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Guerra climatica? PDF Stampa E-mail

7 Gennaio 2014

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Da Rassegna di Arianna del 2-1-2014 (N.d.d.)

 

La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.

Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo, generale Mini. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra mbientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».

I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».

Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’ Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?

La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’ economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.

Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che crescere la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».

La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche  tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».

Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».

 

Giorgio Cattaneo

 



 

  

 
Parole di speranza PDF Stampa E-mail

5 Gennaio 2014

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Mi chiamo Simone Torresani e, da oggi, sarò uno dei collaboratori al dibattito  di questo blog,nella cui filosofia mi rispecchio da lungo tempo.Ho comunque deciso di inaugurare questo 2014(un anno nuovo gia' oberato dai vecchi e insoluti problemi) in modo particolare:in questo mio post d' esordio,infatti,non scriveroò né di economia,né di alternanze o alternative al sistema,né farò analisi filosofiche o socio-economiche.Semplicemente,condividerò con tutti voi una mia reale esperienza di vita,la quale si inserisce in pieno nella nostra comune visione del mondo:la mia testimonianza vuole essere una nota positiva,un inno all' ottimismo per farvi sapere che siamo nel giusto e che dobbiamo continuare col nostro dibattito e a tener alta la bandiera dei nostri ideali.

Ho passato la notte dal 31 dicembre al 1 gennaio camminando per le strade del monumentale centro storico di Cremona,la mia città,assieme ad una amica che non vedevo da un poco di tempo,Daniela,una ragazza di soli 23 anni ma dalla viva e profonda intelligenza, la quale ahimé in tali tempi grami non trova modo di sublimarsi.Mentre intorno a noi persistevano i segni decadenti di una chiassosa civiltà da versione "2.0" di Basso Impero,con le piazze semi vuote(non penso per il freddo..) e i soliti tristi eccessi vuoti e alcoolici,tipici della decadenza occidentale,Daniela mi parlava dei suoi problemi e di come,dopo aver pensato a lungo,è giunta a considerare l' ipotesi di ritornare, prima della fine del 2014,presso la sua famiglia in un piccolo paese del meridione,un borgo un poco isolato dalle grandi vie di comunicazione dove,però,persistono ancora i tratti di un vero senso comunitario e sono fortissimi i legami familiari.Considera questa una soluzione necessaria,in quanto-nonostante la giovane età- ha il presentimento dell' avvenire di tempi duri,difficili,in cui solo l' attaccamento alle proprie radici ,al proprio territorio,ai rapporti di consanguineita',faranno da scudo e da barriera.Questa ragazza si è trovata, o meglio si trova,a vivere in un ambiente atomizzato ed ostile,in un quartiere dormitorio di periferia che un tempo era una vera e propria "città nella città'",un fantastico microcosmo in cui ciascuno aveva un determinato ruolo e ci si conosceva..era un luogo,un vero "luogo" almeno sino agli anni Sessanta-Settanta.Poi,come da manuale del sociologo Marc Augé,con la "accelerazione della storia" verso la surmodernità, anche tale quartiere si e' trasformato in un "non luogo":le vecchie figure tradizionali che battevano le strade animate ora sono divenuti anziani,troppo anziani:chi è deceduto,chi è nella casa di riposo,chi si trascina giocando a briscola in un centro anziani comunale.I figli e i nipoti,dispersi in altre città,in altri quartieri;chiusi i vecchi negozi storici,interrate alcune rogge e canali che solcavano le vie;costruite obbrobriose palazzine di edilizia popolare oggi abitate da una babele di lingue, dialetti ed etnie,nazionali ed estere.Un quartiere periferico snaturato,senza punti di riferimento(a parte una parrocchia dove l’ attività principale pare sia quella dei funerali degli ultimi testimoni di un mondo che fu),una zona difficile,in cui le iniziative farlocche in salsa buonista del Comune o le patetiche idee di associazioni di volontariato sono solo un buco nell' acqua.Non si risolvono questi problemi innalzando case popolari,dando appartamenti prefabbricati,con ascensori cui,ad occhio,la manutenzione risale ai tempi di Bettino Craxi..Che in questo "non luogo" dove attualmente vive Daniela, parafrasando Shakespeare,"ci sia del marcio in Danimarca" lo si evince da una notizia di cronaca fresca:un uomo di neanche sessant' anni,disoccupato da tempo,è deceduto in casa per cause ancora ignote ma senz' altro legate alle sue condizioni socioeconomiche disastrose(pareva dormisse con cinque coperte,una brutta storia di tagli ,di bollette non pagate,di emarginazione).

Con la tipica ipocrisia tartufesca italica ed occidentale,il quartiere ha esposto striscioni per le vie(la mediatizzazione e il culto dell' apparire travalicano anche la vita) gridando "vergogna","dove eravate"?

Prima di tutto,la domanda andrebbe girata in :"dove eravate voi,popolo degli striscioni?" . A postare su Twitter?A fare foto su Instagram? Si scopre che "in molti,nel vicinato,sapevano"..già,sapevano ma poi nel concreto,il nulla.Tanto,basta mediatizzare nel rito postmoderno del quarto d' ora di celebrità warholiano l' indignazione trasformandola in coloriti slogan messi ai muri e ai balconi,per lavarsi la coscienza.

Non voglio ora tuonare troppo contro i miei concittadini.Questo è un quartiere difficile, come se ne trovano in tutte le città,sia nelle grandi che nelle piccole,è una storia che oggi sarebbe potuta succedere anche a Roma,Milano,Palermo..ma in una città di provincia,il tutto fa un certo effetto.Forse perché un tempo si associava la provincialità a un "buon vivere" che purtroppo oggi stiamo perdendo.

In questo marasma,in questo "non luogo" ,ben vengano allora le ragazze giovani come Daniela che,seppur nelle difficoltà,hanno saputo impiegare il loro tempo non gettandosi via con impulsi autodistruttivi,ma pensando con la propria testa,informandosi,giungendo a conclusioni che paiono banali ma che non lo sono: sono conclusioni che denotano una antica saggezza.Daniela non e' (attualmente) una antimodernista,non conosce il pensiero di Massimo Fini,però ha saputo usare la "solitudine positiva"(come aveva scritto Francesco Lamendola in un bellissimo articolo sulla solitudine,pubblicato sul sito d' Arianna) per leggere in sé stessa e per ritrovarsi.E si ritroverà,senz' altro,ripartendo dalle sue origini.Certo non partirà domani,quindi io avro' ancora la fortuna di vederla.Ma noi siamo d' accordo che nessuna distanza intaccherà la nostra conoscenza,la nostra amicizia.Useremo intelligentemente i mezzi moderni per restare in contatto e poi nessuno conosce il futuro..una volta stabilizzatasi e ritrovatasi,lei potrebbe anche ritornare.Perche' Cremona è la sua seconda casa,anche qui ha radici.Daniela sta affrontando la vita senza l' assillo di fughe esistenziali in paesi esteri o esotici,ma conscia del suo essere e delle sue profonde radici.Daniela,ti ringrazio per avermi fatto passare una notte di San Silvestro speciale:abbiamo camminato per la città,riso,scherzato,parlato intensamente,le ore sono letteralmente volate e abbiam fatto le 3,20 del mattino che eravamo ancora lì,a parlare,a confidarci..e mai un secondo di quella notte è stata noia.Credo di aver passato uno dei San Silvestro più belli ed interessanti della mia vita.E ho voluto condividere,come buon auspicio per il 2014,queste mie riflessioni,queste mie piccole esperienze di vita con tutti voi.Fin quando nella massa ci saranno ancora delle persone come Daniela,allora credo che nulla sia perduto.Ė da questa gente, da una persona come questa, seppur estetista disoccupata,che dovremo ripartire quando la baracca dei folli andrà al collasso.

Simone Torresani

  

 
Società liquida ma in gabbia di ferro PDF Stampa E-mail

3 Gennaio 2014

 

 

Le comunità premoderne obbligavano a forti appartenenze.

Si apparteneva alla famiglia, intesa come clan familiare allargato. Ne discendeva l’orgoglio di portare un certo cognome, il sentimento dell’onore, di un nome da non infangare per guadagnarsi la protezione che anche il clan familiare più povero poteva garantire.

Si apparteneva a una comunità di paese, o di quartiere nel caso delle città più grandi, coinvolti nei suoi riti, nelle sue sagre, nel suo spirito competitivo e campanilistico.

In epoca più moderna, l’epoca degli Stati nazionali, lo spirito di appartenenza alla città e alla regione si è esteso alla nazione, con le sue feste celebrative, il suo orgoglio patriottico, la sua bandiera.

Si apparteneva a una chiesa o, più modernamente, a un partito, con tutto lo spirito di conformismo e di sentimento di fedeltà che ciò comporta, ma anche con una carica autentica di passione personale.

Si apparteneva a un genere, col rigoroso rispetto dei rispettivi ruoli.

Si apparteneva a un ceto, a una classe, a un mestiere, con tutti i vincoli che ciò comportava ma anche usufruendo di protezioni.

Erano appartenenze forti che significavano anche impegno, responsabilità, identificazione, in un processo non di dissoluzione della personalità ma di individuazione in una serie di gruppi comunitari.

Il processo di modernizzazione, attraverso le forme del capitalismo che ne esprimono compiutamente le dinamiche, giunto ormai al suo punto culminante, tende a dissolvere quelle appartenenze.

La famiglia, sempre più ristretta e instabile, tanto che in Italia un terzo dei nuclei familiari non sono più nemmeno tali in senso proprio, essendo formati da una sola persona, non ha più il significato di un tempo.

L’appartenenza al paese si è ridotta al suo aspetto più deleterio, quello del tifo sportivo campanilistico e quello delle bande adolescenziali di teppisti di quartiere.

L’appartenenza alla nazione va diluendosi in un generico umanitarismo dolciastro da cittadini del mondo, falso, non sentito, incapace di produrre emozioni collettive.

L’appartenenza a una chiesa conserva un significato solo nel mondo islamico, un islam che del resto non avendo un clero, almeno nella sua parte sunnita, non è nemmeno propriamente chiesa. Quanto ai partiti, sono ormai aggregazioni elettorali provvisorie, non più agenzie educative e produttrici di ideologie identificative.

Perfino l’appartenenza a un genere è diventata labile. Un maschio può scegliere di diventare gay o bisessuale. Una femmina può scegliere di diventare lesbica o bisessuale. Una coppia dello stesso sesso potrà adottare un figlio oppure trovare un utero accondiscendente o un donatore di seme, e la legge consentirà di figurare come genitore uno e genitore due.

I ceti e le classi si sono frammentati e dispersi in mille rivoli, omologandosi anche gli stili di vita, gli abbigliamenti, le modalità espressive. Quanto ai mestieri, parcellizzati e automatizzati, quando non restino manovalanza brutalmente sfruttata, non comportano più identificazione corporativa e fierezza del lavoro, anche manuale, ben fatto.

Il quadro che ne risulta è quello che Bauman ha genialmente sintetizzato nella formula “società liquida”.

Questo è il significato profondo e più autentico di quella libertà che resta il valore più alto di riferimento dell’ideologia unica, quella del capitale trionfante. La libertà politica,  che consente di dire ciò che si vuole senza finire in prigione o davanti a un plotone di esecuzione, è la meno significativa. La libertà vera cui tende la logica del capitale è quella dell’individuo sciolto dai legami comunitari, ridotto a puro produttore e consumatore, senza vincoli morali, senza radici territoriali. Faccia quello che vuole e dica quello che vuole, purché si renda disponibile come produttore quando il sistema può impiegarlo e purché consumi delle merci. 

 Ecco dunque il limite in cui si imbatte anche il concetto di “società liquida”. Lo è in quanto allenta tutte le appartenenze e le identificazioni, ma non lo è in quanto impone una gabbia solidissima, un quadro di riferimento indiscutibile: la logica del libero mercato, della concorrenza fra individui sciolti da legami comunitari, del meccanismo della riproduzione allargata. Tutto ciò è diventata non una forma storica transeunte come tutte le altre, ma la naturalità di un sistema che segna la fine della storia, il fine cui tendeva il travaglio dei millenni. E l’imperialismo non esiste più, essendo gli USA i delegati dalla Storia a essere i garanti della diffusione mondiale di quel sistema finale perfetto.

Questa è l’ideologia dominante, ferrea quante altre mai, una gabbia  che nessuna crisi sembra incrinare.

Per questo l’illusione di M5s di cambiare profondamente le cose per la via elettorale, con cui è iniziato l’anno dal quale ci congediamo, e l’altra illusione di scuotere le coscienze attraverso il movimentismo dei Forconi, che ha chiuso il 2013, sono già svanite. Finché la forza delle cose non scalfirà il granito che sta dietro l’apparente carattere liquido del sistema, una presa di coscienza generalizzata sarà impossibile.

 

Luciano Fuschini   

 
Libertà come omologazione PDF Stampa E-mail

31 Dicembre 2013

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Da Heimat (N.d.d.)

 

“Sono egiziana, porto il velo e faccio rap.Mi guardano storto, ma non importa”. Il caso della “rapper” diciottenne Mayam, salita alla ribalta di Arab’s got talent,  riporta al centro della scena il complesso tema della libertà e in particolare della libertà femminile in una società conservatrice.  Resta però in ombra la domanda se siamo di fronte a un’autentica domanda di libertà o di globalizzazione, di un mondo migliore e più sensibile ai nostri desideri o solo più povero di linguaggi, di forme espressive, di colori e sfumature.

Quella di Mayam è una storia scritta nel quadro di un format globale, ai margini di un genere musicale anch’esso globale, estrapolato dalle sue origini specifiche e ora in procinto, nel mondo arabo, di un nuovo salto qualitativo. Un salto di genere.

Appare sempre più difficile distinguere i due termini, libertà e globalizzazione, non solo in Egitto ma anche in Europa e in Italia. Innegabilmente la globalizzazione rivendica una sua versione di libertà: l’omologazione. Noi stessi ci sentiamo liberi se siamo omo-loghi,  se ci ri-conosciamo identici gli uni agli altri, parti di una società gemellare.  L’unica libertà che sembra interessare ampie fasce di popolazione, in particolare giovanile, è quella di poter essere come “gli altri”, un’aspirazione ansiogena, certamente non nuova, ma che solo oggi si pone come l’orizzonte esclusivo della ricerca di sé e non come mero indugiare nel conformismo.

“Sono certa – dice Mayam secondo quanto riporta La Stampa  – che in futuro non sarò l’unica e quando smetterò di rappare ci saranno tante altre come me”.  Voi “come me”, e io come gli altri, ecco il punto. Il diritto all’identità, da diritto a una propria storia e al proprio peculiare destino, si è tramutato in un diritto e in una cultura dell’emulazione, nel segno di un egalitarismo dell’anima, di un collettivismo emozionale senza comunità, di un oblio della provenienza, persino di una comune mediocrità.  Checché se ne dica, la diversità fa paura anche quando viene evocata come valore. Pochi hanno il coraggio di evidenziare come nello stesso universo omosessuale, per portare un esempio di grande attualità, prevalga il desiderio di con-formarsi al modello di famiglia etero-sessuale, basato su matrimonio ed educazione dei figli, piuttosto che la volontà di ricercare una propria via e una propria peculiare collocazione nel diritto e nella società.

Se vi sembra di vivere in un’epoca non solo povera di diversità, ma anche incapace di autentica creatività artistica, avete perfettamente ragione: la creatività è legata a doppio filo alla diversità, all’ignoto, a ciò che ancora non conosciamo e che diventa, tra le mani dell’artista, materia di “opera alchemica”. Dove la diversità cessa di esistere la creatività subisce un tracollo epocale. Noi stiamo assistendo a questo tracollo: la globalizzazione prevede una continua ripetizione dell’identico, un gioco tra le poche varianti interne a un codice linguistico e cromatico ottenuto per svuotamento dei precedenti mondi vernacolari e sostituzione di quei modelli con standard industriali basici, replicati su vasta scala, abilmente promossi attraverso l’ansia di omologazione e conformità.

E allora, buon rap egiziano a tutti.

 

Gian Maria Bavestrello 

 
Proibizionismo PDF Stampa E-mail

28 Dicembre 2013

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Qual è il bello della convivenza di un popolo? Unire o dividere? La maggior parte di voi penserà ad unirsi mentre, in realtà, il propellente della democrazia è la divisione. Infatti se l'offerta permette delle scelte il cittadino può esercitare la sua libertà. Queste sono le fondamenta della democrazia, perché noi dobbiamo sempre ricordarle? Perché, purtroppo, in Italia sembra che tutti quanti se ne siano dimenticati. Molti desiderano l'uniformità del pensiero: fateci caso, in questi mesi il governo italiano è sostenuto dal 70% - margine variabile in base agli interessi che sorgono - dei partiti dell'arco costituzionale. Questa maggioranza, formata da un'accozzaglia di personaggi strani, con la panzana del dobbiamo salvare l'Italia sta mettendo in atto un vero e proprio regime per risanare i conti pubblici. Tralasciando la pochezza sia fisica che spirituale dei nostri cari ministri, ci impressiona come questi signori possono prendere dei provvedimenti incommensurabili, ma nello stesso tempo elementari, con tanta semplicità e serenità. Nota a margine: io ho sempre pensato che fosse meglio investire in ricerca piuttosto di importare il frutto del lavoro degli stessi italiani espatriati, evidentemente mi sbagliavo poiché queste soubrette da circo dell'assurdo hanno creato tutte le condizioni perché accadesse il contrario. I nostri cari governanti sono riusciti a capovolgere l'essenza della democrazia, non c'è più un popolo diviso, un popolo che litiga, che sbraita, c’è invece un popolo unito nel credere a un governo che l’ ha condotto sull’orlo del baratro.

 

Una classe dirigente – dominante -  e governanti talmente recalcitranti davanti alle nuove generazioni che non hanno ancora capito quali provvedimenti occorre prendere per modernizzare il Paese e compiere quel balzo idoneo per uscire definitivamente da una crisi quasi ricercata o desiderata. Prendiamo ad esempio la percezione che i nostri governanti hanno su uno dei tanti temi a cui i giovani prestano molta attenzione: il proibizionismo della canapa indiana. Innanzitutto dobbiamo comprendere chi è e dove si colloca il classico proibizionista: il proibizionista è il tipico conservatore che vuole il mondo sia come lo intende lui. Sempre il proibizionista dice che i criteri repressivi vanno adottati per garantire di non recare danno agli altri, ad esempio quando si è alla guida di automobili. Solo che il non recare danno ad altri non porta per forza ad una politica proibizionista. Di certo si arriva al proibizionismo se ci si illude di poter essere totalmente sicuri, a costo di ridurre la variabilità degli eventi della vita. Stabilire dei livelli di sobrietà assai discutibili, serve a metter su reti di controllo dissuasive basate sulla paura del cittadino per indurlo ai comportamenti “giusti”. Però aspirare a questo tipo di sicurezza è fuori dal mondo concreto. Non solo da un punto di vista della libera convivenza, ma anche perché i dati ufficiali indicano che ben due terzi degli incidenti stradali mortali derivano da cause differenti da alcol e droghe. Come si fa a sostenere che, abolendo le attuali leggi proibizioniste, la percentuale derivante da alcol e droghe aumenterebbe sensibilmente? Lo suppone la psicosi proibizionista che continua a voler introdurre nuove fattispecie di reato, assillata dal dover sbandierare la paura. 

 

In realtà essendo cittadini, l’essere contro il proibizionismo è naturale. Perché fondiamo la convivenza sulla libertà di ciascuno nell’ambito delle regole da noi stessi scelte. Secondo noi queste regole devono essere coerenti con il principio di libertà e adeguate di continuo, per rendere possibile ad ognuno di esprimersi al meglio. Non sono invece coerenti le regole che stabiliscono i (supposti) comportamenti giusti da tenere. La logica proibizionista presume appunto di sapere quale sia il modo giusto di comportarsi in società e vuole imporlo. Ė una logica opposta a quella di un popolo libero. Il proibizionista, come abbiamo sottolineato sopra, è il tipico conservatore (di destra o di sinistra fa lo stesso) che vuole il mondo sia come lo intende lui. Mentre i cittadini liberi stanno ai fatti del mondo e pensano che la convivenza debba fare i conti con quei fatti. Per questo vogliono la libertà. Perché ciascuno cerchi sempre il modo di affrontare i fatti al meglio. Tra i più ancestrali modi di rapportarsi al mondo esterno, vi sono quelli del mangiare e del bere cibi e bevande capaci di rinvigorire e di soddisfare. In quest’ambito, e ancor più in quello dei prodotti medicinali, vi sono sempre state sostanze più o meno commestibili ed assumibili secondo i gusti e le necessità, che tendono a regolare la disponibilità di energia e ad influire sulle condizioni organiche di chi le assume con effetti più o meno profondi e duraturi. In proposito, per la civiltà libera quello che davvero importa è che ognuno sia il più possibile informato circa i reali effetti di ciascuna di quelle sostanze sull’organismo di chi le usa. Poi spetta al singolo decidere come comportarsi. Qui il proibizionista insorge gridando al pericolo per la sicurezza degli altri cittadini, minacciata dalla libertà. E, sbandierando questo pericolo, propone regole per imporre un dato comportamento restrittivo che secondo lui garantirebbe la sicurezza. Solo che l’esperienza storica mostra in modo inequivoco una cosa opposta. Che così facendo la sicurezza è molto relativa ed al fondo illusoria, mentre la restrizione della libertà individuale irrigidisce le istituzioni e genera di certo un tenore di vita più disagiato per gran parte dei conviventi. Quindi è l’atteggiamento proibizionista a costituire un pericolo effettivo per il cittadino.

Vanno poi considerate le conseguenze della lotta proibizionista dal punto di vista della spesa pubblica. La spesa europea complessiva nella guerra alla droga oscilla tra i 28 e i 40 miliardi di euro-anno, quella italiana è stimata in circa 5-6 miliardi. I risultati di questo impegno poderoso sono: un elevato livello di criminalità, la prosperità delle organizzazioni criminali, migliaia di giovani vite stroncate o rovinate in modo irreparabile, la persistenza del traffico degli stupefacenti nonostante la proibizione, le immense rendite di posizione degli alfieri della guerra agli stupefacenti.

È morale spendere i soldi in questo modo? Davvero non c’è un modo migliore di spendere i soldi? Davvero i nostri diritti di cittadinanza sono così tanto meno importanti del dovere che ci siamo dati di insistere in quella costosa proibizione? È morale spendere quasi sei miliardi di euro all’anno nella repressione del commercio e del consumo della Canapa quando abbiamo ospedali con i malati messi a letto nei corridoi? Mi è difficile pensare che non ci sia un modo migliore di spendere soldi, anche moralmente migliore. Giuseppe Ayala affermava che per combattere la mafia e la criminalità organizzata è necessario legalizzare le sostanze stupefacenti ora illecite. Le mafie traggono la maggior parte della loro ricchezza dal narcotraffico, e non si può contrastare il narcotraffico senza politiche di legalizzazione. In questo modo si sottraggono le droghe al mercato illecito per affidarle ad un sistema regolamentato. Molti si chiedono: può lo Stato permettere la vendita delle droghe leggere? Anche ammesso che nell’uso di Canapa vi sia qualcosa di immorale, sappiamo che non si tratta di una di quelle immoralità che giustificano la proibizione o la punizione, come avviene invece per l’omicidio o per il furto. La revoca della proibizione indebolirebbe le organizzazioni criminali sottraendo loro una grande fonte di ricchezza, e mi pare che questo non possa certo essere definito immorale. Per di più, comporterebbe due vantaggi per lo Stato: un risparmio, perché i soldi adesso destinati a una lotta alla droga senza speranza potrebbero essere destinati per altri scopi, come cercare di rimediare un po’ delle situazioni disastrose che sono sotto gli occhi di tutti; e un guadagno, perché il mercato delle droghe illegali, immenso e florido, sarebbe tassato come avviene per ogni mercato legale, con benefici immediati per l’erario. Forse il “quesito morale immenso” ha a che fare con l’obiezione che, in questo modo, lo Stato farebbe cassa sulla pelle dei cittadini ma, se il problema è questo, allora si tratta di un quesito morale che si spazza via con facilità. La legalizzazione non inventa il consumo di stupefacenti, ma si limita a renderlo legale. Anche sotto la proibizione, infatti, le droghe leggere si vendono e si consumano, perché la proibizione non funziona, e non ha mai funzionato.

Chi ha a cuore la salute pubblica dovrebbe guardare alla legalizzazione della canapa come a una soluzione auspicabile e urgente, perché permetterebbe di effettuare controlli di qualità sulle quantità in commercio, come succede per tutto quello che viene posto in vendita sul mercato legale, con benefici immensi per milioni di persone che, proibizione o non proibizione, sono forti consumatori di droghe leggere. Credo che tutti siano consapevoli che non esiste nessuna giustificazione per proibire l’uso della canapa e dei suoi derivati, e meno che mai per punirlo. È invece incredibile come anche le forze politiche che si propongono come innovative, ad esempio il Movimento Cinque Stelle, non abbiano nel loro programma l’intenzione di risolvere il problema. Forse l’origine di tutti i mali italiani siamo proprio noi cittadini che non sappiamo mai riconoscere e discernere tra chi ha delle idee veramente utili per il bene della società e tra chi, invece, predica un mero populismo finalizzato al nulla.

Augusto Tagliati

 

  

 
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26 Dicembre 2013

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Da L’intellettuale dissidente del 4-12-2013 (N.d.d.)

 

Yukio Mishima, celebre scrittore e saggista giapponese del secolo scorso, nel paragrafo “ Sul Corpo” del saggio intitolato “ Lezioni spirituali per giovani samurai” spiega chiaramente come sia cambiata la concezione del corpo nella società giapponese dopo la seconda guerra mondiale. Mishima introduce l’argomento spiegando come “originariamente il corpo era, per i giapponesi, un concetto d’importanza secondaria” e come la caratteristica che differenziava il Giappone dall’Europa consisteva nel fatto che i giapponesi non consideravano, platonicamente, il corpo umano come metafora del mondo metafisico (Platone affermava che la bellezza fisica fosse la chiave per accedere al nobile incanto dell’Idea). Nell’universo nipponico grazie alla determinante influenza del Buddismo il mondo fenomenico, il corpo naturale, a differenza della concezione ellenica, non era assolutamente considerato come rappresentazione di qualcosa che lo trascendeva ma anzi veniva disprezzato: la bellezza era qualcosa che trascendeva il fisico in sé ma era qualcosa più simile ad una bellezza spirituale, ad una sorta di aura che una persona emanava, un’atmosfera che riusciva a creare intorno a sé. E proprio per questo motivo, circostanza totalmente opposta al mondo di oggi con cui non ha nulla in comune, la bellezza poteva essere “aiutata” con l’utilizzo di abiti che ostentassero una certa dignità: le pregiate sete di un kimono che avvolgevano il corpo di una donna. Esemplare il caso di un uomo come Musashi Miyamoto, vissuto a cavallo tra il 1500 e il 1600, pittore e grande maestro di arti marziali, che spendeva i suoi giorni nella ricerca spirituale e nell’allenamento, di cui il corpo “che fungeva da tramite fra questi due poli” ( forma fisica e profondità spirituale ) è da sempre rimasto ignoto, “quasi non fosse esistito”. 

 

Con la fine della seconda guerra mondiale e l’invasione della televisione americana, questa concezione del corpo mutò radicalmente. A differenza dello spirito greco che considerava il corpo un tramite tra la bellezza umana e la bellezza ultra-terrestre e che quindi presupponeva, a scopo quasi funzionale, una cultura corporale fatta di belle forme ( si pensi alle statue), il nuovo “canone” americano non rappresenta affatto una rinascita di questo spirito, pur concentrando l’attenzione sul corpo, ma, giudicando il valore dell’uomo esclusivamente dall’aspetto fisico, rende l’aspetto fisico non solo valore in sé, privo di trasfigurazioni o simbolismi, ma lo ritrae come unico valore, effige di una nuova categoria rappresentativa: il materialismo. Il corpo, nella odierna società dei consumi, è diventato l’oggetto di una sete edonistica insita nell’uomo (post)moderno, adulato come oggetto di culto ma contemporaneamente messo all’asta e svilito come merce. L’uomo è ossessionato dal corpo diventato ormai interesse di legami soggettivi e fonte di ansia e competizione, in perenne ricerca di una forma “perfetta” mai completamente raggiunta a causa della mutevolezza dei canoni estetici ogni giorno dettati dalla pubblicità

Il paradosso dell’uomo di oggi è che questi due spiriti, spirito greco e spirito giapponese, convivono ma secondo un’interpretazione sbagliata di entrambi. L’attenzione greca dedicata alla bellezza del corpo, al raggiungimento di canoni estetici giudicati come perfetti e quindi meta-divini, è stata rimpiazzata da un’ossessione verso la forma fisica che non trova nella realizzazione di sé un fine altro ma che viene perennemente modellata secondo canoni che mutano sempre più velocemente. Il corpo in questo modo si lega indissolubilmente all’erotismo: da oggetto di venerazione diventa oggetto di ossessione e angoscia, desiderio insoddisfabile, metro di giudizio e da uomo-divino lo trasforma in animale-oggetto. Il vortice della mutevolezza dei modelli da seguire lancia l’uomo, anonimo e spogliato dell’identità, nel caos fino alla confusione dei generi: l’identità viene ricercata nel sesso opposto ma l’unico che alla fine trae beneficio da questa situazione è il Capitale. 679 milioni di Euro in Francia rappresentano il mercato maschile dei cosmetici con un incremento del 30% all’anno; dal 2003 la vendita di prodotti per la cura del viso per uomo è esplosa dell’87% in un anno, e il mercato dei gioielli è raddoppiato (Veronique Lorelle, L’uomo si rifà una bellezza).

E qui subentra il male interpretato spirito giapponese secondo il quale la bellezza di una persona veniva emanata dall’atmosfera che si creava intorno ad essa, dagli abiti, dalla dignità. Il corpo al contrario diventa puro oggetto travestito, appendiabiti per stilisti, agghindato con accessori e gioielli, scadendo alla fine nell’insignificanza e talvolta ostentando la nudità al solo scopo di renderla inaccessibile, e al limite esorcizzarla ( Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi). Moda mascolina per le donne, devirilizzazione dell’uomo: il mercato è causa e conseguenza, contraente e beneficiario, crea e distrugge. L’uomo è spaesato e l’Io confuso, è perso in un mondo dove i canoni da seguire sono innaturali e dove l’imitazione di un modello è imposta, pena la propria felicità e l’esclusione dalla Società.

 

Andrea Chinappi

  

 
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