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Il destino nel nome (1) PDF Stampa E-mail

20 Aprile 2014

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 Da Contrappunti.info (N.d.d.)

 

Il destino scritto nel proprio nome. Ucraina, parola che significa “sul confine”, una storia che giunge da lontano. Da un lato Kiev e dall’altro Sinferopoli, capitale di quella Crimea nuovamente russa dopo il referendum del 16 marzo scorso. In mezzo Donets’k e Kharkiv e il resto dell’oriente a maggioranza russofona, polveriera annunciata, che rischia di divenire trincea di quell’Europa al solito tanto loquace quanto impotente, schiacciata tra Stati Uniti e Russia, appunto: l’eterna superpotenza e il nuovo impero.

 

 

Se ogni popolo è figlio della propria storia, basta guardarsi alle spalle per iniziare a capire come siamo arrivati a questo punto. “L’Ucraina è un Paese diviso, patria di due distinte culture”, scriveva già nel 1996 Samuel Huntington, allora docente ad Harvard, nel suo saggio “Lo scontro delle civiltà” in cui teorizzava, dopo il crollo del comunismo, la fine dell’identificazione di sé, da parte degli uomini, in base all’ideologia o all’economia, privilegiando invece elementi come lingua, religione, tradizioni.
“La linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa attraversa il cuore del Paese, e così è stato per secoli. Un’ampia parte delle sua popolazione aderisce alla chiesa uniate, che segue il rito ortodosso ma riconosce l’autorità del Papa. Storicamente gli ucraini occidentali hanno sempre parlato ucraino e hanno sempre esibito un atteggiamento fortemente nazionalista. La popolazione dell’Ucraina orientale, invece, è sempre stata in forte prevalenza di religione ortodossa e parla russo”.

 

 

Un identikit preciso di quanto accade in questi giorni disegnato 18 anni fa, quindi, quando l’era di Putin era ancora di là da venire ma già c’era stata la sfida elettorale del luglio 1994, tra l’allora Presidente in carica, Leonid Kravciuk, che si definiva un nazionalista e il rivale Leonid Kucma. Il nazionalista prevalse nelle regioni occidentali con percentuali plebiscitarie, mentre il filorusso Kucma, che imparò l’ucraino in campagna elettorale, trionfò nell’est.
Alla fine vinse Kucma con il 52%. Numeri leggermente diversi premiarono un altro filorusso, il deposto Yanukovich appunto, contro la “pasionaria” della rivoluzione arancione Yulia Timoshenko nel 2010: 48,9% contro 45,5%. La storia non cambia.

 

 

 

La frattura culturale che taglia in due l’Ucraina, quindi, spiega le tensioni che anche oggi caratterizzano il Paese e il contesto nel quale è maturata la secessione della Crimea, tanto promossa e difesa da Mosca quanto osteggiata da Europa e Stati Uniti, che tuonano contro le violazioni del diritto internazionale fondato sulla sovranità degli Stati.
“I russi invadono un altro Paese, violando il territorio di uno Stato sovrano, sulla base di pretesti fabbricati ad arte”, sostiene sin dai primi giorni della crisi John Kerry, segretario di Stato americano assieme a tutti gli altri leader europei.
Parole condivisibili e giuste se non vi fossero stati alcuni recenti accadimenti. Questa proclamazione fa saltare il diritto internazionale fondato sulla sovranità degli Stati”,diceva il generale Fabio Mini, nel 2002-2003 comandante delle truppe Nato in Kosovo, relativamente all’indipendenza della regione balcanica nel 2008. Uno scempio voluto dagli Usa, che in questo diritto non credono e l’hanno dimostrato in Iraq. Sotto quest’aspetto, il Kosovo è l’altra faccia dell’Iraq. Dopo domattina saranno tutti autorizzati a fare lo stesso”.

 

Parole profetiche, a giudicare da quanto avvenuto successivamente, dall’indipendenza dell’ Abkhazia e dell’Ossezia del sud, regioni russofone della Georgia, nel 2008, fino alla Crimea oggi. Lo smantellamento di quel diritto internazionale che a parole tutti vorrebbero difendere, pare.

 

Un concetto, questo, ribadito anche recentemente da Massimo Fini, giornalista e saggista, in alcuni suoi articoli, partendo proprio dalle parole di Kerry: “Che cos’è stato nel 1999, quando l’11 settembre era ancora di là da venire, il bombardamento per 72 giorni di una grande capitale europea, Belgrado, se non la violazione dell’integrità di uno Stato sovrano, la Serbia, con la differenza che in quell’occasione ci furono 5500 morti?”
“Che cos’è l’invasione dell’Afghanistan (2001) in una guerra che dura da 13 anni ed è la più lunga dai tempi di quella dei Trent’anni (più di 100 mila morti civili)? Che cos’è l’aggressione all’Iraq nel 2003 se non l’invasione ‘di un Paese sulla base di pretesti fabbricati ad arte’, nel caso le armi di distruzione di massa che Saddam non aveva più?”.

 

 

E poi ancora, nel suo pezzo dal titolo “La Crimea che (forse) non è il Kosovo”, Fini sottolinea analogie e differenze tra i due avvenimenti: “Nel 2008 gli albanesi proclamarono unilateralmente l’indipendenza. Nel frattempo in Kosovo si è realizzata la più grande ‘pulizia etnica’ dei Balcani, dei 360 mila serbi che ci vivevano ne sono rimasti 60 mila.
Il Kosovo, considerato ‘la culla della patria serba’, appartiene da secoli, storicamente e giuridicamente, alla Serbia, la Crimea fa parte dell’Ucraina solo da qualche decennio, gentile regalo di Kruscev. La Crimea, abitata in maggioranza da russi o da russofoni, confina con la Russia. L’America, con tutta evidenza, non confina col Kosovo.
L’aggressione americana alla Serbia non aveva alcuna giustificazione, né materiale né giuridica e infatti l’Onu non l’avallò. Insomma, pare difficile sostenere che la violazione della sovranità dell’Ucraina è ‘illegittima’, mentre quella della Serbia non lo è”.

 

L’aspetto culturale e politico segna la storia delle vicende di queste settimane, ma per disegnare il quadro completo non si può fare a meno di prendere in considerazione quanto l’Ucraina sia crocevia di interessi economici.

 

Marco Bombagi

 

 

 

 
Le luci della cittą PDF Stampa E-mail

18 Aprile 2014

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Noi italiani, si sa, abbiamo ormai fatto l' abitudine ad essere sempre il fanalino di coda in tutte le classifiche internazionali: investimenti in innovazione, nella scuola, nell' informatizzazione, nello sviluppo economico, eccetera.

Altrettanto vero è, però, che non in tutti i casi essere ultimi risulti in un disonore: dipende dalla voce della graduatoria.

La stampa di regime globalizzata (un quotidiano fondato a fine anni Settanta da chi ora è un arzillo novantenne, per intenderci) ci informa oggi, nell' ennesimo dei suoi cervellotici articoli, che siamo ultimi a livello globale come "Cities that never sleeps"(le città che non dormono mai): nelle aperture 24 h su 24 h di centri commerciali, supermarkets, bar, musei, anche chiese e ristoranti, Milano è "fuori classifica" e Roma quasi cinquantesima.

Se a Tokyo e Sydney e New York, secondo l' articolista, si incontrano alle 3 del mattino "mamme assonnate e stravolte da due turni di lavoro che comprano il latte" o "padri con gli occhi arrossati in cerca di sciroppi per la tosse del bambino"(sic!), tali scene davvero molto edificanti per fortuna non si incontrano nelle notti delle nostre città spettrali, illuminate nel buio notturno solo dalle "croci luminose delle poche farmacie di turno aperte" o da "capannelli di ragazze di vita"(cito ancora dall' articolo).

Bene. Prima di tutto, rispondo all' articolista, il quale ha pure azzardato la profezia che una città sempre aperta è più sicura , che tale asserzione non è per nulla vera.

Le città sono luoghi e agglomerati di persone tenute assieme dalle basi del condiviso, delle reti di rapporti sociali, del collettivo e dai simboli della memoria storica, in cui tutti si riconoscono: i centri storici delle città italiane, quando erano vissuti e popolati, quando erano microcosmi di società organiche, non erano per nulla malsicuri. Anzi, malsicure erano le periferie, anche in età della modernità solida conclusa pochi anni fa. Erano le vie di periferia ad offrire l' immaginario del torbido, del vizio, del disordine, non il calmo e rassicurante centro storico, ora ridotto ad un deserto di negozi di vicinato e di appartamenti, popolato solo da una movida chiassosa e irrispettosa che genera vizi, risse, tassi alcolici e smerci di droghe.

Non servono i bar, i dehors, i discopub e i concerti fracassoni per far rinascere i centri storici e non serve la notte: serve il giorno, serve riattivare la ragnatela dei commerci di vicinato, serve far ripopolare le case ai ceti medi e medio-bassi.

Quanto alle notti brave e bianche di Madrid, Siviglia, Barcellona, ricordo all' articolista che la Spagna ha un clima e una temperie diversi dal nostro e tali notti selvagge altro non sono che l' esasperazione giunta all' eccesso parossistico  di modus vivendi già presenti in epoca premoderna.

Circa le scene di Tokyo, Seul, Sydney, New York, le lascio volentieri ai cittadini destrutturati e zombies ambulanti che ci vivono: non le vorrei mai vedere, qui da noi.

Infine dico all' articolista che l' Uomo è parte della biosfera ed è parte della Natura (ma forse questo lo hanno dimenticato in molti..), quindi il suo ciclo circadiano si basa sull' alternanza luce/buio e sonno/veglia, da che mondo è mondo.

Basterebbe riprendere le antiche abitudini delle passeggiate domenicali e serali (per serali, non leggere: 2 di notte), di cui i vecchi Pubblici Passeggi  sono oggi una muta testimonianza (a Cremona, dove vivo, ve ne è uno, alberato e rettilineo, totalmente deserto e in declino, con un parco bellissimo che potrebbe divenire un punto di riferimento per la cittadinanza), riscoprire il fascino del commercio di vicinato, finirla con la mania demenziale dei suburbi delle villette a schiera, per far rinascere le città italiane, che per struttura urbana sono tra le più armoniose del mondo.

Chi non apprezza ciò, può sempre andarsene a Tokyo a fare 12 ore al giorno di lavoro e comprare il latte sbadigliando alle 3 di notte: sicuri che non arriva a 80 anni.

Ė stata la prima volta, negli ultimi 3 o 4 anni, che ho letto con piacere che siamo ultimi in qualcosa.

Di questo fanalino di coda dovremmo andare orgogliosi.

Simone Torresani

 

 

  

 
Narcisismo PDF Stampa E-mail

16 Aprile 2014

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Da Appello al Popolo dell’11-4-2014 (N.d.d.)

 

Qualche giorno fa, Marino Badiale ipotizzava come possibile spiegazione della mancanza di ribellione dei popoli europei all’austerity, una causa psicologica e/o antropologica. La sua analisi partiva da due saggi che dimostravano come la società capitalistica stia mirando a inoculare sempre più l’ideologia consumistica già nei bambini, che ne sono inevitabilmente corrotti.

In questo post vorrei brevemente affrontare un’altra caratteristica della società dei consumi che potrebbe in parte rispondere alla domanda iniziale: la predominanza nella popolazione contemporanea dell’individuo narcisista.

Questa caratteristica psicanalitica di gran parte di noi occidentali, ci porta alla totale incapacità di instaurare legami paritari con le altre persone (la discussione non è quasi mai accettata), e non ci consente di formare veri e propri gruppi identitari che perseguano il bene comune o comunque un qualunque altro obiettivo a lungo termine e dal non scontato risultato immediato.  Inoltre, visto che il narcisista è portato a cercare in tutti i modi la realizzazione dei propri obiettivi, in caso di fallimento non resta che il suicidio (ahimè gesto eclatante molto presente nei giornali di questi ultimi anni).

Narciso, per cercare di amare la propria immagine riflessa nell’acqua… annegò.

Una lettura che ho fatto recentemente mi ha chiarito come il narcisismo sia legato indissolubilmente all’ideologia del capitalismo, in quanto caratteristica essenziale per consumare a ritmi sempre maggiori il flusso di merci che ci viene imposto. (La vetrinizzazione sociale: il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società. Vanni Codeluppi, 2007)

Nel saggio l’autore spiega come il concetto di “vetrinizzazione” sia fondamentale nella società moderna:

La vetrina ha posto per la prima volta l’individuo di fronte alle merci. Stimolando il senso della vista, ha insegnato a coltivare l’arte dello sguardo, contribuendo dunque in modo significativo alla nascita di quella vera e propria passione voyeuristica che contraddistingue l’odierna cultura occidentale.

Questo fenomeno può essere riassunto in tre capisaldi teorici: l’istantaneità della propria scelta di consumatore e quindi la mancanza assoluta di progettualità, l’isolamento e l’egoismo conseguente di chi vuole raggiungere i propri obiettivi, e l’ansia dovuta all’obbigo sociale di migliorare continuamente le proprie prestazioni.

La vetrina vive dell’istantaneità che caratterizza i consumi. Obbliga a fare delle scelte che non sono le migliori possibili ma solamente le più soddisfacenti in quel determinato momento.

L’individuo ha imparato che è diventato necessario affrontare la vita in solitudine, senza più quei rassicuranti legami garantiti dall’esistenza comunitaria.

…il conseguente obbligo sociale per tutti di promuovere al meglio la propria immagine e migliorare constantemente le proprie performances.

Purtroppo il narcisismo è un lato della nostra personalità che ha occupato tutti gli spazi della vita pubblica e privata, dai mass-media, lavoro, sport, medicina fino al più intimo rapporto con il proprio corpo.

È un’ esigenza del sistema produttivo, il quale ha bisogno che l’individuo renda pubblico il suo consumo privato per poter sintonizzare con esso le strategie di produzione.

Non a caso, il narcisismo è penetrato anche nella politica e nel modo con cui il parlamentare di turno chiede voti ai suoi elettori/consumatori. Esempio ne è il M5S, dove chiunque, non importa che competenze abbia, può essere eletto in parlamento come in un qualsiasi reality show televisivo e, proprio come in un reality, le telecamere riprendono tutti i momenti della vita parlamentare:

Lo spettatore del reality show è affascinato dall’idea che una persona sconosciuta come lui possa diventare celebre. Più il reality si diffonde e si evolve, più gli spettatori si abituano a quello che vedono e più è necessario introdurre delle novità.

Per contrastare il liberismo di stampo europeo e il consumismo ad esso associato, non basteranno soluzioni politiche ed economiche, prima bisognerà agire sul background culturale individualista e narcisista in modo da far riemergere la passione di identificarsi in un gruppo di persone/cittadini che lavorino per un obiettivo comune e che abbia possibilità di agire concretamente sul territorio.

Dobbiamo fare in modo che Narciso rompa lo specchio e impari come si usa la Lira…

Davide Visigalli 

 
L'idolatria del nuovo PDF Stampa E-mail

14 Aprile 2014

 

 

Da Rassegna di Arianna dell’8-4-2014

 

Ad ogni elezione, gli uomini di sinistra pretendono di unire le “forze del progresso”. Ma anche un cancro si può sviluppare ! Il progresso sarebbe un fine in sé?

Gli infelici non sanno più di che cosa parlano ! Storicamente, l’idea di progresso si formula verso il 1680 e si precisa durante il secolo successivo con uomini come Turgot o Condorcet. Il progresso viene quindi definito come un processo che accumula delle tappe tra cui la più recente è sempre giudicata preferibile e migliore, cioè qualitativamente superiore a quella che l’ha preceduta . Questa definizione comprende un elemento descrittivo (un cambiamento interviene in una data direzione) ed un elemento assiologico (questo progresso è interpretata come un miglioramento). Si tratta di un cambiamento orientato, ed orientato verso il miglioramento, sia necessario (non si ferma il progresso) che irreversibile (nessuno ritorno indietro è possibile). Il miglioramento, ineluttabile, significa che l’indomani sarà sempre meglio.

Per gli illuministi, dato che l’uomo agirà nell’avvenire in modo sempre più “illuminato”, la ragione si perfezionerà e l’umanità diventerà moralmente migliore. Il progresso, il quale non affetta solo l’ambiente esterno dell’esistenza, trasformerà l’uomo stesso. È ciò che Condorcet esprime in questi termini: “La massa totale del genere umano cammina sempre verso una maggiore perfezione.”

La mitologia del progresso si basa sull’idolatria del nuovo, poiché ogni novità è giudicata a priori migliore solo perché è nuova. La conseguenza è il discredito del passato che non può più essere considerato come portatore di esempi o di lezioni. Il paragone del presente e del passato, sempre a favore del primo, permette anche di svelare il movimento dell’avvenire. La tradizione, percepita, per natura, come un’ ostacolo al progresso, l’umanità deve liberarsi da tutto ciò che potrebbe impicciarlo: staccarsi dai “pregiudicati”, dalle superstizioni”, dal “peso del passato.” Questo è già  il programma di Vincent Peillon ! All’eteronomia tramite il passato, si sostituisce l’eteronomia tramite il futuro : è ormai il futuro radioso che è supposto a giustificare la vita degli uomini.

 In questo senso, la “reazione”  può far riflettere, ma ragionare solamente ” contro” non  significa abbandonare ogni pensiero autonomo?

La “reazione” è sana quando nutre lo spirito critico, più discutibile quando si limita a dire che “era meglio prima”. La critica dell’idea di progresso che all’epoca moderna inizia con Rousseau, rappresenta spesso il doppio negativo – il riflesso speculare – della teoria del progresso. L’idea di un movimento necessario della storia è conservata, ma in una prospettiva invertita: la storia è interpretata, non come progressione continua, ma come regressione generalizzata. La nozione di decadenza o di declino appare infatti così poco oggettiva tanto quella di progresso. Inoltre, come  dite, limitarsi ad analizzare ” contro”, significa restare ancora dipendenti da quello a cui ci opponiamo. È in questo senso che Walter Benjamin poteva dire che “l’antifascismo fa parte del fascismo”.

“Progresso”  e “reazione”  non si richiamano tutti e due ad una visione lineare della storia, la quale potrebbe risultare da cicli ?

Dai Greci, solo l’eternità del cosmo è reale. La storia è fatta di cicli che si succedono come le generazioni e le stagioni. Se c’è salita e discesa, progresso e declino, è all’interno di un ciclo al quale ne succederà un altro (teoria delle età successive da Hésiode, del ritorno dell’età di oro da Virgilio). Nella Bibbia, al contrario, la storia è puramente lineare, vettoriale. Ha un inizio assoluto ed una fine necessaria. La storia diventa quindi una dinamica di progresso che mira, in una prospettiva messianica, all’avvento di un mondo migliore. La temporalità è, inoltre, orientata verso il futuro, della Creazione al Giudizio ultimo. La teoria del progresso secolarizza questa concezione lineare della storia, da cui derivano tutti gli storicismi moderni. La differenza maggiore è che l’aldilà è ripiegato sull’avvenire, e che la felicità sostituisce la salvezza. 

Ma la gente crede ancora al progresso?

L’eccellente Baudoin di Bodinat nota che, “per giudicare il progresso, non basta conoscere ciò che ci porta, bisogna anche tenere conto di ciò di cui ci priva.” Il fatto è che molti progressi in un settore creano una perdita, una mancanza o una regressione in un altro. I totalitarismi del XX secolo e le due guerre mondiali hanno, evidentemente, minato l’ottimismo dell’illuminismo. Non si crede più molto al “senso della storia” né che il progresso materiale renda l’uomo automaticamente migliore. L’avvenire stesso ispira più inquietudini che speranze, e l’aggravamento della crisi sembra più probabile degli “indomani che cantano”. Anche la tecnoscienza lo attesta, di cui l’ambiguità si rivela un po’ di più ogni giorno, come lo mostrano i dibattiti sulla “bio-etica.” In Breve, come  diceva lo scrittore italiano Claudio Magris: “Il progresso non è un orgasmo !”.

Per essere completo, bisogna riconoscere che, tramite i progressi della tecnologia e dell’ideologia dello “sviluppo”, la nozione di progresso resta nonostante tutto presente in una società che, poiché crede ancora che “più” sia sempre sinonimo di ” meglio”, ricerca o accetta la sovraccumulazione infinita del capitale e l’estensione perpetua della merce.

Alain De Benoist

 



 




 

 
Involuzione del socialismo PDF Stampa E-mail

12 Aprile 2014

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Da Appello al Popolo dell’1-4-2014 (N.d.d.)

 

La dicotomia destra-sinistra viene di solito fatta risalire agli anni della Rivoluzione francese, quando a una nobiltà terriera che esercitava il potere politico si contrappose una borghesia mercantile convertita alle idee liberali. Sono appunto i liberali a rappresentare, per quasi tutto quel secolo, la «sinistra», cioè il gruppo politico che nei parlamenti siede alla sinistra del presidente. Questa borghesia, al potere con la III Repubblica, espresse la predisposizione cosmopolita della Rivoluzione dell’89 e diffuse l’idea ‘moderna’ che vedeva nello «sradicamento dalla natura e dalla tradizione il gesto emancipatore per eccellenza e l'unica via d'accesso a una società “universale” e “cosmopolita» (J. C. Michéa).  Globalizzata, diremmo oggi, stadio ultimo dell’economia capitalista.

Mentre il capitalismo si affermava come forza dominante, il movimento dei lavoratori si organizzava in associazioni e partiti e si autodefiniva. Nel 1833 compare per la prima volta la parola «socialismo» in un articolo “De l’individualisme et du socialisme”, in cui il teorico socialista Pierre Leroux precisa: “ci si è abituati a chiamare socialisti tutti i pensatori che si occupano di riforme sociali, tutti coloro che criticano e disapprovano l’individualismo, tutti quelli che parlano, in diversi termini, di provvidenza sociale e di solidarietà che riunisce non solo i membri di uno stato ma l’intera Specie umana”. Inoltre affermava: «lungi dall'essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l'uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società» .

Orbene, i primi socialisti, che sono soprattutto artigiani e operai, non si presentano affatto come uomini «di sinistra», espressione che, all'epoca, designa soltanto i borghesi «radicali». «Il socialismo non era, in origine, né di sinistra né di destra. A Sorel o a Proudhon, a Marx o a Bakunin non sarebbe mai venuto in mente di definirsi «di sinistra» (J. C. Michéa). Il nascente movimento socialista si oppone certo ai privilegi delle caste e delle gerarchie dell'Ancien Régime, rappresentati dalla destra monarchica, clericale e ‘reazionaria’; ma prende le distanze sia dalla borghesia conservatrice che dai «repubblicani» e da altre forze di «sinistra». In definitiva, rifiuta l'individualismo illuminista, ereditato dall'economia politica inglese, che esalta i valori mercantili; e ugualmente il capitalismo borghese, sfruttatore del lavoro manuale, rappresentato dalla sinistra illuminista. In un panorama politico e ideologico più articolato e differenziato rispetto a quello odierno, che mostra una semplificante, e ormai fuorviante, dicotomia destra/sinistra, il socialismo delle origini non aderiva a una sinistra «progressista», che esaltava appunto i valori del «Progresso» e li trasformava in dogmi quasi religiosi.

Alla religione del Progresso illimitato s’erano convertiti i liberali e i repubblicani, rappresentanti della borghesia del capitale che, determinati dapprima ad affermare i diritti fondamentali della persona, finirono poi per generare, attraverso l’economia liberista, grandi ed esclusive ricchezze accanto a grandi e diffuse povertà. Il movimento socialista, al contrario, aveva saputo cogliere fin dagli inizi gli aspetti alienanti indotti dal Progresso, cioè dall'industrializzazione capitalistica e dal cosmopolitismo, che investiva e travolgeva drammaticamente i "nuovi schiavi salariati" e le comunità. «Per i primi socialisti era chiaro che una società, nella quale gli individui non avessero avuto più nient’altro in comune che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati, non poteva costituire una comunità degna di questo nome» (J.C. Michèa). I primi socialisti dunque, pur rifiutando il principio di dominio gerarchico dell’Ancien Régime, non osteggiavano il passato. Essi venivano dal popolo e per il popolo il passato era la continuità storica, “da cui provenivano le consuetudini, le forme particolari della vita locale, che fanno emergere da sempre un mondo comune e comunitario”. Del passato accettavano il principio «comunitario» (il Gemeinwesen marxiano); e i valori tradizionali, morali e culturali che lo sottendevano non erano ancora una costrizione.

La dicotomia destra/sinistra entra pienamente nel discorso politico solo verso la fine del XIX secolo, quando la sinistra, da iniziale indicazione di schieramento parlamentare borghese, evolve in soggetto sociale e politico e si diffonde universalmente, a partire dalla Francia negli anni in cui si aggrovigliò e si sciolse l'affaire Dreyfus. Quel caso giudiziario, trasformatosi in questione politica, divise il paese in dreyfusardi (repubblicani) e antidreyfusardi ((clericali, nazionalisti, antisemiti)”. L’affaire, che il socialista Jaurès definì "guerra civile borghese", influenzò profondamente la politica interna della Francia e vide le correnti repubblicane-radicali allearsi con i socialisti e sconfiggere i conservatori, in particolare le alte sfere militari. In quella temperie, la “gauche” liberale e repubblicana, preoccupata di perdere la battaglia contro la destra monarchica e clericale, stipulò un compromesso tattico con le organizzazioni socialiste, influenzate allora dalla socialdemocrazia tedesca e dal marxismo. Il compromesso, nato da quella paura, partorì esiti politici e ideologici che, visti in prospettiva storica, non furono del tutto positivi, perché crearono una confusione tra due termini: emancipatore e moderno, che furono a torto ritenuti sinonimi. In nome del ‘progresso’ e della ‘modernità’, il movimento socialista fu indotto gradualmente a far confluire la lotta di emancipazione operaia dal dominio capitalista in quella per la modernità del popolo di sinistra contro l’arretratezza del popolo di destra. Da una parte quel compromesso confermò definitivamente l’individualismo liberale, nucleo dottrinario illuminista, come “forza di progresso”; dall’altra, rese incomprensibile l’originario dissidio socialista contro l’industrializzazione, pur essa moderna, del capitale liberista; ma rese anche fiaccamente convincente la critica contro l'ingiustizia del diritto astratto. Per Marx, come per la maggior parte dei primi socialisti, i nuovi "diritti dell'uomo", rappresentavano i diritti del “borghese”, vale a dire dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità"(J.C.Michea). La dottrina liberale, infatti, considerava soltanto i diritti individuali del cittadino, ignorando i condizionamenti socio-economici che, di fatto, impedivano di esercitarli.

Da quando la corrente libertaria individualista e quella comunitaria socialista confluirono, la causa del popolo cominciò a disciogliersi nell’ideologia progressista,“distintivo identitario dalle proprietà quasi religiose", proprio del Capitale. Il movimento socialista, situatosi a “sinistra”, volle essere il partito dell’avvenire contro il passato, annunciare la modernità inarrestabile, rifiutare per principio e partito preso tutto ciò che la “sinistra” ottocentesca disprezzava come “ieri”, come “ancien”. In parallelo con repubblicani e liberali anche il movimento socialista, e poi comunista, riprese l'ideale progressista del produttivismo ad oltranza. Quel progetto industrialista e iperurbano avviava lo sradicamento delle classi popolari, consegnandole inermi all'influenza del Capitale ‘cosmopolita’, perché comportò dapprima il distacco dal mondo delle tradizioni, dai ‘pregiudizi’, dall’interiorità, dall’attaccamento ‘irrazionale’ a persone e luoghi; in seguito servì per estraniare i lavoratori dallo Stato, dal Popolo, dalla Patria, valori che allora furono considerati come propri dei ceti borghesi e a essi sconsideratamente attribuiti e ceduti per troppo tempo, ma che oggi si rivelano, poiché non mercificabili, come le barriere più efficaci contro il progetto globalizzante del capitale finanziario e dei mercati.

D’allora in poi, la società socialista fu vagheggiata soltanto dentro il sogno metafisico di un’umanità in corsa verso un mondo radicalmente nuovo, emerso dall’oscurantismo, governato soltanto dalle leggi universali della ragione. A questa visione valse la pena «immolare il presente all'avvenire», disprezzare tutto ciò che nel popolo la retorica progressista della moderna società capitalista ritenne “oscurantista", "arcaico", "male" e "ignoranza", prodotti, ça va sans dire, dalle società pre-moderne. In definitiva, per qualificarsi «di sinistra», bisognava far parte di coloro che, per principio, si rifiutano di guardare indietro per non rischiare la sorte di Orfeo, il personaggio della mitologia greca che, disceso agli inferi, diffidato dal guardare Euridice sua sposa, non resiste all’impulso di voltarsi indietro per mirarla, perdendola per sempre. (Jean-Claude Michéa, Le complexe d'Orphée) [...] L’ingannevole spartiacque destra-sinistra si imporrà definitivamente all'indomani della Prima Guerra mondiale. Con la Rivoluzione d’Ottobre riemerse di nuovo il disprezzo verso l’”ancien”, il passato arretrato, ora rappresentato non più da nobili e clero, ma dai contadini russi, movimento pur socialista e comunitario ma definito “populista”, termine che fu usato per la prima volta nella storia in senso dispregiativo. Oggi molti sinceri socialisti, sconcertati, osservano la "sinistra" trasmutarsi, far propri i dogmi liberisti, farsi organica al progetto di dominio globalcapitalista, rendere equivoco il termine che la definisce e generare fraintendimenti. La “sinistra” sembra essere tornata al suo codice genetico, alle sue origini liberali e individualiste; non più per affermare i diritti formali e astratti della società borghese, ma per proclamare nella sfera individuale diritti di nuova ideazione, quelli che il giurista Barra Caracciolo definisce “cosmetici”.

Cosmetici sono quei diritti che i media e il ceto politico sovra-espongono e “gonfiano” artificiosamente oltre ogni comprensibile e motivata urgenza sociale e civile. Su questi nuovi diritti una ‘sinistra’ politica e culturale, legata a filo doppio con gli apparati europeisti, promuove, alimenta e spettacolarizza dibattiti vistosi e chiassosi. Lo scopo, non sempre palese, è distrarre l’opinione pubblica dalla riduzione, dalla cancellazione, dal massacro dei diritti veri, quelli sociali, che la Costituzione Italiana riconosce come sostanziali, fondamentali, preminenti e sommamente irrinunciabili come regolatori dei conflitti. Sui diritti sociali il dettato costituzionale si contrappone radicalmente ai trattati dell’’Unione europea, gradino globale ultraliberista, che li riduce, li comprime e li sovverte. Dai diritti sociali la strategia eurounionista  scinde i “nuovi diritti”, indicandoli come gli unici degni di essere goduti perché non comportano spesa pubblica né intervento dello Stato. È un’operazione di facciata, ingannevole, perché sottende che lo Stato, per tutelare i diritti degli individui, non deve intervenire nell’economia e perciò il suo ruolo non è importante e la sua presenza non è essenziale. Questi nuovi ‘diritti’, che sociali non sono, sono funzionali alla strategia e al disegno di demolizione dello Stato interventista in economia. La ‘sinistra’ eurounionista, prestandosi a questa campagna mediatica di distrazione di massa, narcotizza i lavoratori e i loro bisogni di assistenza e di previdenza, facendo dimenticare che, prima di essere donne, o omosessuali, o neri, o bianchi, o etero, o cristiani, o musulmani, si è cittadini. Tramite i diritti cosmetici una sinistra “in cerca d’autore” propaganda la visione di una società formata da gruppi umani che avrebbero già risolto i problemi materiali del vivere quotidiano e quindi possono dedicare tempo ed energia per farsi riconoscere diversità individuali e culturali; oppure di una società di individui che, paghi di visibilità comportamentale, diventerebbero civilmente più degni anche senza casa, senza lavoro, senza assistenza sanitaria, senza pensione, senza istruzione. Tutti questi nuovi presunti diritti servono non solo a distrarre, ma anche a suscitare guerre culturali fasulle tra cittadini impoveriti.

Luciano Del Vecchio

 

  

 
Paragoni improponibili PDF Stampa E-mail

10 Aprile 2014

 

 

Ci risiamo. Non passa giorno, non passa telegiornale, giornale radio, articolo o approfondimento in cui non si dica, come in un mantra, che la disoccupazione in generale e giovanile in particolare abbia toccato le punte più alte dal 1977.

Le ultime cifre, impietose, sono del 42,4 % per la fascia giovanile sino ai 24 anni e per un mostruoso 13% in riguardo a tutta la popolazione in età di "forza lavoro"(passatemi il bruttissimo termine , tipico dell' età industriale).

Diciamo subito che la disoccupazione è uno dei grandi problemi se non "il" problema numero uno” dell' Italia attuale, quindi nessuno vuol prendere alla leggera siffatti dati.

Quello che urta, che infastidisce, è il continuo termine di paragone col 1977: certo, io nel 1977 ancora non ero nato, ma ho studiato a fondo il periodo quindi so di che parlo.

Prima di tutto, nel 1977 la disoccupazione era congiunturale, dovuta ad almeno tre fattori: 1- le conseguenze degli shock petroliferi del 1973-74, con fasi recessive del mondo occidentale; 2- lo squilibrio territoriale, mai risolto, tra Nord e Sud e 3- l' immissione in massa dei baby boomers neolaureati su un mercato del lavoro, quello italiano, che non riusciva ad assorbirli tutti. Nel 1946 gli universitari erano poche decine di migliaia, nel 1977 si contavano a centinaia di migliaia.

Nel 1977 i Marchionne non minacciavano di produrre le  auto in Serbia (pardon, nella Jugoslavia di Tito) o nella Cina da pochi mesi uscita dal delirio rivoluzionar-culturale (?!?) del maoismo.

Nel 1977 i "BRICS" erano fantascienza pura, la robotizzazione agli inizi, le masse dei salariati col cartellino uno spettacolo usuale fuori dalle fabbriche: il rapporto di 20 lavoratori espulsi per uno assunto dalla innovazione tecnologica era, infatti, ben al di là da venire.

Nel 1977 noi avevamo la lira (leggi:sovranità monetaria) e il mercato mondiale era mille volte meno competitivo, solo  leggere "made in Taiwan " su un prodotto induceva a risate grasse.

Nel 1977 la Germania, pardon la Germania Ovest, aveva un PPA come indicatore macroeconomico minore che l' Italia; allo stesso tempo i salari italiani erano più elevati di quelli tedeschi (occidentali) e la produzione industriale quasi alla pari, tra i due Paesi.

Nel 1977 le manovre finanziarie e le politiche monetarie erano decise a Roma, a Bonn, a Parigi, a Dublino..cioè dai governi italiano, tedesco (occidentale), francese, irlandese..ora, tutto viene supervisionato dai tecnoburocrati mai eletti da nessuno, a Bruxelles.

Nel 1977 l' economia mondiale non era ancora finanziarizzata col rapporto di 8:1 (ma c' è chi si spinge a 10:1 o 12:1) tra economia reale ed economia speculativa improduttiva.

Nel 1977, infine, i giovani avevano i coglioni per  scendere in piazza, facendo  sudare freddo i politicanti. Informarsi, prego, sulla reazione dei giovani dopo la morte di Francesco Lorusso nella giornata di Bologna dell' 11 marzo di quell' anno.

Oggi i giovani vanno su "Ask.fm" o su "Twitter", a fare la rivoluzione dei "bit".

Continuare a paragonare ossessivamente il 2014 al 1977 significa dare a bere ai gonzi che la fase attuale di crisi è transeunte, mentre in realtà di transeunte non vi è nulla in questa contingenza che stiamo vivendo.

Siamo alle solite: robe vecchie, dice il popolo bue, chi se lo fila il 1977, chi se la fila la Storia.

I risultati, però, alla fine si vedono.

Beatevi nella vostra bovina ignoranza.

Historia magistra vitae est.

Simone Torresani

 

 
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