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In ricordo di Costanzo Preve PDF Stampa E-mail

25 Novembre 2013

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Da Rassegna di Arianna del 23-11-2013 (N.d.d.)

 

Questa mattina avevo intenzione di scrivere un post dal titolo “Un’altra Europa non è possibile”, per smentire tutti coloro che ammettono la negatività dell’euro e delle “istituzioni unioniste”, puntelli della dittatura europoide, ma credono che “un’altra Europa sia possibile”, buona, giusta, democratica, e farneticano sulla possibilità futura dei cosiddetti stati uniti d’Europa.

Purtroppo, a metà mattinata mi ha telefonato l’amico Luigi Tedeschi, di Roma, per comunicarmi una triste notizia.

La morte del filosofo Costanzo Preve, da qualche tempo gravemente malato, sottoposto a chemioterapia e ormai quasi allettato.

Classe 1943, di padre piemontese e di madre greco-armena, laurea in filosofia alla Sorbona di Parigi, studi di ellenistica ad Atene e laurea in scienze politiche all’università di Torino, dove viveva e dove ha insegnato nei licei, Costanzo ha rappresentato, in particolare dal 1999 in poi, una delle rare voci critiche, libere e autenticamente anticapitaliste nate nel mondo marxiano e marxista europeo-mediterraneo.

Silenziato dai media, costretto, in Italia, a pubblicare le sue opere con piccole case editrici, accusato talora di rosso-brunismo dalle piccole tacche postcomuniste della pseudocultura asservita al nuovo capitalismo, Costanzo, come tutte le grandi personalità – nel nostro paese, ad esempio, Antonio Gramsci – ha semplicemente seguito la sua strada, in solitudine e coerenza, con grande determinazione e coraggio personale, senza badare ai costi che avrebbe dovuto sopportare. Per lui il silenziamento, l’isolamento e talora gli attacchi denigratori e gratuiti, per Gramsci ai suoi tempi la prigione.

In seguito all’attacco militare americano-Nato in Serbia e nei Balcani per i torbidi in Kossovo, al servilismo del tristo D’Alema, che ha messo il territorio italiano a disposizione degli aggressori, e soprattutto per l’adesione incondizionata alla “guerra umanitaria” di intellettuali di sinistra della notorietà di Bobbio, Costanzo ha aperto definitivamente gli occhi e ha deciso di seguire fino in fondo la scomoda via della critica senza appello al capitalismo, della completa rilettura della filosofia occidentale dagli Elleni ai giorni nostri, della costruzione delle basi filosofiche per un'alternativa al pensiero unico imperante.

Costanzo Preve è ripartito dalla dialettica hegeliana, dal pensiero originale di Marx e dalla filosofia classica degli Elleni. “Ripensare Marx” e non rinnegarlo o edulcorarlo non ha rappresentato un semplice slogan, per Costanzo e per i pochi che l’hanno seguito, ma un punto di partenza ineludibile per poter comprendere le dinamiche del capitalismo del terzo millennio. E per poter iniziare a delineare i contorni di un’alternativa possibile.

Oltre Marx, ripartendo da lui e da Hegel, c’è Costanzo Preve, il più grande filosofo dell’Europa mediterranea (e non solo) all’inizio del terzo millennio. Per lo scrivente, Costanzo è stato un Maestro e un amico. Il debito di gratitudine nei suoi confronti è grande e non potrà mai essere ripagato.

L’originalità del pensiero filosofico previano, la sua solitaria e incessante ricerca di un’alternativa al capitalismo ultimo e al pensiero unico imperanti, rivalutando la funzione veritativa che gli antichi attribuivano alla scienza filosofica, è testimoniata dall’unione delle due espressioni Comunismo e Comunità. Padre riconosciuto del comunismo comunitario in Italia, Preve è stato capace di cogliere, con uno sguardo dall’alto, la sostanza dissolutoria di questo capitalismo dei vincoli solidaristici fra gli uomini, comunitari e di classe, per isolare l’essere umano e sfruttarlo nei circuiti della creazione del valore finanziario. Contrapporre al lavoro capitalistico, oggi precarizzato, super sfruttato e svalutato culturalmente, il lavoro comunistico-comunitario e un nuovo lavoratore collettivo cooperativo e associato, andando oltre Marx, come ha fatto Costanzo Preve, è un’operazione rivoluzionaria, dai contenuti trasformativi. Più di ogni altro, in quanto filosofo e pensatore tradizionale, Preve ha accolto e fatto proprio l’appello di Karl Marx, e cioè che non basta comprendere ma è necessario cambiare.

Chi scrive è certo che quanto ci ha insegnato Costanzo Preve, nella sua quarantennale opera di studioso, di pensatore indipendente, di buon Maestro, non andrà perduto. Decine di libri e di saggi illuminanti, pubblicati non solo in Italia, ma anche in Francia e in Grecia. Un’opera che si è conclusa con la pubblicazione di Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della  filosofia (Petite Plaisance, 2013), autentico testamento di Costanzo Preve.

Partiamo dalla fine per segnare un nuovo inizio, riportando di seguito una citazione di Costanzo, tratta dal Prologo di Una nuova storia alternativa della filosofia [...]

I pochi fra noi che hanno avuto il privilegio di avere un tale Maestro, di aver goduto del tesoro inestimabile dei suoi insegnamenti, sanno bene che stando sulle spalle dei giganti si può guardare oltre, e scorgere in lontananza un nuovo tempo e una nuova società umana.

Non addio, ma arrivederci a Costanzo Preve, certi che lo sviluppo del corso storico, oltre le secche del presente e il neocapitalismo distruttore, gli accadimenti e le generazioni future gli renderanno finalmente giustizia.

Eugenio Orso

 




 

 
Anglicismi PDF Stampa E-mail

22 Novembre 2013

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Da Rassegna di Arianna del 5-11-2013

 

L’ultimo vezzo linguistico che mi è capitato di leggere e ascoltare è il termine “location” al posto di “luogo” o “posto”.

Si tratta di  una tra le tante parole facenti parte dell’infinita serie di anglicismi entrati prepotentemente e del tutto inutilmente nel linguaggio quotidiano italiano parlato e scritto, spesso anche in maniera inappropriata rispetto allo stesso significato inglese originario. Si tratta di un fenomeno massiccio in rapida espansione che investe l’intero spettro del lessico quotidiano e, non solo, come è comprensibile che sia, il linguaggio specialistico relativo a discipline (ad esempio informatiche) elaborate in origine nel mondo anglosassone.

La questione non va impostata in termini di purismo linguistico, poiché è chiaro che le lingue nascono e si evolvono sulla base di continue contaminazioni graduali sia interne a sé stesse sia esterne. Ciò è un bene! Ed è altrettanto chiaro che le contaminazioni saranno più spesso provenienti da lingue parlate da nazioni egemoni sul piano geopolitico. Questo non è un bene, ma è qualcosa che comunque entro certi limiti può essere solo parzialmente frenato e contrastato, se non se ne contrasta l’origine.

Quando però una serie interminabile di parole straniere (tanto più di un’unica lingua straniera) entra in tempi estremamente rapidi nel linguaggio comune delle persone sostituendo di sana pianta parole di uso quotidiano perfettamente calzanti, assumendo toni persino grotteschi e ridicoli, allora il fenomeno assume toni diversi e deve essere indagato in termini socio-politici.

Prima di tirare alcune conclusioni, vediamo subito qualche esempio.

Per ciò che riguarda il linguaggio settoriale, un esempio emblematico è  il linguaggio calcistico. Vero è che agli esordi del calcio moderno in Italia tale linguaggio era dominato da una quasi integrale terminologia inglese, frutto della semplice circostanza che il football moderno era uno sport nato in Inghilterra e in Italia veniva inizialmente seguito da gruppi elitari ristretti. Tuttavia, per un misto di italianizzazione espressamente ricercata, durante e prima del ventennio fascista, e di naturale inclinazione dei ceti popolari ad usare termini autoctoni, nel momento in cui il calcio divenne uno sport sempre più seguito, l’uso della terminologia italiana divenne egemone e di corrente uso popolare di massa.  Sta di fatto che fino a venti anni fa nessuno si sarebbe mai sognato di alterare e sostituire arbitrariamente termini come rigore, calcio d’angolo, fuori, partita, allenatore, coppa campioni, mentre da qualche tempo a questa parte, a partire dai giornalisti sportivi, si è iniziato a dire senza nessuna ragione linguistica motivata: “penalty”, “corner”, “out”, “coatch”,” champions league” e via dicendo.

Il problema tuttavia, come detto al principio, non concerne soltanto linguaggi strettamente settoriali, ma anche e soprattutto il linguaggio politico, economico, nonché il semplice linguaggio quotidiano: “weekend”, “ok”, “authority”, “public company”, “meeting”, “break”, “workshop”, “step”, “fiction”, “show”, “feeling”, “stress”, “shock”, “new entry”, “know how”, “question time”, “road map”….e ancora… “brain storming”, “backstage”, “background”, “trading”, “fitness”, “magazine”, “live”, “feedback”, “random”, “outsider” etc etc…. al posto di “finesettimana”, “d’accordo/va bene”, “società ad azionariato diffuso”, “incontro”, “pausa”, “seminario/conferenza”, “passo”, “finzione/serie”, “spettacolo”, “intesa”, “tensione”, nuovo entrato”, “sapere/conoscenza”, “interrogazione parlamentare”, “tabella di marcia/piano”, “libera condivisione di idee/spunti”, “dietro le quinte”, “contesto/bagaglio o retroterra culturale”, “compravendita finanziaria”, “attività fisica/benessere”, “rivista”, “tempo reale”, “riscontro”, “a caso”, “esterno” etc etc..

L’elenco è lunghissimo e si potrebbe continuare per due o tre pagine intere, ma sarebbe inutilmente noioso.  Ciò che è rilevante è che moltissime delle parole inglesi in uso nel linguaggio comune vanno a rimpiazzare spesso e volentieri termini di uso quotidiano di estrema semplicità e pregnanza già propri dell’italiano. Discorso diverso, ovviamente, per quei termini che nascono in ambito anglosassone ed indicano concetti di cui non esiste un corrispettivo italiano. In quest’ultimo caso il prestito straniero ha una sua logica, anche se anche qui un abuso porta ad un ristagno cronologico della propria lingua che potrebbe invece evolversi dall’interno tramite apposite traduzioni di termini nuovi o semplici rese in italiano di concetti relativamente agevoli da indicare. Spagnoli e francesi ad esempio denominano il “computer” “ordenador” e “ordinateur” e non sarebbe stato affatto scandaloso se in italiano tale oggetto fosse stato chiamato fin dal principio “calcolatore”. E lo stesso vale per altre decine e decine di parole potenzialmente traducibili (ovviamente entro i giusti limiti, ovvero senza scadere in inutili purismi esasperati).

Il caso però davvero inquietante e rilevante, che forse non ha paragoni in altre lingue europee, è proprio quello del linguaggio quotidiano, ovvero del linguaggio non strettamente settoriale-specialistico o comunque che riguarda tutti quei termini che vanno a rimpiazzare parole italiane perfettamente calzanti e di uso comune. Ad esempio non esiste alcuna ragione per utilizzare i termini “weekend”, “feeling”, “random”, “ok”, “feedback”, “authority”, “governance”, “location”, “bipartisan” e tantissimi altri ancora, in molti casi alterando anche l’originario significato inglese, storpiando così insieme l’italiano e l’inglese.

Ma qual è la base primaria di questo fenomeno che ha raggiunto negli ultimi due decenni proporzioni massicce?

Alla resa dei conti non si tratta di niente di più complicato del riflesso del dominio geopolitico mondiale degli Stati Uniti d’America cresciuto a dismisura con la caduta dell’Unione Sovietica negli anni ’90 del secolo scorso e solo da qualche anno messo parzialmente in discussione dall’ascesa di nuove potenze. Come per ogni dominio che si rispetti, l’aspetto culturale è un pezzo forte della propria strategia di invadenza e permanenza. Laddove una classe dirigente nazionale politica e culturale assuma una posizione di totale integrazione passiva o persino di attivo e propositivo servilismo rispetto alla strategia di dominio, è chiaro che la pervasività di quest’ultimo resterà incontrastata e totale e sarà persino facilitata e resa agevole dall’operazione di mediazione attuata dalla classe dirigente locale. Giornalisti, politici, economisti, filosofi, uomini di spettacolo mediano quindi  dall’alto l’imbarbarimento linguistico (che ovviamente non passa soltanto per gli anglicismi, ma è un fenomeno che investe lo stesso utilizzo dell’italiano), veicolando le nuove mode veicolate dai poteri più influenti.

Scendendo più nel dettaglio del problema, si potrebbero rilevare quattro diverse modalità e cause specifiche che caratterizzano il fenomeno del prestito linguistico inglese, alla cui base primaria, come si diceva, vi sono i rapporti di forza internazionali intesi a tutti i livelli (materiale, ideologico, culturale).

In primo luogo si assiste in molti casi ad una vera e propria trasformazione silenziosa di un concetto, non quindi al semplice ingresso di un nuovo concetto, ma alla sostituzione insidiosa e non esplicita di un vecchio concetto con un nuovo concetto gravido di conseguenze. E’ il caso ad esempio dei termini “governance” e “authority”.

La governance viene spesso utilizzata come concetto per esprimere l’attività di governo di un’entità politica (oltre che di un’impresa o azienda). Letteralmente “governance” è l’attività del governare. La resa italiana è quindi “governo”, inteso come attività di governo (e non come organo- in italiano i due termini coincidono-). Tuttavia governance, all’inglese, evoca immediatamente un’idea di governo nel senso di pura gestione tecnica e amministrativa priva di connotazioni discrezionali di ordine politico ed ideale: ovvero esattamente ciò che nella sostanza predica l’ideologia dominante a proposito della gestione della società capitalistica contemporanea. Non è un caso quindi che il termine inglese sia divenuto di uso comune, poiché è parte integrante, sul piano semantico, di una voluta e ancora oggi in piena accelerazione, trasformazione post-ideologica della sfera politica, nell’orizzonte della fine delle grandi ideologie e dei tentativi di trasformazione politica delle strutture sociali.

Analogo discorso per il termine “authority” che indica quasi sempre un’autorità di regolazione e controllo settoriale o generale antitrust finalizzata a porre le condizioni per il buon funzionamento del libero mercato capitalistico. Mentre autorità evoca un concetto politico, “authority”, così come “governance” evoca un concetto tecnico-efficientistico che presuppone, senza dirlo, la bontà a priori della libera concorrenza, facendo diventare tecnica quella che è invece una scelta squisitamente politica. Non a caso le cosiddette autorità indipendenti sono state costituite come vero e proprio potere tecnocratico (la cui fonte principale è il diritto comunitario) privo di legittimità democratica e di legittimazione politica sostanziale.

In secondo luogo dietro l’uso massiccio di anglicismi, vi è una implicita volontà di rendere il linguaggio incomprensibile, ultra-specialistico, tecnico e fuori dalla portata dei non addetti. E’ il caso ad esempio di tutto il linguaggio della letteratura economica moderna che fa uso smodato e quasi provocatorio della lingua inglese spesso rendendo concetti estremamente semplici assolutamente incomprensibili. Quando ad esempio in luogo di “disoccupato” si usa il termine “outsider” si sta evidentemente giocando con le parole e con la loro trasparenza. Anche in questo caso, vi è alla base l’idea di tecnicizzare ciò che tecnico non è e che dovrebbe essere accessibile anche a chi semplicemente fa costruttivamente uso del proprio pensiero. Vi è altresì la precisa idea di emulare modelli sociali, politici ed economici di derivazione anglosassone, ovvero quelli più confacenti alle strategie di dominio delle classi dominanti.

In terzo luogo gli anglicismi ossessivi sono il segno dell’ostentazione (voluta o meno che sia) di uno stile che si pretende superiore, moderno e avanzato in opposizione al linguaggio semplice e vecchio. Ciò da una parte crea, evidentemente, una frattura di fatto tra individui, generazioni e ceti sociali; dall’altra pone enfasi sulla distruzione simbolica di un mondo che non deve esistere più (ad esempio il mondo del lavoro come diritti e dei diritti sociali mediati attraverso la lotta politica).

In quarto luogo l’anglicismo ossessivo rende evidente l’esterofilia maniacale che caratterizza il popolo italiano e in particolare la sua classe dirigente e colta, in primis (ma non solo) nei confronti del mondo anglosassone. La sostituzione di termini italiani di uso comune con paroloni inglesi, è la spia di quel sentimento di minorità culturale che si attribuisce al proprio popolo e da cui ci si vuole tirar fuori tenendosene a distanza e cercando una fuga esterofila compensativa.

In conclusione, fuori da ogni purismo linguistico di sorta, si può dire che il fenomeno degli anglicismi continui e gratuiti, va interpretato in termini politici e culturali come una forma deleteria di autodistruzione del proprio patrimonio culturale, linguistico e, indirettamente politico. Non si tratta certo di proporre la sostituzione integrale dei forestierismi in nome della purezza della lingua (che pura fra l’altro non è e non potrà mai essere, basti pensare alla stessa genesi dell’italiano).I forestierismi sono sempre esistiti e sono la testimonianza vivente non soltanto dei rapporti di forza tra nazioni, ma anche della benemerita compenetrazione delle culture e delle tradizioni di ogni popolo ed area geografica del mondo.

Si tratta invece di porre un freno cosciente alla pratica (tutti ne siamo inevitabilmente vittime quanto meno passive, a partire dallo scrivente) dell’uso di termini tanto inutili quanto grotteschi e irritanti che, sospinti da quella che altro non è che una vera e propria indigestione di servilismo politico e culturale, hanno indebitamente invaso la nostra lingua. Tanto più che, come detto, dietro a tale invasione, oltre al servilismo culturale, vi è spesso un subdolo tentativo di trasformazione semantica degli stessi concetti dalle gravide conseguenze.

La lingua, in fondo, come ogni aspetto della cultura, non è affatto qualcosa di neutrale rispetto alla totalità socio-politica.

Lorenzo Dorato



 




 

 
Riti e simboli PDF Stampa E-mail

19 Novembre 2013

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 Da Rassegna di Arianna del 5-11-2013 (N.d.d.)

 


Riti e simboli ci hanno accompagnato dalla notte dei tempi

Nella stanza da letto delle mie zie c’era una campana di vetro, proteggeva Maria Bambina: una piccola bambola di porcellana e stoffa che rappresentava una neonata in fasce, circondata di fiori. Era il simbolo della Dea Madre nella sua espressione primaverile: la rigenerazione della vita. Nessuno ne era più consapevole ma non aveva importanza; rimaneva un simbolo sacro e pur sempre un simbolo di (ri)nascita e di amore.

 

Simboli, come le lenticchie a Capodanno, piccoli semi color della terra per l’augurio, nel letargo invernale, di una rinascita primaverile; riti e simboli, come immergere la mano nell’acquasantiera e poi farsi il segno della croce: l’acqua sacra e il segno del sole per il riprodursi della vita.

 

Riti e simboli che ci hanno accompagnato dalla notte dei tempi, che facevano parte della condizione umana e ci legavano a tutta la vita, al suo fluire completo. Facevano parte della nostra coscienza e del nostro inconscio, scorrevano attraverso il tempo e permettevano che anche noi scorressimo nel grande flusso. Riti e simboli che appagavano e davano pace.

 

Venivano da lontano, dal neolitico e alcuni addirittura dal paleolitico, da quando nasce la cultura umana, dai tempi dei disegni nelle grotte e delle piccole figure femminili di pietra, di terracotta, sicuramente di legno e di stracci per i giochi dei bambini: le figure della Dea Madre, che non era altro che la Vita in tutte le sue forme.

 

Le religioni e le culture sono cambiate nella storia dell’uomo, ma tutte hanno dovuto assumere quei simboli e quei riti, anche tentando di deformarne il significato a volte, ma senza poterli escludere dalla quotidianità umana.

 

Tralci di vite, alberi frondosi, agnelli, sirene, colombi e tori nelle cattedrali gotiche. Bambole sedute tra i cuscini del letto matrimoniale, Sacre Famiglie appese a capoletto nella mia infanzia. Lumi accesi e fiori davanti alle immagini dei morti, in augurio e omaggio alla loro rinascita, ancora oggi. Ancora oggi?

 

Il consumismo globalizzato, ultima fase di una società di dominio e divisione, riducendo tutto a merce sta distruggendo riti e simboli ovunque nel mondo “sviluppato” e si dà da fare per distruggerli anche nel mondo assoggettato. Sembra che questo sia anzi uno degli scopi a cui tende con perseveranza e, se non addirittura consapevolmente, certo con istinto sicuro, il capitalismo globale.

 

Del resto, la civiltà del dominio si adoperò fin dalla sua nascita per distruggere culture, religioni e riti legati alla Vita, alla Grande Dea pacifica e amorevole, alla natura in tutte le sue forme. Del resto, il dominio e la divisione cominciano, nella storia umana, assieme al distacco dalla natura e alla sua rapina. La società dei dominatori e dominati vuole dominare anche la vita e l’universo. Ma è un’impresa impossibile e conduce solo all’autodistruzione, come abbiamo visto e vediamo ogni giorno. Così come la distruzione di tutti i nostri riti e simboli distrugge anche la nostra anima.

 

Sulle brocche di terracotta pugliesi era dipinto il galletto. Come su quelle minoiche erano dipinti i delfini, la spirale, la cerva, il polpo. Immagini dei nostri compagni nella vita e simboli di vita, rigenerazione, flusso degli elementi e dell’energia vitale. In Sud-Tirolo si usa ancora tenere appese nelle case le sculture della donna-pesce, dell’uomo-cervo.

 

Nei mercati dei contadini, almeno fino agli anni Settanta, si vendevano partite di cereali, sementi e bestiame suggellando l’accordo con un’energica stretta di mano. Non serviva altro: era un pegno, la parola data. Nessuno si sarebbe sognato di cambiare idea dopo quella stretta di mano, che era un rito e un simbolo e di questi aveva la forza.

 

Una forza che ci sosteneva. Senza che ce ne rendessimo conto, riti, simboli, usanze costituivano il terreno su cui ci muovevamo, la ragnatela sospesa in cui trovavamo le nostre strade anche nella bufera. Erano una rete che ci univa tra esseri umani e nello stesso tempo ci univa all’universo intero.

 

C’era una filastrocca da recitare mentre spezzavamo i gambi dei soffioni per farne delle trombette, la filastrocca avrebbe propiziato la riuscita dell’operazione. C’era un desiderio da esprimere quando vedevamo cadere una stella. C’era un bicchiere sotto cui mettere il dente da latte che si era staccato, perché qualche essere magico ci risarcisse.

 

I bambini vivevano nella magia quotidiana, ne erano circondati e, anche quando smettevano di crederci, si attenevano ai suoi “precetti”. Diventati riti e simboli. Senza tutto questo, senza riti, usanze, simboli che ci manifestino la sacralità della vita, della natura, dei rapporti coi nostri simili, che cosa siamo? Gente persa e confusa, perennemente in competizione con sé stessa, con gli altri esseri umani, col mondo intero. Perennemente insoddisfatta, perché la competizione non ha limiti e non raggiunge mai mete definitive. Sballottata tra una pubblicità e l’altra, una merce e l’altra, una moda e l’altra. Subissata di notizie e stimoli che si affastellano nella mente alla rinfusa, poiché non abbiamo con che misurarli e discernerli.

 

Gente alla disperata ricerca di usanze e riti che riempiano il suo spirito e che trova solo le “usanze” e i “riti” imposti dalla macchina industrial-consumistica, i “simboli” di effimere vittorie nella competizione infinita. Senza più dei, senza tribù, gens, comunità, senza più un’idea della vita e della morte.

 

Ed ecco che c’è chi ritorna alla terra: un istinto forte e saldo gli dice che lì c’è la realtà, il necessario e il sacro. E c’è chi torna a fare il pane, a ritrovare i gesti e la calma concentrazione, gli odori e il tatto, il cibo sacro. E su ogni pane, prima di infornarlo, si incideva il simbolo del sole: la croce. E cosa cambia se lo si considera il simbolo di Dio?

 

E c’è da un po’ di tempo chi colleziona ninnoli che rappresentano rane o civette. E sono solo donne a farlo, senza sapere che la rana e la civetta erano due simboli della Dea onnipresenti in tutta l’Europa neolitica; potenti simboli di fertilità, nascita, morte e rigenerazione. Che ritornano da un inconscio ancestrale proprio quando la nostra società dissipatrice e distruttrice sta facendo scempio della vita in ogni sua forma. Consciamente o inconsciamente sentiamo tutti il bisogno di riannodare i fili della vita, della nostra appartenenza all’universo.

 

Ma, come i simboli e i riti che sancivano la nostra appartenenza all’universo erano simboli e riti di amore, rispetto, venerazione nei confronti di ogni essere vivente, così è solo attraverso tutto ciò che possiamo recuperarli. Cominciando anche da piccoli gesti come curare un orto o un giardino, come una tisana bevuta la sera coi vicini “a veglia”, come il ritrovarsi per fare assieme il pane. O una partita a carte, o una passeggiata coi bambini, o per cantare in coro: ritrovarsi per fare, non per consumare, né tantomeno per competere. Perché il contatto con la natura e le cose fatte liberamente insieme, in spirito di amicizia e solidarietà, diventano spontaneamente riti. Appagano e danno pace, ci fanno sentire parte di una comunità o di qualcosa di più grande ancora.

 

Le piccole cose di cui è fatto il mosaico scintillante che è la vita. Le cose che spontaneamente seguono il suo flusso, perché dove non c’è dominio, avidità, divisione e competizione, non c’è nemmeno spreco e distruzione, e la consapevolezza persa ritorna poco a poco a riformarsi e a crescere, assieme al nostro legame con la natura.

 

L’antica civiltà del neolitico, da cui discende il culto della Dea ormai dimenticato, ma che si manifesta persino oggi continuamente, anche nei fiori raccolti in campagna o in giardino e messi al centro della tavola o sull’altare della Madonna, era una civiltà pacifica, ugualitaria, consapevole. Profondamente consapevole. In quella civiltà le donne erano pari agli uomini ma erano nello stesso tempo più importanti degli uomini, come dovrebbe essere logico per qualsiasi specie sessuata, dato che più importante è il loro ruolo nella riproduzione e conservazione della specie.

 

Le donne erano sacre, sacre le loro mani che trasformavano il cibo, tessevano gli indumenti, allevavano bambini, curavano ammalati. E questo dovrebbe far riflettere anche sui motivi per cui, in una società fondata sulla rapina della natura, sul dominio e la competizione, nel tempo del suo degrado e della sua disgregazione finale, e quindi nel massimo esprimersi di rapina e dominio, le donne siano oggetto di quotidiane, feroci, gratuite violenze.

Alle donne gli uomini baciavano le mani (ancora oggi in alcune luoghi della Polonia contadina gli ospiti baciano la mano della padrona di casa che ha preparato il cibo); alle donne si offrivano fiori, come alla Dea, fino a poco tempo fa: in particolare alle puerpere.

 

Era una civiltà, quella del neolitico, che non conosceva le armi, che adorava piante e animali; una civiltà felice. Durata, in alcuni luoghi, anche diecimila anni. Molto più della nostra civiltà di guerra e dominio. Per questo non bisogna credere a chi cerca di convincerci della “naturale” aggressività umana verso i propri simili, della “naturale” divisione e diseguaglianza, della “naturale” supremazia dell’uomo sugli altri esseri viventi. Sono invece artificiali: gli artifici di una civiltà squilibrata che si deve puntellare su una cultura di guerra per sopravvivere: guerra in tutte le accezioni e in tutti i campi.

 

Fino ad oggi, quando quella stessa guerra, in forma di competizione non solo militare ma economica, la sta distruggendo. E possiamo solo ritornare alla civetta, alla rana; alla terra e ai suoi frutti; cercando di ricomporre e proteggere la vita frammentata e sacrilegamente degradata dalla civiltà del dominio.

 

Sonia Savioli

 




 
Crisi morale PDF Stampa E-mail

16 Novembre 2013

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 Da Rassegna di Arianna del 16-10-2013 (N.d.d.)

Nemmeno ora, mentre la crisi finanziaria ed economica ci attanaglia e ci sta mordendo a sangue; nemmeno ora, che il clima da campagna elettorale permanente ha reso tutti ancora più loquaci e ancora più saccenti del solito – politici e politologi, economisti e tuttologi, opinionisti e pseudo-intellettuali d’ogni risma e d’ogni bandiera –, nemmeno ora abbiamo sentito fare una riflessione seria e delineare una via d’uscita realistica dal vicolo cieco in cui siamo finiti, perché nemmeno ora si è avuto il coraggio di andare alla radice del problema e riconoscere che quella che stiamo vivendo è essenzialmente, e prima di ogni altra cosa, una crisi morale.

È anche una crisi produttiva; una crisi dei consumi; una crisi del sistema bancario, dominato dal signoraggio, e di quello assicurativo; una crisi occupazionale; una crisi, insomma, materiale; ma, prima di tutto e in origine, essa è stata, ed è tuttora, una crisi morale: una crisi della persona, una crisi della mente e del cuore, della professionalità e degli affetti, della famiglia e della scuola, dell’intelligenza e della cultura, della spiritualità e della fede.

C’è stato uno scadimento complessivo: del senso del lavoro fatto bene; del rispetto dovuto a se stessi e al prossimo; della scrupolosa osservanza degli impegni presi; dell’attitudine ad affrontare sacrifici per raggiungere obiettivi; della disponibilità a mettersi in discussione, a correggersi, a perfezionarsi; della dedizione nei confronti delle persone che diciamo di amare; della correttezza nei confronti di quelle che ci permettono di lavorare; della consapevolezza che nulla nasce dal niente, che per ottenere qualunque cosa bisogna impegnarsi; che la filosofia “del tutto e subito” e del “minimo sforzo col massimo rendimento” è una filosofia da piccoli cialtroni di provincia, buona per i personaggi cinematografici alla Alberto Sordi.

Abbiamo visto, o addirittura vissuto in prima persona, il disamore verso i propri genitori, il proprio compagno o la propria compagna di vita, i propri figli, i propri datori di lavoro e i propri dipendenti, i propri vicini di casa e i propri colleghi. In nome di un individualismo esasperato, di una ricerca del vantaggio ad ogni costo, di una affermazione del proprio io meschino su tutti gli altri e contro tutti gli altri, abbiamo seminato confusione, disordine, improvvisazione, cose mal fatte, situazioni ambigue, relazioni instabili, senso di precarietà, smarrimento morale, cattivi esempi - specialmente nei confronti dei bambini e dei ragazzi.

Abbiamo perduto la chiarezza intellettuale e morale, perché abbiamo smesso di considerarci persone inserite in una rete di relazioni virtuose e abbiamo inseguito la funesta illusione di poterci affermare a dispetto degli altri, vedendo negli altri dei concorrenti o dei nemici da sgominare, oppure dei mezzi per raggiungere i nostri scopi, per ottenere il nostro piacere, per favorire il nostro interesse; abbiamo creduto che una società di atomi impazziti, che fanno e disfano continuamente quel che avevano incominciato, inseguendo ogni umore passeggero, ogni capriccio momentaneo, ogni più piccola occasione di vantaggio e di egoistica utilità, potesse continuare a funzionare come prima, potesse continuare a esistere come nulla fosse.

Abbiamo tollerato o approfittato di situazioni scandalose di inefficienza, furberia, corruzione: che un primario di ospedale, per esempio, possa fare anche il professore universitario, e presentarsi davanti agli studenti senza passione e senza interesse, sapendo di avere già un doppio stipendio garantito, e trasmettendo poca cultura e pochissima dirittura morale; oppure che una classe di amministratori e di politici di professione seguitasse a predicarci e ad imporci sacrifici sempre più duri, senza però mai ridurre, essa, i propri privilegi, nemmeno di poco, nemmeno pro forma.

 Sono cose che si pagano.

La società ha smesso di funzionare: la famiglia di educare, la scuola d’insegnare, l’economia di produrre, i giornali d’informare, i politici di governare, gli amministratori di amministrare: da tempo ci si è abituati a vivere di rendita, sfruttando i piccoli e i grandi privilegi, occupando poltrone al solo scopo di bloccarne l’accesso ad altri, magari più preparati e più onesti, magari più motivati ed energici.

Sono venute meno le idee: basta ascoltare gli sproloqui dei sedicenti esperti nei salotti televisivi, per capire che si è smesso di pensare; oppure basta assistere ad un esame di stato in una scuola pubblica o privata, per capire come si è smesso di ragionare con la propria testa. Si ripetono frasi fatte, formule politicamente corrette, insulsaggine che piacciono a tutti perché impastate nella più abietta demagogia e ispirate al conformismo più triviale.

L’importante è alzare la voce, zittire l’interlocutore, far vedere che si è aggressivi, furbi e ”vincenti”, secondo il pessimo esempio di Mamma Tivù; l’importante è avere, al posto delle idee, un corpo seducente da esibire il più possibile, una posizione economica da sbattere in faccia al prossimo, una facilità di parola per lasciare ammutolito chi ci ascolta; insomma l’importante è avere dei surrogati appariscenti delle idee e, soprattutto, apparire: apparire spregiudicati, apparire in gamba, apparire sicuri di sé. Anche se non si saprebbe nemmeno se per imboccare la strada giusta si deve andare a destra o a sinistra. Ma a chi importano cose del genere?, sono solo dettagli. Non ha importanza dove si vuole andare, quel che conta è far vedere che si va decisi.

Lo fanno in piccolo le singole persone, ciascuna nel proprio ambito; lo fa, in grande, la società intera: non c’è un progetto, né di educazione delle nuove generazioni, né degli obiettivi che si vogliono raggiungere, né del modo in cui ci si propone di conseguirli. Si improvvisa, si pasticcia, ci si dimena un po’: se la va, la va, se no ci penserà qualcun altro. Altri rimedieranno ai nostri errori, altri si assumeranno la responsabilità di gestire le conseguenze dei nostri pasticci, della nostra incompetenza, delle nostre omissioni.

Se i genitori non hanno tempo da dedicare ai figli, perché devono andare in palestra o dalla parrucchiera, allora ci penseranno i nonni. Se gli studenti non hanno la maturità per scegliere in maniera responsabile la facoltà universitaria da frequentare, se passano da una facoltà all’altra senza concludere niente, se perdono gli anni e intanto si preoccupano più del divertimento che dello studio, ci penseranno papà e mamma a pagare la retta, a pagare il vitto e l’alloggio, a pagare anche la discoteca e le vacanze. Se il muratore non ha spalmato bene la malta sui mattoni, se l’idraulico non ha messo giù bene le tubature dell’acqua, se l’elettricista ha aggiustato male la televisione; se il dentista ha curato il dente del paziente in fretta e alla bell’e meglio, se l’architetto ha progettato la casa così così, se il commercialista ha sbagliato nel compilare la dichiarazione dei redditi del suo cliente: ebbene pazienza, ci penserà qualcun altro, rimedierà qualcun altro, se la sbrigherà qualcun altro. Qualcun altro provvederà, qualcun altro aprirà il portafoglio, qualcun altro sopporterà inconvenienti e disguidi.

Se il postino non ha voglia di suonare il campanello per far firmare la raccomandata, se ficca l’avviso di giacenza nella cassetta della posta e tira dritto perché ha fretta di terminare il suo giro, quell’utente dovrà recarsi alle poste a farsi consegnare il pacco: e peggio per lui se è un anziano, se è un disabile, se è una persona che ha problemi a trovare qualcuno che l’accompagni. Se il professore non ha voglia di affaticarsi per far capire la quinta declinazione al suo alunno o per fargli apprendere le equazioni di secondo grado, ebbene pazienza: la famiglia del suo alunno manderà il ragazzo a prendere lezioni private, pagherà, si arrangerà in qualche modo, così che altri facciano quel che lui non ha fatto. Se il barista allunga il latte con l’acqua, se l’agricoltore eccede con i pesticidi, se l’industriale manda gli scarichi della sua fabbrica di vernici nel torrente più vicino, per risparmiare sui depuratori o sullo smaltimento dei rifiuti inquinanti, ebbene pazienza: a bere un cappuccino un po’ annacquato non è mai morto nessuno; a mangiare un grappolo d’uva stracarica di sostanze chimiche nemmeno, tutt’al più qualche disturbo, cosa volete che sia; e quanto ai torrenti inquinati chi se ne frega, uno più, uno meno, che differenza vuoi che faccia - e poi, così, si crea lavoro per le aziende specializzate nella depurazione e tutti son contenti.

Che poi debbano pagare i cittadini, che debba pagare la comunità, e che in quella comunità ci sono anche pensionati che vivono con trecento euro al mese, be’ insomma, che cosa si pretende: se il vaso si rompe, qualcuno lo dovrà pure aggiustare, ma in fondo queste cose ci sono sempre state; e allora perché fare i moralisti, perché fare i guastafeste, perché mettere in discussione pratiche consolidate, abitudini inveterate, modi di fare vecchi come il mondo?

Eppure no, non sono vecchi come il mondo. Al tempo dei nostri nonni costituivano una eccezione: e chi se ne macchiava, era bollato moralmente e professionalmente. Certi sbagli si pagavano: si veniva licenziati, senza tanti complimenti e senza sindacati che difendessero le cause sbagliate – per esempio, quella d’un impiegato postale che fa la cresta sulle operazioni degli utenti; oppure quella d’un primario di ospedale che sbaglia la diagnosi o che sbaglia l’intervento chirurgico in maniera clamorosa, imperdonabile, e manda il paziente all’altro mondo; oppure, ancora, quella d’un capitano della marina mercantile che porta la sua nave sugli scogli e si mette in salvo sulle scialuppe prima di tutti gli altri, senza dare ordini, senza prendersi cura dell’equipaggio e dei passeggeri, mentre la gente si butta in acqua terrorizzata.

Adesso chi sbaglia non paga, o paga poco e tardi, e intanto trova il modo di farsi riassumere e di provocare altri danni: non si vergogna, non si sente responsabile, ha sempre un avvocato pronto a difendere la sua causa, magari negando l‘evidenza. Perfino l’assessore corrotto, perfino il sindaco che si fa la villa e la crociera ai Tropici con il pubblico denaro, stornandolo dalla sua destinazione ufficiale per favorire se stesso e i suoi amici, i suoi parenti, la sua amante: perfino simili personaggi, pescati con le mani nel sacco, trovano il modo di puntare il dito contro qualcun altro, di fare la voce grossa, di presentarsi in televisione a far vedere che non hanno paura di niente e di nessuno, che non devono rimproverarsi proprio nulla, che non hanno sbagliato affatto, che sono pronti a querelare chiunque osi affermare il contrario.

Non è venuta meno solo la professionalità, non è venuta meno solo la moralità: è venuta meno anche la dignità. Siamo circondati da persone sfrontate, che non arrossiscono di nulla, che tengono la testa alta anche quando dovrebbero sparire in un angolo, cambiar mestiere, espatriare, cercare di farsi dimenticare da tutti; persone che sfruttano persino le disgrazie altrui, o da loro stessi provocate, per farsi pubblicità, per rilasciare interviste a pagamento, per candidarsi a condurre qualche spettacolo sul piccolo schermo. Non hanno idee, non hanno competenze, non hanno un codice morale e non hanno neppure il senso del limite, il senso del ridicolo, il senso del grottesco: hanno solo un io gigantesco, ipertrofico, debordante.

Questa è la crisi morale che stiamo attraversando: tutte le sue manifestazioni materiali, delle quali ogni giorno ci parlano queste tristi cronache da basso impero, non ne sono che le logiche, inevitabili conseguenze.

Ed è da qui che dobbiamo ripartire, se ancora ne siamo capaci, per uscirne; se ancora ne abbiamo la voglia, oltre che la capacità. Se questa non è solo una crisi economica, ma prima di tutto una crisi morale, non ne usciremo con strumenti di tipo soltanto economico: ne usciremo con una rigenerazione morale – e sarà una cosa lunga -, o non ne usciremo più. In ogni caso, non vedremo la luce fuori del tunnel prima di qualche decennio, come minimo. Siamo preda delle invasioni barbariche, un mondo sta morendo e un altro dovrà sorgere dalle sue macerie: questa volta, però, la barbarie non viene dall’esterno, o non viene solamente dall’esterno, ma risale dalle profondità più segrete del nostro essere. I barbari siamo noi; barbarici sono gli oggetti che abbiamo adorato, i feticci davanti ai quali ci siamo prostrati, gli altari sui quali abbiamo celebrato i nostro sacrifici.

La bruttezza di cui ci siamo circondati, è degna di barbari; e lo sono anche l’insensibilità, il cinismo e l’opportunismo con i quale ci siamo corazzati. Ci siamo disumanizzati: adoratori delle cose, siamo diventati copie e appendici di esse: l’operaio è diventato un subalterno della macchina; la bella donna è diventata un manichino vivente, su cui possano risplendere i vestiti firmati, i gioielli, le acconciature fastose; il calciatore famoso è divenuto un prolungamento del pallone, una occasione di spettacolo e di guadagni, un volto da imprestare alla pubblicità. Tutto ha un prezzo, tutto è in vendita, ma niente ha un senso, né un valore [...]

 

Francesco Lamendola 

 
La crisi come opportunitą PDF Stampa E-mail

13 Novembre 2013

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Andiamo, questa volta, alle radici dell’infelicità che morde gli uomini d’oggi e che rappresenta la cifra più significativa di questo primo scorcio di millennio. Anticipiamolo: l’infelicità diffusa che scorgiamo tra il grigiore della città, almeno laddove si è mantenuta l’abitudine di osservare la vita a discapito della fretta di fenderne gli spazi assorti nel proprio privato, ha poco a che vedere con la crisi.

L’infelicità precede questa crisi ed è la “condicio sine qua” della nostra civiltà, quella che tutti ormai chiamiamo “società dei consumi”. Per questo è un’infelicità cronica.

Se foste dei pianificatori della storia umana, per creare una società dei consumi dovreste prima rendere le masse cronicamente infelici. Dovreste indurre desideri latenti, creare una “fame” artificiale che sia percepita attraverso i meccanismi dell’ infelicità. Dovreste programmare scientificamente una cronica sensazione d’insufficienza e inadeguatezza, perché è in queste sensazioni che germogliano il bisogno e l’impulso al consumo. Non è difficile, credetemi: basta imporre valori e modelli come la gioventù, consci che prima o poi tutti invecchiano, per aprirsi floridi mercati basati su bisogni compulsivi.

Dovreste toglier di mezzo anche ogni tedioso senso di soddisfazione, ogni pretesa di aderire decorosamente a un ruolo tradizionale, persino biologico, suscitando il bisogno di acquistare al supermercato un’ identità “firmata” o un life style, quindi mettere frotte d’individui di fronte allo specchio e donargli insicurezza, impedire che abbiano una vita densa di relazioni non competitive (comprese, benintesi, quelle affettive), alimentare l’invidia reciproca, proporre modelli da superare e rilanciare in una continua rincorsa a scopi esistenziali che evaporano incessantemente e si riproducono senza posa. Se non renderete il vostro essere umano infelice, se costui oserà emancipare i propri desideri dalla ricerca di affermazione sociale, e peggio volgerà le energie verso la propria interiorità rendendosi misura di sé stesso, la vostra missione sarà impossibile da portare a compimento.

Per questo dovreste creare anche una democrazia. Nulla però, di quanto avevano in mente i greci o strani relitti come Rousseau, che cianciava di piccole patrie, di democrazia diretta, di comunità, di rigidi costumi atavici e via discorrendo.

Una società dei consumi deve essere una società a democrazia controllata, almeno apparentemente mobile; una società di individui formalmente eguali, liberi da legami vincolanti e limitanti, parcellizzati come atomi,  privi di anti-corpi sociali e culturali ereditari, chiamati proprio in forza della loro uguaglianza a competere l’uno con l’altro,  spinti a farlo dall’invidia, dall’emulazione e da smodati desideri di affermazione egoica.

No, la nostra “meravigliosa” società democratica dei consumi non potrebbe esistere se non fossimo infelici, almeno un po’. Non potrebbe esistere se non ci sentissimo soli nella nostra corsa a ostacoli e non cercassimo gratificazione tra gli scaffali dei negozi. Se non cercassimo nel conflitto con altri conferma del nostro valore, e nei brand strumenti d’affermazione egoica, carichi di quell’energia, di quegli stimoli e di quelle conferme che non sapremmo più trovare dentro di noi o nei modelli della tradizione. Una società dei consumi non potrebbe  esistere se re-imparassimo a non coltivare ossessivamente quelli che Socrate, nel Filebo, definiva piaceri impuri: piaceri che nascono dal pungolo del bisogno e che dunque nascondono in nuce un’intima sofferenza.

Parlare di decrescita felice significa scorgere nel disastro ambientale, innanzitutto, la conseguenza di un’aggressività tipica di un essere frustrato e destinato allo scacco, capire che la partita di una nuova civiltà non si gioca sul solo terreno politico ma su un piano ancora più elevato: il piano dell’anima o, ancor meglio, il piano del desiderio.

Esiste un desiderio infantile, di soddisfazione immediata, che si consegue attraverso l’accesso ad oggetti o status symbol che altri producono in ragione del nostro bisogno di essere accettati ed amati, della nostra disponibilità a lasciarci appagare e della nostra anomia, ed esiste il desiderio maturo di assumere su di sé quegli specifici desideri che possono essere trasformati in atti creativi e, in ultima istanza, in destino. La prima forma di desiderio incarna il principio propulsore di una moderna società industriale e consumista, basata sulla macchina come produttrice de-responsabilizzante di gratificazione edonistica di massa, il secondo di una società che, nonostante possibili evoluzioni tecnologiche, rimane fedele ai principi dell’homo faber, dell’artigiano che non produce in vista dell’oggetto e del valore autonomo della “cosa”, ma della propria vocazione specifica e della propria ricerca di auto-realizzazione, di cui la perfezione dell’oggetto è il riflesso visibile.

Chi l’ha detto, allora, che la crisi (che è una crisi dell’uomo moderno, conseguente a una crisi della macchina e della sua funzione gratificante) debba essere una disgrazia? Dipende solo da come “desideriamo” viverla. La crisi ci può offrire la possibilità di “s-velare” la natura “indotta” della nostra infelicità. Ci può offrire l’occasione di smascherare miti apparentemente indiscutibili. Di restituire centralità alle relazioni e alla cooperazione, di fuoriuscire dallo schema del darwinismo sociale. Di recuperare, attraverso la lucidità, un po' di serenità, e con essa la spinta ad elaborare nuove strategie esistenziali, più affini all’artigiano che al consumatore.

La crisi ci offre l’occasione di restituire valore al denaro e agli oggetti a cui lo sacrifichiamo, riconoscendo che esso è il frutto del tempo che potremmo investire creativamente, in atti destinanti, e che invece immoliamo sull’ altare di desideri degradati alla stregua di bisogni. La crisi ci offre l’occasione di restituirci alla vita, morire a noi stessi come consumatori incalliti e rinascere sotto forma di uomini, emancipati dalla propria condizione di nascita – e quindi privati di un sostegno tradizionale – ma non dal proprio richiamo all’infinito e alla trascendenza. Non sciupiamola inseguendo il nostro vecchio “io”. Che cosa abbiamo da perdere, in fin dei conti, se non un po’ d’infelicità?

 Gian Maria Bavestrello 

 
Onora il padre e la madre PDF Stampa E-mail

10 Novembre 2013

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Da La Voce del Ribelle del 28-10-2013 (N.d.d.)

Nel 2009 un signore aretino diede uno schiaffo al figlio di sei anni, che, svogliato e capriccioso, rifiutava di esercitarsi nella lettura. Il segno rosso lasciato sulla guancia dal manrovescio insospettì – ed evidentemente fece inorridire – la madre, che chiese prontamente ragione all’uomo. In seguito alle spiegazioni, il bambino, a causa del forte shock che avrebbe subito, per alcuni giorni non è stato mandato a scuola, mentre la sconvolta donna, ha denunciato il marito per maltrattamento su minori, costituendosi poi parte civile al processo. Addirittura. 

Nei giorni scorsi, ingiustizia è stata finalmente fatta: il giudice Manuela Accurso Tagano ha inflitto all’uomo la pena – al momento sospesa – di un mese di detenzione, per abuso dei mezzi di correzione, e a versare un risarcimento alla moglie, oggi ex.

Una vicenda di tal fatta non può lasciare indifferenti, sia per lo spessore demenziale, sia – soprattutto – per la pericolosità delle conseguenze, le quali, più del genitore, vanno a colpire il soggetto che si vorrebbe perennemente tutelato: il minore. 

Un caso simile, cui sembra essersi ispirato il Tribunale di Arezzo, era stato quello della Corte del distretto di Södertörn (Svezia), che – applicando alla lettera la legge del 1979, che tuttora vieta tassativamente i castighi corporali, anche i più lievi – ha condannato alla galera un uomo per «avere volontariamente provocato dolore» al figlio, dodicenne e recalcitrante, tirandogli i capelli all’ingresso di un ristorante. Bizzarro provvedimento penale, per un Paese come la Svezia, la cui giustizia, da una parte, spedisce in gattabuia un disgraziato che ha usufruito del suo potere patriarcale – in vista di un bene educativo, probabilmente – mentre, dall’altra, assolve, con un processo senza scalpore, un tizio di 65 anni, che si è masturbato in pubblico, sulla spiaggia di Drevviken, perché «il gesto non era rivolto a nessuno in particolare»: neppure allo sguardo dei bambini che scorrazzavano nelle vicinanze, evidentemente. 

Se in Svezia i sintomi di una società schizofrenica sono ben “visibili” e chiari, in Italia invece la bipolare patologia è ancora mitigata da un pudore ipocrita, che corrisponde non a dei principi etici, ma solo a mere convenienze sociali e alla rilassatezza dei costumi, portata avanti, a furor di intolleranza, dai più biechi moralisti e perbenisti. Per tale “tiepidezza”, il male risulta ancora più subdolo e arduo da sconfiggere. 

Cos’è peggio? Uno scappellotto – anch’esso, alla stessa stregua di una violenza, malvisto – o l’assecondare il capriccio di un bambino, che, abituato a essere sempre “capito” e iperprotetto, crescerà come un rammollito? 

Cos’è peggio, un figlio che si permette di insultare la propria madre, anche per quisquilie o come semplice intercalare, oppure il genitore che, invece di assestargli un sonoro e sano ceffone, gli spiega, magari persino giustificandosi, che la cosa “non si dovrebbe fare”?

Il problema non riguarda il diritto ad alzare le mani perseguito come metodo educativo, bensì il sacrosanto dovere dei genitori di disciplinare i figli con le buone e, se costretti, perfino con le cattive, affinché essi, un domani, non diventino succulenti prede né di una società che si sfama di pensieri deboli e viziati, né di una vita dura e beffarda, rispetto alla quale non si è mai all’altezza. Ecco, la migliore “comprensione”, che ogni padre e ogni madre dovrebbe rivolgere a un ragazzo: fare di lui un uomo il prima possibile, perché non si diventa adulti a trent’anni o a quaranta, se non lo si è già a diciotto.

Questo non significa affatto bastonare a sangue e in modo gratuito la prole, ma dimostrarle quando serve, attraverso fatti concreti e immediati, i limiti e i rispettivi ruoli, nonché gli equilibri dettati anche dalla qualità della “forza” e non soltanto dall’ascolto e dal dialogo, che non possono certo essere messi in discussione per un manrovescio, anzi.

Il punto, ancora, è che quella superstizione moderna che è la psicologia – da sempre invischiata in vicende paranormali, pansessuali e parossistiche – ha fatto più male che bene: è andata via via a scardinare quel “così è stato sempre, da che mondo è mondo”, che contempla anche l’eventualità di una punizione fisica, da cui fiorisce, sì, la ribellione, ma in eguale misura il rispetto, in base al quale non occorre essere d’accordo per ubbidire. 

La comprensione del “sì” e del “no” , del “si deve” e del “non si deve”  verrà raggiunta soltanto negli anni a venire – molto spesso anche con sommo ritardo – ma la disciplina all’ubbidienza, apparentemente fine a se stessa, in realtà resta un mezzo fondamentale per acquisire sovranità caratteriale e comportamentale.

Quando un tribunale commina una pena detentiva a un genitore per avere mollato un ceffone al figlio indolente – vale a dire per futili motivi – non fa altro che condannare un bambino di sei anni alla vista del proprio padre “punito”. Questa sarebbe già una grave offesa per un adulto – insopportabile, a qualsiasi età, è l’impotenza di un genitore – ma per un bambino, che non dispone ancora di solidi mezzi di difesa e di interpretazione, si tratta di un’umiliazione in piena regola: spodestare un genitore della sua autorevolezza equivale a metterlo a nudo di fronte agli occhi innocenti del proprio figlio e a non consentire a quest’ultimo, di fatto, un confronto di “forze” per affrancarsi. Ecco l’imperdonabile aggravante a carico della Corte.

Venendo meno l’autorevolezza, infine, viene meno quell’autorità, quell’immutabile credo per cui un padre resta sempre padre. Viene così a mancare la fonte primaria da cui bere e dissetarsi – anche quando fa male, quando costa fatica, quando sembra non sia giusto – che un giorno farà benedire tanta “battaglia”.

Fiorenza Licitra 

 
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