di quell’ideologia capitalistica che mira a dividere per comandare.

 

Del resto, l’abbinamento famiglia-omofobia è ideologicamente funzionale allo smantellamento della famiglia, come se essa fosse, in quanto tale, “omofoba”. Si può benissimo ritenere che la famiglia esista (in buona compagnia, peraltro, con Hegel e Aristotele) e, insieme, che gli omosessuali abbiano tutto il diritto di esprimere liberamente i loro sentimenti. L’omofobia e la distruzione della famiglia in nome della lotta all’omofobia sono, del resto, due poli complementari, ugualmente sotto il segno dell’integralismo economico: il primo consiste nell’oscena violenza contro l’omosessuale; il secondo nella non meno oscena violenza ai danni della famiglia tradizionale in nome della difesa dell’omosessuale.

 

Da contestare è, appunto, tale logica del “tertium non datur”: si può, infatti, tranquillamente riconoscere l’esistenza della famiglia tradizionale e, insieme, la piena legittimità del rapporto omosessuale. Questa è, almeno, la posizione che a me pare più di buon senso, al di là delle sempre in voga tifoserie di marca calcistica.

 

Ragazzi che andate a protestare contro la famiglia quando non potete concretamente farvene una (a causa del precariato, della disoccupazione, dei tagli alla spesa pubblica): quando capirete che state facendo il gioco del capitale? Quando capirete che state lavorando per il re di Prussia? È il capitale che, in nome della flessibilità e della precarietà, sta distruggendo la famiglia come luogo della stabilità affettiva e sentimentale. E voi - che lo sappiate o no - siete dalla parte del capitale.


Diego Fusaro 

 
Transition towns PDF Stampa E-mail

9 Ottobre 2014

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Da Rassegna di Arianna del 7-10-2014 (N.d.d.)

 

Duemila Transition Towns in trenta paesi del mondo: è la fotografia di un movimento che sta acquistando una dimensione planetaria e che rappresenta un grande esperimento di innovazione sociale. A fare il punto sull’esperienza è Cristiano Bottone, portavoce di Transitions Italia. «Sono passati circa 10 anni da quando, in una piccola cittadina dell’Inghilterra, è germogliato il seme delle Transition Towns, un esperimento di innovazione sociale che ha ormai raggiunto una  dimensione planetaria e sembra continuare a esprimere un potenziale molto interessante». Il movimento è presente in quattro continenti, si va dal piccolo villaggio al quartiere della megalopoli e si spazia in contesti culturali molto diversi, dalle favelas in Brasile ai quartieri metropolitani della vecchia Europa, alle Filippine. «Cerchiamo sempre di coinvolgere le istituzioni e le amministrazioni – spiega Bottone – la rete e le iniziative di Transizione collaborano generalmente con i governi locali, altre organizzazioni, università, centri di ricerca, imprese e nascono sempre più frequentemente nuove imprese che si ispirano all’approccio transizionista». 
«In Italia possiamo contare una trentina di comunità attive – aggiunge – una interessante risposta e attenzione delle amministrazioni locali specialmente in Emilia Romagna dove le esperienze sono in fase più avanzata, collaborazioni con università, centri di ricerca e altre istituzioni». Si tratta quindi di ottimi risultati che, se aggiunti ad altre esperienze di questo tipo danno prova dell'esistenza di molte piccole realtà impegnate nella difesa della sostenibilità ecologica che non vengono rilevate dai media tradizionali e spesso vengono ignorate e ostacolate dal potere politico. 
«Tuttavia – dice Cristiano –  è evidente che siamo solo all’inizio di un percorso, l’evoluzione sociale richiede tempi lunghi e le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Si può dire però che gli effetti sono per ora piuttosto incoraggianti e questo viene ormai notato anche in certi “piani alti”. Ad esempio il Comitato Economico e Sociale Europeo ha premiato nel 2012 il Transition Network proprio per la sua capacità di innovazione sociale in collegamento all’economia».

 

 

Poi Bottone entra nel merito di come funzionano le Transition Towns. «L’idea è semplice: si tratta di creare le condizioni perché una comunità locale possa attivarsi per rispondere alle crisi in corso riorganizzando la propria struttura relazionale ed economica. Niente di troppo nuovo. È almeno dagli anni Settanta, dal momento in cui emerge più vigorosa la coscienza ecologica e si comincia a ragionare sull’impatto che “la crescita” produce sull’ecosistema, che si fanno tentativi per cambiare strada. Nulla è però riuscito fino a ora a convincerci che un pensiero di lungo respiro potrebbe essere migliore di un rapido e immediato accaparramento di risorse basato sul “qui e subito”. Nel momento in cui Rob Hopkins comincia pensare al concetto di Transizione, ha bene in mente la lunghissima teoria di tentativi andati a vuoto che ci ha condotti fino sull’orlo dell’attuale baratro. Oggi, con una crisi climatica che può diventare senza ritorno entro pochi anni, con un’economia completamente artificiale che ci si sgretola tra le mani, con miliardi di persone che premono per uscire dalla povertà, con il timone della nave in mano a un “mercato” che si è dimostrato ampiamente incapace di produrre i tanto attesi “benefici per tutti”, oggi serve qualcosa di diverso da quello che abbiamo tentato fino a ora. Forse proprio grazie a tutti questi tentativi e al merito di tutti quelli che li hanno compiuti abbiamo accumulato informazioni e consapevolezza sufficiente per sperimentare altre vie».
Parlando di obiettivi e idee fondanti si capisce che fin dal principio nella Transizione ci si è sempre concentrati sul come e non sul cosa, mettendo al centro dell’attenzione la cura del processo che si vuol vedere crescere nella comunità (o in una rete di comunità) e lasciando che il cosa ne divenisse una conseguenza. 
«Si tratta di un salto di paradigma – afferma Bottone – non è facile da afferrare fin da subito, tanto che per ogni Transition Town è previsto un piccolo gruppo di persone che in qualche modo prenda dimestichezza con questo approccio e poi funga da gruppo di facilitazione per il resto della comunità fino al momento in cui questo ruolo diventa inutile perché il processo diventa autonomo. I principi guida sono inizialmente ispirati alla permacultura valorizzandone un concetto chiave: lavora con e non contro. Nel tempo la cassetta degli attrezzi culturale della Transizione è andata arricchendosi di tantissimi contributi provenienti da discipline diverse e che nel processo di Transizione vengono messi a sistema: facilitazione, sociocrazia, teoria dei sistemi, open source, ecologia profonda ecc.»
Paradossalmente le Transition Towns arrivano agli onori della cronaca per le cose che si fanno nelle comunità coinvolte. Bottone parla di «un movimento “ambientalista” che non protesta, non fa campagne, non si lamenta dei governi, è disinteressato a ogni approccio ideologico, ma semplicemente comincia a piantare alberi, costruire orti, attivare imprese ecc.». Concentrato sulla riduzione dell'impronta ecologica e dei consumi, è sempre stato un movimento molto attivo nella pratica e questo aspetto fattivo e concreto ha attratto molti, contribuendo notevolmente alla prima fase di allargamento dell’esperimento da Totnes, la piccola città del Devon in cui tutto è cominciato, a decine e decine di altre comunità nel Regno Unito in Australia, Nuova Zelanda e poi nel resto del mondo.
«Poi – continua Bottone –  approfondendo l’argomento con calma, si arriva a capire la profondità della struttura teorica e operativa del processo che la Transizione sta sperimentando. Tutto quel fare così pragmatico ha radici profonde e tutt’altro che banali, tanto che oggi molti ricercatori stanno lavorando all’analisi di quanto emerge dalle esperienze delle Transition Towns. Anche in Italia, l’Università di Bologna ha un gruppo di Transizione interno alla facoltà di Ingegneria Ambientale e l’ateneo ha varato un gruppo di ricerca interdisciplinare denominato Alma Low Carbon al quale aderiscono più di cento ricercatori. Sono segnali davvero incoraggianti».
Parlando dell'ampiezza della rete del movimento, concentrato in questi primi 10 anni su esperienze in piccola scala, Bottone afferma che «si apre ora una fase nuova, quella in cui il movimento comincia a esplorare lo scaling-up del processo, l’idea è quella di renderlo disponibile su scala molto più vasta e di arrivare a coinvolgere segmenti molto più ampi della popolazione. Un passaggio non semplice per una macchina pensata per progettare “piccolo e lento” e che cerca di basare tutto sulla qualità delle relazioni tra le persone. Allo stesso tempo sappiamo che i processi esponenziali posso essere sorprendenti e distruttivi, come per l’ennesima volta vediamo in questa crisi, ma potrebbero essere meravigliosamente rigenerativi se si arriva a passare il giusto punto di soglia. I prossimi dieci saranno dunque decisivi, l’importante è che l’esperimento della Transizione e molti altri in corso non si fermino: più tentativi facciamo più aumentano le probabilità di finire a vivere in un mondo bellissimo».

 

 

Ariele Pignatta 

 
Rivolta anti moderna PDF Stampa E-mail

8 Ottobre 2014

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All'Assemblea delle Nazioni Unite il presidente Obama ha dichiarato che quella dell'Isis «non è una guerra di religione ma una guerra contro il Progresso». L'ha seguito il presidente iraniano Rohani parlando di «guerra contro la civiltà». Per una volta due leader mondiali sono riusciti a guardare un po' più in là del proprio naso. Quella dell'Isis è, per dirla con Evola, 'una rivolta contro il mondo moderno', che per il momento ha connotazioni religiose e islamiche ma che in futuro potrebbe assumerne anche altre.

Il movimento è iniziato con l'avvento al potere in Iran, nel 1980, dell'ayatollah Khomeini. Uomo di raffinata cultura e di sottile intelligenza non rifiutava la modernizzazione, ma voleva che, sul piano del costume, la struttura tradizionale del suo Paese rimanesse intatta. Naturalmente il suo successo fu dovuto anche a ragioni economiche. Nell'Iran dello Scià c'era una sottilissima striscia di borghesia ricchissima (il 2% della popolazione), il resto viveva nella miseria. Oggi, grazie alla rivoluzione khomeinista, l'Iran è diventato una potenza economica e tecnologica e anche questo spiega la singolare convergenza fra Rohani e Obama. La via indicata da Khomeini è stata poi seguita, in modo più rozzo, dal Mullah Omar e i suoi Talebani. Omar, ragazzo di campagna, accettava le conquiste della modernizzazione occidentale solo in alcuni settori essenziali (sanità, energia, trasporti), ma sognava, e sogna, il ritorno a un modo di vivere antichissimo, più semplice e più sobrio. Lo disse, senza mezzi termini, il suo luogotenente Wakil Muttawakil: «Noi vogliamo vivere la vita come la viveva il Profeta millequattrocento anni fa. Noi vogliamo ricreare i tempi del Profeta». Poi sono arrivati quelli dell'Isis il cui obbiettivo finale è evidente e dichiarato: distruggere l'Occidente, il suo modello di vita, le sue conquiste (anche se, sul piano mediatico, utilizzano proprio la tecnologia dell'Occidente per combatterlo). Se quella dell'Isis è una rivolta contro il mondo moderno il suo bacino d'utenza potrebbe essere vastissimo. Anche in Occidente ci sono sacche di disagio profonde ed estese, che più che economiche sono esistenziali. Noi tutti, ricchi e poveri, viviamo in una condizione permanente di stress, di angoscia oscillando fra nevrosi e depressione. Siamo bipolari. Come bipolare è la società che ci siamo organizzati. Dal punto di vista etico siamo apparentemente liberi di fare tutto, ma nel contempo lo Stato si introduce nelle pieghe più intime del nostro vivere, castrando anche gli istinti più elementari (in America dare un sacrosanto calcio a un gatto rompicoglioni costa un anno di galera). Gli americani, i canadesi, gli europei che, sia pur formalmente convertiti all'Islam, vanno ad ingrossare le file dell'Isis sono la punta di lancia di questo disagio esistenziale e, domani, potrebbero diventare un esercito.

Infine non so fino a quando le centinaia di migliaia di migranti che vengono a morire sulle nostre coste accetteranno di essere ridotti a cadaveri, galleggianti o meno, e non si rivolteranno. Abbiamo creato un mondo dove ci sono Paesi ricchissimi, al cui interno peraltro esistono sperequazioni, economiche e di status (il matrimonio di mister Clooney), incolmabili, insultanti, inaccettabili proprio nell'epoca in cui, dalla Rivoluzione francese in poi, abbiamo proclamato l'uguaglianza (Stati Uniti, Cina, Russia ne sono l'esempio palmare), un mondo circondato da un mare di miseria che, prima o poi, per una ragione che oserei chiamare fisica, ci sommergerà. E di fronte a questa rivolta globale non ci sono droni e bombe che possono salvarci. Ce le butteremmo sui piedi.

Non credo che l'Isis sia la soluzione. Ma per rispondere a Obama e a tutti gli altri siamo davvero sicuri di rappresentare il Progresso e la Civiltà? Oppure, con l'ottuso e pericoloso ottimismo di Candide, nel tentativo di creare 'il migliore dei mondi possibili', abbiamo finito per partorirne uno dei più disumani?

Massimo Fini 

 
Encefalogramma piatto PDF Stampa E-mail

7 Ottobre 2014

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Siamo ormai ridotti ad uno stato comatoso profondo e irreversibile, da encefalogramma piatto.

Ormai i ministri del Governo Renzi vengono giudicati solo dai canoni estetici e dalle battutine che pronunciano: l' ultimo caso, quel che è successo a Maria Elena Boschi, è emblematico.

Il ministro (uso il termine al maschile in quanto noi siamo, con orgoglio, politicamente scorretti) già noto per le sue doti estetiche, per i bikini in spiaggia e le congetture sulla vita sentimentale, ha fallato attirando l' ira di animalisti e comuni cittadini amanti di animali.

Polemica da giornali, da rotocalchi.

Ma che è successo di così ferale?

Ospite ad una "Festa dell' Unità" nella provincia laziale, il ministro ha degustato un piatto tipico a base di carne di cavallo.

Avendo senz' altro il palato fine, Boschi ha elogiato la pietanza, rammaricandosi che "a Roma le macellerie di carne equina sono rare", quindi sarà difficile ripetere il bis.

Non l' avesse mai detto: polemiche, animalisti insorti, comuni cittadini mai offesi o indignati per lo scempio economicida ( citazione di P.Barnard), per la disoccupazione giovanile galoppante, il massacro del territorio, l' imbarbarimento dei costumi, hanno dato fiato alle trombe dell' indignazione, delle frasi fatte, dei luoghi comuni.

L' ex ministro forzaitaliota Michela Brambilla ha alimentato la speculazione politica, parlando di "venti milioni di italiani possessori di animali domestici indignati", perché il cavallo, dice, deve essere parificato nei diritti al cane ed al gatto.

Servono, urgono nuove leggi a tutela dei cavalli, per la soppressione degli allevamenti di carne equina, delle macellerie equine -altri disoccupati a spasso, tanto mangiano in casa di Brambilla e company- e il consumo di carne va limitato a tre giorni al mese, dicono i dottori, perché sennò aumenta il colesterolo eccetera.

Premesso che il colesterolo è nel cervello degli italiani e ottunde le loro capacità mentali, premesso che è dannoso l' uso intensivo ed industriale dell' allevamento da carne per i Mc Donald's e le grandi catene similari, non gli allevamenti tradizionali di ricette anche esse tradizionali , vecchie di secoli, che sono alla base della buona cucina italica, si resta basiti da come  due generazioni di benessere abbiano ormai fiaccato il popolo italiano ed occidentale.

I problemi oggi sono i diritti dei cani e dei gatti, le macellerie di carne equina, salvare gli agnelli dall' abbacchio, portare i cani sul treno eccetera.

Rincoglioniti dal benessere e dall' egoismo conseguenza di esso, gli italiani anziché far figli comprano animali domestici e li trattano come bambini, snaturandoli; inoltre l' animale da compagnia, si sa, non contesta, quindi il padrone può plasmarlo a sua immagine e somiglianza (coi figli è dura..).

Siamo in caduta libera verticale e ci si preoccupa e indigna per una frase detta da un ministro davanti ad una tavola imbandita, in una serata da sagra di paese, senza alcuna ufficialità.

In una pagina di "1984", George Orwell racconta di come i "prolet", in un mercato di Londra, fecero a pugni e spintoni per accaparrarsi alcune batterie di pentole giudicate meno ammaccate delle altre: "ci mettessero tale passione anche nel pensare e non saremmo così", ragionò grossomodo Winston Smith, il protagonista.

Siamo al livello di "1984", sia come società e sia come depravazione delle masse, degradate ormai a prolet.

La sola differenza è che in "1984" i prolet, che mai eran stati devastati dal consumismo, litigavano per le pentole senza ammaccature e invece da noi, nel crepuscolo della civiltà occidentale, ci si accapiglia perchè un ministro vorrebbe trovare una macelleria equina a Roma.

Pazienza.

Ci ridurremo ad un Paese di straccioni senza diritti, senza lavoro, senza soldi, senza futuro, commissariati dalla Troika, però volete mettere la bellezza di non trovare una macelleria di carne equina?

Vale proprio la pena di pagare più IMU, TASI, fare debiti su debiti con le finanziarie e ricevere le cartelle esattoriali!

Chissà perché la gente non esprime indignazione per l' aumento delle bollette di gas e luce a partire dal 1 ottobre, ennesimo salasso per le famiglie..

Forse perché gas e luce non sono politically correct e non si devono fare battaglie per i loro "diritti"..

Simone Torresani 

 
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