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Democrazia in Rete PDF Stampa E-mail

27 Giugno 2013

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Un’intervista di Serena Danna a Casaleggio, riportata dal sito Comedonchisciotte, finalmente ci offre un quadro preciso del pensiero di questo personaggio che ama stare dietro le quinte pur essendo il vero teorico del Movimento Cinquestelle.

Egli è convinto che la Rete rivoluzionerà ovunque le istituzioni rendendo possibile la democrazia diretta, nella quale i rappresentanti del popolo ne saranno soltanto i portavoce, revocabili in qualunque momento.

Sono idee meno nuove di quanto si pensi.

Rousseau nel Settecento e gli anarchici nell’Ottocento, pur non immaginando che un giorno si potesse disporre della Rete, avevano prospettato qualcosa di simile. Potrebbe sembrare strano, avendo presente la durezza della dittatura sovietica, ma lo stesso Lenin, che la fondò, nelle sue opere teoriche, prima della presa del potere, ipotizzava una vera e propria estinzione dello Stato, inteso come apparato burocratico-repressivo, a favore di una democrazia diretta in cui vigesse la rotazione delle cariche dirigenti e la revocabilità in ogni momento dei rappresentanti del popolo.

Riproporre il tema della democrazia diretta ha il grande valore politico di rimettere in discussione una democrazia rappresentativa che proprio in Occidente e in questi anni mostra tutta la sua falsità e inadeguatezza.

Tuttavia l’impostazione di Casaleggio ignora quello che è invece il tema decisivo della politica, quello che rappresenta il vero discrimine fra le varie forme di organizzazione della società: i meccanismi di selezione delle élite.

Casaleggio elude il problema teorizzando una democrazia diretta che esclude lo stesso concetto di élite dirigente, negando pertanto che a chi amministra la cosa pubblica si richiedano competenze specifiche, non alla portata di tutti.

Chi ragiona come lui presuppone una saggezza popolare che finora non si è espressa perché i ceti dirigenti le hanno impedito di esprimersi.

In realtà il valore dell’uguaglianza si dà nel solo àmbito della dignità della persona.

Il bracciante analfabeta ha diritto a vedersi riconosciuta la stessa dignità di persona del docente di scienze politiche, o di economia, o di diritto, o di sociologia, ma non ha il diritto di accampare le stesse loro pretese di competenza nell’amministrazione della cosa pubblica. Su questo scoglio si infrange l’utopia dell’uguaglianza in una democrazia in cui ognuno, obbedendo alla legge, obbedisce a se stesso in quanto legislatore.

Allora cosa resta fattibile del progetto avveniristico di Casaleggio?

Rimane la richiesta di una riforma costituzionale che preveda il referendum propositivo e senza quorum.  Rimane l’obbligo per tutti i candidati alle elezioni di risiedere nella circoscrizione in cui si presentano, in modo che siano noti agli elettori.

Pretendere dalla Rete una palingenesi è prospettare l’ennesima attesa illusoria.

Casaleggio ritiene che la Rete sia incompatibile col capitalismo, perchè permette di usufruire gratuitamente di beni non mercificati. Però quando prevede come molto probabile un’altra guerra mondiale, la configura come lo scontro fra il mondo della Rete democratica e quello degli autoritarismi, vale a dire la Cina, la Russia, l’Islam militante.

In definitiva, tutto il gran parlare di democrazia diretta e di nuovo mondo approda alla visione del conflitto finale fra l’Occidente democratico e i malvagi assolutismi di un Oriente autocratico.

Scopriamo così che il teorico della rivoluzione attraverso la Rete resta ben dentro gli schemi di un mondo la cui decadenza esige l’adozione di parametri di riferimento molto più radicalmente alternativi dei suoi.

 

Luciano Fuschini       

 
Pensiero unico PDF Stampa E-mail

24 Giugno 2013

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Da Rassegna di Arianna del 17-6-2013 (N.d.d.)

 

 

La frase della settimana è indubbiamente quella pronunciata da Giorgio Napolitano: “non possiamo non dirci liberali”. Non è qui importante ragionare su chi l’ha pronunciata, su qual è il suo passato e quale la sua funzione presente. Occorre, invece, concentrarsi sulla cosa stessa. E la cosa stessa è presto identificata: nell’epoca schiusasi con la data-sineddoche del 1989 e con il trionfo della libertà pensata secondo il parametro aziendale libero-scambista, il pensiero liberale si è imposto come pensiero unico dominante.

 

Per questo, non passa giorno senza che esso accampi la sua arrogante pretesa di essere il solo modo legittimo di pensare, di esistere e di organizzare lo spazio sociale ridotto a teatro dell’economia divenuta il solo valore direttivo di riferimento. Oggi, in tutte le sue forme, in quelle più estremistiche come in quelle più temperate, il pensiero liberale che si autoproclama il solo giusto, valido e degno di essere praticato (“non possiamo non dirci liberali”) è sempre la funzione ideologica del capitale finanziario. Sbagliano quanti pensano che oggi “liberalismo” significhi ciò che significava ai tempi di Benedetto Croce: nel presente, esso è la pura e semplice sovrastruttura del nomos dell’economia, dello spread e della dittatura del mercato.

 

L’odierna epoca inauguratasi con l’inglorioso crollo dei comunismi storici assume come propria dimensione simbolica di riferimento il pensiero liberale e, insieme, si proclama come il tempo della fine delle ideologie. A uno sguardo attento ed ermeneuticamente non ingenuo, essa si rivela l’epoca che, a giusto titolo, può essere qualificata come la più ideologica dell’intera storia dell’umanità: è l’epoca in cui l’unica ideologia superstite – il pensiero neoliberale, che si autocelebra come non ideologico – può contrabbandarsi come un modo di pensare naturale e non storicamente determinato; di più, come quel modo di pensare e di esistere rispetto al quale tutti gli altri appaiono illegittimi, secondo l’esiziale asserto di Napolitano.

 

Il pensiero unico neoliberale – nuovo oppio del popolo – non cessa di celebrare, in stile panglossiano, le virtù di un mondo in cui la libertà e l’individualità sono ricavate per astrazione dalla compra-vendita liberoscambista, dall’illimitata circolazione delle merci sul piano liscio del mercato globale. E tutto questo mentre si consuma, nel silenzio generale, l’ennesima riscrittura ideologica della storia del Novecento, secondo l’ormai consueta dialettica di rimozioni e trasfigurazioni sempre orientate all’imposizione dell’oggi come destino irredimibile. Si tratta dell’oblio integrale, e tutto fuorché ideologicamente neutro, della ricca costellazione di pensatori marxisti (Karel Kosík, Ernst Bloch, György Lukács, per menzionare i più grandi) che contestarono fermamente il socialismo reale, nell’idea che occorresse riformarlo o trasformarlo in modo radicale, e, insieme, conservarono la passione durevole della critica anticapitalistica, rimanendo fedeli all’ideale del comunismo come ulteriorità nobilitante.

 

Deve, allora indurre a riflettere il fatto che, in parallelo con l’odierno oblio dei molteplici critici marxisti del socialismo, si assista all’ininterrotto encomio del coro dei virtuosi critici liberali del comunismo (da Bobbio ad Aron, da Kelsen a Berlin), che demonizzano il comunismo sia reale, sia ideale (contrabbandando il primo come necessario esito del secondo), e, insieme, accettano la civiltà dello spettacolo e dell’omologazione planetaria come intrascendibile, quando non direttamente come il migliore dei mondi possibili.

 

La logica ideologica dirotta senza tregua la critica del passato nel circuito della glorificazione del presente. Anche questa commedia degli equivoci si inscrive a pieno titolo in quelle che Merleau-Ponty chiamava “le avventure della dialettica”. Il sistema della manipolazione organizzata promuove l’esorcizzazione compulsiva di ogni pathos trasformativo presentando il gulag come sua ineludibile conseguenza e, per questa via, neutralizzando l’eventualità e il perseguimento di un futuro alternativo tramite l’impiego ideologico della memoria. Precisare che “non possiamo non dirci liberali” equivale a sostenere che non possiamo non essere altro rispetto a ciò che siamo: in una parola, che siamo condannati a riconciliarci con l’ordine del mondo trasfigurato in destino ingiusto ma irredimibile, osceno ma non rettificabile. È significativo, a questo proposito, il ben noto iter biografico di Napolitano.

 

Lo scrivente, non avendo mai giustificato i crimini stalinisti, non deve neppure pentirsene e rifluire nel main stream degli apologeti di Monsieur Le Capital: può, anzi, sostenere che non possiamo dirci liberali, per i motivi a cui si è, sia pure impressionisticamente, fatto cenno poc’anzi. Essere liberali significa, nell’odierno scenario, essere per i tagli ai salari e per l’innalzamento dell’età pensionabile, per la precarizzazione e la liberalizzazione di tutto, ossia per quel tragico movimento di distruzione del futuro delle generazioni più giovani e di quelle a venire che già Kant, nel suo splendido testo del 1784 sull’Illuminismo, aveva qualificato come un “crimine ai danni dell’umanità”.

 

Dietro l’ipocrisia dello “schermo uniforme e perfido di cortesia”, come lo chiamava Rousseau, la violenza esercitata dal potere sui corpi e sulle vite degli individui viene oggi ipocritamente presentata come conseguenza naturale e fisiologica di quella ristrutturazione internazionalizzata dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari che viene pudicamente definita globalizzazione e che, nei suoi tratti essenziali, è autoritariamente governata dall’alto ad opera delle politiche neoliberali che si impongono come il solo modo consentito di pensare e di esistere.

 

Le prestazioni ideologiche del liberalismo appaiono oggi tanto più evidenti, se si considera che, di fronte agli orrori dei sistemi politici in cui esso senza posa trova espressione, il pensiero unico percorre immancabilmente la via dell’autoassoluzione ipocrita, ripetendo che tali orrori non rispecchiano la “vera” essenza del sistema che li ha prodotti.

 

Come se il liberalismo fosse sempre “altro” rispetto alle oscenità che vengono prodotte nel mondo in cui esso è dominante. Con uguale ipocrisia ideologica, si potrebbe allora sostenere che, come oggi non è il “vero” liberalismo a produrre Abu Ghraib e Guantanamo, la precarizzazione sempre più oscena e i differenziali di ricchezza sempre più indecenti, analogamente non era la “vera” Russia comunista quella che produsse l’orrore dei gulag o che non era la “vera” Germania nazista quella che diede vita alla realtà luciferina di Auschwitz.

 

Per tutte queste ragioni (a cui se ne potrebbero agevolmente affiancare non poche altre), il primo gesto della critica dell’ideologia dovrebbe consistere oggi nel liberare dal liberalismo, ossia nel destrutturare il dispositivo narrativo che lo presenta come un modo naturale di essere e di pensare.

 

Diego Fusaro



  

 
Progetto Itaca PDF Stampa E-mail

21 Giugno 2013

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Dopo l’umiliante debacle del sindaco uscente Gianni Alemanno alle elezioni amministrative di Roma, “la destra” di derivazione “missina” è letteralmente scomparsa e segna il capitolo finale del fallimento della destra italiana di questi ultimi vent’anni. Dopo il crollo del comunismo, il Msi avrebbe dovuto rivolgere la sua lotta contro l’occidente capitalista americanizzato, invece, con la svolta di Fiuggi, ha ciancicato di gollismo, liberismo reaganiano, conservatorismo prezzoliniano e montanelliano, dottrina sociale della Chiesa; una macedonia indigeribile che già allora si commentava da sola. In realtà poi, nei fatti, Alleanza nazionale non ha fatto nulla di tutto ciò, limitandosi ad appiattirsi sulle posizioni di Forza Italia e appoggiando tutte le “berlusconate”, dalle riforme liberiste agli attacchi contro magistratura e istituzioni democratiche, fino alle leggi ad personam. Nel ventennio berlusconiano, non abbiamo visto tracce concrete di “cultura di governo” o “di destra”, ma solo pseudo – pragmatismo inconcludente; ma se Berlusconi ha mortificato la cultura e il senso etico e civico del paese, in questo processo di demolizione non è stato solo. Alleanza nazionale, non ha saputo/voluto produrre un’idea, un “progetto” politico-culturale, rivelandosi come il partito più deludente, grigio e incapace della Seconda Repubblica. Gianfranco Fini è stato mediocre come leader di partito, ministro e Presidente della Camera e si è ribellato al “padrone” Berlusconi solo tardivamente e per ragioni personali o peggio, perché più vicino alle oligarchie euromondialiste. Alemanno come sindaco di Roma è stato un vero disastro; lo ricorderemo soprattutto per il suo clientelismo di stampo democristiano e le elezioni amministrative lo hanno punito.

Adesso che la destra post missina è stata cancellata e risucchiata completamente dal berlusconismo che la impiega a suo uso e consumo, si vocifera che il PdL sarà trasformato in una nuova Forza Italia e – sempre secondo voci di corridoio – negli ambienti “ex-An” interni al PdL, si sta pensando di “uscire” per riaggregarsi con altre realtà della destra. Se fosse confermato, sarebbe una buona notizia, anche perché comincerebbero forse ad andare incontro alla proposta di un intellettuale di rilievo qual è Marcello Veneziani, che da mesi propone il “Progetto Itaca”; certo la decisione dei “destri” sarebbe tardiva, ma meglio tardi che mai, considerando poi che la forza politica di Fratelli d’Italia ha raccolto alle ultime elezioni amministrative un ottimo risultato, recuperando praticamente circa metà dell’elettorato che era di Alleanza nazionale. Se i politici di destra riusciranno ad avere finalmente un sussulto d’orgoglio, forse riusciranno a cogliere il segnale che giunge dalle elezioni amministrative. Se il M 5 stelle crolla, il PdL non brilla e la Lega è in panne, l’unico partito di “centrodestra” che cresce è Fratelli d’’Italia, e questo fatto un significato dovrà pur averlo. In primo luogo il partito della giovane Giorgia Meloni è stato premiato per aver avuto il coraggio di uscire dal PdL e non entrare nelle larghe intese. Ma soprattutto c’è un elettorato “di destra” o “moderato-conservatore” che non si riconosce nel berlusconismo, ma al tempo stesso è rimasto deluso dal “5 stelle” e dalla Lega. Questa nuova realtà politico-culturale potrebbe (dovrebbe) federare Fratelli d’Italia con Futuro e libertà, La Destra di Storace, Forza Nuova, CasaPound e altre realtà della destra e della destra radicale, compresi eventuali interessati di provenienza pdellina, leghista e grillina. Ma perché il progetto abbia un esito positivo e possa avere una sua utilità, sono necessarie delle condizioni :

1) Si deve costruire un soggetto unitario, che tenga assieme una volta per tutte la destra, evitando ulteriori personalismi e frammentazioni. 2) I vecchi rottami della politica, che sono stati compromessi col berlusconismo e dintorni, devono farci il favore di compiere un passo indietro. Non esigiamo che scompaiano, o non contribuiscano alla creazione del progetto, ma una volta avviato, devono passare in seconda linea, consegnando alle nuove generazioni il testimone. 3) Questa “Nuova Destra” non può limitarsi a essere un’Alleanza nazionale 2.0, né una regressione al nostalgismo del Msi, piuttosto sia protagonista di una nuova visione della società.

L’Errore che fu compiuto a Fiuggi, fu quello di archiviare “le ideologie”, per lasciare spazio a un cinico pragmatismo che già sapeva di tecnocrazia. Le ideologie non devono essere archiviate, bensì rinnovate; anche perché l’ideologia già esiste ed è quella del liberismo globale, un’ideologia egemone e pseudo democratica, alla quale dobbiamo rispondere con un’ideologia opposta, antimodernista. Se questa “Nuova Destra” vorrà sorgere ed essere cosa seria e credibile, dovrà essere in grado di proporre, una “nuova ideologia antimodernista”. Non chiediamo agli ex-An di rinnegare il loro passato, di “gettare via il bambino con l’acqua sporca”, di non conservare tutto ciò che di ancora valido può rimanere del loro passato ideologico fascista, missino e post-missino. Nessuno gli chiede di bruciare i libri di Gentile, Evola o D’Annunzio, tutt’altro, ma occorre comprendere che i problemi attuali richiedono risposte attuali, che non possono essere le “ricette liberiste”, perché sono queste il problema!

E allora, quali sarebbero queste “nuove idee” che potrebbero indicare il percorso da intraprendere dalla “Nuova Destra”? Mi permetto di suggerire alcuni nomi: Marco Tarchi, Giulio Tremonti, Alain de Benoist, Franco Cardini, Massimo e Paolo Cacciari, Massimo Fini, Giulietto Chiesa, solo per citarne alcuni, presi a caso. Non chiediamo alla Nuova Destra di diventare di “sinistra”, né pretendiamo che “oltrepassi la destra e la sinistra”, si denominino come vogliono (sebbene ci auguriamo nomi e simboli un po’ più originali di quelli attuali di “Fratelli d’Italia”), ma sappiano aprirsi a un’idea “eretica di destra”, che sappia integrare anche valori “di sinistra”, come l’ecologia, la critica all’occidentalismo, la tolleranza, ecc. Contemporaneamente, non auspico che movimenti antimodernisti come il Movimento Zero si trasformino in “soggetti di destra” o suoi fiancheggiatori, mi aspetto che MZ rimanga apartitico e indipendente, come sono convinto che resterà, pur lasciando a ogni simpatizzante la libertà individuale di votare e appoggiare il partito che la sua coscienza gli suggerisce di sostenere, e tuttavia l’indipendenza non rende necessariamente proibitivo il dialogo. Non ci sono delle ragioni “ideologiche” per le quali MZ dovrebbe privilegiare il dialogo con “la destra” piuttosto che con “la sinistra”, anzi, il dialogo dev’essere a 360°, semplicemente mi sembra che in questo momento sia più probabile possa sorgere qualcosa da destra. Auspico che tra le due parti ci sia un dialogo costruttivo, serrato e reciprocamente rispettoso, e valutare se ci sono le condizioni minime per delle convergenze. Se ci sono bene, altrimenti, senza indugi né compromessi, proseguire ciascuno per la sua strada, in beata solitudine.

Gianluca Donati

       

  

 
Nuovi schiavi PDF Stampa E-mail

19 Giugno 2013

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Da Rassegna di Arianna del 14-6-2013 (N.d.d.) 


 

Ci aspettavamo francamente qualche reazione in più alle ultime notizie  sulle “morti bianche”,  provenienti dalla Cina. Muore un ragazzino  di 14 anni, Liu Fuzong, stroncato dai ritmi del lavoro, dodici ore al giorno, fino a quindici se la produzione lo richiede. Muoiono, suicidi, tre lavoratori della Foxcomm, azienda che assembla telefonini, per i ritmi alti e le pessime condizioni di lavoro. Punte d’iceberg di un’autentica mattanza che, nel 2010, ha provocato, in Cina, seicentomila morti per cause riconducibili a “stress da lavoro”. Numeri grandiosi  e storie terribili  su cui in Occidente il silenzio regna sovrano:  giusto la notizia e niente di più. Nessuna mobilitazione dei mass media, nessun commento preoccupato, nessuna manifestazione di solidarietà da parte dei sindacati. L’imbarazzo domina  sovrano, quasi che la Cina goda di un regime speciale, di una sorta di salvacondotto con duplice firma: quella di un capitalismo internazionale, a cui le delocalizzazioni servono per abbattere i costi di produzione e quella di una sinistra per la quale le vecchie appartenenze contano ancora e pesano psicologicamente (visto che comunque a governare è il Partito Comunista).

 

In  questo mondo, globalizzato e dove le notizie sono in presa diretta, la questione etica non può non dilatare i suoi confini, costringendo le nostre coscienze ad interrogarsi e a turbarsi per avvenimenti che sono apparentemente  lontani eppure ci sono vicinissimi, non solo perché li vediamo sui nostri schermi ma perché quelle merci, prodotte  nelle regioni della Cina profonda, fanno bella mostra nelle vetrine delle nostre città, per poi venire  da noi acquistate.

Non è di moda parlare di schiavitù. Eppure non c’è altro termine per definire la penosa condizione di milioni di lavoratori e lavoratrici costretti a “vendersi” per qualche spicciolo e per questo rischiare la vita, sotto la pressione dei ritmi imposti dalla produzione. Come per Liu Fuzong, il ragazzino di 14 anni. 

Formalmente la schiavitù non esiste. Ricacciata com’è stata negli oscuri meandri della storia, nelle immagini cinematografiche dei colossal d’annata, tra catene avvilenti e punizioni a colpi di frusta. Sotto la coltre rassicurante dei “diritti dell’uomo”, garantiti per tutti, il fenomeno più che scomparire sì è però modificato, adattandosi alle mutate condizioni socio-economiche del nuovo millennio.

Si è “aggiornato” non perdendo  la sua essenza dominatrice. Perciò ci appare ancora più  brutale di quanto non lo fosse nell’antichità, con il suo insinuarsi e dissimularsi tra le pieghe deboli del mondo moderno; “globale” proprio per la sua capacità di pervadere popoli lontani e diversi tra loro, di segnare destini individuali ed intere comunità (di giovani e di adulti, di uomini e di donne); “cinico” come le reti stese, sotto i balconi delle fabbriche cinesi,  per attutire i lanci suicidi; “anodino” come i formicai produttivi dai colori pastello.

E’ il grande paradosso schiavista di questi anni, così generosamente “liberal”. E’ il paradosso delle centinaia di migliaia di suicidi, dove ad essere polverizzato, insieme alle vite degli operai cinesi, è il falso umanitarismo occidentale, l’incapacità di uscire fuori dal perbenismo dei valori, il silenzio dei vertici istituzionali, tanto insensibili da arrivare a dire – come ha fatto la presidente della Camera, Laura Boldrini – di amare la Cina e di vestire cinese (“Camera con Laura”, intervista a “D-la Repubblica”, 26 aprile 2013).

Un maestro della cultura nazional-sociale, Ernesto Massi, alla fine degli Anni Quaranta del Novecento, così fissava la “questione sociale”: “Potremo ragionare di orientamenti economici quando ci saremo bene intesi sui fini sociali da raggiungere, che sono fini etici: perché il fine di ogni società è il perfezionamento dell’uomo e il bene comune. L’economia invece è la scienza dei mezzi, rispetto all’etica che è la scienza dei fini”.

Di questo “finalismo”, di fronte alle nuove, grandi questioni poste dalla globalizzazione, è inderogabile, oggi, farsi carico. E non solo per prenderne coscienza. Occorre finalmente attivare adeguati strumenti di controllo internazionale. Occorre che anche i sindacati occidentali facciano la loro parte, non lasciando da soli i “nuovi schiavi” del produttivismo globalizzato. Occorre mobilitare tutti gli strumenti informativi perché non siano  il silenzio o peggio il disincanto a trionfare.

Se il campo del confronto è il mercato, esso non può essere insomma lasciato, su scala mondiale, in balia di una lotta senza regole, dove a soccombere saranno sempre i più deboli, uccisi da un profitto senza  regole.

  Mario Bozzi Sentieri  

 

 

 

 

  

 
Ipertrofia dell'io PDF Stampa E-mail

16 Giugno 2013

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Da Rassegna di Arianna del 29-5-2013 (N.d.d.) 

 

Ci sono molte cose che non vanno nel modo di amare degli uomini (e delle donne) moderni, ma tutte, o quasi, si possono riassumere in una formula: che l’amore non è più sentito come una chiamata, come una vocazione e come un completamento del proprio destino, ma essenzialmente come una brama, come uno stimolo da soddisfare ad ogni costo, non molto diverso dagli altri stimoli corporali, come quello di grattarsi se si avverte un prurito sulla pelle.

L’amore non è più visto come una relazione che ci completa, che ci realizza, e nella quale troviamo il significato del nostro esistere; ma come un fatto individuale, come una specie di diritto naturale della persona, una richiesta e un bisogno dell’io, nel quale il tu c’entra pochissimo, se non come corpo e come strumento di gratificazione del proprio io.

Questa è la ragione principale della crisi del matrimonio; le altre sono ragioni collaterali, che derivano, sostanzialmente, da essa: l’amore non è più l’espressione di un destino da realizzare, non è più un ponte che si getta verso l’altro, per completare e realizzare anche il proprio sé, ma è divenuto una tecnica di soddisfacimento sessuale per il piacere dell’io; ed essendo l’io dispotico, narcisista e capriccioso, il piacere che ottiene non è mai sufficiente e sempre esso torna ad esigerne dosi ulteriori, sempre più frequenti e massicce.

Per ragioni analoghe, anche il sentimento dell’amicizia è oggi fortemente in crisi; mentre il dilagare dell’edonismo sessuale non è altro che il rovescio della medaglia di un isolamento sempre più frustrante dell’io, di una sua sempre maggiore diffidenza, di una sempre più forte paura nei confronti dell’altro. Ed è logico: in un mondo di io ipertrofici, tutti protesi ad arraffare la maggior quantità possibile di piacere servendosi dell’altro, nessuno si sente riconosciuto e valorizzato, tutti si sentono usati e strumentalizzati e ciascuno è sul piede di guerra, con ogni senso all’erta, per godere il più possibile senza dover pagare alcuno scotto: in altre parole, per fregare gli altri prima che gli altri possano fregare lui.

L’omosessualità dilagante non è che un caso particolare di questo stravolgimento del retto senso dell’amore. Se l’amore, o la ricerca dell’amore, non è più la ricerca del tu che completi il proprio io, allora tanto vale concentrarsi sulla ricerca del piacere con qualcuno che non sia troppo diverso, perché la differenza metterebbe in crisi l’io narcisista ed ipertrofico: differenza, infatti, vuol dire tu, vuol dire uscire dal proprio io e confrontarsi costruttivamente con l’altro. Meglio, allora, puntare su un “altro” che si “altro” il meno possibile; sul proprio simile, che ci faccia da specchio; su qualcuno che sappia, anche materialmente, come darci il massimo del piacere, perché il suo corpo è identico al nostro.

Costruire un rapporto basato sulla differenza, al contrario, è faticoso: si parlano due lingue diverse  e a volte non ci si comprende; si è costretti, per forza, a uscire spesso e volentieri dal proprio io,  a dire tu, a mettersi in discussione, magari scontrandosi e litigando, ma comunque definendo meglio anche la propria identità, arricchendola, completandola. È proprio questo completamento che non interessa all’io ipertrofico e narcisista: esso si ritiene pago di essere così com’è, senza bisogno di uscire all’esterno, senza bisogno di affrontare fatiche e di dover lavorare su se stesso per riuscire a dialogare in profondità con l’altro.

La ragione della progressiva erosione della famiglia scaturisce da qui. Ciascuno bada prima di tutto ai propri diritti, alla propria gratificazione, al proprio piacere: l’altro, in questa prospettiva, è un ostacolo, o, nel migliore dei casi, un peso morto: sia esso una moglie o un marito, un figlio o un genitore. Perché complicarsi la vita per andare incontro al tu, perché rinunciare a tutte le occasioni, grandi e piccole, che la vita offre – occasioni d’ogni genere, sessuali e non -, insomma perché sacrificarsi, quando si sa che la vita è una e che ciò che è lasciato, è perso? Se ti piace una cosa, prenditela: nessuno ha il diritto di negartela , né ci sono vincoli che tengano. L’io prima di tutto.

In quest’ottica, oggi largamente diffusa (ma che fa la sua comparsa, in Occidente, verso la fine del Medioevo, precisamente con il «Decameron» di Boccaccio), anche l’attrazione sessuale non è che uno stimolo fisiologico, nel quale non hanno il minimo peso eventuali considerazioni relative all’amore come chiamata, come percorso preferenziale per evolvere da semplice individuo a persona: logico che, a quel punto, non abbia più importanza se l’oggetto del desiderio sia un uomo o una donna, un adulto o un bambino, o magari un anziano: tutto va bene, perché nessuno ha il diritto di porre dei limiti all’impulso verso il piacere (e se qualcuno lo fa, allora deve trattarsi per forza di un bieco moralista) [...]

Questa è precisamente la prospettiva da cui muovono tutti coloro, e oggi sono forse la maggioranza, che esigono una ridefinizione non solo dell’ethos sessuale, ma anche della legislazione familiare; che pretendono, ad esempio, che qualunque unione, eterosessuale o omosessuale, venga equiparata per legge alla famiglia “naturale” (come un tempo si usava chiamarla), formata dal vincolo stabile tra un uomo e una donna e aperta alla generazione dei figli. L’argomento pressoché unico di tutti costoro è sempre lo stesso: «Perché no?»; e, in subordine: «Che male c’è?». Se l’amore è il valore assoluto, allora che cosa importa se si tratta di una relazione stabile o temporanea, eterosessuale oppure omosessuale, fra due maggiorenni o fra due minorenni? Questi sono tutti pregiudizi, essi dicono: l’unica cosa che conta è amare.

Già, ma cosa vuol dire amare? Essi dovrebbero dire, più onestamente: l’unica cosa che conta è il piacere. L’amore non è la stessa cosa che la brama del piacere; l’amore è chiamata, vocazione, tensione verso il confronto con l’alterità, da cui scaturisce una più profonda e matura consapevolezza di se stessi. La famiglia, quella vera, nasce da questa tensione, da questo bisogno di arricchimento e di completamento: che è parte del percorso formativo della persona, e che non si realizza se ci si limita ad inseguire incessantemente le proprie fantasie sessuali più disordinate, cercando di metterle in pratica con chiunque e ogni volta che se ne presenti l’occasione.

Non che ci sia qualcosa di male nel piacere, tutt’altro: ma esso è il risultato dell’amore, non il suo fine o la sua ragion d’essere; infatti, l’amore ci può essere anche senza il piacere fisico, come può accadere quando sopravviene una menomazione fisica o, semplicemente, la vecchiaia. Chi non ha capito questo, non ha capito niente dell’amore e ne parla a vanvera, riempiendosi la bocca con una parola di cui non sa letteralmente il significato.

Una società nella quale l’amore cede il passo alla brama del piacere fine a se stessa, da raggiungere comunque e con chiunque, è una società che si getta a capofitto verso l’autodistruzione, perché in essa le persone scompaiono e vengono sostitute da individui narcisisti e chiusi in se stessi, atomi incapaci di aprirsi verso l’esterno, di dire “tu”, di collaborare con l’altro. La famiglia si sta disgregando perché è venuta meno la capacità di collaborare: nessuno vuol rinunciare a qualcosa, tutti sanno dire solamente “io”. Troppo poco per costruire qualcosa di durevole, come invece hanno saputo fare i nostri genitori e i nostri nonni.

Loro sapevano dire “tu”; noi lo abbiamo dimenticato. Nell’altro vediamo solo uno specchio, un riflesso del nostro io, uno strumento per raggiungere il nostro piacere. Se tutto quello che conta è l’orgasmo, allora possiamo affidarci anche a una macchina, a un circuito elettronico che simuli la realtà vera e la sostituisca con quella virtuale. Non occorrerà più stringere l’altro fra le braccia; basterà stringere un “tu” virtuale, ossia una proiezione del proprio io.

Ma l’io che sa dire solamente io, che nell’altro non sa più vedere il tu, è sterile: ed è condannato a vivere in un deserto nel quale, alla fine, sparirà, senza aver lasciato traccia del suo passaggio…


Francesco Lamendola

 




  

 
Impeachment? PDF Stampa E-mail

13 Giugno 2013

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Il presidente Usa Barack Obama rischia davvero di essere spodestato con un procedimento di Impeachment voluto fortemente dai repubblicani e verosimilmente sostenuto anche da una parte dei democratici, al punto che egli sarà probabilmente costretto a dimettersi prima che ciò accada, per evitare il peggio, e tutto questo a causa del nuovo scandalo del “datagate”, detto anche “webgate”. Fbi e Nsa, hanno spiato per anni ogni forma di comunicazione negli Usa e nel mondo; per molto meno, Richard Nixon fu messo in croce, obbligato alle dimissioni per evitare appunto il procedimento di Impeachment, e a causa di quella “indecorosa” fine, Nixon passò alla storia come uno dei peggiori presidenti della storia Usa, soprannominato addirittura “Nixon il boia”. Se l’amministrazione Nixon fu accusata di “abuso di potere”, allo scopo di indebolire l’opposizione politica dei movimenti pacifisti e del Partito democratico, cosa dovremmo dire dell’amministrazione Obama che "spiava" gestori, società web e carte di credito di tutti i cittadini nel mondo? Quello che valse per Nixon, deve valere ancor più per Obama, considerando che qui la cosa è ben più grave. L’America repubblicana potrebbe in questo modo prendersi una rivincita su quella democratica che sul “caso Nixon” ha sempre speculato; infatti, Watergate a parte, Nixon non fu per niente un pessimo presidente; la guerra in Vietnam non fu lui a volerla, ma Kennedy, e fu aggravata da Johnson, mentre Nixon riportò i soldati a casa, abbandonò lo standard aureo per il dollaro, normalizzò i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese, realizzò la più significativa riforma delle politiche ambientali dai tempi di Theodore Roosevelt, e firmò a Mosca il trattato per la limitazione delle armi strategiche (SALT), con Leonid Breznev.

Lo scandalo del Webgate è moralmente molto grave; Obama ha rilevato come non si possa avere sicurezza e privacy entrambi al 100% ma la nazione che è definita retoricamente “la più grande democrazia del mondo” non può comportarsi come l’OVRA del fascismo o il Kgb sovietico. E questo ci spiega anche perché è assolutamente sbagliato sperare nella “web-democrazia” grillina del Movimento 5 stelle; il web sembra in realtà un mezzo in più attraverso il quale le oligarchie cercano di completare il loro controllo globale e giungere al governo mondiale.  

Tuttavia, potevamo realmente credere che le cose non stessero così? E soprattutto, non ha forse ragione Obama quando afferma che il Congresso Usa sapeva? Quelle leggi non sono state fatte da lui, ma dal suo predecessore, Bush, e se Obama ha avuto la colpa di non cambiarle, non è stato certo solo, la verità è che l’11 Settembre è stato usato (provocato?) per giustificare gli interventi militari in Afganistan e Iraq, e per fare delle leggi speciali, che, di fatto, trasformano la democrazia in una “dittatura strisciante”. E allora perché Obama è finito bersaglio di questo scandalo? Semplice, perché una gran parte dell’America vuole liberarsi di lui; lo vuole l’America “bianca”, che non ha mai sopportato un afroamericano alla Casa  Bianca, lo vuole l’America conservatrice, che non accetta un Presidente così “liberal”, l’America oligarchica e capitalista, che non apprezza le sue politiche economiche e fiscali di matrice keynesiana e socialista, e soprattutto l’America “interventista”, che non perdona un presidente così neutralista o esitante, sull’ipotesi d’intervento militare contro Siria e Iran. Intanto, Francia e Inghilterra insistono nell’affermare che vi siano prove inconfutabili che il governo siriano abbia usato armi chimiche contro i ribelli (sebbene, altre fonti affermino che le abbiano invece usate i ribelli), e per questo minacciano d’intervenire, anche militarmente. Obama sembra però esitare, dichiarando che le prove certe dell’utilizzo di armi chimiche non ci siano. È noto che se al suo posto ci fosse il suo vice Joe Biden, gli Usa sarebbero in guerra già da un pezzo, perciò non è difficile capire che come al suo tempo lo fu Nixon, Obama è oggi vittima di un complotto che cerca di scaricare unicamente su di lui responsabilità generali. Oltretutto circolano voci che gli Usa abbiano intenzione di comprare i Titoli di Stato italiani. Questo, secondo qualcuno, salverebbe l’Italia dal debito pubblico, ci libererebbe dall’Euro e dall’Ue germanocentrica, e rilancerebbe l’economia mondiale. Invece, se così fosse, si rischierebbe di passare dalla padella alla brace, perché gli Usa lancerebbero un Opa su Italia ed Europa, senza considerare che se anche rilanciassero “la crescita”, resteremmo imprigionati dentro il medesimo modello di sviluppo capitalista, destinato comunque a implodere successivamente, con conseguenze ancor più gravi, poiché il modello basato sulla crescita continua è insostenibile. C’è il serio rischio che le due cose siano collegate, che gli Usa stiano cioè tentando l’assalto finale di una guerra che è sia economica sia militare, il tentativo Usa di imporre un nuovo secolo americano, dove l’impero Usa sia ancor più globale e autoritario. Per fare questo hanno bisogno di un uomo forte al comando, che intenda proseguire su questa linea, ed ecco perché, con molta probabilità, Obama sarà fatto cadere, per essere sostituito da Joe Biden

Gianluca Donati

 

 

 

  

 
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