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Diverse sovranità PDF Stampa E-mail

17 Marzo 2014

 

Da Appello al Popolo del 4-3-2014 (N.d.d.)

Poichè parliamo spesso di sovranità, è interessante analizzare il suo significato. Qui tento di individuare alcuni aspetti del concetto di sovranità.

Conviene partire da una definizione di sovranità, ripiglio quella che avevo fornito per anarcopedia:

La sovranità è una forma di potere che non riconosce alcuna autorità di livello superiore. Solitamente la sovranità è intesa a livello dello Stato (che solitamente si identifica con lo stato-nazione). In altre parole lo Stato è un potere sovrano che non dipende da altri poteri.

Qui emerge una delle contraddizioni del concetto: sovranità deriva etimologicamente da sovrano, cioè re, esso è intimamente legato a concetti monarchici.

In un modo che dà da pensare, nelle odierne democrazie si parla spesso di "sovranità popolare".

Insomma la sovranità, che è un concetto riferito ad una persona, ad un singolo, la massima autorità di uno Stato, viene oggi concepita come un concetto pluralistico, di un popolo. Nasce poi in ambiente monarchico e vorrebbe essere applicato in ambito democratico. Qui c’è qualche aspetto paradossale, su cui vorrei tornare dopo.

 Ma restiamo per ora alla sovranità come è citata nella Costituzione italiana:

Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Emerge qui una visione della sovranità che deriva dal grande costituzionalista Kelsen: la sovranità viene fornita tramite la Grundnorm, la legge fondamentale (la Costituzione) sulla cui base viene costruito l’edificio giuridico. In questa visione la sovranità si costruisce sulla legge.

Il concetto può essere capovolto, facendo diventare la Costituzione come la legge di grado più elevato, da cui discendono tutte le altre.

Non cambia molto, ma rende l’idea di una legge che discende dall’alto, invece che costruita dal basso.

Nella prospettiva di Kelsen si evita però di introdurre la possibilità di una legge che discende da un ente esterno, l’idea della legge divina che per millenni è stata considerata valida.

Eppure un altro famoso giurista ammoniva che tutti i concetti politici originano dalla teologia. Era Carl Schmitt, più famoso per un altro concetto di sovranità: “Sovrano è chi decide lo stato di eccezione”.

La prospettiva di Schmitt è basata sull’idea che la legge non può prevedere ogni situazione, ci saranno delle situazioni eccezionali in cui bisognerà prendere decisioni, anche se non c’è una norma esplicita. Per lui il sovrano è colui (o l’ente) che decide cosa fare in questi casi eccezionali.

Anche se non è molto esplicita, anche la sovranità di Schmitt è presente nella nostra Costituzione, perché essa deve prevedere cosa fare nelle situazioni impreviste. Essa compare negli artt. da 134 in poi.

Art. 134. La Corte costituzionale giudica:

sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni;

sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni;

sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.

 Particolarmente interessante l’ultimo comma dell’art 137.

Contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione.

 Insomma se si volesse leggere la nostra Costituzione con la visione di Schmitt, la sovranità vera sarebbe qui, e risiederebbe nella Corte costituzionale, non nel popolo. Ci sarebbe certamente qualche aspetto di forzatura, perché la Costituzione fu scritta in un’ottica alla Kelsen, ma qui emerge l’idea che esista un’altra sovranità, oltre a quella citata esplicitamente, la sovranità di chi decide ed ha l’ultima parola.

Un’interessante conseguenza è che la Corte costituzionale non è solo un organismo giuridico, ma ha sostanziali contenuti politici.

 Vale comunque la pena di ricordare che Kelsen e Schmitt furono spesso in polemica tra loro, ottenendo notorietà con le loro controversie oltre che con le loro idee.

Nel frattempo in Italia il nostro Costantino Mortati, senza troppo clamore, definiva l’idea di costituzione materiale, come qualcosa di vivente nella nazione, nel suo popolo e nelle sue istituzioni, qualcosa che si poteva discostare fortemente dalla norma scritta. Mi resta la sensazione che avesse visto più lungo degli altri due famosi giuristi.

In ogni caso, le due visioni di Kelsen e Schmitt mostrano due visioni alquanto interessanti di sovranità, decisamente diverse tra loro.

Ma il discorso è ben più complesso. La parola sovranità compare ancora all’ art. 11:

L’Italia … consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Qui compare un concetto diverso dai precedenti, ancora una volta poco esplicitato, l’Italia vuole essere uno Stato sovrano che decide in sua autonomia le politiche e le decisioni da adottare. Insomma uno Stato è sovrano quando non ci sono ingerenze di altri Stati.

Qui la questione non è chi decide all’interno dello Stato, ma che lo Stato è capace di decidere di suo, che non è una colonia amministrata da un viceré. Forse qui la prudenza dei padri costituenti ha evitato di inserire dichiarazioni che non si potevano mantenere, vista la sconfitta subita nella II Guerra mondiale (e le onerose condizioni di pace), eppure questo concetto di sovranità è ben visibile nel diritto all’autodeterminazione dei popoli presente nelle dichiarazioni ONU. (Ad esempio la Carta delle Nazioni Unite, 26 giugno 1945; art. 1, par. 2 e art. 55)

Questo è un principio molto citato e poco applicato. Eppure se lo Stato non è sovrano, ha senso parlare di sovranità al suo interno?

Va detto che all’interno della sovranità statale si ritrova la sovranità monetaria della MMT (diffusa da Paolo Barnard con varie spiegazioni, inizialmente Modern Money Theory): uno stato ha la sovranità monetaria quando è padrone della propria moneta e della propria Banca centrale.

Qui conviene aggiungere il commento di un utente di Comedonchisciotte. (Jor-el)

Il discorso della sovranità è costellato di tabù, il più grande dei quali è quello che riguarda la sovranità militare, di cui non si può assolutamente parlare e che invece è direttamente collegata alla sovranità politica e monetaria. Con un paletto del genere, sfido che i discorsi diventano "complicati"! Viceversa, una bella mappa dell'Europa in cui siano ben evidenziate le centinaia di basi militari straniere (magari sovrapponendo ad essa quella dei flussi del contrabbando di droga o dei migranti) chiarirebbe molte cose.

E quindi quella che per Benigni era “la Costituzione più bella del mondo “ qualche dimenticanza la ha.

 Vorrei ritornare in chiusura sul paradosso iniziale, di come conciliare l’idea di re con il popolo sovrano. Sembrano concetti alquanto incompatibili, eppure Antonio Gramsci fece un’operazione di questo tipo, partendo dal “Principe” di Machiavelli per arrivare alla moderna forma del principe, che per lui doveva essere un partito politico, vivo, attivo, egemone.

E allora sì , in un'ottica gramsciana il popolo sovrano può esistere. Se è un popolo attivo, militante, impegnato. Non è un popolo di elettori.

Truman

 

  

 
Psichiatria repressiva PDF Stampa E-mail

15 Marzo 2014

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Tra poco arriverà la traduzione italiana del DSM-5, pubblicato in lingua inglese dall’American Psychiatric Association a maggio del 2013.

Il DSM, cioè il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (noto con la sigla DSM derivante dall'originario titolo dell'edizione statunitense Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) è uno dei manuali per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella pratica clinica che nella ricerca. Una “bibbia” che ha una grande influenza internazionale sul trattamento sanitario dei disturbi mentali ed ha quindi notevolissime ricadute a livello sociale, dal momento che è attraverso questo manuale che si decide se una persona è “normale” oppure è “malata”. Perciò ogni cambiamento nella definizione dei disturbi in questo manuale comporta profonde conseguenze sia sociali che economiche.

Per le conseguenze economiche si tratta del denaro speso o risparmiato dai cittadini e dai sistemi sanitari nazionali. Naturalmente la malattia comporta sempre esborsi privati e pubblici per visite mediche, esami clinici, farmaci, obblighi nei confronti della disabilità, sostegno scolastico, assenteismo lavorativo, ecc. Le malattie fisiche, però, si diagnosticano con elettrocardiogrammi, radiografie, esami del sangue, biopsie... Per le “malattie” mentali, invece, nulla da esaminare al microscopio, ma solo delle “teorie culturali” che codificano i comportamenti umani come “sani” o “malati”.

Naturalmente è una buona cosa cercare di capire e di identificare la follia per poter aiutare le persone che ne sono affette. E, nella storia europea, saranno proprio i trattati, quello di Chiarugi del 1793 e di Pinel del 1800, che renderanno possibile individuare la follia, permettendo così di liberare i folli dal sistema coercitivo e dalle catene con cui venivano segregati, per essere sottoposti a terapie. E se l’armamentario della cura in quel periodo storico era ancora enormemente violento, perlomeno aveva lo scopo di conseguire quello che nella storia della follia fu un’autentica svolta: una possibile cura, visto che prima d’allora la follia era considerata malattia sempre incurabile.

Ma il problema della definizione di quali siano i comportamenti folli e quali no, resta. Per esempio, nel DSM-II, edito nel 1968, l’omosessualità fu definita un disturbo, una malattia psichica. Definizione che nel 1973 fu però rimossa a seguito delle numerose proteste.

E resta anche il problema di sapere se la malattia mentale è dentro la testa delle persone oppure se essa è il risultato perpetrato dall’attuale assetto tecno-strutturale della società (capitalistica) occidentale. Perché se la follia è solo nella testa delle persone, magari localizzata in talune parti del cervello, allora in fondo ha ragione il premio Nobel per la psichiatria del 1949, Antonio Caetano de Abreu Freire Egas Moniz, che utilizzava per la cura della follia la lobotomia. Ma se invece la malattia mentale è il risultato dell’assetto sociale, allora la nostra attuale società è davvero una fabbrica di follia, ed è da questa che occorre iniziare la cura.

Una cosa è certa: il DSM-IV, edito nel 1994, aveva fatto salire alle stelle i dati epidemiologici di malattie quali l’autismo, il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), ecc., “epidemie” che avevano favorito una crescente tendenza a far passare molte difficoltà della vita per malattie mentali da trattare con i farmaci. I disturbi dell'umore nell'infanzia e nell'adolescenza, per esempio, erano aumentati di 40 volte, generando una pericolosa impennata di prescrizioni farmacologiche per i bambini anche di appena 3 anni. Un nome per tutti: il famigerato Ritalin.

 

Ora, a qualcuno può anche venire il dubbio che qui s’intenda suggerire che la malattia mentale non esiste. Non è così. Certo che esistono disordini di personalità, depressioni e quant’altro. Il problema è di non “psichiatrizzare” inutilmente numerose persone con l’intento, per esempio, di far aumentare l'uso di farmaci. E invece pare proprio che il DSM-5 produrrà un’esplosione di nuove diagnosi e una medicalizzazione in massa della normalità che sarà un’autentica miniera d'oro per l'industria farmaceutica. Sarà un puro caso che la metà degli psichiatri che hanno partecipato alla stesura dell'ultima edizione del DSM ha avuto rapporti economici con case farmaceutiche?

Inoltre nel DSM-5 c’è, tra le molte (discutibili) novità, anche un capitolo nuovo: quello sui disturbi del controllo degli impulsi e disturbi da comportamento dirompente. Non che prima non ci fosse nulla al proposito, ma in questo DSM è stato creato un capitolo a parte, ed è stata abbassata la soglia per dire che c’è un disturbo, una “malattia” mentale. Per esempio, nel DSM-IV per diagnosticare un Disturbo Esplosivo Intermittente era richiesto che ci fosse stata un’aggressione fisica. Per il DSM-5 basta un’aggressività verbale e non distruttiva per soddisfare i criteri di diagnosi. Ora, non per essere maligni, ma una domanda a chiunque sorge sicuramente: ci si sta forse preparando per “internare e curare” tutti coloro a cui questa società non va bene e che, quindi, protestano? La protesta infatti, anche se non violenta, soddisfa i criteri di diagnosi del Disturbo Esplosivo Intermittente.

Certo è quantomeno strano che, giusto un anno prima dell’uscita del DSM-5, cioè nel maggio 2012, sia stata avanzata dall’On. Ciccioli la proposta di modificare la legge Basaglia. In tale proposta il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) diventa trattamento sanitario necessario (TSN), non prevede il consenso del paziente ed ha una durata di 15 giorni, contro i 7 previsti dall’attuale normativa. Se guardiamo questa proposta di modifica (che per ora è solo proposta e non legge) unitamente a quanto viene stabilito nel DSM-5 al capitolo relativo al controllo degli impulsi e disturbi del comportamento, possiamo ipotizzare che tutto lo staff de Il Ribelle, lettori compresi, è già a rischio d’internamento coatto.

Inoltre tale proposta di modifica della legge Basaglia prevede che il TSN, dietro richiesta del medico, possa essere rinnovato sino ad un anno. E, infine, che nei casi in cui la convivenza con il paziente comporti rischi per l’incolumità fisica sua o dei suoi familiari, questi debba essere trasferito in una residenza idonea messa a disposizione della Regione/Provincia.

Ora, considerando che il campo della salute mentale è diventato sempre più residuale all’interno del Sistema Sanitario, che l’aziendalizzazione ed i tagli hanno logorato le concrete pratiche di cura e assistenza pubblica, è ovvio che tale provvedimento, più che agevolare le famiglie ed il malato, ha l’intento di favorire le strutture sanitarie private, visto che esse potrebbero contare sull’acquisto di un posto letto per un anno (cosa che invece oggi non avviene).

Una cosa è certa: da anni il modello bio-medico-statistico utilizzato nel DSM risulta dominante, e questo accade nonostante le scarsissime evidenze della sua efficacia sia sul versante eziologico che psicofarmacologico. Questo modello, poiché si pone come unico e indiscutibile, a coloro che si trovano a dover fronteggiare la grave sofferenza mentale personale, di persone vicine, o di persone di questa società, non permette nemmeno di ipotizzare che i modi e i metodi da utilizzare possano passare al di fuori dei pesanti condizionamenti delle case farmaceutiche, al di fuori della logica di un sistema sanitario qualora orientato all’arricchimento di pochi a discapito di chi sta male. Eppure è possibile: una miriade di esperienze quotidiane ci dimostra che è possibile fronteggiare la grave sofferenza mentale in modo “pulito” ed efficace. E senza che le diagnosi vengano utilizzate, invece che per aiutare, per controllare la popolazione.

Un rischio, questo, che oggi si sta facendo inequivocabilmente vicino. E che passa anche attraverso il cambiamento nelle definizioni dei disturbi avvenuto nel DSM-5.

Tina Benaglio

 

 
Rifondazioni fallimentari PDF Stampa E-mail

13 Marzo 2014

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Il peggior difetto per un partito risiede nel non capire i tempi. Io desidero premettere di non ritenermi assolutamente un voltagabbana o uno che rinnega ciò che è stato. Ma ovviamente è fallimentare qualsiasi esperimento politico che spera di essere trapiantato in una realtà della quale ignora le effettive attuali necessità.

La nuova Alleanza Nazionale ha , tra le altre, la grave colpa di nascere non comprendendo affatto che a problemi nuovi si danno risposte  attuali. Sembra quasi che questi signori credano di poter rispolverare una vecchia fiamma , qualche vecchio slogan e poter lanciare un partito di successo. Il tutto portando avanti una classe dirigente ben poco innovativa. Più o meno la totalità dei nuovi dirigenti sono vecchi colonnelli, e tendenzialmente sono anche i più fallimentari dal punto  di vista dei risultati ottenuti.  L’assembramento è arrivato poi a perdonare anche quelli che venivano pubblicamente chiamati “porci e maiali” in vibranti discorsi da personaggi che si ergevano a duri e puri di pavoliniana memoria.  Ora io non entro nel tema di giudicare uno un suino o meno, ma logica vuole che se si ritiene tale una persona e poi lo si accetta nel proprio branco, lo si ritiene compatibile . Dunque questo rude sillogismo di cosa porta a ritenere sia composto questo branco?

Alleanza Nazionale si è già dimostrata per molto tempo un partito fallimentare, incapace di formulare proposte innovative, verticistico e poco capace di comprendere le istanze autonomistiche di un territorio che trae dal localismo del piccolo e bello la propria identità. Un partito incapace di formulare proposte innovative accettabili per la propria base e per le idee alle quali diceva di richiamarsi. Sostanzialmente tutta la vita del partito era suddivisa in richiami ad alcune posizioni reazionarie del vecchio Movimento Sociale Italiano, da aperture iperliberali e sinistrorse di un Leader che non era più amato ma al quale si stava dietro dogmaticamente come ovini  al pascolo, e da qualche richiamo storico ormai incoerente.

Oggi in Italia , tale formazione non può sperare che in un limitato successo per una nuova realtà che poggia su simili basi. Difficilmente la mera rifondazione di qualcosa di già poco dinamico a vocazione meridionalista  ed in uno stile tipicamente mediterraneo, statico e privo d’innovazione, potrà dare un qualche contributo. Potrà capire l’importanza delle sfide di sopravvivenza dei Popoli occidentali nel mondo.

Sarebbe utile guardare alla Francia, alle innovazioni del Front National. Un partito nato nuovo, capace di ricollegarsi alla società francese, di capirne  le necessità, di dare nuove risposte a nuovi problemi. L’anacronismo non è stato mai un tratto distintivo di chi ha cambiato le cose. L’anacronismo è altresì stato sempre il marchio dei perdenti.

Certo il Front è un’ispirazione, ma poi servono la classe dirigente e gli attori politici capaci di rendere  questa ispirazione una speranza concreta. Sarà solo da vedere se in Italia tali attori potranno prendere piede sulla scena, ovviamente tenendo conto delle differenze con i cugini d’oltralpe. Ma il terreno ideologico di lancio è comune, ed è terreno fertile, sta al popolo italiano generare gli attori politici capaci.

Alessandro Scipioni 

 
Meglio evasori che delatori PDF Stampa E-mail

11 marzo 2014

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Mentre in Italia il governo, grazie a una forsennata emanazione di tasse, manda in fallimento imprenditori, commercianti, artigiani e operai, ci sono certi signori dalla penna facile che esortano i cittadini «a fare giustizia», denunciando gli evasori fiscali alle autorità competenti. È il caso, questo, di Giampaolo Pansa, che nei giorni scorsi, sulle pagine di “Libero”, ha firmato un editoriale invitando ogni cittadino a compiere il proprio dovere e a sporgere querela contro un eventuale facoltoso vicino di casa sospetto.

Premesso che le tasse pagate con una moneta non sovrana non servono ad assolvere il “nostro” debito scorsoio, né a finanziare la spesa pubblica; premesso che, se ogni anno ci sono evasori per circa 250 miliardi di euro (almeno questa la stima, ovviamente per difetto) è lo Stato a dare di fatto gli strumenti a taluni cittadini di serie A perché ciò accada; premesso che, se ci troviamo nel baratro in cui continuano a ricacciarci, non è certamente a causa dei frodatori, molti dei quali oggi lo sono diventati come alternativa al suicidio; premessa, infine, la modalità inversa e controversa, per cui è il popolo a supportare lo Stato (criminoso) e non il contrario – e già solo per questo potrebbe essere lecito “contravvenire” – il punto della questione, una volta tanto, non è l’aspetto finanziario, ma quello prettamente etico e morale della vicenda. 

Quanto ha dichiarato il giornalista Pansa – sottoscritto e acclamato da tanti altri come lui – non è affatto un estremo appello alla correttezza e alla limpidezza comportamentale, ma un’ignobile istigazione alla delazione. Né più, né meno.

Il suddetto invito a sporgere querela è sintomatico di quanto oramai l’economia abbia occupato non soltanto il posto della politica, ma anche lo spazio privato, privatissimo, della morale.  È proprio da qui, infatti, che scaturiscono tutti i veri mali contemporanei: non dalla crisi economica, ma dai disvalori umani che la supportano e la giustificano, nonché dalla mancanza di responsabilità personale e politica verso gli altri, siano essi i vicini di casa o il proprio popolo cosiddetto “sovrano”.

Denunciare il dirimpettaio o il conoscente per sospetta evasione fiscale – non esattamente, quindi, per crimini quali la pedofilia o l’assassinio di un uomo – equivale a lacerare l’unico tessuto sociale realmente comunitario che la globalizzazione non è ancora riuscita a spazzare via. A tale proposito, non fa male ricordare che ancora oggi, soprattutto nei piccoli centri urbani in cui gli abitanti mantengono viva l’oralità e la condivisione, il vicino di casa resta quella figura che, oltre a “prestare” all’occorrenza uova o zucchero, è disposta ad accudire i bambini quando i genitori si assentano e spesso possiede una copia delle chiavi di casa altrui, a dimostrazione che nel cerchio di una comunità esiste un bene comune – irriducibile alle leggi imposte, ai contratti scritti, alle mutevoli convenienze personali – che è già un valore in sé. 

Quello che auspica Pansa è l’esatto contrario di quanto appena detto; il giornalista, infatti, sollecita le persone a divenire sospettose e pure invidiose per ciò che esse non possiedono e gli altri sì; le incalza a esercitare un potere di controllo che, non spettando loro affatto, le porta a non essere altro che vili spie, capaci di fare, prove alla mano, una ripicca personale per il mancato bene (materiale).

Qualsiasi cittadino, così, sradicato una volta per tutte da ogni legame di “simpatia” o di compassione, può trasformarsi in un gendarme civile, esattamente come ai tempi dei noti regimi dittatoriali da Pansa tanto discussi. 

Al di là del destino di ogni singolo individuo, però, il pericolo maggiore riguarda la nostra società, già abbastanza spaccata da fobie e diffidenze verso l’altro; a chi gioverebbero realmente ulteriori distanze? 

Sarebbe meglio, invece, cacciare indietro il “Giuda” che può esserci in noi per prendere come esempio tutti quegli uomini e quelle donne che non si fanno delatori dei propri conoscenti e non si prestano agli sporchi giochi dello Stato, questo sconosciuto. Tra costoro, per l’orrore di Pansa, è da annoverare anche un certo maresciallo il quale, dopo una verifica effettuata in un cantiere, ha deciso di non rovinare un imprenditore che, schiacciato dalla pressione fiscale e dai continui controlli della finanza – lo Stato, quando vuole, sa essere molto presente – non aveva dichiarato delle entrate, al fine di poter pagare con queste i suoi operai. Ecco, l’azione compiuta da questo signore, lontana da ogni eroismo, è normale: in lui ha semplicemente prevalso il senso del bene comune dettato da una morale, tanto interiore quanto insindacabile. 

La stragrande maggioranza degli evasori sfugge al fisco, giustamente, per la disperazione di dovere sopravvivere a una tassazione omicida, per non chiudere bottega dopo vent’anni di sacrifici e di granitica passione, per non mandare in fallimento quella famiglia, che, dopo il mestiere, aspetta la sera a casa; solo una piccola parte truffa per insaziabilità. 

Per questo, oggi come oggi, il vero reato è l’evasione dal buon senso, comune e ancora comunitario.

Fiorenza Licitra

 

 
Violenza insensata PDF Stampa E-mail

9 Marzo 2014

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L’aggressione mortale a un  tassista milanese preso a bottigliate per aver frenato troppo in ritardo sulle strisce pedonali,  provocando spavento in una donna incinta e suscitando la reazione scomposta del di lei compagno, obbliga a una riflessione.

Premesso che i pedoni (e le donne in gravidanza) debbano avere sempre la precedenza assoluta sulle strisce pedonali (anche se chi conosce il far west automobilistico milanese sa che troppo spesso è impossibile il rispetto pedissequo delle regole), abbiamo da interrogarci su come, ormai a intervalli sempre più brevi, l' uomo postmoderno stia perdendo il controllo di sè stesso, scatenandosi in comportamenti davvero assurdi.

I soliti soloni diranno -magari citando il monumentale lavoro di Steve Pinker "Declino della violenza"- come, negli ultimi secoli, il tasso della violenza sia diminuito in maniera esponenziale: Pinker ci racconta, nelle sue 800 pagine, come ad esempio nell' Europa del XVII secolo il tasso d' omicidi fosse oltre venti volte superiore ad oggi.

L' apparatchik di "sistema" Pinker (liberal, membro del MIT, etc etc) parlando dal punto di vista statistico ha anche ragione.

Vogliamo però, da storici dilettanti locali lombardi, fare un excursus sulla violenza del 1600?.

Citiamo un fatto a casaccio?

Di sicuro sappiamo che a Brescia vi furono faide tra famiglie nobiliari ed omicidi che funestarono i primi trent' anni del secolo: in un regolamento di conti, ad archibugiate, nel 1610 morirono in trenta tra i "bravi" di due fazioni aristocratiche locali. Il tutto, si badi bene, nella piazza del Broletto, dietro al Duomo.

Bene..posso dire che capisco di più una faida tra gli Avogadro e i Martinengo che si risolve ad archibugiate, rispetto a un pestaggio per un taxi che non è riuscito a fermarsi al millesimo di secondo?

O una mancata precedenza? O un mancato parcheggio?

Almeno nel primo caso lo scoppio di violenza aveva un senso e significato nell' ordine delle cose: magari un senso perverso, visto con gli occhi di  chi vive nel XXI secolo, ma sempre un senso.Vi erano in ballo elementi arcaici ma antropologico-culturali tipici dell' Uomo, quali il concetto di onore personale, onore del casato (quello che fu "il mito "del XVII secolo),  vendetta, vincoli familiari, senso di appartenenza ad un ordine, una classe e il significato di avere ciascuno un ruolo in una società organica statica e immutabile ma almeno pregna di sensi d' appartenenza e vincoli di solidarietà reciproca.

Nel secondo caso, io proprio non vedo un senso, nè vedo significati: questa è violenza allo stato bruto, animalesco, che degrada l' uomo stesso.Violenza inutile. Reazione scomposta, tipica di una società ormai schizofrenica, cadaverica, cimiteriale, che non sa più né da dove viene e né dove va.

Classica violenza, anche, dovuta ad una società che, nella sua ansia di comprimere la violenza stessa, finisce per creare una pentola a pressione, col coperchio che quando meno te l' aspetti salta in aria.

Violenza di individui che vivono a 300 km l' ora, sempre di fretta, sempre senza requie, schiavi dell' orologio e macchine programmate per produrre-consumare-crepare.

Può ben scrivere tomi, il signor Pinker...gli rispondo che piuttosto che vivere 90 anni in questo mondo di cadaveri, avrei di gran lunga preferito essere, nel 1610 -archibugio carico in mano- sulla piazza del Broletto, a Brescia, a tirare colpi contro gli scherani della opposta fazione.

Meglio morti in una società di vivi che vivere a lungo in una società di morti.

Simone Torresani

 

 

  

 
Neofascismo e crisi ucraina PDF Stampa E-mail

6 Marzo 2014

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 Da Rassegna di Arianna del 26-2-2014 (N.d.d.)

 

Senza ambiguità, i due principali movimenti di matrice neofascista in Italia hanno sposato la causa dei nazionalisti ucraini. Forza Nuova era da anni in buoni rapporti con i nazionalisti di Svoboda, come testimoniano i numerosi incontri tra dirigenti dei due partiti, sia in Italia sia in Ucraina. Sul loro sito, hanno dato voce ad Andriy Voloshyn, rappresentante di Svoboda. Inoltre, il 21 febbraio Roberto Fiore ha espresso sulla sua pagina facebook vicinanza al loro alleato ucraino e giustificato l’abbattimento del governo di Yanukovych, accusato di essere corrotto e criminale.

CasaPound Italia aveva anch’essa contatti con nazionalisti ucraini, come prova il caso di DmytroYakovets, militante di Leopoli morto in un incidente il 5 febbraio 2013, mentre affiggeva uno striscione di solidarietà per CPI[...]  Anche l’intellettuale Gabriele Adinolfi ha continuamente argomentato a favore del sostegno ai nazionalisti ucraini e della loro «terza via». Non risultano pronunciamenti da parte della Fiamma Tricolore, però anch’essa ha avuto in passato rapporti con Svoboda.

Entrambi hanno messo in guardia, è vero, contro il rischio di strumentalizzazione delle rivolte da parte delle forze europeiste e atlantiste a scapito della Russia e della stessa Ucraina. Allo stesso modo, non si può negare che Yanukovych fosse un oligarca corrotto, che nel corso degli anni aveva perso ampia parte del consenso di cui godeva, a causa della sua politica ondivaga e clientelare. Tuttavia, le loro posizioni restano inaccettabili, ed è perciò il caso di confutare gli argomenti addotti a loro sostegno. Alla loro base, c’è stata l’ingenuità di ascoltare la sola campana dei nazionalisti ucraini, a cui si è voluto dare maggiore credito, in quanto “camerati” e in quanto autoctoni, senza vagliare criticamente la loro propaganda antirussa. Per quanto sia comprensibile la loro opposizione alla dominazione sovietica, molte delle loro accuse sono storicamente false. La scarsa conoscenza del contesto storico-culturale da parte degli Italiani ha fatto il resto.

 

Il mito dell’oppressione russa

 

Innanzitutto, gli Ucraini, come popolo, hanno una genesi molto simile ai loro vicini Russi e Bielorussi. La culla della civiltà russa fu proprio Kiev, primo Stato fondato dalle tribù slave orientali con il concorso dei vichinghi svedesi, a cui seguirono varie altre città stato, come Mosca e Novgorod. Lo sviluppo di una differente lingua e cultura fu dovuto in particolar modo a secoli di dominazione polacca, la quale “occidentalizzò” gli Ucraini, ma essi rimangono in ampia parte affini ai loro vicini Russi, per lingua, religione (russo ortodossa), ceppo etnico, storia. Inoltre, non si può non tenere conto della presenza di milioni di Ucraini in Russia (specialmente nelle regioni dell’alto Don e del Kuban) e viceversa la forte presenza russa nell’Ucraina meridionale e orientale, che fanno sì che sia difficile tracciare un confine netto tra le due nazioni.

In secondo luogo, le politiche di russificazione furono iniziate dagli Zar, ben prima dell’URSS, ma procedettero a fasi alterne. Nella prima metà del XIX secolo, ad esempio, i patrioti ucraini fuggiti dalla Galizia austriaca trovavano rifugio in suolo russo. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, fino all’inizio degli anni ’30, addirittura, era invalso un processo di ucrainizzazione, a favore della cultura e dell’identità nazionale ucraina, a partire dalla costituzione di una Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, cofondatrice dell’Unione e seconda per importanza solo alla RSFS Russa. Dopo Stalin, salirono al potere un ucraino, Nikita Chruscev, e un russo-ucraino, Leonid Brezhnev.

Anche la dekulakizzazione e la terribile carestia (Holodomor) causata dalla collettivizzazione forzata dell’agricoltura non possono propriamente essere considerate un genocidio mirato a distruggere gli Ucraini, dato che colpirono tutta la parte meridionale dell’URSS, uccidendo anche Russi, Kazaki ed altri. Lo stesso numero dei morti viene spesso gonfiato addirittura oltre i 10 milioni, quando più probabilmente, considerando le sole vittime ucraine in Ucraina si scende ad un terzo di questa cifra.

Viceversa, un mito da sfatare è quello di una pacifica occupazione dell’Ucraina da parte delle forze dell’Asse. Se è vero che inizialmente i Tedeschi furono visti come liberatori, tuttavia questi non si fecero scrupolo di reprimere con la violenza ogni forma di resistenza, coinvolgendo la popolazione civile, e di sfruttare le risorse locali per il proprio sforzo bellico. Addirittura, il sistema sovietico di fattorie collettive fu mantenuto per rendere più efficiente la produzione agricola. Gli stessi nazionalisti ucraini dell’Esercito Insurgente Ucraino finirono per combattere anche contro i Tedeschi, nonostante vi fossero stati  rapporti di collaborazione. Il costo dell’invasione tedesca ammontò a 6 milioni di civili e 1,7 milioni di militari ucraini morti. Non ho visto il minimo accenno a questa tragedia. Certo è che se si vuole far del negazionismo a buon mercato, cosa che nell’area non manca, pur di esaltare l’eroica crociata antibolscevica, è un altro discorso[...]

 

Il mito dell’autodeterminazione

 

Il secondo grave errore di valutazione riguarda l’attuale rapporto tra Federazione Russa e Ucraina. Si è parlato con incredibile leggerezza di «imperialismo russo», considerandolo equivalente a quello statunitense che attanaglia l’Europa. Addirittura, CPI, nella sua nota, afferma: «auspichiamo che gli ucraini lottino per avere uno stato sovrano, con una banca nazionale pubblica e una propria moneta, che faccia accordi commerciali con chicchessia ma nell'esclusivo interesse dell'Ucraina». Sarebbe bastato informarsi rapidamente, per rendersi conto che la Banca Nazionale di Ucraina è già pubblica ed emette una propria moneta, la Grivnia.

Anche relativamente ai rapporti con la Russia, va detto che questi sono stati piuttosto alterni: solo le presidenze di Leonid Kuchma (1994 – 2005) e di Viktor Yanukovych (dal 2010) hanno mostrato una chiara vicinanza politica a Mosca. Entrambi, però, pur provenendo dalle regioni russofone, hanno cercato una conciliazione con il resto del Paese. Non a caso, nel 1999, il principale sfidante di Kuchma è stato il comunista filo-russo Petro Symonenko. Anche loro, infatti, hanno portato avanti politiche di apertura verso il libero mercato e gli investimenti stranieri, specialmente europei. Queste tendenze occidentaliste sono state più forti durante la presidenza di Leonid Kravchuk (1991 – 1994) e Viktor Yushchenko (2005 – 2010), i quali hanno assunto posizioni a volte antagoniste nei confronti della Russia, come il sostegno alla Georgia durante il conflitto del 2008 e la vicinanza alla NATO e alla UE, oltre alle dispute territoriali nel Mare di Azov e in Crimea. Insomma, è tutto fuorché uno Stato vassallo, come sostenuto da certi sciovinisti locali.

Che esista una forte interdipendenza economica tra Ucraina e Russia è un dato di fatto, eredità di secoli d’integrazione di queste regioni nello spazio russo, il quale ha lasciato una serie di questioni aperte al momento dell’indipendenza ucraina: prima di tutto, la presenza di armi nucleari e basi militari sovietiche, a partire dalla sede della Flotta del Mar Nero a Sebastopoli. In secondo luogo, le industrie turistiche, cantieristiche, siderurgiche ed estrattive dell’Ucraina meridionale e orientale erano inserite nel sistema produttivo sovietico. Ad oggi comunque il principale partner commerciale dell’Ucraina è l’Unione Europea, con il 26,6% delle esportazioni e il 31,2% delle importazioni, insieme con la Federazione Russa (rispettivamente 23,3% e 19,2%). Anche negli investimenti stranieri, la Russia è in compagnia di Stati Uniti, Germania e Olanda (la Shell). Anche la dipendenza dell’Ucraina, per oltre tre quarti, dal gas e dal petrolio russo è un’arma a doppio taglio, dato che questo Paese controlla parte degli oleodotti che collegano Russia ed Europa (da cui la necessità dei progetti North Stream e South Stream).

Perciò, non si vede proprio come si possa sostenere che la Russia eserciti un dominio imperialista sull’Ucraina o limiti in qualche modo la sua sovranità. È vero che c’è una base militare a Sebastopoli, città abitata in grande maggioranza da Russi, regolarmente affittata per vent’anni dal 1997 al 2017, tuttavia non è forse lo stesso per la Siria, dove vi sono installazioni navali russe a Tartus? Eppure, nessuno si è sognato di dire che la sovranità siriana sia oppressa dalla presenza militare russa. Tanto meno, ciò può essere paragonato all’occupazione militare dell’Europa occidentale (in particolare Germania e Italia), seguita all’invasione statunitense. D’altra parte, Bielorussia e Kazakistan, membri a tutti gli effetti dell’Unione Eurasiatica, e stretti alleati della Russia, conservano gelosamente la propria sovranità, rimanendo più indipendenti di quanto non siano i vari Paesi europei nei confronti della UE[...]

Anche la presunta antipatia degli Ucraini nel loro insieme verso i Russi è minore di quanto non si affermi. Secondo un sondaggio, il 96% degli Ucraini avrebbe una buona opinione dei Russi. Si tratterebbe quindi di una minoranza della popolazione, per quanto forte e agguerrita, a voler «autodeterminarsi» rompendo i legami con la Russia, non certo della popolazione ucraina nel suo insieme. Senza contare che l’assimilazione forzata o la cacciata dei Russi autoctoni, sarebbe moralmente deprecabile e difficilmente praticabile.

 

Il mito della Terza Via

 

Il grande totem dietro cui i neofascisti italiani si sono trincerati per giustificare la loro posizione è quello della terza posizione. Il problema è che questo modello aveva senso in un mondo bipolare. Tra il 1917 e il 1989, la presenza di un fronte comunista internazionale, guidato dalla superpotenza sovietica, opposto alle democrazie liberali e capitaliste dell’Occidente, poteva giustificare la costruzione di una terza via nazional-rivoluzionaria ed europeista. In realtà, già la scelta hitleriana di tradire l’alleanza con l’URSS per combattere su due fronti, si era rivelata materialmente insostenibile, e quindi catastrofica.

Nel dopoguerra, la presenza di due blocchi, per alcuni versi equivalenti, costituiva l’occasione per il sostegno meditato sia alle varie esperienze terziste (es. la Jugoslavia di Tito o l’India di Nehru), sia ai tentativi di autonomia all’interno dei blocchi (es. la Francia di De Gaulle o la Romania di Ceausescu), ma anche alle battaglie che indebolivano le due superpotenze, come la resistenza di Cuba o del Vietnam oppure dell’Afghanistan e dell’Ungheria. Nonostante la vittoria finale dell’Occidente, grazie anche alla sua capacità di dividere i suoi nemici (ragion per cui non è facile agire come una terza forza), questa prassi aveva liberato spazi di autonomia e sovranità nazionale rispetto agli imperialismi occidentali o sovietico.

Oggi, però, viviamo in un mondo unipolare dominato dall’egemonia politica, militare ed economica dell’Occidente liberalcapitalista, guidato dagli Stati Uniti. Le forze multipolari che avanzano, con i BRICS in testa, non sono ancora in grado di fronteggiare apertamente il nemico. Non lo è la Cina, ancora confinata nelle proprie acque territoriali, né la Russia, la cui potenza militare è un’ombra rispetto all’URSS. Non esiste quindi nessuna “seconda posizione”, da contrastare. La pretesa di una terza posizione, quindi, finisce per favorire il più forte.

Nel caso ucraino, vediamo chiaramente, che lo sforzo militante dei nazionalisti, i meglio organizzati e i più aggressivi nelle piazze, finora ha portato alla scarcerazione della Timoshenko, un’oligarca corrotta tanto quanto Yanukovych, e al predominio del suo partito e di quello del cittadino tedesco Klitschko. Bisognerebbe peraltro esaminare quanto le proteste siano rivolte contro il precedente governo, insostenibile anche agli occhi di Mosca, e quanto invece siano mosse da un’autentica avversione anti-russa, che è più probabilmente retaggio di una minoranza ideologizzata.

Le cose non vanno certo meglio per il principale partito nazionalista (l’unico presente in Parlamento), Svoboda. Nel loro programma, si dicono apertamente disposti a negoziare l’ingresso nella NATO e a chiedere sostegno agli USA e al Regno Unito per difendere l’Ucraina e costituire un arsenale nucleare, nonché a militarizzare e rafforzare il Paese in chiave antirussa, concedendo addirittura basi militari alla NATO. Inoltre, vorrebbero rafforzare i legami economici con la UE, incuranti dei disastri causati dalle politiche finanziarie europee in Paesi come la Grecia. Questi presunti nazionalisti sostengono senza mezzi termini l’assoggettamento della loro nazione!

Mentre FN si dichiara vicina a Svoboda, CPI simpatizza per movimenti più estremisti come SpilnaPrava (“Causa Comune”) e PravySektor (“Settore Destro”), i quali sono effettivamente fautori di una terza posizione equidistante tra Occidente e Russia, e intendono «utilizzare la strategia evoliana del “cavalcare la tigre”, cercando di utilizzare l’ondata di proteste e dirigerle verso posizioni rivoluzionarie nazionaliste». Tuttavia, essi stessi ammettono che «il “Right Sector” è però praticamente senza risorse economiche, perché non è sostenuto da nessun oligarca». L’affermazione più grave è però quella secondo cui «riteniamo comunque l’attuale opposizione liberale come un male minore e la consideriamo come un alleato temporaneo». In questo modo, si prestano ad essere loro stessi sfruttati come bassa manovalanza dalle forze liberali.

Ragioniamo però per assurdo e ipotizziamo che, nonostante tutto, i nazionalisti riescano a prendere il potere. Come sposterebbero la bilancia commerciale del Paese, già adesso in equilibrio tra Europa e Russia? Come tratterebbero la cospicua minoranza russofona, specie alla luce dei numerosi proclami riguardo alla destituzione del russo dallo status di lingua ufficiale? Se dovessero, come è probabile, peggiorare i rapporti con la Russia, come reagirebbero, se non intensificando i rapporti con l’Occidente, entrando quindi a far parte della sfera europea? Queste sono domande che ci si dovrebbe porre prima di manifestare il proprio sostegno, non dopo, una volta che il danno è fatto!

In conclusione, la causa nazionalista ucraina non pare certo nelle condizioni, visto il contesto politico e internazionale, di trasformare l’Ucraina in una potenza autonoma. Rinnegare la naturale alleanza alla pari con la Russia, non può che gettare il Paese nelle grinfie della più forte alleanza atlantica. Da vent’anni, la NATO avanza verso oriente, installando basi militari volte a minacciare e strangolare la Federazione Russa. Non si farà quindi sfuggire nessuna occasione per soggiogare l’Ucraina, a maggior ragione, se questa pretende di combattere da sola. L’«indipendenza ucraìna nella collaborazione ferma con la Russia di Putin» di cui parla Adinolfi non potrà certo essere realizzata da chi esprime posizioni antirusse!

D’altra parte, per la Russia la caduta dell’Ucraina costituirebbe una grave sconfitta, con ripercussioni anche sugli altri teatri di resistenza contro l’imperialismo statunitense. Senza la base navale di Sebastopoli risulterebbe indebolita proprio la stessa Flotta del Mar Nero, deputata alle operazioni nel Mediterraneo, a sostegno della Repubblica Araba di Siria. Allo stesso modo, la presenza di basi atlantiche o uno stato di guerra civile in Ucraina indebolirebbero la potenza russa, già costretta alla difensiva, impedendole di rinforzare adeguatamente la Siria o l’Iran o l’America Latina. Coloro che, con una serie di iniziative e manifestazioni, finora hanno sempre sostenuto Assad e il suo popolo, dovrebbero tenerlo bene a mente.

 

Conclusione

 

In fin dei conti, ciò che colpisce è come molti neofascisti abbiano ragionato in termini non già politici, bensì tribali. Lo stesso errore compiuto da ampia parte della sinistra radicale a proposito delle fantomatiche masse proletarie arabe viene ora commesso dalla loro controparte. Adinolfi parla apertamente di «abbandonare le categorie del tifo e anche quelle dell’astrazione teorica per raggiungere un’empatia reale con chi ci è idealmente ed antropologicamente affine». Si tratta, sic et simpliciter, della rinuncia all’analisi razionale in nome di legami istintivi e personali, della negazione del realismo politico in favore dell’utopia romantica! Non basta riconoscersi in un comune universo di simboli o condividere ideali astratti per combattere fianco a fianco: sono le scelte concrete quelle che contano. E non è certo abbattendo le statue di Lenin o minacciando i negozianti ebrei, che si conduce una politica autenticamente nazional-rivoluzionaria e anticapitalista!

Bisognerebbe avere il coraggio di rompere anche con i presunti nazionalisti se si dimostrano essere strumenti del nemico. Invece, si presume che, solo perché sono “idealmente e antropologicamente affini” (senza tener conto delle differenze etnoculturali!) e indigeni del luogo, le loro narrazioni e le loro esperienze siano da prendere come oro colato. Questa è una grave ingenuità, che non può essere giustificata dalla pretesa attualista di anteporre la prassi alla teoria, pena il cadere in errori marchiani come questo. Naturalmente, il mio discorso presuppone che si tratti di una serie di equivoci e di malintesi, comprensibili se solo si tiene conto di quello che è il livello generale del neofascismo italiano. Se fossi più cinico o prevenuto, ammetterei senza mezzi termini che quest’area non è altro che la bassa manovalanza dell’atlantismo e della borghesia.

 

Andrea Virga

 

 

 

 
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