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La mistica del lavoro PDF Stampa E-mail

17 Maggio 2013

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Da Rassegna di Arianna del 29-4-2013 (N.d.d.)


C’è la disoccupazione, c’è in tutto il mondo. Alcuni anni orsono (1995) è stato pubblicato un libro intitolato La fine del lavoro (di Jeremy Rifkin) ristampato da  Mondadori nel 2005: ma non c’è bisogno di scomodare tanta autorità, è sufficiente un’occhiata sommaria al mondo di oggi rispetto a quello di qualche anno fa, per rendersi conto che il lavoro per tutti non c’è più, e non potrà mai esserci, se continuiamo a pensare come prima. Dove c’erano 50 impiegati, ora ne basta uno con un computer che ha tutte le informazioni e fa quasi tutto. Dove c’erano migliaia di operai, basta qualche macchina. E si continua a pensare di dare lavoro a tutti “aumentando la produzione” e continuando con gli stessi principi di prima!

Tutto questo è completamente assurdo. Intanto l’umanità, che già conta più di sette miliardi di individui, aumenta di 90 milioni all’anno: tutti dovrebbero “trovare lavoro” in questo modo! Poi si vuole ottenere anche l’”integrazione” degli immigrati, che significa farli vivere da occidentali, si vuole in sostanza occidentalizzare tutta l’umanità, ridotta ad una massa informe ed uniforme di consumatori: un solo modello culturale. In realtà può esistere una società multietnica, ma non può esistere una società multiculturale, malgrado le parole dei politicanti: infatti tutti dovrebbero vivere secondo i principi dell’Occidente e inseguire senza posa l’aumento del processo produrre-vendere-consumare, che dovrebbe “dare lavoro” a tutti con la crescita senza fine, alimentando la spirale dell’eterno desiderio. In questo modo c’è una cultura sola, un unico modello. A chi importa se questo processo sta letteralmente divorando la Terra? A Lampedusa continuano a sbarcare migliaia di africani, ma nessuno dice chiaramente che in Africa c’erano 30-40 milioni di umani a metà dell’Ottocento e ora ce ne sono un miliardo!

 

Il problema della disoccupazione non potrà mai essere risolto, ma si aggraverà sempre più se si vogliono mantenere i “sacri” principi dell’Occidente moderno. Occorre partire da altre basi, occorre abbandonare completamente: la competizione economica, la globalizzazione, la crescita, il mercato e i consumi. Invece, se si mantengono tali premesse, i problemi del mondo sono chiaramente  insolubili. Queste sono i punti-chiave che causano i guai della Terra e provocano anche la disoccupazione diffusa. Il cosiddetto lavoro, modificato profondamente nei significati, non potrà occupare mediamente più di due-tre ore al giorno a testa, e qui si continua a pensare alle otto-dieci ore al giorno, e due giorni di sosta alla settimana, magari per andare a spendere e consumare. E a dire che “bisogna lavorare di più”!

Di solito nel nostro mondo si è formata l’idea che il lavoro sia sempre qualcosa di positivo, da premiare indipendentemente da ogni altra considerazione. Così si pensa che chi lavora di più debba automaticamente guadagnare di più, che in sostanza sia più bravo di chi lavora di meno: il lavoro ha acquistato un valore etico in sé, anche se spesso danneggia l’intero Organismo terrestre o contribuisce a gravi patologie della Biosfera. Non si è mai tenuto come valore etico il mantenimento in condizioni vitali della Biosfera terrestre, oppure degli ecosistemi di cui un processo fa parte. È invece indispensabile avere sempre presente questa percezione, tenere come primo valore l’etica della TerraAnche la divisione fra lavoro e tempo libero è soprattutto propria dell’Occidente, nasce in gran parte dal mito delle origini della cultura giudaico-cristiana-islamica, che si basa sulla Genesi dell’Antico Testamento, dove un Dio esterno al mondo, dopo aver lavorato sei giorni, il settimo si riposò, cioè si prese il suo tempo libero. In tante altre culture umane questa distinzione non esisteva.

 

Forse bisognerà abbandonare anche il denaro: dopotutto moltissime culture ne hanno fatto a meno per migliaia di anni. Non stiamo parlando di qualche articolo di legge sul lavoro o di ritoccare il sistema fiscale, o delle miracolose ricette di qualche giuslavorista, stiamo parlando della fine dell’Occidente, che è qualcosa di molto più grande. Che dire poi dei “valori” di questo mondo attuale? Solo un esempio: ha più “prezzo monetario” qualche metro quadrato di uno squallido parcheggio urbano, fatto di inerti puzzolenti di benzina e di gas di scarico, che non qualche ettaro di bosco, complesso di esseri senzienti in grado di vivere e autosostenersi a tempo indefinito. E’ proprio un mondo alla rovescia, quindi non è pessimismo pensare che la sua fine è vicina. Speriamo che dopo nasca qualcosa di meglio.

 

Guido Dalla Casa

                                                                                   

 

 

               

          

 



 

 
Carosello reloaded PDF Stampa E-mail

15 Maggio 2013

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A volte la vita ha degli sviluppi talmente incredibili che sembra una sceneggiatura di Mario Puzo, quasi che questa fosse la prova di una volontà divina creatrice che ordina in modo apparentemente disordinato il corso della storia umana. Sul palcoscenico della vita italica, sono accadute, da sempre, cose veramente strane, come ad esempio che un leader come Silvio Berlusconi fosse dato per più volte politicamente defunto, e poi vederlo resuscitare come l’Araba fenice. Certo l’ultima resurrezione alla quale abbiamo assistito è stata, come ha recentemente illustrato Massimo Cacciari, la più sbalorditiva, e l’intellettuale veneziano ha giustamente attribuito al Pd la responsabilità piena di quanto accaduto. Ma non è di questo che voglio qui parlare, ma di ben altro.

Oramai dovrebbe essere evidente a tutti, che il governo Enrico Letta è la Democrazia cristiana, 2.0, una versione aggiornata alle nuove mode, giovanilista, tecnocrate, europeista. Una strana volontà del destino ha voluto che nell’istante stesso in cui questa nuova Dc prendeva vita, si spengesse il più controverso tra i protagonisti della politica della Prima Repubblica, vale a dire il senatore Giulio Andreotti. Non spenderò neppure una parola per questo politico, poiché è stato già detto tutto ma ancora non sappiamo quanto ci sia di vero e quanto di falso. Piuttosto, ciò che m’interessa segnalare è che nel momento in cui la nuova balena bianca inizia la sua nuotata negli oscuri oceani della politica italiana, guarda caso (e non è un caso), la RAI decide di proporre un prodotto televisivo nuovo, che sa d’antico (come il governo Letta); Carosello Reloaded. Quando ho saputo dell’idea di rifare il Carosello, mi è scappato da ridere, perché ho subito intuito che quest’operazione di restaurazione nostalgico – conservatrice è il primo evidente tentativo di attivare un’azione culturale democristiana. La Dc, com’è noto, non ha mai fatto “cultura” nella maniera del Pci (eccezion fatta di taluni artisti e intellettuali schierati con il fronte cattolico), ma l’ha sempre fatto attraverso la TV, la pubblicità, e almeno in un primo momento, con le “canzonette”. In questo, effettivamente, Berlusconi e il suo “nuovo fronte moderato” ne è stato il diretto erede, ma rovesciandolo in senso “laico - liberale”. A sconfiggere la DC non fu la sinistra, ma Craxi e Berlusconi, che con le loro televisioni private e i nuovi “spot” pubblicitari distrussero l’egemonia della RAI e quindi l’egemonia DC. Certo la RAI non era tutta DC, anche il PSI (e successivamente il PCI), controllava parte della televisione pubblica, ma il colpo decisivo arrivò dalle televisioni private e in particolare da quelle di Berlusconi. Se almeno in un primo momento ciò portò anche a una “liberazione”, nel senso di un processo di “laicizzazione” e di “destatalizzazione”, ben presto fu evidente la successiva degenerazione. In principio fu “e lei è una stronza!” di Vittorio Sgarbi al Maurizio Costanzo Show, e poi una deriva continua di stupidità e volgarità. La cosa cominciò a peggiorare ulteriormente quando Fininvest divenne Mediaset, e aprì così a quote di mercato straniere, in primis Endemol. La RAI fu poi contagiata dal virus letale, perché a causa dell’infame “auditel” si poteva verificare che la TV spazzatura otteneva più ascolti di quella colta, e quindi la TV pubblica, oltre che aprire alla pubblicità, dovette anche copiare quella privata sul piano dei contenuti. La concorrenza tra pubblico e privato condusse a una competizione giocata sul ribasso, dove si gareggiava a chi cadeva sempre più nel cattivo gusto e ciò ha significato la crisi della TV, spingendo molti (anche giovani) a cercare rifugio sul Web. Possiamo così concludere che Berlusconi ha cominciato a fare danni a questo paese ben prima che scendesse in politica, e forse è stato più letale come imprenditore che come politico. La TV ha poi aiutato il Cavaliere a scendere in politica e a ottenere il successo desiderato, e come politico ha così potuto estendere anche su tutti gli altri aspetti della società il suo “verbo liberista”. A dire il vero poi, come leader politico e come Premer, non è che si sia rivelato così liberista. Egli non ha mai realizzato – forse per mancanza di capacità o di coraggio – le “riforme” ultraliberiste che sono state realizzate negli USA di Reagan e nell’Inghilterra della Thatcher. Però tutta quella “povertà intellettuale” e quella rozza volgarità ch’egli aveva propagandato con le sue TV, si è tradotta anche in azione politica, e questo è il motivo che spiega perché in vent’anni di centrodestra non si è visto uno straccio di “cultura di governo” o, per dirla alla Marcello Veneziani, di “cultura di destra”. Se la DC era incapace (o disinteressata) a fare “cultura”, almeno “istruiva”, con programmi come “Non è mai troppo tardi”, informava (o disinformava) con telegiornali e rubriche di approfondimento, educava, attraverso una televisione elegante e pulita, e intratteneva, in modo semplice e mai volgare. Ciò che la DC usava per mantenere un senso di “etica” e di “estetica”, il centrodestra berlusconiano, ha viceversa usato per incoraggiare all’egoismo consumistico e all’elogio del “pecoreccio”; TV e pubblicità sono diventate il principale strumento di propaganda dell’ideologia liberista, capitalista, consumistica. In questi ultimi 20-30 anni, abbiamo dovuto assistere a una continua discesa verso il triviale, sia sul piano etico sia su quello estetico, il popolo è stato “diseducato” e imbarbarito. Non si deve pensare che sia stata qualcosa d’involontario. Già negli anni 80, quando il Cavaliere non era in politica, egli dichiarò: “Con Dallas, Drive In e il Maurizio Costanzo Show, cambierò gli italiani!”. E purtroppo li cambiò davvero, ma in peggio. Uscire dal clericalismo per approdare a un’Italia laica sarebbe stata cosa buona, ma ciò che è accaduto non è esattamente questo, perché la laicità non preclude “l’eticità” e uno Stato laico può essere “etico”, anzi, deve esserlo; uno Stato, o è etico, o non è! Al moralismo clericale, occorreva sostituire l’etica del senso civico e al posto dell’ipocrisia, la responsabilità. Invece si è svuotato lo Stato di ogni senso sociale e morale, i partiti si sono indeboliti e hanno abdicato per consegnare ai poteri della finanza nazionale e internazionale il controllo di ogni aspetto della società. Il capitalismo globale appare una guerra fra bande, poteri economici che si scontrano tra loro contendendosi i brandelli della società, ridotta a una massa di consumatori. Le responsabilità politiche e imprenditoriali di Berlusconi sono pesantissime, ma sono avvenute grazie alla complicità dei suoi avversari che si sono sempre più avvicinati alle sue posizioni, fino ad arrivare a governarci assieme. Ecco perciò che la notizia del ritorno del Carosello mi aveva trovato favorevole perché poteva essere un segnale di “retromarcia” e, infatti, prima ancora che andasse in onda il primo nuovo Carosello, Nino Materi ha scritto un articolo su “Il Giornale” sparando contro l’idea di tornare a Carosello e, non soddisfatto, ha anche criticato la nostalgia vintage, di descrivere gli anni 60, 70, 80, come migliori dei decenni successivi, il che per essere un quotidiano di orientamento moderato-conservatore, è alquanto incoerente. Ma questo è il centrodestra italiano, non un partito conservatore ma un partito liberista, di un cinismo e un’ignoranza spaventosa. A prescindere dal fatto che il ritorno del Carosello significherebbe la rovina patrimoniale per Berlusconi, è proprio “l’idea culturale” che si paventa, dietro a questa “operazione nostalgia”, ovvero il timore di tornare all’idea che la TV, pubblica o privata che sia, svolge un’attività pubblica, e quindi ha un dovere “formativo”. Purtroppo però, il Carosello 2.0 è come il governo neodemocristiano di Letta e il nome Carosello Reloaded ne era già una chiara anticipazione. Quel termine inglese piazzato lì per non far apparire troppo retrò il termine che lo precede, fa talmente orrore che meriterebbe la querela. Quando poi provi a vedere questo nuovo Carosello, si assiste a un’autentica presa per i fondelli, poiché di Carosello non ha nulla, è una semplice sequenza di spot, un po’ allungati, con voci narranti in sottofondo. Può essere che per adesso non abbiano avuto il coraggio di girarli come quelli autentici, e che successivamente ci stupiranno, ma ne dubito profondamente e penso che il governo Letta assomigli al nuovo Carosello: “Vorrebbe essere qualcosa che fu, ma non osa”. Se prosegue così, il nuovo Carosello durerà poco. E anche il governo Letta … 

Gianluca Donati

 

  

 
Ritorno all'agricoltura? PDF Stampa E-mail

12 Maggio 2013

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Da La Voce del Ribelle del 7-5-2013 (N.d.d.)

 

Secondo quanto riportato da un recente rapporto Coldiretti, sono sempre più numerosi i giovani che scelgono il ritorno all'agricoltura.Sono i genitori stessi a consigliare ai propri figli un futuro lavorativo nel settore agricolo, in primis appoggiando la scelta di iscriversi alle facoltà universitarie di scienze agrarie e Zootecniche. A confermare tale tendenza, l'incremento del 26% delle immatricolazioni in questi corsi di studio, con una percentuale di donne pari al 40%, in netta contrapposizione con il calo generalizzato delle iscrizioni nelle università italiane. Il giovane agricoltore di oggi è nel 68% dei casi diplomato e nel 15% laureato, con una buona preparazione scientifica e una forte competenza nell'utilizzo dei nuovi strumenti multimediali. Io, in tutto questo, ci leggo un risveglio del fondamentale istinto alla sopravvivenza. Un vagito di reazione antimoderna. 

La modernità, ha detto qualcuno, si fonda sulla solitudine: individui-atomi solitari che si aggregano sulla base dello scambio di merci – la desolazione più sconsolante e disperata. Peggio: nasce da una scissione. L’uomo moderno è un orfano, si porta nel sangue la tara originaria della separatezza da un senso sacro dell’essere, della natura, della sua stessa esistenza. Non adora più, non rispetta più, non crede più. Non ama più. È un distruttore, un sovvertitore, un barbaro, uno straniero a se stesso e al mondo. Nella sua parabola ha rovesciato l’umanesimo in delirio individualistico, ha ridotto l’ideale della libertà di pensiero a licenza e anarchia degli istinti, la prosperità materiale in totalitarismo della merce e del mercato, l’illuminismo in nichilismo, il nichilismo in capitalismo assoluto, l’universale in conformismo globale, la filosofia in intellettualismo, la ragione in fede irrazionale nella scienza, la religione in folklore, le leggi naturali in formulette da laboratorio, la comunicazione in virtualità. È scavato dentro, spiritualmente in coma, un automa da lavoro e col mutuo da pagare. È l’ultimo uomo di nicciana memoria. 

Ha perduto la facoltà di sentire il divino che giace nel profondo delle sue viscere. Gli déi se ne sono andati, lo hanno lasciato, e il distacco lo ha reso un bambinone stupido e presuntuoso, che gioca con la Tecnica a fare e disfare il mondo come se questo fosse materia bruta di sua proprietà. È il figlio del cosmo, e pensa di esserne il creatore e padrone. Questa tracotanza ha la sua inquietante ombra nel vuoto che lo assale e lo divora. Tanto più si vede forte e invincibile grazie all’onnipotenza tecnologica che produce un’abbondanza spaventosa di ricchezze economiche, tanto più il mostro della solitudine, fra tutti questi oggetti scintillanti e conoscenze vanagloriose, gli desertifica l’anima. 

Come se ne esce? Ritornando alla realtà. È dura, la realtà. Ma anche meravigliosa. È eraclitea: bene e male fusi insieme – non può essere solo bene, come vorrebbe farci credere la pubblicità. È irta di ostacoli, costellata di limiti, gravata dal peso della necessità (la “terra è bassa”). Ma è anche volontà, aspirazione, creazione. Bene, ora che il nichilismo è compiuto, si può riprendere in mano la sfida di colui che l’aveva diagnosticato e previsto: Nietzsche il folle. La sua mente collassò per l’implosione psicologica di anni e anni di solitudine, metafora dell’assenza di forza divina. Il suo Superuomo vuole essere dio di se stesso, atrocemente consapevole del non-senso dell’universo e, contemporaneamente, dionisiaco creatore di leggi e forme di vita. Ma questa tensione è veramente sovra-umana, l’uomo è incapace di sopportarla. Non può farsi dio senza credere agli déi. Deve esserci qualcosa più grande di lui, non può essere la sua volontà di potenza il principio e la fine del senso da dare all’Essere. L’alternativa è impazzire, come capitò al filosofo crollato per aver troppo represso la compassione, l’amore verso il prossimo, il dono di sé. 

La nuove tavole di valori devono basarsi sì sulla fedeltà alla terra, come insegnava Nietzsche-Zarathustra, ma una terra piena di déi, profondamente presenti in noi e fuori di noi come tali, come potenze vive che ci dominano. Non come illusioni coscienti d’artista, non come se noi dominassimo loro. Il nostro destino non è nelle nostre mani, ma nelle loro: questa saggezza tragica va ripresa alla lettera. 

Ma quali déi? Dopo tanta secolarizzazione e disincanto, dopo che Dio è morto, richiamarlo in vita, per l’uomo europeo, è un’impresa terribile, difficilissima. Ma non impossibile, se pensiamo che è la natura il suo regno visibile. Rinaturalizzare la vita, ridimensionando tutto l’apparato artificiale, economico-tecnologico, che le abbiamo sovrapposto fino a soffocarla: ecco la via maestra. All’alba del terzo millennio, un contadino, un vero contadino – non specializzato e industrializzato, ma quello che se volesse vivrebbe benissimo in una magnifica autarchia, con la sua porzione di mondo e i suoi cari – è già di suo una speranza, un autentico sabotatore del sistema.  Il più reazionario, il più rivoluzionario. Inconsapevolmente, si capisce (quei giovani neo-agricoltori non ci vanno con Nietzsche sotto il braccio, ma se lo portano dentro, senza saperlo). 

Alessio Mannino 

 
Dopo le elezioni PDF Stampa E-mail

9 maggio 2013

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Prima delle elezioni fu pubblicato un mio articolo su “Il Giornale del Ribelle”, nel quale ardivo una previsione: trionfo di Grillo, scarso risultato dei “montiani”, pareggio sostanziale tra centrodestra e centrosinistra, e convergenza “al centro”, per un governo “di larghe intese”, sul quale “i poteri forti” avrebbero cercato di costruire una nuova Democrazia cristiana, di matrice “tecnocrate”. Questa previsione è stata centrata in pieno, al contrario di quello che avevano previsto quasi tutti i giornalisti e opinionisti. Dove viceversa non ho indovinato, è stata la previsione di Quirinale e Palazzo Chigi, dove avevo immaginato Amato per il primo e Monti - bis per il secondo. Sia ben chiaro, Monti ci ha provato a farsi il bis, ma il suo risultato elettorale è stato un disastro e Napolitano non gli ha perdonato di non aver mantenuto la promessa di non candidarsi. In quanto ad Amato, il suo nome è circolato per il Quirinale, assieme a quello di altri personaggi, ma sappiamo poi com’è andata a finire. Lo stallo alla Camera e al Senato è stato talmente paralizzante che ha fatto saltare tutte le precedenti manovre, inoltre Bersani, che ha condotto una campagna elettorale tra le peggiori della storia della politica italiana, è riuscito successivamente a superarsi in mediocrità, quando ha tentato di farsi conferire l’incarico a guidare un governo. Bersani ha probabilmente creduto che i “5 stelle” fossero facilmente condizionabili e, sommato alla loro totale inesperienza, era convinto che li avrebbe facilmente messi nel sacco. Per quanto il Pd abbia sempre pubblicamente negato, la sua speranza era di una spaccatura dei grillini, e quindi nel fatto che una parte del 5 stelle avrebbe alla fine votato la fiducia al suo governo. Se la manovra è riuscita per l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, Bersani ha fatto clamorosamente cilecca quando si è trattato di prendersi il Quirinale, ed era quella la partita decisiva. Che al PdL non importasse un fico secco di prendersi la presidenza del Senato, lo conferma il fatto che ha riproposto Schifani. Il centrodestra sperava che il Senato andasse al centrosinistra, per giocarsi tutto per il Quirinale, ma se il Cavaliere ha vinto la partita, è stato a causa degli errori tattici di Bersani e delle laceranti divisioni che hanno spaccato il Pd; considerando che Bersani sperava di ottenere la fiducia con il sostegno di almeno una parte del 5 stelle, ma si teneva anche come carta di riserva la possibilità di riversare su Grillo la responsabilità di un eventuale fallito accordo, non si capisce per quale motivo Bersani si sia incaponito sul no a Rotodà. O meglio il motivo lo sappiamo, e cioè che quel nome non era gradito alla parte “cattolica centrista” del Pd, perché considerato un “mangiapreti”, ma proporre Marini ha significato porre la pietra tombale su qualsiasi accordo con i grillini. Marini, infatti, presupponeva un “accordo” con il PdL e Berlusconi. A quel punto, i rappresentanti del Pd, inteso come partito unico del centrosinistra, hanno impallinato Franco Marini, anche per impedire “l’inciucio” con il centrodestra, che ne sarebbe derivato dall’elezione di Marini, e successivamente, anche come ritorsione, l’altra componente del Pd, centro-sinistra (con trattino), ha affondato Prodi, che, di fatto, sarebbe stato la negazione assoluta a qualunque possibile dialogo con il centrodestra. Nel momento nel quale il fondatore dell’Ulivo prima e del Pd dopo, è clamorosamente bocciato dal centrosinistra stesso, diventa palese che il Pd perde su tutti i fronti. Per metterci una pezza, ha riproposto Napolitano, che, sostenuto anche dall’altra parte del Parlamento, ha avuto una fiducia bulgara. Bersani non poteva più sperare di andare a Palazzo Chigi e, poiché come capo dello Stato è rimasto un laico, come nuovo Presidente del Consiglio è stato scelto un cattolico come Enrico Letta.  Tuttavia, ancora una volta viene il sospetto che gran parte di ciò che è accaduto fosse stato pianificato da tempo. Da quando Monti diventò Presidente del Consiglio, i due Letta, Enrico e lo zio Gianni, hanno improvvisamente acquistato una strana riverenza. È indispensabile ricordare ancora una volta che Gianni Letta è un gesuita (come Mario Monti) e che suo nipote Enrico ha ammesso pubblicamente di appartenere al Gruppo Bilderberg. Un’altra assidua frequentatrice dei salotti buoni della finanza internazionale, è Emma Bonino, che è stata scelta come ministero degli esteri, il peggio che si potesse immaginare per la Farnesina, considerando anche la sua linea completamente piegata agli Usa e Israele, e infatti, appena nominato, il Governo Letta è stato subito ben accolto da Israele. Per quanto riguarda il resto del governo, a parte qualche eccezione, sembra una riedizione della vecchia Democrazia Cristiana. Questo governo si trova quindi la benedizione di tutti i poteri forti: finanza, Vaticano, Ue, Usa, ecc.

Per quanto riguarda Napolitano, gli Usa avevano pubblicamente dichiarato di auspicare un suo secondo mandato; esauditi! Uno dei peggiori Presidenti della Repubblica della storia italiana, che ha ordinato di distruggere le intercettazioni telefoniche che ci furono tra lui e Nicola Mancino sulle presunte trattative tra Stato e mafia, il Capo dello Stato che ha esercitato un potere sulla nazione come se fossimo in regime presidenziale, che ha spinto Silvio Berlusconi a dimettersi, e imposto il governo tecnico di Mario Monti, non eletto, che ha in un anno impoverito il popolo italiano e fatto gli interessi di banche ed Europa.

Tuttavia è difficile pensare, considerando anche l’età avanzata, che Napolitano possa restare al Quirinale per tutto il nuovo settennato, né facile che questo governo di larghe intese possa durare a lungo, giacché dopo le prime ore dal voto di fiducia al Senato cominciava già a traballare sulla spinosa questione dell’IMU. Infine, sebbene per il momento il Pd sia rimasto compatto, non è escluso che presto si assista a un’implosione del partito e che una parte, quella più a sinistra, decida di defilarsi.

Un’ultima considerazione è doverosa nei confronti del Movimento 5 stelle; alle elezioni in Friuli Venezia Giulia, il movimento grillino si è notevolmente rinsaccato. Inviterei alla cautela su possibili  previsioni, perché stiamo parlando di un dato locale e non nazionale, inoltre non sappiamo ancora quando andremo a nuove elezioni e cosa accadrà prima di quella data. Tuttavia, quel risultato elettorale, unito a ciò che sembrerebbero confermare anche tutti i sondaggi, indica una possibile tendenza, e cioè che “l’onda lunga” del Movimento 5 stelle si è arrestata e sta subendo probabilmente un processo di riflusso. Anche questo fatto l’avevo largamente preannunciato all’indomani delle elezioni, in un altro mio articolo, quando Massimo Fini si era spinto invece in una sua ardita previsione, che io definii eccessivamente ottimistica. In un successivo ottimo articolo, uscito proprio in questi giorni, Fini muove le sue prime, precise critiche sulla tattica scelta da Grillo. L’analisi di Fini è ineccepibile, e personalmente aggiungerei che, tattica a parte, il tallone d’Achille del Movimento 5 stelle è la totale inconsistenza politico-culturale, l’inesperienza dei suoi eletti, la mancanza di credibilità di giovani pur dotati di buona volontà. Alcuni di loro non sapevano neppure che per Costituzione il Capo dello Stato deve avere almeno cinquant’anni, altri non sapevano chi fosse il Presidente della BCE. E soprattutto, la cosa più importante, è indispensabile comprendere che c’è una parte di eletti e di elettori del “5 stelle” che, seppure non lo ammettano pubblicamente, si sentono “di sinistra” e la totale chiusura a possibili accordi con il Pd e Sel non è andata loro a genio; infatti, si registrano le prime divisioni al suo interno e persino defezioni ed espulsioni. Del resto, questo misto di “democrazia diretta” e leaderismo genera contraddizioni che prima o poi dovranno esplodere, con tutte le conseguenze del caso.

Gianluca Donati

 

 

  

 
L'allucinazione della Modernità PDF Stampa E-mail

5 Maggio 2013

 

Da Rassegna di Arianna dell’1-5-2013(N.d.d.)

 

 

La crisi che ha colpito l’economia globalizzata sembra aver raggiunto davvero l’Armageddon, in cui il declino del capitalismo annuncia al contempo la sua fine e la gloria onnipervasiva della tecnica, ormai sulla soglia della soluzione finale. La modernità che abitiamo scarta verso destini incontrollati, rincorrendo l’illusione di infinitizzarsi in quello che, però, è l’incubo di una società della crescita senza fine, né fini. E il rischio attuale è proprio quello di ignorare – perché non si è neppure in grado di cogliere – il pericolo di una società s-finita, che persegue fini distruttivi e sforma l’essere-terra in un essere inabitabile e depauperato. Lo spettacolo è desolante, tutto fila via verso la distruzione, e la dittatura della tecnica non sembra ancora avere rivali attrezzati. L’ubriacatura del progresso continuo e illimitato rende i singoli individui dei compratori illusi, voraci e infelici, dei clienti fidati, come oggetti manipolabili, e acquirenti affetti da manie ossessivo-compulsive. Eppure dovremmo capire – non è così complicato – che la finitezza di questo mondo pone a ciascuno di noi dei limiti precisi alla prometeica volontà di trasformare la realtà secondo i propri interessi economici. Tuttavia è un fatto che avvenga il contrario: sarebbe opportuno indagare in profondità il perché.

 

Il fenomeno tecnico è ormai totalizzante, globale; da alcuni decenni, l’uomo, come la macchina, viene ridotto a mero oggetto tecnico, a ingranaggio-robot: condizione questa che non lo rende solo subordinato alla tecnica, ma in un certo senso lo sfinisce, lo marginalizza progressivamente verso l’ambito crudo dello strumento.

Certo, non possiamo negarlo, nel corso degli ultimi decenni la tecnica ha risolto all’uomo un gran numero di problemi materiali, ma ha tuttavia al contempo nascosto gli effetti collaterali che il processo evolutivo portava con sé. Il lavoro, da sempre considerato un mezzo, nell’orizzonte folle della crescita esponenziale si eleva al rango di fine: per l’uomo moderno, esso – il lavoro – non è più l’esercizio con cui si realizza qualcosa, un bene, ma rappresenta il mezzo di scambio fra la merce-uomo e gli oggetti acquistabili (mezzi, anch’essi, dello sviluppo capitalista, perché il loro acquisto continuo determina la domanda costante e quindi stimola la produzione del bene stesso). Si lavora per vivere da acquirenti, o meglio si vive con l’obiettivo principale – se non unico – di comprare: e si lavora anche per comprare quei prodotti che ormai non siamo più in grado di autoprodurci da soli, perché abbiamo disimparato ad occuparci dei nostri interessi immediati. All’interno di questo circolo vizioso, l’idea del lavoro buono, inteso come il risultato di un’azione produttiva, viene sostituita dal concetto indiscutibile e tendenzioso della remunerazione del proprio tempo: da qui l’emersione del totem «il tempo è denaro».

Nonostante i tentativi continui dell’intellighenzia finanziaria e capitalista, la fede nella crescita esponenziale del profitto si mostra sempre più nuda nella sua insana follia di tendere all’infinito in un mondo dalle risorse limitate. E forse, si dirà, è troppo tardi per rimediare, o se non lo è – se siamo ancora in grado di scorgere un barlume di umanità fra noi – il compito di ripensare l’umano a partire dal limite si presenta complicato, per non dire disperato. Certo, può darsi che la cicatrice permanga, ma non si può lasciare nulla di intentato: dallo studio dei sintomi si giungerà a curare la malattia ch’è ormai quasi cronica.

Il sintomo è chiaro: l’homo capitalisticus-tecnicus, vittima di un diabolico meccanismo allucinatorio, non sembra in grado di ammainare la bandiera ideologica del progresso inesauribile. Dal suo cantuccio moderno, egli pensa di ovviare alla crisi economica intervenendo sul rapporto fra i costi e i ricavi, non cogliendo invece l’inesorabilità del declino cui la società capitalista è ormai destinata. L’aumento esponenziale dell’entropia, il mito della scienza e il totalitarismo della tecnica emergono con violenza dalle nebbie esistenziali contemporanee, e si incrostano nel fondo della coscienza obnubilata dagli egoismi e dai vizi. E proprio alla denuncia dei vizi oscuri della modernità contribuisce non poco il poderoso e penetrante studio, L’allucinazione della Modernità, scritto da Pier Paolo Dal Monte, medico e filosofo di sorprendente erudizione.

Il volume, costituito nel suo complesso da quattro sezioni, disvela l’allucinazione con cui la modernità, plasmata dal mito del progresso illimitato, sta distruggendo il mondo. La prima parte del saggio consiste in una disamina critica dell’ideologia che sottostà al modello di sviluppo capitalista. L’autore, con sensibilità e perspicacia, mette in evidenza l’insostenibilità energetica e ambientale di una crescita senza limiti con particolare riferimento alla produzione di cibo e al consumo esasperato di idrocarburi, che determinano a caduta l’incremento nel consumo di petrolio, nonché l’aumento diretto del riscaldamento globale del pianeta.

Nella seconda sezione del lavoro, l’Autore racconta con puntualità e con raffinata lucidità, l’evoluzione storico-filosofica della genesi del pensiero moderno, fino a dare conto della struttura teoretica su cui poggiano i dogmi della crescita infinita e del dominio del mondo. Fra le righe emerge anche un’interessante analisi storica della civiltà industriale, accompagnata dalla segnalazione di alcune follie proprie dell’homo capitalisticus-tecnicus. Ha pienamente ragione Dal Monte quanto denuncia la bruttezza estetica dell’industrializzazione. «L’industriale – scrive, riportando un passo Elemire Zolla – è stato il primo uomo nella storia a preferire il brutto al bello. Dove ha steso la sua mano ha distrutto l’arte» (II, V, p. 168). Così come condividiamo la descrizione delle schizofrenie prospettiche del capitalismo contemporaneo, allorché «si arriva al paradosso che un appartamento situato in un orrendo palazzo, circondato da edifici parimenti sgraziati, in una zona di grande traffico, afflitta da un frastuono incessante, possa avere un valore di scambio (ovvero un prezzo) assai più elevato, rispetto a quello di una bella dimora situata in un’amena e silenziosa campagna, con un vasto terreno attorno e uno splendido panorama (in poche parole una vera casa). Questo è dovuto all’ipnosi di massa che guida la mano invisibile del mercato» (II, V, p. 162).

La radicale messa in discussione della mitologia moderna è presente un po’ ovunque fra le pieghe della riflessione di Pier Paolo Dal Monte, ma prende corpo in particolare nella terza sezione del volume. L’autore mette molto bene in evidenza il principio indiscutibile dell’ideologia tecnologica, che pone le sue radici sulla crescita assunta come un bene in sé. Eppure in natura la crescita esponenziale, simile a quella auspicata dai paladini della contemporaneità, si manifesta soltanto nelle patologie più gravi, e in genere causa la morte del soggetto che ne è affetto. In economia, invece, la crescita infinita del profitto – così come l’aumento infinito della tecnica – pare non destare sospetti ad alcuno. Né tanto meno preoccupazioni relative al carico di inquinamento e di rifiuti che un meccanismo del genere produce. Dal Monte denuncia qui l’inversione tra capitalismo e tecnica, ma lo fa discostandosi – pur senza esplicitarlo – dalla riflessione di Emanuele Severino, che vede nella onnipervasione della tecnica l’approdo necessario di un capitalismo in declino. Con buone ragioni, al contrario, L’Allucinazione della modernità propone una possibile uscita dalla follia mercantile moderna attraverso il completo ripensamento delle relazioni umane, non più viziate da illusioni prospettiche o da egoismi, ma pienamente consapevoli del ruolo comunitario che esprimono.

Nella quarta e ultima parte si discute dell’alienazione umana nella società dei consumi, nonché l’evoluzione del capitalismo fino alle ultime fasi di grave crisi del modello economico classico. L’ultimo capitolo di questa sezione è dedicato al tema della decrescita, intesa come l’unica via di uscita dalla barbarie. L’Autore suggerisce delle nuove linee guida comunitarie da cui partire per provare a immaginare un mondo diverso da quello attuale.

Il saggio testé presentato ha molti pregi, non ultimo un cospicuo apparato bibliografico usato da Pier Paolo Dal Monte con profonda erudizione e competenza. La ricognizione storico-filosofica e sociologica è davvero molto ben documentata: difficilmente si poteva fare di meglio. Quello che manca, ma non era questo l’obiettivo del progetto e quindi è un’assenza scusabile e non imputabile all’autore, è una adeguata riflessione sul fondamento filosofico della decrescita. Tuttavia, la riflessione di Dal Monte è un ottimo punto di partenza per discussioni future, che – c’è da augurarselo – sorgeranno proprio a partire dalla lettura di questo preziosissimo saggio.

Dove si arriverà, è troppo presto per dirlo. Di sicuro dovremo impegnarci con ancora maggior vigore nel fondare filosoficamente un discorso alternativo al pensiero dominante entro cui vivacchia il capitalismo classico. È forse utopico pensare di strutturare le relazioni umane secondo principi fraterni, comunitari e non mercantili? Non credo. Il percorso è di certo lungo e irto di ostacoli. Forse sarà difficile cogliere appieno il senso della condivisione comunitaria verso cui ognuno di noi dovrà tendere, sarà complicato ragionare secondo logiche relazionali basate sul dono e non sul possesso, ma è una strada che dovremo necessariamente percorrere se non vogliamo morire in un mondo governato dall’homo tecnicus sine anima.

Ci attende una vera maturazione, o forse un semplice ritorno al principio. Sicché solo quando avremo davvero capito che la vita d’ognuno di noi altro non è che uno sguardo difettoso sul mondo, che non consente a nessuno di avanzare pretese di diritti acquisiti o di proprietà, potremmo sperare di riprendere il cammino abbandonato secoli fa, quando mettemmo in marcia la rivoluzione illuminista del progresso. Fu un abbaglio, un errore imperdonabile. Vinti dalle sirene della civilizzazione ci illudemmo che la Ragione avesse ragione, e non capimmo invece che La Ragione aveva Torto.

 

Alessandro Pertosa

 

 

 



  

 
Universali e Particolari PDF Stampa E-mail

3 Maggio 2013

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Da Appelloalpopolo del 24-4-2013 (N.d.d.) 

Esiste una significativa distinzione tra chi viene commemorato con nome e cognome e chi invece no. Nome e cognome danno un identificativo unico ed inequivocabile, mentre l'anonimato fa scendere l'identità nelle sabbie mobili dell'impersonale che facilmente scivola verso l'ignoto (monumento al milite ignoto, ad es.). Si tratta, insomma, di distinguere tra Universali e Particolari, dove questi ultimi godono di privilegi che all'Universale vengono negati.

 

Se nomino quindi Martin Richard sto dando un volto ed una nazionalità al bambino ucciso nell'esplosione della maratona di Boston. Al contrario non viene mai menzionato nome e cognome dei bambini uccisi nelle varie zone di guerra. In Afghanistan, ad esempio.

Quello che ci si può aspettare, al massimo, sono frasi di circostanza per la morte dei piccoli, magari condite da parole di rammarico, ma mai le generalità dei bambini uccisi. Come se questi non avessero identità, o meglio come se l'impero mediatico si rifiutasse di veicolare l'idea che il democratico Occidente possa uccidere bambini veri, con nome e cognome ed una famiglia che li accudisce. I terroristi (che provengono per definizione dai bassifondi dell'Impero) uccidono persone “vere”, mentre l'Impero uccide persone “impersonali” o ignote, questa è l'idea di fondo.

 

Ho cercato su Google “bambini uccisi Afghanistan” e la lista degli articoli è molto lunga. Tra questi spicca quello dell'UNICEF, che denuncia come un totale di 1.756 bambini sono stati uccisi o feriti a causa del conflitto in Afghanistan soltanto nel 2011 (una media di 4,8 bambini al giorno).

Il che significa 5 maratone di Boston al giorno con relative bombe che esplodono. L'Unicef pare sappia quali sono le cause di tali stragi di innocenti: “I bambini sono stati utilizzati per attacchi suicidi, per posizionare ordigni esplosivi e portare viveri ai gruppi armati.”

Ecco scoperta l'origine dell'uccisione quotidiana di quei 5 bambini dalla pelle scura. La colpa ricade sempre sui terroristi. Nessun cenno ai raid NATO, l'ultimo dei quali ha ucciso 11 bambini e due donne.

Nessun nome e cognome per queste innocenti vittime. Tutto viene lasciato nel limbo dell'Universale, nel nome della eterna lotta tra Bene e Male, dove solo i paladini del Bene hanno precise generalità, riprendendo un tema caro alla narrazione romantica: solo l'eroe ha connotati precisi.

 

E così mentre del povero Martin sappiamo tutto, delle vittime “altre” di simile età non sappiamo niente. Le guerre asimmetriche si combattono anche su questo piano di lettura, esaltando le caratteristiche di chi appartiene al Mondo del Bene ed ignorando completamente le caratteristiche di chi non appartiene a tale Mondo. Forse l'aspetto più inquietante delle moderne guerre asimmetriche è rappresentato dai droni: macchine mortali teleguidate da una comoda poltrona situata in una zona assolutamente sicura, lontana migliaia di chilometri dal conflitto. Sono 178 i bambini uccisi dagli attacchi dei droni statunitensi nelle zone di confine del Pakistan e Afghanistan. “Se uccidiamo casualmente una bambina di quattro anni è solo per impedire che un bambino americano di quattro anni venga ucciso qui da un attacco terroristico” afferma Klein, un sostenitore di Obama.

 

Con un non sequitur degno della peggiore propaganda goebbelsiana, Klein sta dicendo a chiare lettere che la vita di un bambino “altro” non ha alcuna possibilità di valere quanto la vita di un bambino imperiale. A livello di prevenzione la loro uccisione rappresenta dunque un episodio giustificabile. L'Occidente, agendo nel nome e per conto dell'Occidente, reputa che nessuna bambina di quattro anni possa rappresentare un ostacolo alla realizzazione di qualsivoglia volontà occidentale.

Conseguentemente il nome di quella bambina di quattro anni non verrà mai citato nella stampa occidentale, tutta tesa a sostenere l'inutilità di quella vita se paragonata a quella di un suo coetaneo imperiale. Bambina ignota, al contrario del coetaneo imperiale.

 

La retorica della propaganda mediatica è molto semplice: si tratta di tracciare la linea che divide chi appartiene alla “nostra” realtà e chi invece vive distante dal Mondo del Bene. I dettagli (foto e dati personali) rappresentano un lusso che viene concesso solo a chi ha il passaporto giusto. Chi non ce l'ha finisce immancabilmente nel gran calderone dell'indecifrabile impersonale e quindi dell'ignoto. La logica è quella di “occhio non vede, cuore non duole”. Ovviamente si versano fiumi di parole sui diritti dei minori, ci mancherebbe. Basta che siano valori universali. Quando si scende nel particolare tutto cambia. Quella bambina di quattro anni avente nome, cognome e nazionalità precisa, perde ogni diritto dato che non compare nel database imperiale.

 

Viene svelato così un aspetto importante della battaglia millenaria tra Universali e Particolari, e sul rispettivo ruolo. Se il diritto alla vita appartenesse ad ogni bambino (dichiarazione universalista) quei 5 bambini uccisi quotidianamente in Afganistan riempirebbero le pagine di giornali e tiggì, e la storia di Martin Richard sarebbe solo una triste storia tra tante. Quel giorno a Boston sarebbe stato uno tra i tanti in cui bambini, con cognomi e nazionalità precise (dichiarazione particolarista), vengono uccisi dalla criminale volontà di qualche adulto. E invece no. Per la Société du spectacle l'uccisione di un bambino afgano da parte di un drone non è “spettacolabile”. La spettacolarizzazione di quelle morti è fortemente diseducativa per l'attuale regime propagandistico perchè mette sullo stesso piano la vita di chi vive all'interno dell'Impero con quella di chi vive ai suoi margini. Spettacolarizzare invece la morte di un bambino “dei nostri” tra tanti che muoiono alle periferie dell'Impero ha il significato di riportare al centro del discorso mediatico il valore sublime di tutto ciò che avviene nel cuore dell'Impero stesso.

 

Tutto ciò che attiene all'Impero, quindi, è Particolare e dettagliatissimo, mentre tutto ciò che gli è estraneo è Universale e scarsamente definibile.

Nelle paludi dello scarsamente definibile è possibile che si sviluppino concetti come i Diritti Umani che permettono a Bombe Intelligenti di sventrare bambini con identità ben definite nel nome di criteri non facilmente definibili come Democrazia e Libertà.

Gli Universali sanno fare a pezzi i Particolari nel nome di quell'universalità che ci accompagna ormai da qualche millennio [...]

 

Tonguessy

 

 

 

  

 
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