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Anima mundi PDF Stampa E-mail

10 Agosto 2014

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Da Rassegna di Arianna del 22-7-2014

 

Quando ci accorgeremo, come umanità, del disastro pianificato, attuato, prodotto e perseguito negli ultimi 250 anni, e con sempre maggiore intensità negli ultimi 50-60 anni, sarà sempre troppo tardi. L’umanità ha sempre ragionato con gli occhi bassi. Ha saputo guardare solo ad un palmo del suo naso. Non ha avuto nella sua collettività lo sguardo umano, degno di tal nome, nel guardare lontano. Non ha avuto lo sguardo da aquila, capace di vedere lungo.

I vantaggi del tempo presente, di ogni tempo presente, hanno sempre avuto la meglio sulla capacità di futuro degli altri. Dove per altri non intendo soltanto gli esseri umani, ma prima ancora, delle piante, del mare, degli animali, del cielo, dei fiumi, dell’aria. In una sola parola del mondo. È stato così dalla rivoluzione industriale in poi. Progresso spacciato sempre ed incondizionatamente come sinonimo di benessere.

 

Ora se è vero che in alcuni casi i due termini hanno coinciso, resta pur vero – oggi molto più di ieri – che questa coincidenza non si verifica quasi più. Abbiamo e stiamo avvelenando terre, mari e cieli. Abbiamo messo in moto una macchina da guerra gigantesca, di cui abbiamo perso il controllo. O quantomeno di cui fatichiamo a riprenderne in parte il controllo. Senza trascurare il particolare che la guerra ce la siamo auto dichiarata.

Abbiamo pensato e continuiamo a pensare, stupidamente, che tutte le nostre azioni siano distaccate le une dalle altre, e soprattutto che la loro influenza sul mondo e sui suoi abitanti siano pari a zero. Ed invece è vero proprio il contrario. Se è vero che oggi l’umanità è ammalata lo è principalmente perché il mondo naturale è stato ammalato da noi. È questa una delle amare verità.

Il disfacimento ecologico, l’inquinamento ad ogni livello, il disgregarsi sociale, la mancanza di legami, l’insorgere sempre maggiore di paure, l’incapacità di futuro, l’assenza di serenità e armonia, sono dati di un bollettino medico quotidiano sullo stato di salute di tutti noi.

Non è un caso che sia ancora la depressione, con tutte le sue svariate e mille forme, la malattia del secolo attuale, come di quello scorso. Se è vero, come ci ha rivelato l’Istat, che la spesa per antidepressivi in Italia dal 2011 è paurosamente aumentata, questo non fa altro che confermare la diagnosi che ad essere malata è l’anima del mondo, anima mundi.

Se l’aspetto economico è solo la causa ultima scatenante, la prima rintracciabile, non dobbiamo fermarci a questa solamente. Da essere umani è obbligatorio fermarsi a riflettere cosa c’è dietro tutto quello che – di generazione in generazione – abbiamo più o meno consciamente  messo su.

Abbiamo messo al primo posto il guadagno. Lecito o meno, ma ha occupato sempre il primo posto, come unico metodo e modo per garantirsi futuro, salute, prosperità e felicità. Per corroborare questa tesi, abbiamo reso una necessità quella di avere un certo portafoglio quasi inevitabile. Costi alti in cambio di situazioni lavorative al limite (spesso valicato) della schiavitù umana.

Prima ancora di arrivare all’incubo della precarietà, abbiamo vissuto anni in cui il verbo competere era un dogma di garanzia di qualità umana. E il suo gemello “vincere” era ed è il suggello, la firma per una vita degna di tale nome. A coloro ai quali questi due verbi non hanno potuto far visita per tutti gli svariati motivi di questo mondo, è stato trasmesso dal comune sentire la sensazione mai velata di essere persone di scarto, non utili, non di qualità. Se non produci, se non vendi, se non sai “aggredire” la vita e farti spazio anche con la forza, vali poco, non sei degno di tale mondo. Se non hai una laurea (cosa sempre buona averla) e un lavoro ben pagato, sei un cittadino di serie inferiore. Non stai contribuendo alla costruzione della società del benessere e del futuro. E le persone, pur di avercelo un lavoro, sono disposte ad accettarne di tanti, in cambio di una “sicurezza” apparente, il cui bisogno è diventato nel corso degli anni inevitabile.

Il metro di misura per la qualità di una vita, è diventato nel corso degli anni la capacità di possedere denaro, di poter dire ed ostentare una posizione sociale alta, o quanto più alta possibile. Il numero delle cose che uno può permettersi è sinonimo di vita riuscita, prima ancora di vita sicura. Ora, chi vive in questo stato di cose è sicuramente una persona ammalata, perché ha smarrito il senso di una vita autentica e sta trasmettendo tale sindrome a chiunque incontra. Ma ancor di più, il danno principale è fatto a coloro la cui anima è più sensibile e fragile, e che di tale sistema non riescono a sorreggere il peso. Vendere, produrre, competere, vincere, dimostrare di valere, guadagnare per avere un futuro…tutto questo ed altro, per alcuni significa morire. Significa accettare la schiavitù di un lavoro che occupa la maggior parte delle ore del giorno per alcuni mesi l’anno, rinunciando ad una vita sociale degna di questo nome. Vivere altri mesi nella precarietà della disoccupazione e nell’incubo di non farcela a sopravvivere al sistema messo su da chi ha creduto che soldi sia sinonimo di sempre e di benessere.

Di tutto questo non possiamo attribuire colpe a coloro che tale sensazione e stato d’animo lo subiscono. Non possiamo perché questa è l’aria che respiriamo quotidianamente da almeno 60 anni. Si è inserita nei geni da padre e madre in figli. Anima mundi.

 

Una situazione che, con la nascita e l’aggravarsi della crisi economica, ha determinato l’aggravarsi dello stato interiore delle persone. La difficoltà ad immaginarsi un futuro, la difficoltà nel fare i conti con le paure legate inevitabilmente alle questioni economiche, si riversano nell’ambito sociale, deteriorando rapporti e tessuti che nei tempi precedenti potevano essere un valido ammortizzatore.

Ed ecco comparire la solitudine, altra compagna fedele di questi tempi. Solitudine non positiva (perché ve ne sono anche di positive e salutari) che estranea, trascina fuori da certe logiche ma spesso conduce in strade chiuse senza orizzonti e vie di fuga.

Se l’anima del mondo si è progressivamente ammalata è perché l’uomo ha smarrito costantemente il suo rapporto intimo e fecondo con la natura, con la Terra e tutti i suoi abitanti. Smarrire questo contatto è smarrire le proprie radici, perdere il senso del proprio vivere, dimenticarsi da dove si viene. Ma principalmente è perdere la propria anima e la saggezza che essa condivide con il mondo intero. Perdere tale legame è invertire le priorità, è diventare schiavi del primo idolo che passa. E solitamente passa spesso quello del denaro e delle sue forme svariate. “Il cuore dell’uomo si corrompe facilmente” recita Tolkien nel suo capolavoro che è “Il Signore degli anelli” ed è una maledetta verità con cui fare i conti quotidianamente. E il cuore dell’umanità è stato corrotto dal desiderio di avere, possedere, crescere, nell’illusoria prospettiva di essere immortale e di garantirsi ogni bene. Ma questo mai è avvenuto nella storia del mondo. Fosse solo per il fatto che chi possiede tanto, perderà molto del suo tempo e della sua serenità e quiete nel dover difendere questi suoi beni.

Il prezzo di tutto questo è il vedere lo svanire della natura, delle piante, degli animali, delle culture, dei popoli, dei linguaggi, lo scomparire dei mestieri, delle storie. Se vedo o meglio avverto nel mio cuore tutto questo, per forza devo provare sentimenti di perdita, solitudine, di isolamento, di lutto, di nostalgia e tristezza. È il riflesso in me di un dato di fatto che avviene nel mondo. È il riflesso in me dell’anima del mondo. E – paradossalmente – se non mi sento depresso, davanti a tutto questo, allora si che sono pazzo. Allora si che si è malati, perché sarei completamente escluso dalla realtà: la distruzione ecologica.

Riprendere i contatti con se stessi, significa principalmente riprendere contatto con la natura e farsi carico di tale impegno. La posta in gioco non è la semplice salvaguardia di questo o quella specie animale, o di questa o quella pianta. La posta in gioco è la salute e la vita di tutti quanti.

Si, è da dentro che partono le scelte coraggiose che possono cambiare in profondità le cose. Un “dentro” mai isolato ma sempre con gli altri, connesso con un tutto che è il mondo, l’Anima del mondo.

 

Alessandro Lauro

 




 

 
Messianismo distorto PDF Stampa E-mail

7 Agosto 2014

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Bisognerebbe riflettere più attentamente sul rifiuto del sionismo, e di conseguenza di Israele, da parte di alcuni dei rabbini più ortodossi e di un’organizzazione come il Neturei Karta, nata a Gerusalemme nel fatale 1938 in cui iniziò la fase più spietata dell’antiebraismo nazista.

Quel rifiuto nasce dal richiamo al fatto che la riunione del popolo ebraico è scritto sia opera del Messia divino, non di un movimento storico, politico, del tutto umano, improntato a un nazionalismo dalle radici puramente terrene.

Insomma, il sionismo che predica il ritorno alla Terra Promessa attraverso una mobilitazione patriottica, è l’espressione di un’impazienza quasi blasfema. Visto che il Messia promesso tarda a venire, il riscatto del “popolo eletto” verrà dai suoi stessi figli, attraverso l’esercizio della forza. Per gli ebrei più ortodossi, questa è una bestemmia.

Considerazioni analoghe possono valere per la Modernità nata dalla crisi del messianismo cristiano.

Gesù, il Messia, per i cristiani già venuto a riscattare l’umanità, a differenza dei giudei che ancora l’attendono, aveva promesso come prossimi “i nuovi cieli e la nuova terra”. Come per il giudaismo, non era la promessa di paradisi celesti, puramente spirituali. Questo è ellenismo, è neoplatonismo, non è né Bibbia né Vangeli. I nuovi cieli e la nuova terra sono un mondo rigenerato, dove regnano giustizia e pace.

Lo si vede nei mosaici di Ravenna, espressione del primo cristianesimo: un mondo di prati fioriti, di animaletti miti, di acque sorgive, di un cosmo ordinato sotto un Cristo non sanguinante sulla croce ma pantocrator rassicurante o giovinetto imberbe.

I primi cristiani aspettavano quel mondo con un’attesa spasmodica, che a noi oggi è impossibile immaginare.

Quell’attesa è andata delusa in lunghi secoli di sofferenze, di guerre, di pestilenze, di sopraffazione da parte dei più forti.

Da questa vana attesa, da questa delusione, scaturì una nuova mentalità: l’uomo avrebbe realizzato il suo paradiso in terra con le sue sole forze, attraverso la scienza e i movimenti di riscatto sociale. La Modernità nasce dalla speranza delusa nell’avvento ultimo del Messia.

Questo groviglio di contraddizioni trova espressione singolare negli Stati Uniti d’America.

Fin dalla fondazione del loro Stato, gli americani si sono sentiti il nuovo “popolo eletto”, quasi un nuovo Israele, la cui missione non era limitata alla salvezza di una nazione, ma, cristianamente, alla salvezza dell’umanità. Da ciò il sentirsi “liberatori”, la pretesa di esportare il loro sistema politico e il loro quadro di riferimento valoriale all’intero mondo, con la propaganda, col cinema, con i modelli culturali, con la potenza del denaro quando bastano, coi bombardieri quando quelle suggestioni non sono sufficienti.

Gli USA attratti dal giudaismo e improntati a un cristianesimo intransigente, non a caso sono il centro irradiante della Modernità, la pretesa di realizzare con strumenti umani una promessa di liberazione delusa da due millenni.

Anche la spiritualità russa è impregnata di un anelito al messianismo, che fa comprendere la forza di certi populismi e di certe ideologie teleologiche.

Quanto all’Islam, il messianismo vi ha un forte rilievo. Anche i musulmani attendono i Tempi ultimi e il Giorno del Giudizio (yaumuddìn), annunciato da un Messia che sarà proprio il Gesù redivivo, non Muhammad (motivo in più per rendere ingiustificabili, alla luce del Corano, le persecuzioni dei cristiani a opera del fanatismo musulmano che legge il testo sacro senza capirlo).

Tuttavia nell’Islam è troppo forte il senso di un Dio unico onnipotente perché vi si possa sviluppare un messianismo distorto, una pretesa di realizzarne un surrogato per opera puramente umana.

Si tratta della stessa logica che spinge i rabbini più ortodossi e i Neturei Karta a negare valore al sionismo creatore di Israele. Anche il programma di un nuovo Califfato è più la nostalgia delle Origini incontaminate dell’Islam che una prospettiva messianica. 

 

La Modernità è nata pure da altro, dall’attivismo di una borghesia imprenditrice, dall’abbondanza di capitali accumulati grazie allo sfruttamento della manodopera e delle colonie, ma più in profondità, sotto le cause sociali, economiche, politiche, stanno i moti dell’anima.

Allora sarà utile vedere dietro il nazionalismo sionista fondatore di Israele, dietro la missione democratica e modernizzatrice degli USA, dietro le ideologie populiste e socialiste dei russi, anche la grande delusione, la disfatta angosciosa, dell’attesa messianica che tarda, scandalosamente tarda a venire.

 

Luciano Fuschini   

 
Vuoto strategico PDF Stampa E-mail

6 Agosto 2014

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 Da Rassegna di Arianna del 28-7-2014

 

Quando crollò l’Urss, e con essa l’ordine mondiale bipolare, le valutazioni furono in generale assai ottimistiche e molti si spinsero a prevedere che tutto ciò avrebbe portato ad un crollo nelle spese militari, non essendoci più alcuna gara negli armamenti, dirottando ingentissime cifre verso investimenti sociali. Si parlò addirittura di un incombente “Nuovo Rinascimento”. Non pare che le cose siano andate in questo modo: dopo un relativo calo nei primi anni novanta, la spesa militare è invece sensibilmente aumentata, a danno di quella sociale e, quanto al “nuovo Rinascimento”, chi lo ha visto?

Quelle rosee previsioni si basavano sulla certezza di un nuovo ordine mondiale monopolare, nel quale gli Usa, senza neppure dover spendere le cifre del passato, avrebbero assicurato una stabile governance mondiale. Si calcolava che almeno sino al 2060 non avrebbe potuto esserci alcuna potenza in grado di sfidare l’egemonia americana e sempre che la nuova potenza trovasse le risorse necessarie, mentre gli Usa segnassero il passo. Le cose sono andate, poi, molto diversamente: la Russia si riprese abbastanza presto dal ciclo negativo 1991-1998, la Cina crebbe a ritmi molto maggiori del previsto e così l’India, gli Usa dovettero misurarsi con le turbolenze mediorientali che ingoiarono montagne di dollari e ad esse si sommò la lunga serie di interventi minori in Africa (Sudan, Somalia, ecc.).

I nuovi venuti, grazie ai sostenuti tassi di crescita, iniziarono ad armarsi (o riarmarsi) e la gara riprese: già nei primi anni 2000 le spese militari mondiali avevano superato di slancio quelle del periodo bipolare.

Poi venne la crisi del 2008 e, pur se con molte incertezze e ritardi, è diventato chiaro a tutti che, come scrive Alessandro Colombo: “l’unipolarismo a guida americana è diplomaticamente, economicamente e persino militarmente insostenibile”.

 

La crisi ha dimostrato che gli Usa non hanno il fiato economico per reggere l’Impero, che ha costi proibitivi e non solo per il sopraggiungere della crisi finanziaria, ma anche per le diseconomie della sua macchina militare. Il ritiro americano da Iraq ed Afghanistan, prima ancora che i “regimi amici” vi si fossero consolidati, non meno che i mancati interventi in Siria ed Iran, sempre annunciati e mai realizzati, hanno tolto credibilità alle minacce americane. Non che gli americani abbiano rinunciato alle pretese di essere l’Impero mondiale, da cui discendono moneta, lingua, diritto e legittimazione politica, ma non sanno più come fare. Dal 2011 hanno provato a consociare gli alleati europei negli interventi militari, ma l’esperimento libico è restato un caso isolato e di ben scarso successo; per il resto, c’è molto poco da aspettarsi dal vecchio continente. Stanno cercando di creare una cintura di alleati per contenere la Cina, ma anche qui le cose sono molto al di sotto delle aspettative.

Nel frattempo i conflitti locali iniziano a sommarsi, descrivendo archi di crisi lunghissimi. Accanto ai conflitti non risolti che ci portiamo dietro da anni (dalle Farc Colombiane, alla Somalia, dal Sudan a Cipro, Timor ecc.) si sono aggiunti altri punti di guerra o intervento straniero (Mali, Costa d’Avorio ecc.) mentre altre linee di confine si surriscaldano (Cina-Vietnam, India-Pakistan). Ma soprattutto si sono profilate due linee di frattura particolarmente lunghe e pericolose, come quella russo-ucraina e la sommatoria di conflitti e crisi mediorientali (Libia, Gaza, Irak, Siria, Afghanistan, Turchia, Barhein, Yemen ecc.) mentre l’Iran è pronto ad intervenire.

L’elenco è incompleto, anzi appena accennato, ma basta a dire che, dal 1945 in poi,  non c’è mai stata una situazione altrettanto conflittuale. Anche la crisi indocinese o quella arabo-israeliana erano ben più circoscritte e controllate come pure le guerriglie africane e latino americane. Nel complesso, il “bipolarismo imperfetto” (c’erano anche i “non allineati”) aveva trovato un suo modo di funzionare ed una lingua comune ai contendenti. Non dico che si debba rimpiangere quell’equilibrio che aveva molti aspetti di assoluta negatività, ma, insomma, era un equilibrio che assicurava un certo ordine mondiale, mentre oggi non ce ne è alcuno.

 

Le ragioni di questo nuovo “disordine mondiale” sono molto complesse e richiederebbero molto più di un semplice articolo, per cui ci limitiamo solo ad abbozzare alcune possibili linee di approfondimento.

La spiegazione più immediata e semplice (fatta propria da Prodi nella sua intervista all’Espresso ora in edicola) è quella del “ritiro” americano e dell’indisponibilità delle altri grandi potenze ad assicurare una efficace governance mondiale assumendosi la responsabilità di intervenire quando questo sia necessario. C’è del vero in questo (ammesso che l’intervento esterno sia la soluzione cui ricorrere, cosa di cui, in linea di massima, non saremmo poi così convinti), ma, per certi versi, questo è più il sintomo che la malattia, perché occorrerebbe spiegare perché una stagione ventennale di interventi esteri ha fatto registrare una lunga serie di fallimenti.

Riprenderemo il discorso nei primissimi giorni e settimane, perché ci sono molti aspetti che vanno indagati. Qui ci limitiamo a segnalarne uno di particolare rilevanza: lo schema concettuale con il quale gli americani sono entrati nella globalizzazione pretendendo di guidarla. Sia lo schema di Fukuyama dell’ “esportazione della democrazia” quanto quello di Huntington del “conflitto di civiltà”, si sono rivelati completamente fallimentari (ed il primo molto più del secondo) nella loro incapacità di capire il mondo ed assumere le ragioni degli altri come qualcosa con cui confrontarsi. Bruciati dai fatti questi due schemi di azione, gli Usa sono rimasti senza strategia alcuna. Mirano a mantenere la loro posizione egemonica ma non hanno più un disegno credibile di ordine mondiale. Le esitazioni sui casi di Siria ed Iran stanno lì a dimostrarlo. Certo l’idea di impantanarsi in un nuovo conflitto di lunga durata e di altissimo costo resta la ragione che (per fortuna!) scongiura l’ennesimo intervento a stelle e strisce, ma non si tratta solo di questo. Il problema principale, per gli americani, è che non sanno bene cosa verrà fuori una volta ingaggiato il conflitto.

Prendiamo il caso siriano: forse non sarebbe neppure una guerra lunga e dispendiosa e con un urto concentrato si potrebbe ottenere la caduta del regime di Assad in un paio di settimane, ma dopo? A beneficio di chi andrebbe questa spallata? I contendenti non sono esattamente quanto di più rassicurante dal punto di vista occidentale, persino le fazioni sostenute da turchi e sauditi danno ben poche assicurazioni in questo senso. Anzi, ad essere chiari, in Siria gli alleati storici degli occidentali (a cominciare dai francesi nel 1919) sono proprio gli alauiti (gruppo etnico di Assad)  che, infatti, vengono visti dagli altri islamici come sorta di traditori alleati agli “infedeli”. Ce la hanno un’alternativa ad Assad gli americani? Nel caso iraniano le cose potrebbero stare differentemente, perché c’è una opposizione “liberal” più solida e consapevole, però la maggioranza della popolazione sta dall’altra parte ed anche gli alleati storici di Washington, come i sauditi, pur odiando furibondamente gli sciiti, non gradirebbero affatto un Iran “liberal” che potrebbe rappresentare una fonte di contagio di altre rivolte. Ed allora, come gestire la situazione? Anche nei confronti del “Califfato” non pare che gli Usa abbiano le idee chiare su cosa fare, fra una convergenza con gli iraniani o uno sforzo unilaterale americano. Di fatto la situazione si trascina moltiplicando il rischio che questa buffonata di Califfato, che mette insieme fanatici religiosi, tagliagole, briganti ed avventurieri di ogni risma, possa diventare un problema molto serio, qualora riuscisse a diventare un simbolo intorno al quale si riuniscano le masse islamiche.

Questo vuoto di strategia degli americani diventa anche paralisi tattica con conseguenze tutt’altro che trascurabili.

 

Aldo Giannuli 

 
In fuga dalla Libia PDF Stampa E-mail

4 Agosto 2014

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Da Rassegna di Arianna del 30-7-2014 (N.d.d.)

 

Nulla di nuovo sotto il sole caldo della Libia; nei media tradizionali, si usano espressioni come “colpo di scena”, “mondo in allarme”, un po’ come se fossero tutti sorpresi di quanto sta capitando nel paese africano, ma già negli ultimi giorni di resistenza di Gheddafi in molti prevedevano uno scenario libico molto simile a quello somalo, con uno Stato di fatto fallito, il cui governo non ha più alcuna sovranità.

La situazione è forse peggiore dell’Afghanistan, lì dove il presidente viene chiamato “Sindaco di Kabul”, per via del fatto che la propria autorità non travalica i confini della capitale, ma in Libia nemmeno Tripoli e Bengasi sembrano essere sotto il controllo di alcuna autorità, anche perché autorità non ce n’è. I soldati che sembrano “regolari”, con tanto di divise, sono invece fedeli al generale Haftar, che dopo 20 anni di vita negli USA è tornato in patria per cercare di prendere le redini del gioco sotto l’evidente  spinta del paese che lo ha ospitato per tanti anni. Poi sul campo, ci sono tutta una serie di fazioni, spesso corrispondenti alle tradizionali tribù con cui è suddivisa la società libica e che rivendicano ciascuna fette di potere dopo essere state pagate per cacciare Gheddafi e porre in essere davanti gli occhi del mondo il teatrino della “resistenza” libica.

L’unico elemento di sorpresa, riguarda il fatto che in molti si aspettavano una frammentazione del paese seguendo la suddivisione storica della Libia, con l’autonomia cioè di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, ma pare che anche questi confini siano stati abbattuti ed a loro volta frammentati e così la spaccatura libica ha confini ancora più ristretti, seguendo le rivendicazioni non di intere regioni, ma di singole tribù o si singole famiglie.

Ma per il resto, per l’appunto, lo spacchettamento del paese era messo in conto ed anzi forse anche pianificato all’atto della brutale invasione della NATO cominciata nel marzo del 2011. Ciò che deve preoccupare adesso, sono le conseguenze che questa situazione avrà per i paesi vicini, in primis per l’Italia.

Per il nostro paese, vedere fallire un paese che costituiva un vero e proprio supermarket energetico a due passi dal giardino di casa, è una tragedia economica di proporzioni difficilmente immaginabili; forte degli antichi legami coloniali, Roma e Tripoli avevano relazioni privilegiate ed invidiate dal resto del mondo, che garantiva al nostro paese il 40% dell’approvvigionamento petrolifero e del gas, nonché anche investimenti di ogni tipo, come la costruzione fatta interamente da imprese italiane della super autostrada tra Tripoli e Bengasi. La caduta di Gheddafi, ha cancellato tutto; prima perché USA, Gran Bretagna e soprattutto la Francia, si sono insinuate di prepotenza nello scacchiere libico, stringendo accordi con coloro che hanno abbandonato Gheddafi per stringere le mani piene di Dollari dei capi di governo occidentali, poi perché quella poca produzione rimasta nelle mani di aziende italiane, oggi è quasi impossibile continuarla per via dei problemi di sicurezza.

Gli impianti sono ripetutamente attaccati dalle milizie, spesso si deve ricorrere a mercenari per proteggere le strutture, una situazione quindi che potrebbe far crollare già quest’inverno gran parte dell’approvvigionamento energico per l’Italia. Ma quello di gas e petrolio non è l’unico problema per il nostro paese. Infatti, dalla Libia arriva circa il 96% dei migranti che sbarcano sulle coste siciliane; una Libia fuori controllo, vuol dire via libera per i tanti criminali trafficanti di esseri umani, i quali hanno il controllo dei tanti porti grandi e piccoli della costa libica, specie in Tripolitania.

Di fatto, anche volendo, il governo italiano a differenza di prima non ha una controparte con cui poter discutere circa il problema dell’immigrazione; mentre con la Tunisia sono stati stretti accordi che hanno quasi azzerato le partenze da questo paese, a Tripoli non esiste un governo capace di mettere mano alla questione e poter garantire la sicurezza nel Mediterraneo.

Sembrano lontani i giorni in cui la Libia poteva vantare uno dei PIL più alti dell’Africa ed uno standard di vita superiore a molti paesi vicini; i libici godevano di uno stato sociale di prim’ordine, così come di diritti sociali oggi utopistici in molte parti d’Europa, come per esempio il diritto ad una casa assegnata dallo Stato quando una coppia decideva di sposarsi. Tutto questo non c’è più, non c’è più forse nemmeno la Libia, frantumata dallo spirito neo colonialista e prepotente di un occidente sempre più miope di fronte ai cambiamenti dello scenario internazionale. E in tutto questo, da sottolineare l’atteggiamento suicida di Roma, che contro i propri interessi è andata lei stessa a bombardare un paese che garantiva introiti e rifornimenti energetici.

Adesso quello stesso occidente però, tanto spavaldo nel marzo del 2011, oggi non è in grado di prendere il controllo della situazione; l’assassinio dell’ambasciatore americano a Bengasi nel 2012, era solo un avvertimento: oggi tutti i diplomatici di quei paesi che hanno bombardato la Libia, scappano dal paese. Una fuga da vigliacchi, di chi si gira subito dall’altra parte dopo aver causato un danno irreparabile per un popolo che adesso si ritrova senza uno Stato e con una grave situazione umanitaria.

Prima le bombe, poi la fuga: ecco l’occidente di oggi, quell’occidente che si professa esportatore di democrazia, che in nome di essa provoca guerre, infligge sanzioni e che poi, dopo aver perso il controllo della situazione, scappa via lavandosene le mani. Ma dalla Libia il peggio deve ancora venire: lo scenario è imprevedibile e fuori controllo, ogni città del paese è in mano ad una fazione diversa, con gli islamisti pronti a replicare a pochi chilometri dalle nostre coste l’atroce esperimento che l’ISIL sta effettuando tra Iraq e Siria.

L’effetto boomerang del siluramento di Gheddafi, ancora deve dimostrare la sua massima potenza distruttiva: ed a piangere saranno gli stati del Mediterraneo confinanti alla Libia, con in testa un’Italia sempre più incapace di salvaguardare i suoi stessi interessi.

Mauro Indelicato 

 
La Torre di Babele PDF Stampa E-mail

1 Agosto 2014

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I grandi racconti mitici, pagani e biblici, sono soltanto favolette fantasiose se non li si coglie nel loro valore simbolico, miti che in alcuni casi attingono alle radici archetipiche, assumendo un valore atemporale, riscontrabile in diversi momenti storici.

Può essere il caso della biblica Torre di Babele.

Il significato di quel mito è chiaro: se l’uomo pretenderà di diventare come Dio (la torre elevata fino al cielo) sarà punito col dissolvimento dei legami comunitari (la confusione delle lingue), precipitando in una nuova barbarie proprio quando presumeva di essere pervenuto al culmine delle proprie potenzialità.

Ebbene, quel mito trova un riscontro preciso proprio nella nostra epoca.

La pretesa di diventare come Dio, quella che era la promessa del Serpente nell’altro grande mito biblico, la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, è oggi più che mai evidente.

La conquista dello spazio extraterrestre, la riproduzione in laboratorio dei processi fisici e chimici che si svilupparono nel momento della creazione dell’Universo, la tecnologia che permette di controllare ogni metro quadrato del pianeta dall’alto dei cieli e di punire i “malvagi” con la folgore di un missile che scende da profondità celesti, la possibilità di comunicare istantaneamente con ogni punto del globo, la capacità di creare nuove forme viventi, la manipolazione genetica che ha come fine ultimo inconfessato la creazione di un essere umano semi-immortale, configurano una Modernità che attraverso scienza e tecnica punta a diventare Dio, a indiarsi.

Proprio in questa epoca straordinaria, quando la comunicazione attraverso la tecnologia giunge a livelli che erano inimmaginabili, assistiamo al massimo di incomunicabilità effettiva fra gli umani. La Babele linguistica è fra noi, è esperienza nostra, è realtà vivente.

Tante ne possono essere le cause, esistenziali e sociologiche.

L’individualismo che connota gli estremi sviluppi della Modernità, fino a configurarsi come egocentrismo, esibizionismo e narcisismo di massa, atteggiamenti dilaganti ovunque e in ogni ceto sociale,  riduce il dialogo a monologo, spesso urlato. Tanti solipsismi che si rapportano soltanto con sé stessi, tabe di cui la moda del selfie è emblema esplicito, solipsismi che dilagano nel finto dialogo della Rete.

La piena dell’emotività scaturita da un ego prorompente ma compresso e frustrato dai condizionamenti sociali, dà alle parole connotati tali da essere recepiti sempre in modo distorto: come ben aveva intuito Pirandello, il mondo delle parole è sempre più inadeguato ad esprimere quel mondo interiore, brulicante di esperienze del tutto personali e di pulsioni, che lo rendono incomunicabile, oggi più che in altre epoche in cui i ruoli erano più netti e le relazioni rispecchiavano modalità comunemente accettate e consolidate.

Il rimescolamento di genti portatrici di costumi e mentalità molto diverse, obbliga a comunicazioni verbali fra persone che hanno competenze linguistiche e riferimenti culturali tanto disomogenei da rendere inevitabili continui fraintendimenti.

La rapidità che si impone a ogni livello del vivere nevrotico della nostra civiltà, ha investito anche il linguaggio, riducendo la frase a pochi elementi essenziali che ne impoveriscono lo spessore, e l’impoverimento del linguaggio è perdita di pensiero. Chi tenta di esprimere pensieri e sentimenti complessi attraverso periodi più articolati, vive sistematicamente l’esperienza dolorosa dell’incomprensione, della chiusura, del fraintendimento.

 L’umanità che tende a indiarsi è un’umanità di solitudini che non comunicano, causa non secondaria della crisi della famiglia e della dissoluzione delle appartenenze.

La Torre di Babele è qui, è oggi. La Torre di Babele siamo noi.

 

Luciano Fuschini 

 
La storia si ripete PDF Stampa E-mail

30 Luglio 2014

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Da Appelloalpopolo del 24-7-2014 (N.d.d.)

Nel 1230, Luigi IX di Francia (che poi fu anche fatto Santo) diede il via alla VII crociata con l’intento di riconquistare Gerusalemme. Partì alla volta dell’Egitto con un buon numero di uomini, ma una volta arrivato a destinazione fu accerchiato e fatto prigioniero insieme a tutto il suo esercito. Per la sua liberazione accettò di pagare un riscatto pari al corrispondente di UN milione di Fiorini d’oro di Firenze. Per racimolare tale somma si indebitò pesantemente con i Templari e incaricò un ricco commerciante genovese che risiedeva a San Giovanni d’Atri di andare a Parigi per avere la disponibilità fisica dell’immane somma. Il commerciante non si mosse dalla sua residenza ma incaricò suo padre, residente in Genova, di portare a termine l’incarico. A sua volta, egli incaricò un fiduciario residente in Francia che dietro lauto compenso, finalmente, portò a termine la missione, recandosi personalmente in Egitto per consegnare il riscatto pattuito.

Quello che vi ho appena narrato fu il primo bonifico ante-litteram di cui si abbia notizia, certificato da diversi atti notarili.

Nella seconda metà dello stesso secolo il figlio di un calzolaio francese salì al soglio pontificio con il nome di Urbano IV: egli scalò tutta la gerarchia ecclesiastica sino ad arrivare ad essere primo fiduciario e consigliere particolare del suo predecessore, venendo poi eletto una volta morto quest’ultimo.

L’immensa voglia di potere e di arrivismo, innata in chi fa tale scalata sociale e che ti porta a passare su qualsiasi cosa, facendoti compiere i compromessi più efferati, è stato il carburante che ha permesso ad un plebeo di arrivare al centro di potere MASSIMO conosciuto ed indiscusso dell’epoca.

Quando divenne Papa Urbano IV, il centro-nord d’Italia era nel fulgore dell’epoca ghibellina, mentre al sud il regno del principe Manfredi era al suo massimo apice. Da grande tessitore qual era, per portare la situazione a suo favore, sia politicamente che economicamente, si avvalse dell’arma più potente di cui Santa Romana Chiesa disponeva: la SCOMUNICA.

Egli la usò a propria discrezione, scomunicando le massime città ghibelline, tra cui Firenze e Siena, ma facendo dei personalissimi ed interessati distinguo: non scomunicò molti banchieri toscani, tra cui le potentissime famiglie Peruzzi e Bardi.

La scomunica era così pericolosa poiché “toglieva” il tempo alle città: erano le campane delle chiese a scandire le ore e, ricevere tale anatema, significava la condanna a morte per la vita economica e sociale della città stessa. Con questa manovra portò alla sua corte i banchieri più famosi e potenti del mondo conosciuto: Firenze divenne così potente poichè fu la prima che reintrodusse le monete d’oro: in tutta Europa da diversi secoli si coniavano solo pezzi in argento e così il Fiorino d’oro di Firenze fu adottato come valuta di riserva mondiale.

 

Sistemata la parte economica, al neo papa restava quella politica, ovvero trovare il modo di sbriciolare il regno di Manfredi. All’uopo usò la sua personale amicizia con Luigi IX che lo mise in contatto con suo fratello (D’Angiò), avvisandolo che era uomo scaltro, abilissimo e coraggiosissimo combattente ma POVERO in canna: in pratica non disponeva di nessuna proprietà. Papa Urbano IV, con i potentissimi banchieri suoi alleati e protetti fornì i PRESTITI necessari a far si che il D’Angiò si dotasse dell’esercito necessario a “liberare” il sud Italia da Manfredi e suoi alleati. E così fu. In cambio, i famelici banchieri, chiesero ed ottennero dal papa, oltre al GIUSTO interesse sul prestito fatto, il MONOPOLIO assoluto sul vero ORO del sud: il mercato del grano di Napoli, il più importante del tempo.
I D’Angiò decisero che Napoli doveva divenire capitale e avviarono enormi lavori edili: in pochi anni sconvolsero la Napoli conosciuta, donandole la caratteristica di capitale, essi fecero edificare anche 23 chiese, e pensate, per la sola chiesa di Santa Chiara si indebitarono – immaginate con CHI – per circa un milione di fiorini d’oro.
Nel volgere di un ventennio le banche toscane si arricchirono a dismisura, mentre i commercianti di grano del sud (e tutta la filiera) – una volta ricchissimi e potenti – andarono in miseria.
Quello stesso anno papa Urbano IV morì, si dice per il troppo lavoro (scrisse di suo pugno circa 4.000 atti, certificati da notai).

A volte pensiamo che la miseria che ha contraddistinto il meridione d’Italia sia partita dalla riunificazione, dalla cassa del mezzogiorno o dalla …. Corruzione, ma, come vediamo, la dinamica parte da molto, ma molto più lontano: 700 anni di ricchezze sottratte presentano il conto per SEMPRE.

 

Le banche toscane avevano diramazioni e filiali ovunque in Europa: da Cipro a Londra, dalla Spagna all’attuale Belgio.
Enrico I d’Inghilterra aveva il grande problema dell’insurrezione in Scozia (ricordate Braveheart?) ma i debiti del suo regno non gli permettevano di armare l’esercito che serviva per sconfiggere gli insorti e così, ancora una volta, i banchieri toscani si trovarono nella posizione privilegiata di poter chiedere qualsiasi cosa ad un Re accecato dalla bramosia e dal suo ego e che voleva affermare ad ogni costo il proprio potere.

I potenti banchieri, come fu per il grano di Napoli così PRETESERO ed ebbero da Enrico I la concessione del MONOPOLIO della più importante materia grezza dell’epoca: misero le mani sul mercato della lana di Londra. Il Re d’Inghilterra concesse il tutto senza battere ciglio e i fiorentini si assicurarono tutta la lana necessaria alla loro filiera produttiva in Italia, vendendo a caro prezzo l’eccesso di prodotto grezzo.

Non c’è che dire: i banchieri toscani erano gli ebrei dell’epoca.

Pochi anni dopo, il regnante d’Inghilterra decise che era arrivato il tempo di invadere la Francia e convinse i soliti banchieri a concedere gli enormi prestiti necessari per armare una flotta così potente da permettergli di vincere la guerra: la guerra dei 100 anni. Ma questa volta, come la Storia ci dice, le cose andarono diversamente: l’Inghilterra perse la guerra e i banchieri non videro MAI più il denaro prestato: fallimenti a catena decimarono la potente lobby dei banchieri toscani, mandando in malora centinaia di migliaia tra grossi e piccoli correntisti che avevano affidato i propri risparmi a detti istituti.

In pratica, il denaro usato per i loro sporchi traffici lo metteva INCONSAPEVOLMENTE il risparmiatore.

Vi è traccia di diverse cause intentate dai risparmiatori alle banche toscane, dove le stesse, per difendere l’indifendibile, cercarono (riuscendovi spesso) di corrompere giudici e potere costituito ma questo non bastò: alla metà del 1300 il potere bancario toscano finì miseramente, lasciando immense praterie ai nuovi arrembanti teutonici dallo scudo rosso e loro amici. Fallimento dei Peruzzi (1343)

• Fallimento dei Bardi (1346)

Come vedete la Storia replica sempre se stessa, sino alla fine dei giorni.

Questa notte, il caldo opprimente del “mio” Sud mi ha svegliato, dandomi l’opportunità di seguire una lezione universitaria di Storia economica dall’aula magna della “Federico II” di Napoli, tenuta dell’esimio e napoletanissimo professor Amedeo Feniello, a cui vanno i mie personali ringraziamenti per aver dato spunto a questo mio articolo.

Roberto Nardella 

 
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