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Il Dio del laicismo PDF Stampa E-mail

7 Ottobre 2013

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Da Rassegna di Arianna del 30-9-2013 (N.d.d.)

 

Si è recentemente svolto, sulle pagine di “La Repubblica”, un dialogo epistolare tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Si tratta di un avvenimento importante, su cui occorre soffermare l’attenzione, sia pure da una prospettiva differente rispetto a quella che si è imposta come egemonica negli scorsi giorni.

Ho già affrontato la questione in una lunga intervista apparsa – a cura di Moreno Pasquinelli – sul blog “Sollevazione” e, pertanto, in questa sede non farò altro che riprendere cursoriamente alcuni punti che reputo particolarmente degni d’attenzione e che, in quell’intervista, ho sviluppato più estesamente. In primo luogo, merita di essere analizzata la tragicomica inversione delle parti a cui si è assistito: dialogico, aperto, denso di dubbi e di incertezze, il Papa; dogmatico, pontificante e senza la minima incertezza, Scalfari.

 

Prescindendo dalle tesi esposte e dalla notorietà dei due personaggi, a leggerli si sarebbe potuti plausibilmente essere indotti a ritenere che, tra i due, il pontefice non fosse Bergoglio. Il fondatore di “Repubblica” si pone oggi come pontefice di una religione atea e scientista, intollerante verso ogni forma di sapere che non sia quello piegato ai moduli della ratio strumentale, sotto i cui raggi risplende l’odierna barbarie della finanza e dell’austerity, dell’eurocrazia e della religione neoliberale.

Tale religione promuove compulsivamente il disincantamento e il congedo dalle utopie, la riconciliazione con la realtà presentata come inemendabile, la precarietà come stile esistenziale e lavorativo, l’abbandono del pathos antiadattivo e dell’attenzione per la questione sociale, il culto demenziale dell’antiberlusconismo come unica fede politica possibile: essa è la prova di quanto vado sostenendo da tempo, ossia che il capitalismo si riproduce oggi culturalmente a sinistra (è la tesi al centro del mio saggio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, a cui mi permetto di rimandare per eventuali approfondimenti). Si pensi anche solo alla trasformazione dei costumi – propugnata urbi et orbi dalla sinistra – in vista di una società interamente liberalizzata, postborghese e postproletaria, individualistica e iperedonistica, affrancata dalla morale borghese e dalla religione.

 

Anche in quest’ottica, destra e sinistra si rivelano pienamente interscambiabili: l’anticomunitaria e globalista “Destra del Denaro” detta le regole econonomico-finanziarie tutelanti gli interessi della global class, mentre la “Sinistra del Costume” – espressione dell’ideale del comunismo in un uomo solo, trasformando quest’ultimo in atomo di volontà di potenza innervata dal capitale  – fissa i modelli e gli stili di vita funzionali alla riproduzione del sistema dell’integralismo economico.

Coerente con questa visione del mondo, Scalfari parla dell’inesistenza di Dio con una sicurezza dogmatica che andrebbe resa oggetto d’attenzione (e che, con buona pace del coro virtuoso dei sedicenti neoilluministi, nulla ha a che vedere con la matrice culturale dell’illuminismo critico). Analogamente, il pontefice di “La Repubblica” rivela una fascinazione quasi commovente – e, a suo modo, teologica – per la scienza innalzata a verità ultima.

 

Se anche è troppo presto, forse, per valutare l’operato del nuovo Papa, certo è possibile individuare in lui, con diritto, un profilo complessivo non affine alla visione dominante della ragione, ossia quella della ratio strumentale su cui – come ricordavo poc’anzi – si fonda l’odierna teologia economica. Questo è già, di per sé, un aspetto ampiamente positivo, da valorizzare massimamente in una prospettiva che individui il nemico principale non nella fede, ma nella ratio strumentale stessa, che tutto riduce a quantità misurabile, calcolabile e trasformabile in profitto. Si veda, a questo proposito, lo splendido discorso pronunciato dal pontefice a Cagliari domenica 23 settembre, tutto centrato sui temi del lavoro e della dignità offesa dalla disoccupazione coessenziale al regime neoliberale.

Temo che questo concetto – di per sé chiaro come il sole – non passerà facilmente presso l’armata Brancaleone dei cosiddetti “laicisti”. Illudendosi che il gesto più emancipativo che possa darsi sia la ridicolizzazione del Dio cristiano (o, alternativamente, la soppressione del crocifisso dalle scuole), essi non cessano di contrastare tutti gli Assoluti che non siano quello immanente della produzione capitalistica, il monoteismo idolatrico del mercato: il laicismo integralista, in ogni sua gradazione, si pone come il completamento ideologico ideale del fanatismo del mercato e del “cretinismo economico” (secondo la stupenda espressione di Gramsci), in cui “The Economist” diventa “L’Osservatore Romano” della globalizzazione capitalistica e le leggi imperscrutabili del Dio monoteistico divengono le inflessibili leggi del mercato mondiale.

 

Capirà mai l’armata Brancaleone dei laicisti che la lotta contro il Dio tradizionale è, essa stessa, uno dei capisaldi dell’odierna mondializzazione capitalistica, la quale si regge appunto sulla neutralizzazione di ogni divinità non coincidente con il monoteismo mercatistico?

Riusciranno mai costoro, inguaribili lavoratori per il re di Prussia, a comprendere che ciò di cui più si avverte il bisogno, oggi, è un nuovo illuminismo che contesti incondizionatamente l’Assoluto capitalistico e l’esistenza di presunte leggi economiche oggettive della produzione, sottoponendo a critica l’onnipervasivo integralismo della finanza? Quando capiranno che l’ateismo, oggi, ha come matrice principale non certo l’aumento della conoscenza scientifica (con buona pace di Odifreddi!), ma il processo di individualizzazione anomica che disgiunge l’individuo da ogni sostanza comunitaria? E, ancora, che la “morte di Dio” da loro salutata con entusiasmo corrisponde al momento tragico della perdita di ogni valore in grado di contrastare il dilagante nichilismo della forma merce?


Diego Fusaro

 



  

 
Deregulation PDF Stampa E-mail

4 Ottobre 2013

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C’era una volta la licenza, che si doveva comprare, spesso a caro prezzo, per aprire un esercizio in città. C’era una volta la Camera di Commercio, che doveva decidere se consentire o meno l’apertura di un negozio o di una qualsiasi attività in una determinata strada di un determinato quartiere. Qualora quella zona fosse già sufficientemente coperta da esercizi o servizi di quel tipo, la concessione veniva negata.

Orrore. Burocratismo di tipo sovietico. Corporativismo. La parola d’ordine era: abolire lacci e laccioli. Viva la deregulationDa quella campagna liberista, in cui si distinse il presunto “comunista” Bersani, non dimentichiamolo, le nostre città sono uscite trasformate.

Può succedere di vedere un negozietto di sigarette elettroniche accanto a una tabaccheria subito dopo la quale un secondo negozio di sigarette elettroniche offre la sua merce ai passanti. Tanto vale allestire nello spazio antistante anche un ring dove i tre proprietari si affrontino ogni mattina in un match di pugilato.

Nel giro di poche centinaia di metri vediamo un fiorire di gelaterie e di pizzerie.

Ottici, orefici, negozi di abbigliamento, punteggiano le vie più eleganti, quelle del passeggio pomeridiano e serale. Chincaglierie e bigiotterie si offrono da cento vetrine. I bar si contendono le piazze e le piazzette delle fermate degli autobus e delle corriere. Chi cerchi un’agenzia di compra-vendita di case e appartamenti, non deve far altro che guardarsi attorno: la ricerca non sarà lunga.

Gran parte di quegli esercizi, impiantati fra tante illusioni e tanti debiti, falliscono nel giro di pochi mesi e devono chiudere. Ai debiti si può far fronte vendendo il locale ad altri illusi che magari trasformano la pizzeria per il nuovo business della sigaretta elettronica. Non è altro che un trasferimento del debito a un altro incauto, in una catena che non si chiude mai, come quella famigerata di sant’Antonio.

Le delizie della deregulation dovevano favorire i consumatori, con la concorrenza che fa migliorare il prodotto e abbassare il prezzo, secondo le formule magiche degli stregoni liberisti. Non risulta che dalle decine di gelaterie che si offrono in un paio di strade contigue escano gelati più grandi e a prezzi ridotti. Avviene più spesso il contrario.

Quelli che si abbassano sono i salari dei dipendenti, mentre si allungano i loro tempi di lavoro. Ne sanno qualcosa commesse e cassiere dei supermercati. Fino a pochi anni fa ogni supermercato osservava una mezza giornata settimanale di chiusura e rispettava il riposo domenicale. Quando qualcuno ha preso l’iniziativa di tenere aperto tutti i giorni dalla mattina alla sera e la domenica per metà giornata, uno ad uno tutti gli altri hanno dovuto allinearsi, secondo la regola ferrea della libera concorrenza. Il risultato è un piccolo vantaggio per i clienti e un grande aggravio di lavoro per i dipendenti.

La concorrenza senza regole ha effettivamente calmierato i prezzi in alcuni settori, come quello della telefonia. Gli elettrodomestici hanno contenuto i prezzi per la semplice ragione che il mercato è saturo. La concorrenza internazionale dà all’acquirente qualche vantaggio nel settore dei prodotti elettronici. Le compagnie del trasporto aereo si contendono i clienti con offerte al ribasso, ma in questa lotta feroce in cui il contenimento dei costi è di vitale importanza, i fallimenti sono frequenti e i rischi per la sicurezza dei viaggiatori aumentano.

 In definitiva, se il consumatore ne ricava qualche vantaggio marginale, i dipendenti, in tutti i settori, pagano la deregulation con precarietà, tagli del personale, diminuzione dei salari o maggior carico di lavoro con salario immutato. Ne consegue una loro minore capacità di consumo e pertanto una contrazione del mercato anziché una sua espansione. Il tutto in un incremento di ansie, nevrosi, tensioni individuali e familiari che fanno della “società del benessere” la società del più profondo disagio di massa che la storia del mondo abbia conosciuto e tramandato.

 

Luciano Fuschini

 

   

 
Flessibilitą PDF Stampa E-mail

1 Ottobre 2013

 

Da Rassegna di Arianna del 18-9-2013 (N.d.d.)  

 

Ci si deve stupire se in una società basata sul continuo consumo di merci e una loro sempre più rapida sostituzione, anche le relazioni umane sono soggette alle stesse dinamiche? Non possiamo negare che il diffondersi dei modelli di consumo hanno ormai abbracciato ogni aspetto dell’esistenza, né che negli ultimi decenni una invadente mercificazione dei processi della vita ci ha portati a prediligere quei rapporti umani che hanno per noi una sorta di riscontro economico finale. 

E allora, ha ancora senso stare a chiedersi come siano possibili un aumento esponenziale dei divorzi, una diffusione senza precedenti della sensazione di solitudine, un individualismo disarmante, l’incapacità di comunicare o qualunque altro fenomeno di questo tipo (con i conseguenti abusi di droghe, alcool o psicofarmaci)? 

Oggi la parola d’ordine è “flessibilità”. Bisogna essere o sentirsi pronti al costante cambiamento, alla costante novità, ed è assolutamente lecito annoiarsi appena i jinglepubblicitari, i rumori e le lucine a cui siamo abituati tendono anche solo ad affievolirsi. Ogni situazione è temporanea, dal lavoro alle amicizie, ogni novità è pronta dalla nascita ad essere sostituita. E soprattutto, se non ci si guadagna niente (e questo è anche comprensibile, oggi più che mai), meglio lasciar perdere. 
Sempre di più, sempre più nuovo, sempre diverso, sempre alla ricerca di un nuovo desiderio subito da rinnovare: la vera dipendenza della mia generazione, il suo dovere, la sua gabbia. Tutti aperti al cambiamento, ma solo a quello di pelle. Tutti pronti a cambiarsi d’abito più volte al giorno, seppur in molti casi incapaci di cambiare una singola abitudine. Badiamo al look, al cool, al new. Basta che sulla confezione di un prodotto ci sia scritto “nuovo” e lo compriamo d’istinto, ma fuori dai muri dei centri commerciali non siamo in grado di guardare al mondo con altri occhi. 
Usiamo e gettiamo i rapporti umani in base ai nostri comodi, senza però renderci conto che, così facendo, usiamo e gettiamo noi stessi. Stiamo a badare a quale automobile si adatta maggiormente all’immagine che vogliamo dare di noi, a quale colore di scarpe o di pantaloni potrebbe esprimere al meglio la nostra identità (spesso, in assenza di un Dio o di un credo politico, l’unico modo per sentire di averne una). 
Curiamo i dettagli del nostro aspetto (in certi casi coprendoci di ridicolo), perché “i dettagli sono tutto”, come consigliano (a migliaia di lettori) le riviste specializzate nella costruzione di un proprio stile. Ma questa sindrome dell’identità che si fa e si disfa continuamente ad ogni cambio di stagione (autunno-inverno, primavera-estate) ha gradualmente ma inesorabilmente assunto il controllo anche sui rapporti e i legami interpersonali.
Pensiamo alle amicizie, magari a quelle su facebook. Che cosa c’è di più superficiale di persone che non si vedono da decenni, che non si salutano nemmeno se si incontrano per strada, o che addirittura nemmeno si conoscono di persona, ma che si definiscono “amiche” (da esporre bellamente in bacheca per far vedere al mondo quanti se ne hanno)? Quanta solitudine c’è dietro questa fiera del narcisismo? Forse troppa. Soprattutto se si pensa al fatto che con un “click” si può avviare o interrompere una “amicizia”, o che la si può richiedere senza poi prendersi nemmeno la briga di rispondere a una domanda del tipo «Oh quanto tempo! Come stai?». 

E anche nel caso in cui si riuscisse a mantenere in contatto (cosa bellissima), perché farlo se, dopo dieci o vent’anni che non ci si vede, con tutte le cose che si avrebbero da raccontare, il messaggio che arriva è ad esempio «Quale personaggio dell’”Era glaciale” sei?». Dietro questi rapporti umani, se così li si può chiamare, c’è il nulla. C’è il tentativo di credere e di far credere di non essere soli. Effetto collaterale di una generazione sacrificata al dio consumo. E alla dea apparenza.

 

Andrea Bertaglio 

 

  

 
Jean Raspail PDF Stampa E-mail

28 Settembre 2013

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Da Rassegna di Arianna del 23-8-2013 (N.d.d.)

 

 

Quando apparve, nel 1973, per i tipi dell’editore Laffont di Parigi «Il campo dei santi», il romanzo di Jean Raspail - classe 1925, oggi un arzillo signore di ottantotto anni – parve una specie di opera fantascientifica, se non proprio un semplice “divertissement”, una stramba allegoria che non ci riguardava affatto: invece il tempo si è incaricato di mostrare fino a che punto questo scrittore cattolico francese sia stato terribilmente lungimirante.

Nel romanzo si immagina che, in India, uno strano profeta inciti i suoi compatrioti a rifiutare la miseria per dirigersi in massa verso il benessere, cioè verso l’Europa: impossessatisi di una flotta di carrette del mare, i suoi seguaci si presentano davanti alle coste settentrionali del Mediterraneo e sbarcano pacificamente, ma irresistibilmente, accolti dalle buone intenzioni delle élites culturali che, non volendo passare per razziste, si prodigano per accogliere tutti. L’ondata migratoria è enorme e modifica radicalmente il quadro sociale, culturale, spirituale del vecchio continente; ma gli intellettuali, le organizzazioni umanitarie e i settori religiosi “progressisti” hanno deciso: in nome dei “diritti umani”, quegli stranieri non possono essere respinti, anzi li si deve accogliere con il massimo della buona volontà. Improvvisamente la società multietnica e multiculturale, della quale nessuno aveva mai parlato, almeno in Europa, diventa un valore decisivo, un elemento di civiltà del quale non si può fare a meno; e chi non è d’accordo, viene criminalizzato e trattato di conseguenza. Alcuni abitanti della Costa Azzurra, che tentano di opporsi allo sbarco massiccio sulle coste della loro regione, vengono addirittura bombardati dalla stessa aviazione francese: gli Stati hanno deciso che va bene così, che il nuovo ordine mondiale deve essere basato sul completo rimescolamento delle razze, delle fedi, delle culture, e che resistervi è un crimine.

 

Raspail immaginava questo scenario al principio degli anni Settanta, allorché l’immigrazione “extracomunitaria” in Europa era ancora un fenomeno estremamente limitato; eppure, a distanza di quarant’anni, bisogna constatare che egli ha visto chiaro come se avesse avuto la sfera di cristallo per leggere nel futuro. Nel suo Paese era già qualcuno, e ancor più avrebbe fatto parlare di sé negli anni seguenti: nel 1981 avrebbe vinto il Grand Prix dell’Accademia di Francia, con un romanzo incentrato sulla figura strana, ma realmente esistita, di Antoine de Tounens, “imperatore” francese della Patagonia nella seconda metà del XIX secolo. In Italia, invece, non ci si è accorti di lui, o si è preferito ignorarlo, in ossequio al dogma che vuole la cultura francese contemporanea tutta laica, progressista, e “gauchista”; dogma che ha “occultato”, per quanto possibile, al nostro pubblico, anche altri scrittori di vaglia, per esempio Renaud Camus, Jean Madiran e Dominique Venner (fino al clamoroso suicidio di quest’ultimo, nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi). Solo nel 1998 una piccola casa editrice di estrema destra ha tradotto e pubblicato «Il campo dei santi» (il cui titolo si riferisce a un versetto del libro dell’«Apocalisse», in cui si parla dell’assalto delle forze del male contro i seguaci di Cristo), a conferma - se mai ve ne fosse stato bisogno – che, in Italia, la cultura indipendente non esiste e le simpatie culturali sono sempre e solo di parrocchia, di fazione, di corrente. Resta il fatto che Jean Raspail,  considerato uno dei maggiori scrittori francesi viventi, da noi continua ad essere pressoché sconosciuto: sono ben poche le persone colte che lo hanno letto o anche solo sentito nominare, che ne parlano, che discutono le sue tesi; quanto al grosso pubblico, non ne sa nulla, puramente e semplicemente.

È vero che anche in Francia, all’inizio, «Il campo dei santi» era stato accolto piuttosto in sordina; maggiore riscontro aveva avuto, chi sa perché, negli Stati Uniti; poi, però, poco a poco, ma irresistibilmente, il libro era stato richiesto, ristampato, venduto, anno dopo anno, fino a raggiungere una tiratura che, oggi, si calcola in mezzo milione di copie. Sarà perché i fatti gli hanno dato clamorosamente ragione; oppure perché, in Francia, un autore di valore, magari tardi, alla fine salta fuori; da noi, complice l’egemonia culturale della sinistra neo-marxista (anche se essa non si considera più tale), comprendente anche buona parte del mondo cattolico (che, del pari, ignora questo debito ideologico, almeno in apparenza), e l’inconsistenza intellettuale, e non solo intellettuale, della destra, è possibile, possibilissimo, che scrittori e filosofi eminenti restino sepolti, ignorati o dimenticati, a tempo indeterminato, anche dopo che nel resto del mondo si sono definitivamente affermati: un fenomeno, in verità, tutt’altro che recente, ma anzi tipico della nostra Repubblica letteraria, almeno a partire dal secondo dopoguerra - ma per molti aspetti, ancora più antico, e perfino anteriore al fascismo.

 

A parte il fatto che l’immigrazione massiccia, biblica, incontrollata, è oggi in gran parte di provenienza nordafricana e mediorientale (ma non solo), e non specificamente indiana o pakistana, si deve riconoscere che Raspail ha colto nel segno un fenomeno estremamente drammatico, che mette in forse la stessa sopravvivenza della civiltà europea, così come la conosciamo e così come le generazioni precedenti l’hanno sempre conosciuta, amata, coltivata. Non è questione di difendere il “predominio della razza bianca”, come ammonivano certi intellettuali europei e americani fin dai primi anni del Novecento (si pensi, per fare un nome, a Lothrop Stoddard), ma semplicemente di vedere se gli Europei hanno il diritto, oppure no, di scegliere liberamente e democraticamente il loro futuro; che, ormai, coincide con la sopravvivenza o meno della loro civiltà.

Una cultura progressista, buonista, follemente permissiva, cerca di presentare l’invasione del nostro continente - ché di una vera invasione si deve parlare, anche se, per adesso, relativamente pacifica - come qualcosa di assolutamente naturale, giusto e benefico: un evento che cambierà in meglio il nostro futuro, che arricchirà la nostra società, e che ci renderà finalmente, da ottusi e provinciali cultori del nostro angusto orticello, dei veri cittadini del mondo, dei veri e integrati protagonisti della globalizzazione.

Ma c’è di più: la messa al bando del dissenso, la criminalizzazione delle posizioni contrarie. In nome di un concetto totalitario e ipocrita della democrazia, si vuol far passare per incivile, razzista e reazionario chiunque nutra il benché minimo dubbio sulla bontà di questa operazione. Si invocano i rigori della legge contro i reati di opinione; si cerca di scavalcare il normale processo democratico, per mezzo di sortite demagogiche di esponenti delle istituzioni i quali danno per scontato che, in tempi brevi, i Parlamenti approveranno misure atte a facilitare l’invasione, e ne parlano come se tali modificazioni legislative siano sono questione di tempo. E la stessa pressione istituzionale, lo stesso ricatto etico vengono portati avanti anche su altri temi, in apparenza distanti da questo, ma in realtà legati da un filo sotterraneo, per esempio la parificazione delle unioni di fatto al matrimonio e, in particolare, il riconoscimento giuridico del matrimonio fra due persone dello stesso sesso, nonché il diritto di tali coppie di poter adottare dei bambini, al pari di qualunque altra copia regolarmente sposata.

Sono tutte novità che vanno nella direzione di provocare disorientamento e di indebolire la coesione spirituale e morale della società europea; sono tutte iniziative che nascono o dalla incosciente arroganza della cultura radicale, che vede la necessità di intraprendere ovunque battaglie per i diritti dei singoli, e mai si preoccupa dei doveri, né della tutela della società nel suo insieme, vista, semmai, quest’ultima, come una semplice dispensatrice di riconoscimenti giuridici; oppure da un disegno intenzionale di poteri occulti, essenzialmente di natura finanziaria, che si servono dello strumento mediatico, della politica, perfino della religione, per sovvertire l’ordine e i principi sui quali da sempre riposa la nostra civiltà e per creare le condizioni favorevoli all’instaurazione di un totalitarismo strisciante e non conclamato, ma ancor più capillare e tirannico di quelli, di triste memoria, che hanno funestato il XX secolo.

Il fatto che un autore come Jean Raspail non sia conosciuto quasi da nessuno in Italia, e che il suo libro più profetico e conturbante sia stato messo in commercio solo da una piccola casa editrice politicamente estremista, è la dimostrazione del fatto che i meccanismi di tale totalitarismo si sono già messi in moto, sono già attivi e operanti e riescono già a controllare, in larga  misura, quel che l’opinione pubblica deve sapere e quello che deve ignorare. Quando proprio un evento o una idea non possono essere interamente occultati, si ricorre alla tattica di deformarli, di stravolgerli, di presentarli in maniera tale da suscitare sdegno, repulsione, condanna; si fa leva sul ricatto buonista: se ti presti ad ascoltare certi discorsi, allora vuol dire che non sei una brava persona. Perché le brave persone porgono sempre l’altra guancia, aprono sempre la porta di casa a chiunque vi bussi, magari in piena notte ed anche – forse – ai peggiori malintenzionati: grosso fraintendimento della morale evangelica, la quale chiede, semmai, tali comportamenti al singolo individuo, non glieli impone e tanto meno pretende di imporli alla società nel suo insieme, come se il credente avesse il diritto di decidere per tutti gli altri su questioni di importanza vitale [...]

 

Certo, vi sono molti stranieri che emigrano in cerca di lavoro, che sono delle brave persone, che chiedono solo di guadagnarsi il pane onestamente: non vi sono solo dei pazzi che se ne vanno in giro brandendo il piccone, a massacrare il primo che passa (come pure è avvenuto, ed è cronaca abbastanza recente, anche se già quasi dimenticata dai mass media). Questo è ovvio. Ma resta il fatto che milioni e milioni di persone che pretendono – non chiedono, pretendono - di rifarsi un futuro invadendo l’Europa, e sia pure pacificamente, pongono una serie di problemi politici, economici, sociali, culturali, gravissimi, che non é possibile prendere alla leggera e non è onesto minimizzare, così come non è onesto ricattare l’opinione pubblica con la minaccia di considerare intollerante, inospitale e razzista chiunque metta in guardia contro i rischi e contro gli effetti negativi che già si registrano in tutti i campi, da quello della criminalità a quello della crisi dei posti di lavoro.

Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, la marea sta avanzando e sta sommergendo gli abitanti originari dell’Europa, grazie anche al tasso d’incremento demografico molto più alto dei nuovi arrivati, mentre in molti Paesi del vecchio continente, compreso il nostro, esso era ormai giunto al saldo negativo. Fra alcuni decenni l’Europa sarà un continente solo parzialmente europeo e fra meno di un secolo gli Europei saranno una minoranza, forse tollerata, forse discriminata, comunque una minoranza soggetta alla volontà della maggioranza. È questo che vogliamo? È questo che vogliono i nostri intellettuali, i nostri legislatori, il nostro clero?

Intendiamoci: non sarà la fine del mondo. Il mondo ha conosciuto altri e ben più drammatici fenomeni di migrazione di massa: ha visto sorgere società miste, ha assistito alle loro difficoltà, alle loro convulsioni, alle loro trasformazioni; ha visto sorgere nuove civiltà e scomparire le vecchie, e non sempre la cosa ha presentato solo aspetti negativi, almeno nel lungo periodo (il che significa che quanti hanno vissuto tali trasformazioni, i problemi li hanno vissuti eccome). Sarà, molto più semplicemente, la fine dell’Europa. L’Europa diventerà una espressione geografica: non sarà più un continente specifico, con la sua storia, con le sue tradizioni, con le sue lingue e con il collante della civiltà cristiana. Sarà un’altra cosa: un’appendice dell’Asia e dell’Africa, in tutti i sensi.

Una tale eventualità non implica per forza, lo ripetiamo, una apocalisse, ma certamente implica una trasformazione quale, oggi, pochi riescono a immaginare e nessuno possiede gli strumenti per sapere quali costi imporrà a noi stessi, e soprattutto ai nostri figli e ai nostri nipoti: costi economici, sociali, morali, spirituali. Forse, per fare un esempio, un medico che si rifiuterà di infibulare una ragazzina somala in una struttura ospedaliera pubblica, secondo le richieste della famiglia di lei, si vedrà denunciato, processato e condannato, nonché sottoposto a un linciaggio morale per il suo comportamento intollerabilmente eurocentrico e razzista. Forse.

Non amiamo fare i profeti di sventura, né spaventare alcuno, quando ci sarebbe bisogno, semmai, di ragionare con la massima calma e lucidità. Ma questi sono i veri termini del problema, piaccia o no.

 

Francesco Lamendola



  

 
Il falso antirazzismo PDF Stampa E-mail

24 Settembre 2013

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Da Rassegna di Arianna del 17-9-2013 (N.d.d.)

 

Probabilmente l’estate 2013 verrà ricordata anche per il triste “affaire Kyenge”. Alludo, con questa formula, alla penosa vicenda che ha coinvolto in prima persona il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Si tratta di una questione che, nel suo complesso, reputo patetica per più motivi. Il primo dei quali, naturalmente, resta la vergognosa “furia del dileggiare” propria di alcuni noti politici leghisti, che si sono accaniti in modo oltremodo volgare sul ministro dell’Integrazione, simbolo e presagio – a loro dire – della “futura Italia meticcia”. Il vecchio e pomposo slogan leghista (“Padania libera!”) trova, paradossalmente, la propria verità se riferito a taluni politici leghisti, liberandosi dei quali la cosiddetta Padania trarrebbe indubbiamente un immenso giovamento.

Ma al di là dell’osceno episodio di razzismo, che è stato giustamente condannato pressoché a trecentosessanta gradi (con rare eccezioni, dovute soprattutto al fatto che gli imbecilli, purtroppo, non potranno mai estinguersi del tutto), è un altro il punto su cui vorrei soffermare l’attenzione. Si tratta di un punto che, nel dibattito generale, è passato del tutto inosservato, e certo non a caso [...]

 

Lo formulerò in maniera telegrafica (anche a costo di semplificare più del dovuto), in modo da giungere direttamente, senza troppe perifrasi, al cuore della questione. L’insistenza maniacale con cui l’industria mediatica ci ha intrattenuti sull’“affaire Kyenge” è tutto fuorché innocente. Di più: corrisponde a una delle molteplici manifestazioni di una volgare strategia ormai in auge da tempo nel capitalistico regno animale dello spirito. Tale strategia, nella sua essenza, consiste nello spostamento ininterrotto dell’attenzione dell’opinione pubblica su questioni secondarie, di modo che la contraddizione principale resti permanentemente occulta.

 

Tramite un simile spostamento d’attenzione, la questione sociale, in tutte le sue determinazioni (debito pubblico, erosione sempre più oscena dei diritti sociali, eurocrazia imperante, connazionali che stentano a raggiungere la fine del mese, ecc.), è puntualmente resa invisibile: in suo luogo, sono poste al centro dell’attenzione mediatica tutta una serie di questioni secondarie, il cui unico fine – e sottolineo unico – corrisponde all’occultamento della contraddizione principale, i rapporti di forza capitalistici, con il classismo, l’asservimento, lo sfruttamento e la miseria generalizzata che essi continuano senza tregua a produrre.

 

Il cuore della questione sta, allora, in questo: l’“affaire Kyenge” non è legato alla legittima e, di più, necessaria opposizione al razzismo in ogni sua declinazione, bensì alla distrazione programmata rispetto alla contraddizione capitalistica. Tale distrazione è artatamente governata dalla manipolazione organizzata, dal circo mediatico e dal clero giornalistico (che parla di tutto e non crede a nulla). Il capitalismo, nella sua forma attuale, non ha più bisogno di legittimarsi tramite il razzismo (ben altrimenti al tempo del colonialismo, naturalmente!), che può anzi condannare con l’obiettivo di mostrarsi proditoriamente emancipativo e, insieme, di destare l’illusione che l’emancipazione si esaurisca nella lotta contro il razzismo (che pure del movimento di emancipazione è un momento indispensabile), di modo che non possa mai sorgere il sospetto che la vera emancipazione comporti di necessità il superamento dei nessi di forza capitalistici (classismo, bombardamenti etici in nome dei diritti umani, schiavitù del debito e del salario, ecc.).

 

Per questa via, sorge la falsa convinzione – gravida di ideologia – secondo cui la lotta contro il razzismo sarebbe il compimento dell’emancipazione, il non plus ultra dell’opera della critica. In questo modo – è questo il punto decisivo – la lotta contro il capitale e le sue storture viene completamente obliata e, con essa, si perde di vista il fatto fondamentale: la critica del razzismo, di per sé, non basta; può, anzi, fungere da alibi per non affilare le armi della critica indirizzata contro il capitale. È, del resto, un fatto risaputo. La manipolazione organizzata trova nella strategia della “distrazione programmata” una feconda risorsa simbolica. Dirottando l’attenzione su contraddizioni estinte o su questioni irrilevanti, spesso create ad hoc, la passione della critica è ininterrottamente distolta dalla contraddizione principale, nemmeno più nominata. La di per sé nobile e fondamentale critica del razzismo viene, per questa via, impiegata per destare l’illusione che, nel nostro presente, la contraddizione principale sia appunto il razzismo e non il classimo, il debito e le altre nefandezze prodotte dal prosaico sistema della disorganizzazione organizzata del capitale.

 

In questo modo, la possibile opposizione anticapitalistica è preventivamente frammentata. In luogo del conflitto contro il nesso di forza capitalistico, subentrano una miriade di “micro-lotte” che, di per sé nobili (vuoi in difesa dell’acqua pubblica, vuoi per la respirabilità dell’aria, vuoi per l’eco-compatibilità con il territorio, vuoi per il riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche e sociali, ecc.), mancano di un loro comune orizzonte di senso – vuoi anche di una koiné filosofico-politica – che faccia riferimento all’unitarietà del genere umano e, di conseguenza, a un suo programma di emancipazione implicante la lotta incondizionata contro il fanatismo dell’economia che non smette di perpetrare la violenza istituzionalizzata dell’economia e della finanza.

 

D’altro canto, il dilemma che oggi si pone per chi non voglia rinunciare alla critica e allinearsi con il coro di quanti – per dirla con Hegel – “ululano con i lupi” riguarda la possibilità di una valorizzazione dei momenti emancipativi del nostro tempo (l’attenzione per le differenze, per la pluralità e per la molteplicità di stili di vita) che sappia però sottrarli allo sguardo medusizzante del capitale e all’immediata riconversione in merce che esso opera.

L’antirazzismo deve, allora, essere incorporato in una più generale critica radicale del fanatismo dell’economia, anziché lasciarsi riassorbire – come oggi accade (e l’“affaire Kyenge” ne è una manifestazione chiara come il sole) – nel movimento di santificazione dei nessi di forza capitalistici.


Diego Fusaro

 

  

 
Buoni e cattivi PDF Stampa E-mail

20 Settembre 2013

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Anche nella vicenda siriana, come in tutto il resto ormai, la mistificazione ha dominato la scena.

Si è fatto credere che tutta la questione consistesse nell’individuazione del cattivo. Chi usa armi proibite e si abbandona a crudeltà è il cattivo. Chi combatte lealmente e con “umanità” è il buono.

Questa è la favoletta che impera a Hollywood, non è la realtà della vicenda umana.

Non era vero nemmeno nello scontro fra i nazisti e i loro nemici nella seconda guerra mondiale, cioè nella situazione in cui ci si è fatto credere che il conflitto fra Bene e Male fosse più evidente.

I nazisti hanno commesso nefandezze. L’Olocausto non è un’invenzione della propaganda giudaica. L’aver messo in piedi un’organizzazione imponente di lager, di centri di smistamento, di comunicazioni attraverso tutta l’Europa, di rastrellamenti, al fine di sterminare un gruppo etnico, è una mostruosità assoluta. Le terribili rappresaglie contro popolazioni che si ribellavano all’occupazione militare tedesca sono raccapriccianti. Eppure non è per questi motivi che fu giusto combattere il nazismo. I bombardamenti anglo-americani con bombe incendiarie sulle città tedesche, che provocarono centinaia di migliaia di morti fra orribili sofferenze, erano crimini non meno riprovevoli. Le bombe atomiche sganciate su due inermi città giapponesi, a guerra già praticamente finita, avrebbero meritato una Norimberga. Gli stupri e i saccheggi dell’Armata Rossa nella sua avanzata in Germania non furono minori di quelli dei soldati della Wehrmacht in territorio sovietico. I regolamenti di tutti i Paesi belligeranti prevedono dure rappresaglie sulle popolazioni civili in caso di resistenza da parte di gruppi armati irregolari. I nazi-fascisti furono spietati e crudeli nella lotta antipartigiana, ma i partigiani si abbandonarono anch’essi a eccidi, anche a guerra finita.

 Il criterio discriminante nella guerra non è la maggiore o minore bontà. Tutti usano le armi di cui dispongono, tutti cercano di terrorizzare il nemico e la sua popolazione. Certe armi non sono usate solo quando si teme una ritorsione con gli stessi mezzi, vale a dire quando ne dispone anche il nemico. Per questo Hitler non usò i gas, mentre gli USA usarono la bomba atomica, avendone l’esclusiva in quel momento.

Fu giusto combattere i nazisti non perché i tedeschi fossero più cattivi degli inglesi, degli americani e dei russi, ma perché volevano creare un Impero su basi etniche, sulla discriminazione razziale. Il criterio discriminante è dunque una certa scala di valori, non la bontà o la cattiveria.

Americani e israeliani hanno utilizzato ripetutamente bombe al fosforo, che l’ipocrisia dominante non cataloga come armi chimiche ma come armi incendiarie, come se la differenza fosse molto significativa.

Perfino i defoglianti usati dagli americani sulle foreste e le campagne del Viet Nam, responsabili di inquinamenti disastrosi e di migliaia di malformazioni di neonati, non sono stati catalogati come armi chimiche, né sono proibiti i proiettili con uranio impoverito, nonostante le prove schiaccianti sugli effetti che hanno anche sui civili nelle zone contaminate.

Diciamolo allora nettamente e senza equivoci: che i gas in Siria siano stati utilizzati dalle forze governative o dalle forze della sovversione, è dettaglio insignificante. Anche in questo caso non si tratta di individuare i buoni, cavallereschi in battaglia e rispettosi delle regole, e i cattivi che commettono crudeltà e usano armi proibite. Non è la sfida all’O.K. Corral cara alla propaganda yankee.

Si tratta invece di stabilire qual è la causa più degna di approvazione secondo una certa scala di valori.

Da una parte c’è la volontà imperiale e israeliana di frantumare l’unità nazionale dei Paesi del Medio Oriente, per renderli facili prede delle mire occidentali e incapaci di opporsi alla prepotenza di Israele.

Dall’altra parte c’è un leader, Assad, che difende l’unità e l’indipendenza del suo Paese. Alla luce della nostra scala di valori, la causa giusta è la sua, che abbia usato i gas o non li abbia usati.

La conclusione non è la riproposizione della formula “il fine giustifica i mezzi”, perché qui non c’è un potere che sarebbe autorizzato a usare la forza e l’inganno nei confronti di una controparte sprovveduta, purché l’obiettivo sia nobile. Qui siamo in presenza di contendenti ugualmente spietati e non ci sono fini spiritualmente nobili. Ci sono obiettivi politici più o meno difendibili secondo i nostri criteri di riferimento. Siamo con Assad non perché è più buono dei suoi nemici ma perché in questo momento storico si trova a difendere l’indipendenza e l’unità della sua nazione.

 

Luciano Fuschini   

 

  

  

 
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