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Economia e Comunità PDF Stampa E-mail

8 Febbraio 2014

 

 

Da Rassegna di Arianna del 25-1-2014


Stampa, radio, TV, internet. Non passa giorno senza che una ben individuata categoria di persone, sedicenti economisti, senta il bisogno di catechizzarci sulle vie d’uscita dalla crisi.  Questi figuri hanno occupato l’informazione dei media main stream, felici a loro volta di somministrarci un ammonimento sugli effetti recessivi della deflazione piuttosto che restituirci il gusto delle arti, delle scienze o della letteratura.

Ė almeno dal 2008, anno della crisi americana dei sub-prime, che economisti di ogni risma e scuola riempono colonne di giornali con previsioni, teorie, consigli, ricette taumaturgiche, spesso ispirate da BCE o FMI, e più la politica si conforma alla loro presunta scienza più la serenità dei cittadini, la pace sociale e la speranza del domani precipitano nel calderone oscuro dell’incertezza e dell’impoverimento.

Assomigliano, questi economisti odierni, a quegli alchimisti che a cavallo tra il XVI e XVII secolo bazzicavano la corte imperiale di Rodolfo II a Praga, accolti e foraggiati dietro la promessa di trasformare il vil metallo in oro e di rimpinguare i forzieri dello Stato. I più fortunati tra questi prestigiatori, generalmente, finivano in prigione.

Fino a non molto tempo fa, come la borsa era giudicata un vezzo per giocatori,  l’economia era considerata uno strumento al servizio della politica. Le sue ricette?  Semplici e intuitive: il benessere equivaleva alla disponibilità di terre, di materie prime e alla forza lavoro necessaria ad alimentare la produzione. Solo con la trasformazione dell’economia in finanza abbiamo incominciato a pensare che il denaro possa auto-generarsi e rendersi autonomo dal lavoro, di cui altro non è che un simbolo.

Perché il punto è proprio il lavoro.  La nostra costituzione parla espressamente di diritto al lavoro, generando equivoci sul presunto dovere dello Stato di procurare un impiego a ogni cittadino. Purtroppo o per fortuna, questo diritto deve essere letto “solo” come un diritto alla libertà di lavorare, mettendo le proprie competenze al servizio degli altri. Se la domanda è come riappropriarsi di questa libertà fondamentale, minacciata dall’ eccessivo carico fiscale,dalla burocrazia, dalle difficoltà a competere con concorrenti stranieri, la risposta è una sola: agendo. Trasformando il lavoro in azione libera. Agendo avendo in vista l’azione stessa. Agendo in ordine alla bellezza morale ed estetica dell’azione. Meno elucubrazioni accademiche sull’occupazione o sul reddito, più azione diretta. Cieca e immediata.  Dettata dallo spirito e non dalla ragione.

 

L’utilitarismo volgare che ispira l’economia odierna, costruita sul mito del PIL, giustifica l’azione con la sola ricerca di lucro. Ebbene, siamo sicuri che tutto ciò che nel corso della storia ha mosso naviganti, artisti, artigiani, letterati, scienziati, inventori etc. sia stata la ricerca di denaro? Non erano forse animati, costoro, anche da un desiderio più profondo, una spinta più intima ad agire per “essere”, ad agire per dare vita al proprio destino e a quella chiamata che albergava nel proprio spirito? Possono essere, questa spinta e questa chiamata, anche le nostre?

Agire senza avere in vista un preciso utile economico, certi che qualcosa accadrà comunque. Perché non c’è azione autentica che lasci inalterato il quadro in cui si compie. La disoccupazione non è una condizione certificata da un centro di collocamento, ma  uno status paralizzante che nasce dalla disponibilità interiore a riconoscersi in essa e ad accettarne le conseguenze sul piano psicologico e sociale.

Siete voi idraulici, giardinieri, elettricisti? Se perdere clienti paganti vi ha permesso di riappropriarvi di quel bene (e non di quella sciagura) che si chiama tempo, mettete la vostra arte al servizio della pensionata che non può pagarvi, potreste scoprire che è una professoressa in pensione che sarebbe felice di aiutare vostro figlio nei compiti.

O forse siete artisti. Ebbene, un artista può definirsi disoccupato?  Date sfogo alla vostra vena creativa, non perdete mai il vostro capitale più importante, la capacità di entrare in contatto con voi stessi, e cercate di condividerla con la maggior parte delle persone, al solo scopo di donare piacere e appagamento. Qualcosa, piccola o grande che sia, accadrà anche sul piano economico, sia che vogliate vedere in questo effetto un frutto della “Provvidenza”,  un’applicazione su scala sociale della “legge del Karma” (che in sanscrito significa azione) o, più scientificamente, una verifica della legge di azione e reazione.

Qualunque cosa siate o vogliate diventare, traducete la vostra identità in azione ed evadete dalla prigione della “crisi”, le cui sbarre sono il semplice riverbero dei significati che oggi attribuite, solo perché certificati dalle scienze economiche, alle parole “disoccupazione”, “povertà”, “crescita”, “benessere”.

L’errore capitale delle società contemporanee è mettere l’economia al centro della propria esistenza e il profitto al vertice delle proprie intenzioni quando il benessere, anche materiale, è una conseguenza naturale della capacità di relazionarsi a sé stessi e agli altri. Di fare “comunità”. Solo all’interno di una “comunità” è possibile sottrarsi allo status di disoccupato ( che anticamente non spettava nemmeno allo scemo del villaggio) e riacquistare quella dignità di persona che un uomo senza lavoro non riconosce più a sé stesso per aver perso, insieme al “lavoro”, il proprio riconoscimento sociale. Ebbene, il “lavoro”, inteso non come “impiego” ma come possibilità di azione all’interno di relazioni inter-personali, è intorno a noi, in  una rete spesso invisibile di soggetti desideranti e potenzialmente capaci di agire in modo determinante a beneficio di terzi.  Per vederla, è sufficiente sottrarsi al linguaggio delle scienze sociali e andare incontro a una nuova economia auto-gestita, a misura d’uomo.

Il denaro? Verrà. Anche perché è in questo scenario che maturano, in carenza di valuta ufficiale, espedienti ormai dimostratisi efficaci ed efficienti come le monete locali, che riconoscono ai membri di una comunità un credito di beni e servizi interno a un circuito virtuoso.

L’economia odierna spinge le società alla crescita facendo leva sulla dipendenza dal denaro fine a sé stesso e sulla disperazione che ci motiva a procurarcelo. La comunità spinge alla crescita le persone, facendo leva sui meccanismi dell’autonomia e della speranza ben riposta nel mutuo sostegno. Il passaggio dall’una all’altra è tanto breve quanto il semplice spazio di una decisione immediata: quella di agire come Ch’ing, il falegname le cui doti sono celebrate in uno dei testi più venerabili della tradizione taoista, il Chuang-Tzu: ” Quando sto per mettermi a fare un porta- strumenti, evito ogni diminuzione del mio potere vitale. Riduco la mia mente allo stato di quiete assoluta. Tre giorni in queste condizioni e mi dimentico di ogni ricompensa che potrò ricavare. Di ogni fama da raggiungere “. E, c’è da giurarci, anche degli economisti.

 

Gian Maria Bavestrello

 




 

 

 
Senza "aura" PDF Stampa E-mail

6 Febbraio 2014

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 Dopo aver fatto sconquassi nella nipponica Tokyo , dopo aver affollato i musei della cosmopolita e globalizzata New York, il quadro-icona "La ragazza con l' orecchino di Perla", di Vermeer, arriverà in Italia, precisamente nella "fosca e turrita Bologna", l' 8 febbraio. Come sappiamo, il museo "Mauritshuis" di L’Aia è chiuso per restauri, così si è pensato di inviare i capolavori del "secolo d' oro" dell' arte olandese, il Seicento, in giro per il mondo in un lungo tour globale.

Così come Oltreoceano e nel Sol Levante, anche qui da noi è stato un boom di acquisti di biglietti, una corsa a chi è più lesto ad accaparrarsi il diritto di contemplare la tela.

Sembrerebbe, da indiscrezioni e da informazioni reperibili anche in Rete, che solo per la prima giornata d' esposizione i tagliandi venduti siano ben superiori agli 11.000. Nessuna meraviglia, giacchè a Tokyo si viaggiò ad una media giornaliera di circa 10.500 spettatori. Anzi, la prima settimana è già esaurita, come prevendita, nonostante la pesante crisi economica, le ristrettezze e le varie TASI, IMU mascherate, gabelle e tasse che pendono come spade di Damocle sulle teste degli italiani (i prezzi della mostra vanno dai 40 agli 80 euro, addirittura 150 per le visioni in anteprima con buffet del 31 gennaio-5 febbraio, inoltre si presume che non tutti i visitatori saranno bolognesi, quindi calcoliamo pure le spese di viaggio).

Per carità, si tratta di una ottima iniziativa artistica, nulla da eccepire, ma si rimane perplessi e a ben donde circa il culto pop mediatico nato attorno ad un quadro reso celebre a livello globale grazie ad un libro prima e a un film di Scarlett Johansson poi.

Sarebbe molto bello, se fosse possibile, ascoltare le parole di Walter Benjamin, che già nel 1936 si interrogò sull' opera d' arte nell' epoca della sua riproducibilità tecnica, nel famoso omonimo saggio. Secondo Benjamin, l' opera d' arte, nata in contemporanea con la formazione dello spirito religioso dell' uomo, è contraddistinta da un alone quasi "mistico", la cosiddetta "Aura", che permea tutto il manufatto artistico stesso. Affinchè una singola opera possa avere l' aura, che la rende "unica e irriproducibile", deve sottostare al famoso "hic et nunc", qui ed ora: e tale assunto corrisponde alla unicità dell' opera stessa in questione. Una volta riprodotta, spostata dal suo luogo naturale, data in pasto alla società di massa, non solo l' opera perde l' aura mistico-religiosa, ma l' arte stessa è snaturata dal suo fine per divenire un mezzo politico, usato dal potere per influenzare le masse (Benjamin si riferiva al razionalismo dell' arte fascista o all' architettura sovietica stalinista). Oggi, nel 2014, sarebbe bello provare ad immaginare quanti dei futuri visitatori di Palazzo Fava a Bologna sappiano di arte o conoscano l' "aura" del Vermeer. La tela dell' olandese è ridotta a un feticcio sballottato nei cinque continenti, ad una icona pop da immortalare sull' Iphone o con i Tablet e poi condividerla sui social network, magari alimentando anche bancarelle di t-shirt e gadget e calamite da frigorifero per far quattrini. Se Benjamin fosse vivo, parlerebbe oggi di arte piegata al modello turbocapitalista della "fine della Storia" : Fukuyama dixit.

Povera ragazza con l' orecchino, ridotta a un ammasso di colori da fotografare o da farsi un "selfie" da mettere su Instagram, per lo più da gente che, per la maggior parte, di Vermeer e del secolo d' oro olandese non sa nulla..per loro, è solo "la ragazza del libro e del film"

L' uomo postmoderno è riuscito anche nel “capolavoro”  della demolizione, in nome del profitto e del consumo istantaneo, delle grandi tele della pittura mondiale.

L' 8 febbraio io non sarò a far la coda a Bologna; nell' ipotesi che in tal giorno dovessi avere la brama  di godermi un quadro in santa pace, con aura compresa, andrò nella chiesa di Sant' Imerio, terzo altare di sinistra, dove dal 1690 circa è esposta gratis, immersa nell' ambiente pregno di significato del tempio religioso, la tela di Angelo Massarotti "S.Teresa intercede presso la Vergine perchè liberi Cremona dall' assedio del 1648", un dipinto che oltretutto raffigura la santa sullo sfondo di Cremona città murata del XVII secolo. Una tela che io, consapevole dell' appartenenza ad un territorio, sento mille volte più vicina e legata alla mia storia e comunità di destino di tutte le ragazze con o senza orecchino.

Simone Torresani

 

 
Un'altra sconfitta PDF Stampa E-mail

4 Febbraio 2014

 

Da Rassegna di Arianna del 29-1-2014

La sovranità, il valore e l’onore di una nazione passano anche e non solo da episodi come questo che andremo a raccontarvi, perchè in Sicilia gli Stati Uniti hanno vinto e l’Italia ha perso.

La costruzione delle tre parabole americane a Niscemi è terminata. Non sono stati sufficienti anni di proteste, di ricorsi, di tribunali, di medici, per impedire la costruzione del Muos. Una contesa ad armi impari combattuta senza il supporto delle istituzioni, colpevoli di aver illuso la popolazione locale, di averla sostenuta in un primo momento e poi di averla abbandonata. Insomma, la consueta storia tutta italiana, condita dalla solita soggezione di non voler contraddire l’alleato a stelle e strisce.

Ma procediamo con ordine. Il Muos è l’acronimo di “Mobile User Objective System”, cioè un moderno sistema di telecomunicazioni satellitari concepito dalla marina militare statunitense che, grazie a cinque satelliti in orbita e quattro stazioni di terra, permetterà agli Usa di controllare e coordinare tutte le unità navali, aeree e terrestri dislocate nel mondo, compresi i droni. Una di queste quattro stazioni di terra è proprio quella di Niscemi, in provincia di Caltanissetta. È qui che ieri, 27 gennaio, si è completata la costruzione di tre parabole satellitari dal diametro di 20 metri e di due antenne alte 150. Ma il sistema di difesa americano è diventato anche di pubblico interesse perché nasce in un’area dove vivono persone che hanno paura di assistere inermi ad un bombardamento di onde elettromagnetiche.

Il professor Massimo Zucchetti, esperto di “Protezione dalle Radiazioni” presso il Politecnico di Torino e ricercatore dell’Institute of Technology del Massachusetts, dichiarò nel 2011 che le tre parabole avrebbero aumentato i rischi per la popolazione in modo esponenziale. Studi e perizie dimostravano infatti che il Muos sarebbe potuto essere nocivo e portatore di tumori, leucemie, cataratte, riduzione della fertilità.

Per scongiurare questi rischi nel 2010 nacque spontaneamente il movimento “No-Muos”, con l’intento di sensibilizzare le istituzioni e di bloccare il progetto. Le decise proteste locali contribuirono a mettere sotto sequestro il cantiere americano, grazie ad una decisione presa il 6 ottobre 2012 dalla Procura di Caltagirone. I giudici ritenevano inaccettabile che il Muos potesse sorgere in una area protetta come quella dalla riserva naturale della Sughereta di Niscemi. Ma i sigilli durarono appena venti giorni, perché il tribunale della Libertà di Catania accolse il ricorso del ministero della Difesa, revocando il sequestro.

È qui che entrano in gioco la Regione Sicilia e il verboso Rosario Crocetta. Il governatore siciliano, spinto dalle proteste e per un tornaconto politico, nel gennaio 2013 dichiarò guerra allo Stato italiano e al progetto statunitense. Apparentemente convinto sostenitore della pericolosità di queste tre parabole satellitari, l’11 marzo Crocetta riuscì a raggiungere un’intesa col governo per bloccare i lavori di costruzione, almeno fino a quando non ci fossero state perizie mediche e ambientali complete. Questa strategia portò ad una nuova chiusura del cantiere, questa volta ad opera della stessa Regione Sicilia.

Da questo preciso momento, lo Stato italiano cominciò a mostrare la sua peggior faccia nella vicenda. Al posto di promuovere un dibattito sull’argomento, magari coinvolgendo medici, associazioni ed opinione pubblica, il ministero della Difesa (all’epoca dei fatti guidato da Giampaolo Di Paola, poi passato a Mario Mauro) pensò bene di rivolgersi al Tar della Sicilia per chiedere la revoca del blocco dei lavori, oltretutto pretendendo un cospicuo risarcimento danni dalla Regione. In pratica lo Stato si fece causa da solo pur di non aver problemi con gli americani.

Nonostante ciò, il 9 luglio 2013 il Tar respinse il ricorso del ministero della Difesa, definendo più che legittima la decisione di sospensione della Regione. E qui subentra il colpo di scena: Crocetta cambia idea come illuminato sulla via di Damasco e fa ripartire i lavori.

Quasi in contemporanea, l’Istituto di Sanità Superiore dello Stato dichiara che alcuni studi dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sulle parabole del Muos dimostravano “che tutti i limiti previsti dalla legislazione italiana in materia di protezione della salute umana dai campi elettromagnetici erano stati rispettati in larga misura”. Quindi per lo Stato, ancora oggi, non c’è nessun pericolo per la salute e per l’ambiente.

“Crocetta Vergogna”, all’indomani della decisione, fu questo lo slogan del movimento No-Muos, prima sedotto poi abbandonato a sé stesso. La decisione del presidente della Regione portava al minimo la sua credibilità, soprattutto perché la battaglia al Muos era stato uno dei punti cardine della sua campagna elettorale nell’ottobre del 2012. Lui accampò una difesa, affermando di aver ricevuto pressioni dai poteri forti e addirittura dalla Cia.

Sono oltre 113 le installazioni militari a stelle e strisce dislocate sul nostro territorio. Un’enorme eredità post-Seconda Guerra Mondiale che ha più volte riacceso il dibattito “sull’occupazione americana”. È giusto che gli Usa, ancora oggi, detengano una presenza così massiccia e ben radicata in Italia? Ma soprattutto è giusto che ogni decisione di Washington venga accolta con tacito consenso dalle nostre istituzioni, come se il concetto di sovranità nazionale sia solo un’inutile definizione in un libro di Scienza Politica o di Diritto Internazionale?

Da molti anni i siciliani si oppongono alla base di Sigonella in provincia di Siracusa, così come ad Aviano (Pordenone) molti italiani chiedono che gli americani facciano le valigie. Nel 2008 una perdita di cherosene dall’oleodotto che riforniva la base di Aviano mise a rischio ambientale la zona del nord-est italiano, con l’accendersi di nuovi dubbi e polemiche, terminate poi nel silenzio dei media, come per la presente questione di Niscemi. Il Muos è solo l’ultimo degli episodi di sudditanza coloniale. Le parabole alla fine sono state costruite, l’America ha vinto di nuovo e l’Italia vilipesa.

 

 

Giuseppe Maneggio
 

 

 

 




 

 

 
Potere senza volto PDF Stampa E-mail

3 Febbraio 2014

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 Il ricatto della multinazionale svedese "Electrolux", che attaccandosi alla crisi vorrebbe "polonizzare" i quattro stabilimenti italiani del gruppo, decurtando salari da 1.400 euro mensili medi a 800 euro mensili medi, tagliare le ore (ma pretendendo gli stessi ritmi produttivi di catena!) è talmente squallido, inqualificabile e disgustoso che si commenta da solo, senza bisogno di articoli d' approfondimento. Anche le cause che hanno portato la multinazionale a queste clausole iugulatorie, a questi ricatti senza i quali non verrebbero versati 90 milioni di euro di investimenti, sono talmente arcinote ai nostri lettori che ritengo inutile, dal mio punto di vista, approfondirle e analizzarle. Si finirebbe per mestare minestroni riscaldati.

A prescindere dal fatto che il costo del lavoro in Italia, seppur alto, è minore rispetto alle mitiche Francia e Germania, prese spesso dagli "italioti" come termine di paragone, le considerazioni che operai e sindacalisti dell' Electrolux dovrebbero fare sono altre.

Una volta esisteva la fabbrica col "padrone".

Che fosse illuminato o reazionario, ottuso o intelligente, si chiamasse Agnelli, Pirelli, Borletti, Pesenti, Bianchi o Pinco Pallino, si trattava sempre di un preciso punto di riferimento, anzi del perno vitale di tutto il complesso, di una persona fisica visibile e con la quale si sapeva già che lo scontro sarebbe stato duro.

Scontro duro, non facile, ma almeno contro una entità visibile e ben definita: una volta conosciuto il "nemico", come scriveva Sun Tzu , si poteva benissimo preparare la strategia dell' arte della guerra.

Nel mondo attuale liquido, anguillesco, globalizzato, chi è il "padrone" della baracca di elettrodomestici?

Si sfogliano giornali, siti Internet, si ascoltano notiziari e si sente parlare solo di "multinazionale svedese"; "dirigenti italiani del gruppo" (tra l' altro, cambiati da poco)","azienda","Gruppo svedese"(fosse anche sudcoreano o taiwanese, non cambierebbe un' acca);"tavolo tra azienda e sindacati".

Il ministro Zanonato, la presidente della Regione Friuli Serracchiani, i leaders sindacali, indicono tavoli, meetings, riunioni, agende d' appuntamenti solo per parlare con passacarte, con meccanismi dell' ingranaggio, che a loro volta ricevono direttive da altri passacarte, managers chiamati con termini esotici bislacchi, che a loro volta eccetera eccetera..

Anzitutto:chi sono costoro? Avranno pur nome, cognome, negozio? Chi li nomina? Chi li dirige? Chi è nella stanza dei bottoni? Chi regge le fila? Chi fa e disfa le carte, dove è l' ufficio?

E tutti, operai, sindacalisti, esperti, politici, tutti che si muovono, si agitano, fanno dichiarazioni, riunioni, strepiti.

Siamo al Teatro dell' Assurdo: se Ionesco e Beckett fossero ancora vivi, in quest' epoca globale dove tutto l' insieme pare una sorta di monadi impazzite e disperse per l' intero Universo, in questo "1984" orwelliano che trent' anni dopo pare una cupa realtà, si divertirebbero un mondo a scrivere commedie e a recitarle.

Tutti i protagonisti sembrano recitare un copione ritualizzato che aveva un senso nell' antico ordine preglobalizzato, ma che nel nuovo ordine diventa davvero ridicolo.

Perché nel nuovo ordine il potere, seppur onnipotente, non ha volto. Comanda pur non avendo volto, è onnipresente pur non avendo Patria: o meglio, la Patria è una sola, il mondo globale. Dove tutto è sinistramente simile, a Stoccolma come a Porcia e quindi anche i sistemi sono gli stessi, dappertutto, con buona pace di chi, ingenuo, tenta di creare tavoli per dialogare.

Sarebbe buona ora che gli operai della Electrolux -ai quali,beninteso, va la nostra incondizionata solidarietà-iniziassero anche a porsi delle domande, dei perchè, a risalire alle cause, sino a giungere alla "prima causa" dei loro mali, togliendosi di dosso le schematizzazioni semplici, ormai ridotte a muffa.

Ė giunta l' ora di chiedersi "perché?", domanda che la gente in quest' epoca pare aver rimosso dai meccanismi del pensiero.

E una persona che non si chiede  mai "perché", continuando a svolgere le medesime azioni, è una persona che di conseguenza ha smesso di pensare.

E chi ha smesso di pensare, diventa un automa che può essere manovrato senza nessun problema, diventa un essere meccanico solo rivestito della natura umana.

Simone Torresani

 

 
La grande stagnazione PDF Stampa E-mail

31 Gennaio 2014

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Da Rassegna di Arianna del 23-1-2014 (N.d.d.)



 

 

 

Il fatto

 

Il 14 novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche (Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.

Nonostante il discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia. Come ex-eretico, dunque, sento l'urgenza di intervenire su un tema che avevo anticipato nel mio ultimo libro La grande transizione seppure partendo da premesse molto diverse da quelle di Summers e Krugman. 

L'analisi del problema

Chiariamo per cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro conclusioni. Va detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al rallentamento dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde del declino delle economie occidentali avanzate restano sullo sfondo. Il punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi finanziari rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili al funzionamento del sistema economico, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi del sistema. È un po’ come se, argomenta Summers, in un sistema urbano venisse d'improvviso a mancare l'80% della corrente elettrica. Tutte le attività ne risulterebbero paralizzate. Quando tuttavia la corrente elettrica viene ripristinata, ci si aspetterebbe un ripresa dell'attività economica su livelli maggiori di quelli anteriori alla crisi: questa ripresa non c'è stata. Come si spiega questa ripresa deludente? Secondo Summers e Krugman, le trasformazioni strutturali del sistema hanno portato il tasso di interesse naturale, cioè il tasso che mantiene in equilibrio i mercati finanziari e garantisce condizioni prossime alla piena occupazione, a divenire stabilmente negativo. Per quanto incredibile possa sembrare, i due grandi economisti ci stanno dicendo che, per convincere le imprese ad investire in misura sufficiente da garantire la piena occupazione, bisognerà non solo offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far sì che possano renderne meno di quanto è stato prestato. 

In altre parole, dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le condizioni strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e venduto sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto una sorta di profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare.

 

La tentazione tecnocratica 

Anche il non economista potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro. La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti). 

Su questo ultimo punto Krugman è esplicito: “Ora sappiamo che l'espansione del 2003-2007 era sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni '90 (legata alla bolla della new-economy). Nello stesso modo anche la crescita degli ultimi anni dell'Amministrazione Reagan fu guidata da una ampia bolla nel mercato immobiliare privato”. La conclusione è chiara: “no buble no growth” cioè senza speculazione finanziaria non c'è più crescita, e lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controproduttivi, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese.

Naturalmente Krugman e Summers si guardano bene dal trarre conclusioni pessimistiche sulla salute di lungo termine del capitalismo, come evitano con cura di allargare l'analisi sulle cause del malessere economico fino a comprendere tutti quei costi sociali ed ambientali che non rientrano nel calcolo degli indicatori economici tradizionali. 

Tuttavia, anche limitando l'analisi a questi aspetti economici, lo scenario presentato è estremante serio e foriero di conseguenze. Questo quadro si chiarisce ulteriormente analizzando le proposte di intervento pensate dai due economisti, che indicano come sarebbe concretamente possibile rianimare un'economia nelle nuove condizioni di tasso di interesse naturale stabilmente negativo.

La prima proposta suona come una revisione in salsa tecnocratica dei tradizionali incentivi keynesiani alla spesa. Secondo Krugman si potrebbe decidere, ad esempio, di dotare tutti gli impiegati di Google Glass (una sorta di occhiale multimediale) e altri strumenti che consentono diessere perennemente connessi ad internet. Anche se poi ci si accorgesse che si tratta di una spesa inutile, questa decisione politica sarebbe comunque positiva in quanto costringerebbe le imprese ad investire... Ovviamente sarebbero preferibili spese “produttive”, ma nello scenario attuale non si può andare tanto per il sottile: anche spese improduttive sono meglio di niente. 

Ma questo evidentemente non può bastare. Di fronte a un tasso di interesse naturale stabilmente negativo occorre spingersi oltre. Per Krugman un modo ci sarebbe: “si potrebbe ricostruire l'intero sistema monetario, eliminare la cartamoneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi.” Traducendo per i non economisti questo significherebbe niente meno che togliere la possibilità ai cittadini di comprare e vendere attraverso la moneta cartacea (che per definizione non costa nulla) e rendere forzose la transazioni con carta di credito, appoggiata necessariamente su conti correnti sui quali sarebbe tecnicamente possibile un prelievo forzoso di alcuni punti percentuali l'anno. In questo modo si costringerebbe la gente a spendere di più (la ricchezza infatti si deprezza restando immobilizzata su un conto in cui si paga un interesse invece di riceverlo) consentendo inoltre di allettare, con il ricavato, le imprese recalcitranti ad effettuare nuovi investimenti. Un'altra soluzione proposta prevede di alimentare un tasso di inflazione crescente che porterebbe agli stessi risultati, riducendo progressivamente il potere di acquisto dei cittadini in modo ancora più subdolo e surrettizio.

Se queste sono le idee che sorgono alla “coscienza di un liberale” (per riprendere il titolo della rubrica di Krugman) per far fronte all'incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere, non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo. E' evidente che, una volta imbracciata questa logica, tutto si giustifica, e anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull'altare di qualche punto percentuale di PIL. La prospettiva è chiara: tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista. 

Quanto detto è sufficiente a capire su quale sentiero si potrebbe incamminare il “riformismo neo-keynesiano” (con l'appoggio degli ex neoliberisti alla Summers) nell'era dei rendimenti decrescenti. Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo. E qui veniamo al secondo punto fondamentale.

 

Rendimenti decrescenti e l'impossibile ritorno al passato

Anche se si decidesse che il funzionamento della macchina economica è l'interesse supremo cui tutto è sacrificabile, dove ci porterebbe questa scelta? Cosa dire della base materiale ed energetica su cui fondare il rilancio della crescita? Su questo naturalmente i due economisti non spendono una sola parola. Perché è evidente che per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente, tutto per tenere in movimento - da una bolla speculativa all'altra - la macchina economica globale. 

Qui si evidenzia la differenza incolmabile tra il keynesismo terminale di Krugman e il rilancio del sistema industriale immaginato, (peraltro con ben altre finalità) negli anni Trenta da Keynes. Quello che gli economisti tardo keynesiani sembrano non capire è quanto il contesto sia completamente mutato rispetto all'età della crescita: dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi, dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato, come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?

Se, come credo, le economie capitalistiche avanzate sono entrate già da quaranta anni in una fase di rendimenti decrescenti questo non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali. Siamo di fronte ad un fenomeno di ben più vasta portata che comprende la riduzione della produttività dell'energia (EROEI), dell'estrazione mineraria, dell'innovazione, delle rese agricole, dell'efficienza dell'attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), oltre che di una sostanziale riduzione della produttività legata al passaggio da un'economia industriale a una fondata sostanzialmente sui servizi. E soprattutto, cosa che manca completamente nell'analisi di Summers e Krugman, si tratta di un fenomeno evolutivo e dunque incrementale. 

I rendimenti decrescenti, inoltre, non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell'attività economica quanto, piuttosto, un generale aumento del malessere sociale, e questo a causa dell'aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della megamacchina tecnoeconomica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici. Occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di PIL, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica).

In conclusione, benché sia un fatto di per sé eccezionale che i sostenitori dello status quo (sia di ispirazione neoliberista che keynesiana) siano disposti ad ammettere, pragmaticamente, la “fine della crescita”, questi non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica). Insomma dove il capitalismo è una cosa seria, come negli Stati Uniti, si riconosce pragmaticamente il problema, e ci si attrezza per affrontarlo. Credo tuttavia che il problema dovrebbe cominciare ad interessare anche quelli che, nella vecchia Europa come in Italia (e sono moltissimi, a sinistra, ma anche nelle reti e nell'associazionismo di base) credono ancora alla possibilità di un capitalismo addomesticato, ad un modello di "mercato regolato" che dovrebbe produrre insieme occupazione, giustizia sociale e sostenibilità ambientale. 

Dal nostro punto di vista il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall'ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita.

 

Mauro Bonaiuti

 




 

 

 
Pragmatismo armeno PDF Stampa E-mail

30 Gennaio 2014

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Mentre tutti i riflettori sono puntati sull' Ucraina, ancora invischiata nelle proteste di piazza delle "Rivoluzioni colorate" finanziate da USA ed UE, un paio di migliaia di km più ad oriente un piccolo paese caucasico, l' Armenia, quatto quatto e senza fare chiassate, ha aderito nelle settimane scorse alla "Unione Doganale Euroasiatica" promossa da Putin, che nelle intenzioni del Cremlino dovrà essere un contrappeso, in futuro, all' asse occidentale UE-USA.

Partiamo subito con una considerazione: tale Unione, se dovesse viaggiare in futuro a gonfie vele-ci auguriamo di sì-sarebbe davvero una salutare alternativa allo strapotere dell' impalcatura totalitario-tecno-finanziaria che ha in Washington e Bruxelles i suoi due poli.

Nessuno vuole qui elevare agli altari Putin, personaggio che ha pur esso le sue ombre, ma il dubbio nella scelta tra una Unione che, per bocca del Cremlino, garantisce le sovranità nazionali e monetarie contro una Unione, quella europea, volta solo alla omologazione totale in nome del mercato, alla cessazione della sovranità e al mercimonio delle culture nazionali, non dovrebbe neppur sfiorare il cervello d' un uomo sano.

Dobbiamo pur lodare tutto il pragmatismo del popolo armeno e della sua classe dirigente, che hanno capito, guardando non a fazioni di partito o a interessi particolari ma al benessere collettivo, che l' alleanza con Mosca è la unica soluzione.

L' Armenia è una repubblica piccola, più o meno delle dimensioni del Belgio, in gran parte montagnosa, nel Caucaso. Dall' indipendenza non ha fatto altro che stagnare ed essere invischiata in una "decrescita infelice": circondata da Stati ostili-Azerbaigian, Turchia-ha come unico, vero grande amico, solo la Russia, colla quale ha in comune la tradizione  culturale religiosa ortodossa .

Mosca può garantire a Yerevan, sempre in perenne crisi energetica, l' acquisto di gas a un prezzo scontato a 189 dollari al metro cubo; grazie alla collaborazione russa, gli armeni ridurranno la loro dipendenza dal nucleare prodotto nella obsoleta centrale ex sovietica di Metsamor, la quale produrrà sì il 34% del fabbisogno nazionale, ma è una bomba ad orologeria piantata nel Caucaso, tanto che la stessa AIEA, su pressione di Ankara, ha più volte imposto al governo armeno di chiuderla, prorogando la data al 2016.

Inoltre tutti i dazi sulle materie prime importate dal paese caucasico verranno aboliti.

Andiamo avanti: uno dei partner economici essenziali di Yerevan è Teheran e senza il bavaglio ideologico europeo il governo del presidente Serzh Sarkysian potrà continuare a coltivare, nel reciproco interesse, relazioni comuni improntate al benessere reciproco.

L' Iran è non solo uno dei primi partner commerciali per import ed export: con il suo flusso turistico (siamo aumentati a 90.000 presenze annue), crea lavoro e ricchezza al popolo armeno.

Immaginiamoci una Armenia integrata nella UE e nell' impero americano: stop al cospicuo dialogo con l' Iran, per ragioni ideologiche; calare le braghe negli interessi di politica interna ed estera- l' Azerbaigian, storico nemico armeno, è uno dei protetti e coccolati di Washington-e molto altro.

Ad amici lontani e remoti, i pragmatici armeni hanno scelto altri amici, vicini e contigui, i quali capiscono meglio i loro interessi.

Tutto ciò senza auto rovesciate, molotov nelle piazze, marce e occupazioni di edifici pubblici e clima da guerra civile: praticamente, a parte le fisiologiche lamentele di due o tre partitini d' opposizione in Parlamento, in Armenia non è successo nulla.

E visto che non è successo nulla, i media allineati al volere del Duplice Impero non ne hanno parlato...si sa che brucia, che fa male dover ammettere che le sirene europee trovano dei novelli rematori d' Ulisse, con la cera nelle orecchie che impedisce loro di sbattere contro gli scogli. Sempre redivivo Ulisse, il presidente Sarkysian si è prudentemente legato al palo sicuro della nave russa.

La chiusura e l' isolamento della montagnosa Armenia hanno forse agito da balsamo tonico, evitando l' incubazione di germi provenienti da ponente, i quali hanno ahinoi attecchito bene in Ucraina, facendo perdere la bussola ad una minoranza  violenta, rumorosa, che si trastulla in un demenziale "sogno europeo".

Simone Torresani

 

  

 
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