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Uomo-dio PDF Stampa E-mail

30 Marzo 2013

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da Rassegna di Arianna del 20-3-2013 (N.d.d.)

 

 

È di Immanuel Kant la più celebre e pregnante definizione dell’Illuminismo: «Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. È questo il motto dell’Illuminismo».

L’uomo, dunque, è stato un minore, forse un minorato, per secoli e millenni; probabilmente lo sono stati anche Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso d’Aquino. Poi sono arrivati i “philosophes” e hanno reso l’umanità adulta, spronandola ad usare in modo libero e spregiudicato il proprio intelletto, senza la guida di altri, cosa che mai era stata fatta prima; ma, per fortuna, è giunto il tempo dei “lumi” della ragione e, con esso, l’inizio di una nuova èra, apportatrice di progresso, benessere e felicità per il maggior numero possibile di persone.

Ma che cos’è l’intelletto di cui parla Kant, di cui parlano gli illuministi? Che cos’è quest’intelletto che Platone, Aristotele e gli altri possedevano in misura così scarsa, mentre Voltaire, Diderot e gli enciclopedisti possiedono in misura così eminente? Certo non coincide con la ragione, dato che la filosofia greca e quella scolastica, per non parlare di quella rinascimentale, di sicuro non si possono definire carenti di razionalità; semmai, corrisponde a una ragione particolare, una ragione tutta strumentale e calcolante, una ragione fredda e tagliente come un meccanismo, come la lama della ghigliottina. Una ragione che non ha tempo né posto per lo stupore, per la gratitudine, per il senso del bello; che non deve sentirsi piccola davanti a nulla, che non deve ringraziare nessuno, che non esita a misurarsi con qualunque mistero, riducendolo all’ordine di un semplice problema: infatti i problemi, a differenza dei misteri, prima o poi si risolvono.

È una ragione senza amore: nelle cose non vede che strumenti di cui servirsi, nella natura non vede che un grande meccanismo di cui scoprire e dominare le leggi, e in se stessa non coltiva che una inesausta sete di potere, di conquista, di dominio, secondo il motto di Francis Bacon: «Knowledge is power», «sapere è potere». Non è, dunque, una ragione spassionata, che ama la conoscenza per la conoscenza, che sa contemplare con meraviglia e ammirazione lo spettacolo del mondo; è una ragione aggressiva, dominatrice, che si considera in guerra con tutto e con tutti e che non riconosce dei pari negli altri enti, ma dei potenziali avversari da piegare, da incatenare, da sfruttare: piante, animali, uomini: tutti devono inchinarsi alla sua superiorità, tutti la devono adorare.

L’intelligenza senza amore produce una scienza cattiva e una tecnologia demoniaca: gli oscuri mulini satanici di cui parlava William Blake, in piena rivoluzione industriale. Galilei, Cartesio e Newton sono i suoi cattivi maestri: intelligenze vivaci, ma superbe; anime fredde, presuntuose, arroganti, convinte che a loro e a loro soltanto è riservato il compito di decifrare il grande libro della natura, scritto appunto in caratteri matematici.

Noi siamo i figli e i nipoti di quella scienza e di quella tecnologia, di quella superbia luciferina. La scissione dell’atomo, i viaggi spaziali, la manipolazione genetica, la clonazione degli esseri viventi hanno a tal punto inorgoglito l’uomo moderno, da fargli smarrire anche l’ultima ombra di prudenza, l’ultimo bagliore di umiltà: nulla gli sembra impossibile alla sua ragione, nessun obiettivo troppo arduo, perfino quello di sconfiggere la morte.

L’uomo moderno, figlio della Rivoluzione scientifica e dell’Illuminismo, si crede diventato un dio: uno ad uno, è riuscito a realizzare dei disegni che solamente un dio pareva in grado di compiere. Non era forse una proprietà divina, quella di regnare nei cieli? E lui ha sfondato la barriera del suono, è andato sulla Luna, ha inviato satelliti verso Marte, Giove, Saturno, Urano ed oltre, nello spazio profondo. Non era una prerogativa divina quella di dare la vita? Ed egli la sa ormai manipolare in maniera stupefacente: può rendere madre una donna di sessant’anni; può creare specie altamente selezionate, modificandone il patrimonio genetico; può fare in modo che un individuo morto abbia dei figli, fecondando una cellula-uova, anche in un utero artificiale, mediante lo sperma dell’individuo estinto, appositamente conservato in congelatore; può fabbricare delle repliche identiche di creature viventi, che sono, al tempo stesso, figlie e sorelle di quelle da cui ha prelevato una cellula-uovo.

Che cosa non è capace di fare, davanti a quali ostacoli è costretto ad arrestarsi? Solo un dio poteva riportare in vita un uomo già afferrato dai tentacoli della morte; ma adesso la chirurgia, per esempio, è capace di impiantare un organo vitale, anche il più delicato, cuore compreso, nel corpo di un uomo condannato a morire, dopo averlo prelevato da un animale appositamente ucciso o da un altro essere umano, morto da così poco tempo che, forse, l’ultima scintilla di vita non lo aveva ancora del tutto abbandonato: ed ecco, la morte stessa deve arretrare, deve mollare la presa, e colui che stava già varcando i cancelli dell’Ade viene richiamato indietro, torna a vivere come se nulla fosse stato.

Forse era inevitabile che, davanti a tali successi, l’uomo moderno insuperbisse oltre ogni misura e giungesse alla conclusione che un dio, se mai è esistito, non può essere che lui; che lui solo ha la responsabilità della vita, della natura, del domani; che a lui e a nessun altri che a lui spettano le grandi decisioni relative al futuro, alla sopravvivenza o meno delle altre specie, al rimodellamento della superficie terrestre, alla costruzione del proprio destino.

Forse era inevitabile che l’uomo si sentisse solo in un universo disertato dagli dèi, e provasse la tentazione di riempire quel vuoto, collocandosi egli stesso nel suo proprio Olimpo, posto magari nella base spaziale di Cap Canaveral, oppure nelle basi nucleari sotterranee del New Mexico e del Nevada, oppure ancora nel grande impianto per l’accelerazione delle particelle presso il CERN di Ginevra. Dentro il suo camice bianco e davanti ai suoi supercalcolatori elettronici, egli si sente finalmente un dio: si sente finalmente uscito, come diceva Kant, dall’antico e prolungato stato di minorità, e proiettato verso le magnifiche sorti e progressive.

Forse era inevitabile; o, almeno, era inevitabile date le premesse: date, cioè, il tipo di ragione, il tipo di scienza e di tecnica che egli ha creato e messo a punto in Europa occidentale, a partire dal XVII secolo, per poi imporle al resto del mondo, nei quattro secoli successivi; forse, dicevamo, tutto ciò era inevitabile, ma certo ha creato in lui un delirio di onnipotenza, lo ha posto completamente fuori centro rispetto a se medesimo, e lo ha collocato in una posizione falsa, ambigua e pericolosa nei confronti della creazione.

Perché l’uomo non è Dio; e l’uomo che gioca a fare Dio, cessa di essere un uomo, per diventare una creatura dissociata e posseduta, alla lettera, da una forza più grande di lui, non benefica né benevola, anzi intimamente malvagia, che lo sospinge là dove egli nemmeno si rende conto di andare, che lo costringe a fare delle cose che egli crede di compiere liberamente, mentre è ormai diventato lo schiavo e lo zimbello di quella forza potente e malefica, alla quale non sa resistere perché non la riconosce e, forse, non sospetta nemmeno che esista.

 […]

I nostri predecessori, i nostri avi, i nostri nonni lo sapevano, con saggezza istintiva, anche se non avevano frequentato le moderne università, dove si forgia l’uomo-dio e dove gli si inculcano i falsi principî della sua onnipotenza: sapevano che il giunco resiste alla forza delle onde perché vi si piega e la asseconda, mentre la quercia viene scalzata e rovesciata, perché pretende di opporvisi; sapevano che nulla può fare l’uomo contro la natura, ma solo in sintonia con essa; e che il massimo della debolezza è il voler vincere sempre, il voler trionfare su tutto, sottomettere ogni cosa, imporre ovunque la propria supremazia: credersi, appunto, un dio [...

 

Francesco Lamendola

 

 




 

 

 
Consumatori militanti PDF Stampa E-mail

27 Marzo 2013

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Da Rassegna di Arianna del 5-1-2013 (N.d.d.)


Venuto meno l’impegno politico e sbiaditi i colori che identificavano le diverse categorie, i cittadini trasparenti hanno cominciato ad affidarsi all’acquisto e all’ostentazione

Un “consumatore militante”. È questa, secondo il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, la figura predominante che si è delineata nella società postmoderna, rubando la scena al cittadino che poneva in cima alla lista dei suoi interessi la cosa pubblica, la politica intesa come interesse nell’amministrazione della società.

Il pensiero di Bauman è sempre stato caratterizzato da un’attenta analisi critica delle storture generate dall’inarrestabile processo di globalizzazione e, in particolare, del suo effetto sul comportamento delle persone che ne vengono investite. Una delle più celebri definizioni coniate dal pensatore polacco è quella di “società liquida”, un insieme di persone che, nell’era che succede alla modernità, non trova pace e come uno “sciame inquieto” si evolve in continuazione, si trasforma, cambia idea, inseguendo disperatamente dei modelli predefiniti che in qualche modo realizzano l’individuo e gli permettono di identificarsi in un gruppo – “branco”, secondo l’accezione di Bauman, o “tribù postmoderna”, per dirla alla Maffesoli.

Questi modelli sono relativi al comportamento di ciascuno di noi, al ruolo che giochiamo all’interno della società, e si esprimono attraverso il consumo: consumando, aderendo a una moda piuttosto che a un’altra, comunichiamo agli altri chi siamo. Attenzione però: la scelta è libera solo in apparenza. Per prima cosa, non possiamo astenerci dall’indicare una preferenza; possiamo farlo fra diverse opzioni, ma siamo costretti a scegliere. Inoltre, le differenze fra tali opzioni sono spesso superficiali e, di fatto, ci riconducono sempre a una stessa matrice. Già da queste brevi considerazioni emerge quindi che la libertà di cui crediamo di godere al giorno d’oggi è in realtà molto più limitata di quanto possa sembrare.

Addirittura – come suggerisce lo studioso francese Pascal Lardellier, che lo stesso Bauman chiama in causa –, la logica del consumo si estende a tutte le sfere della vita della persona, sconfinando persino in quella sentimentale e generando ciò che viene definito “marketing dell’amore”, ovvero la scelta di un partner in base alle sue caratteristiche esteriori e quindi, di riflesso – proprio come avviene quando acquistiamo ed esibiamo un telefonino, un’automobile o un paio di scarpe –, all’immagine che può dare di noi.


Uno degli spunti più rilevanti offerti dal grande sociologo Zygmunt Bauman riguarda il processo attraverso cui il cittadino moderno sostituisce l’impegno politico con il consumo frenetico

Questa immagine è fondamentale, poiché ci colloca all’interno delleaggregazioni sociali sopraccitate – i branchi o le tribù – insieme ad altri individui che condividono con noi determinate caratteristiche. La cosa peggiore che possa accadere è rimanere esclusi da questi gruppi. È il grosso rischio che corrono, per esempio, i poveri, coloro che non possono permettersi di acquistare gli oggetti che contribuiscono a definire il loro stile di consumo e per questo rimangono anonimi. Se ci pensiamo però, nella realtà, questa ipotesi è sempre più rara.

Attraverso il sistema del debito infatti, si è voluto dare l’opportunità di consumare anche a chi non se lo sarebbe potuto permettere, centrando così diversi obiettivi: fornire un’immagine di società del benessere sempre più inclusiva; eliminare potenziali cause di scontento (e quindi di instabilità) attraverso la somministrazione del palliativo rappresentato dall’appagamento materiale; aumentare il volano dei consumi includendo nuovi acquirenti.

L’osservazione forse più interessante però, Bauman la fornisce quando passa ad analizzare la causa che ha innescato la nascita e la proliferazione dell’homo consumens. Il primo passo è stato il progressivo calo d’interesse che ha caratterizzato una cittadinanza che, dal dopoguerra a oggi – soprattutto in Italia – è stata allevata con il mito della democrazia. I dati di oggi evidenziano come la partecipazione al processo amministrativo della cosa pubblica sia in calo verticale: affluenze sempre più risicate, ignoranza politica ampliamente diffusa, spostamento del dibattito su temi di scarsi interesse e importanza.

Sono questi i frutti che – era inevitabile – hanno generato i semi piantati in decenni di democrazia delegata. Ed è questa la morte dell’homo politicus, colui che, al di là del potere decisionale effettivamente esercitato, partecipava comunque con interesse alla vita politica del proprio paese. In questo modo, forniva anche un’immagine di se stesso alla società e trovava una sua collocazione all’interno di essa. Venuto meno l’impegno politico e sbiaditi i colori che identificavano le diverse categorie, i cittadini trasparenti hanno cominciato ad affidarsi all’acquisto e all’ostentazione di oggetti per definire la propria immagine e il proprio ruolo. Da militanti politici si sono trasformati in militanti consumisti.


La logica del consumo si estende a tutte le sfere della vita della persona, sconfinando persino in quella sentimentale

Secondo Bauman, è possibile individuare con precisione almeno un paio di aspetti caratteristici di questo processo. Il primo è la graduale alienazione del potere politico e della sovranità dalle mani dello Stato centralizzato. Gli organismi sovranazionali che oggi determinano la linea politica e quella economica hanno svuotato i Governi nazionali della loro autonomia, allontanando in maniera decisiva il processo decisionale dai cittadini, i quali hanno smesso di interessarsi a esso.

Parallelamente, hanno cominciato ad acquisire sempre più potere – non solo economico ma anche politico, sociale e culturale – i rappresentanti del mondo commerciale, produttivo e finanziario: le multinazionali, gli istituti bancari, i fondi d’investimento, le lobby e i cartelli commerciali, le agenzie di comunicazione e marketing e così via. Essi hanno progressivamente superato le istituzioni nazionali nelle gerarchie, diventando gli interlocutori privilegiati dei nuovi detentori del potere, ovvero gli organismi sovranazionali – per citarne alcuni: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Banca Centrale Europea, Organizzazione Mondiale della Sanità eccetera.

Questi due processi – l’allontanamento della vita politica e la crescita dell’importanza del mercato – hanno fatto sì che il cittadino cominciasse a soddisfare il suo bisogno di trovare un’identità attraverso il consumo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Dal punto di vista politico, troviamo una classe dirigente che è ormai svuotata di tutto: delle competenze, del potere decisionale, del controllo democratico diretto.

Il suo unico ruolo è quello di mantenere lo status quo, presentando una vita politica di bassissimo spessore e quindi di scarso interesse per il cittadino, sempre meno invogliato alla partecipazione. Parallelamente, si interviene sul piano sociale, creando delle alternative all’impegno politico molto più seducenti: mode da seguire, stili da imitare, oggetti da possedere, che non sono più soltanto uno svago ma diventano una necessità a cui provvedere, pena l’esclusione sociale. Un meccanismo allo stesso tempo semplice ma estremamente infido, che già duemila anni fa il poeta romano Giovenale definì con efficacia “panem et circenses”...

 

Francesco Bevilacqua

 

 



 

  

 
Crisi di Sistema PDF Stampa E-mail

24 Marzo 2013

 

Su segnalazione di Roberto Marrocchesi (N.d.d.)

 

Un sistema che ha fondato la sua esistenza sullo spreco, sul degrado e sulla commercializzazione di beni superflui e di infima qualità, era destinato a implodere. Questa, del mondo occidentale, non è una semplice crisi, ma la fine di un’epoca. Il gran numero di disoccupati e di precari in continuo aumento, è il logico risultato di un tipo di lavoro, privo di fondamentali e, quindi, di regole certe.

Per usare una metafora, paragonerei il Sistema Liberista Relativista ad una fabbrica di bolle di sapone. La gente, ingannata per decenni e abbindolata dalla seduzione della modernità e da una massiccia propaganda mediatica totalitaria (che ha speculato sui bisogni, fragilità, paure e debolezze), troppo tardi ha compreso il valore effimero delle bolle di sapone. L’inganno è stato totale e ha prodotto un becero relativismo, che ha fatto piazza pulita di ogni valore etico e morale, omologando gli individui e codificandoli come semplici consumatori. Piano piano il grande imbroglio sta venendo a galla, e così la rabbia dei truffati, che esploderà in tutta la sua potenza, quando quella che oggi é definita una crisi assumerà le sembianze dell’apocalisse. L’avvelenamento delle acque e dell’aria, erano parametri sufficienti per rendersi conto di quale cammino era stato intrapreso, e indicatori della loro potenzialità distruttiva. Con che spudoratezza tutto questo è stato definito progresso e benessere? Se, per fare un esempio, oggi tutti gli automobilisti di Milano rispettassero alla lettera il codice della strada, questa città, già invivibile e caotica, si bloccherebbe all’istante. Può sembrare un assurdo ma è proprio grazie a chi elude e infrange le regole che, oggi, miracolosamente il traffico continua a scorrere, e le casse del comune ad ingrassarsi a dismisura.

Lo stesso principio e meccanismo vale anche per l’economia del nostro paese (il Sistema) che se dovesse attenersi a regole ferree e pene certe, imploderebbe in una settimana. Se i cittadini di un qualsiasi paese occidentale poi, in virtù di un risparmio ragionevole e doveroso, si astenessero dal consumare beni effimeri, contraffatti e voluttuari, orientandosi su quelli primari, durevoli e di prima necessità, il Sistema, che oggi ci governa e che ci opprime, si squaglierebbe come neve al sole. Sentire ancora parlare di ricerca, di crescita e sviluppo e delle semplificazioni relative al fare impresa, come le inderogabili soluzioni alla crisi, sarebbe come rendere libera la pesca epurando il suo regolamento da licenze, normative e divieti, quando oramai di pesci nel mare non ce ne sono più. Avremmo dovuto investire le nostre energie in un prudente dialogo con la madre terra, rispettandone le sue logiche e regole imperiture. E’ stata umiliata la natura e mortificato il lavoro dei campi, adducendone un significato distorto, di inciviltà, di miseria e ignoranza. Abbiamo voluto sfidare le nostre vere ragioni, come alieni, venuti da un’altra galassia, ma presto la terra ci ripagherà con la stessa moneta, per averla infamata e violentata.

Solo recuperando i valori e i doveri di un passato luminoso, oggi soppiantati dal perverso consumismo della Bestia Liberista, potremo intravedere un futuro fra le nere nubi che si addensano all’orizzonte, ma il prezzo da pagare sarà di sangue, di paura e di follia. Per tutti questi motivi, “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Una tale disperazione, avvolge il mio paese da molto tempo.”

Gianni Tirelli 



  

 
Pornografia PDF Stampa E-mail

20 Marzo 2013

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Martedì 12 Marzo, il Parlamento si è espresso (per alzata di mano), su una soluzione «non vincolante», cioè una presa di posizione politica che quindi non avrebbe avuto vincolo legislativo, chiamata “Mozione per eliminare gli stereotipi di genere in Ue”, e che chiedeva agli Stati membri di fare ogni sforzo per eliminare la discriminazione delle donne dalla pubblicità e chiedeva il bando di ogni forma di pornografia dai media. La risoluzione recitava pressappoco così: “Si propone un divieto alla pornografia su tutti i media. Internet inclusa”.

È bastato che, giorni prima della votazione, circolasse la voce che il Parlamento europeo avrebbe votato su questa risoluzione, perché si scatenasse una rivolta sul web; centinaia di migliaia di cittadini hanno scritto altrettante  mail di protesta ai parlamentari: oltre 600 mila in soli tre giorni, un vero e proprio “attacco”.  Subito l’Europa, ha replicato dicendo che la proposta era stata “comunicata male”, in quanto non s’intendeva proibire per legge la pornografia da tutti i media, ma solo dalla pubblicità. Fatto sta, che al momento della votazione la mozione è stata respinta.

 

Qui c’è qualcosa di poco chiaro, poiché che la pubblicità abbia contenuti sessuali (anche subliminali) è risaputo e riprovevole, ma il termine “pornografia” mi sembra fuori luogo, e, a parte il web, non mi risulta che sugli altri media ci sia la pornografia, a parte le TV decodificate, naturalmente. Anche se la proposta è stata respinta, ritengo che sia stato grave anche solo “proporla”, né avrebbe dovuto tranquillizzare il fatto che la soluzione fosse ”non vincolante”, poiché oramai sappiamo che tutto ciò che oggi non è vincolante, lo può diventare domani. L’Italia ha compiuto sforzi enormi per uscire dal condizionamento della Chiesa e approdare a un’indipendenza laica, e adesso sembrerebbe che quel moralismo che è uscito dalla porta rischi di rientrare dalla finestra ma sottoforma di moralismo laicista.

L’idea di proibire la pornografia dai media, non è, infatti, frutto di una morale cattolica né del condizionamento della Chiesa, quanto di un nuovo moralismo di derivazione “post-sessantottina”, che si fonda sui cosiddetti “diritti civili” che conducano direttamente a una “disciplina sessualmente corretta” di modernistica concezione. È incredibile la contraddizione nella quale si viene a trovare la società attuale, che più insiste a ribadire ed esaltare le presunte virtù liberaldemocratiche, tanto più si chiude in un carcere a cielo aperto. Certo è triste costatare che di tutto il marcio che viene dall’Europa, dalla catena dell’euro alle politiche di austerità che stanno mandando gli stati nazionali in bancarotta, dalla disoccupazione alla perdita di sovranità degli stati,  di tutte queste cose, l’unica che riesca a smuovere i popoli e spingerli alla protesta e alla disobbedienza, sia il pericolo di perdere la pornografia.

Né possiamo negare che da anni, l’eccesso di corpi nudi, d’immagini stereotipate delle donne, la trasformazione del sesso in consumismo dei corpi, sia stata talmente nauseante, da poter sostenere con assoluta certezza di trovarci oramai da tempo prigionieri di una “pornocrazia”. La pubblicità e la moda, poi, sono sempre più di cattivo gusto, soprattutto se si tiene conto non solo del fatto che è completamente ingannevole, ma che usa il sesso e i corpi per lucrare e aumentare i consumi. Inoltre, è giusto tutelare il più possibile i minori, non solo da abusi, ma anche dall’accesso a materiali pornografici.

 

Tuttavia, occorre valutare bene di che cosa stiamo discutendo; se si fosse trattato di promuovere delle politiche finalizzate a ridurre o anche eliminare dalle televisioni l’indecente spettacolo del velinismo, e disciplinare il mondo della pubblicità e della moda, la proposta non solo sarebbe stata ragionevole, ma addirittura benvenuta. Un’altra necessità, sarebbe stata quella di impedire che i bambini possano entrare in siti internet che hanno contenuti pornografici o comunque inadeguati per dei minori. Ma se l’intenzione fosse stata quella di proibire ogni contenuto pornografico dai media, compreso il web, e questa proibizione fosse stata valida anche per gli adulti, allora si sarebbe scivolati nel moralismo e nel puritanesimo, perché ogni individuo adulto è libero di fare qualsiasi cosa che non rechi danno altrui. È sicuramente riprovevole una società pornocratica, dove il sesso e il vizio non siano l’eccezione ma la regola, e in cui ogni forma di perversione sia trasformata dalla propaganda dei media in “valore”, tale che occupi completamente ogni spazio privato e pubblico della società e ogni istante della vita della gente; ma stiamo comunque discutendo di questioni “morali”, e ciò che è immorale – o peccaminoso da un punto di vista religioso – non può essere tramutato in reato, in qualcosa di proibito o punito dalla legge. Inoltre, l’auspicabile superamento di una società volgare e materialistica, che si consumi esclusivamente in piaceri e in vizi sfrenati, è da correggere con strumenti educativi e con promozioni culturali, e non con proibizioni legislative, o metodi polizieschi.  Il problema è politico, l’assenza cioè di un “senso dello Stato”, che incoraggi un “senso civico”. Ma l’aspetto più grave, sono le motivazioni che accompagnavano la proposta di Mozione, in quanto avrebbe dovuto promuovere “la parità di genere superando stereotipi sessisti soprattutto nei confronti delle donne”. Qui si ricadeva nella solita retorica “tardo femminista”; a prescindere dal fatto che nei materiali pornografici, l’uomo è stereotipato quanto la donna, ad ogni modo nessuno obbliga le pornoattrici – né i porno attori – a svolgere quel mestiere, che tra l’altro, in genere, gli fa pure guadagnare delle considerevoli somme di denaro.

Né chi guarda il materiale pornografico, è costretto a farlo, e sappiamo che sempre più donne guardano materiale pornografico, e generalmente non si lamentano del contenuto. La pornografia è “un break”, un momento in cui “si stacca la spina” dalla realtà, e ci si allontana dalla ragione, così come dalle regole, dalla morale, dalle condotte e persino dalla dignità personale. Nella pornografia, così come nell’atto sessuale, noi ci concediamo un “ritorno allo stato animale”, all’istintività, e poiché è l’unico momento in cui possiamo sostanzialmente farci “i porci comodi”, è gravissimo che adesso lorsignori vogliono toglierci anche quello. Nella camera da letto, non dovrebbe essere concesso a nessuno di ficcare naso; ognuno  fa quello che gli pare, fermo restando, naturalmente, il consenso del partner.

Non vogliamo “galatei”, su com’è giusto farlo, per rispettare gli standard del “sessualmente corretto” di derivazione “liberal”. Se una donna vuole fare la pornostar ed esplicarsi in indecenti atti che sono “degradanti”, sono affari suoi, e se una donna con il proprio compagno, durante l’amplesso, vuole “degradarsi”, non deve interessare minimamente i potentati europei o mondiali. Anche perché dovrebbero spiegarci cosa significa “degradante”, e con quale insolenza loro si ergono a sommi giudici di cosa è di buon gusto e cosa non lo è. Ciò che per una persona è degradante, può non esserlo per l’altra; non esiste un “gusto unico”, men che mai “un pensiero unico”. È anche tutt’altro che improbabile che il desiderio di abolire la pornografia dai media e da internet, non sia che il primo passo per giungere a una totale abolizione futura della pornografia, oppure all’accettazione della pornografia, a patto che rispetti gli standard del “sessualmente corretto”.  Appare evidente che la loro contrarietà alla pornografia, è dettata dal fatto che a loro giudizio tale materiale diseducherebbe le persone e quindi il fine ultimo è, appunto, quello di educare le persone a fare sesso in modo “corretto”, pretendendo così di condizionare le condotte sessuali private.

 

Ciò è tanto più grave se si tiene conto che a livello pubblico invece, le oligarchie politiche ed economiche spingono per una sempre maggiore immoralità e mancanza di educazione e disciplina. Questa è una società dove si è pubblicamente immorali e disordinati, ma privatamente moralizzati e obbligati; l’eccesso di licenza pubblica conduce al caos e al nichilismo, cosi come l’opprimente mancanza di libertà privata comporta  un’alienazione individuale atroce. Ma questo “nuovo moralismo”, non proviene dalla Chiesa cattolica, che appare più che mai barcollante, bensì dalla “nuova chiesa laicista”, dalla chiesa dello pseudo liberalismo modernista. Questa “nuova chiesa” ha le sue fondamenta storiche sulla “liberté” illuminista, ed è andata definitivamente al potere dopo il sussulto delirante “dell’amore libero” di sessantottina memoria; ma di “liberté” e di “amore libero”, ne vediamo sempre meno, poiché a parte discutibili “diritti civili” dati in pasto alle masse in modo raffazzonato per aggiungere caos al caos, a livello individuale e intimo ci sembra che stiamo perdendo sempre più terreno. Che queste idee provengano da una sinistra post-comunista, o da una destra liberal-decadente, questo “pseudo liberalismo” racchiude in sé il peggio del liberalismo illuministico e i vecchi rottami dell’ideologia sovietico-comunista, che come diceva polemicamente Filippo Tommaso Marinetti, “pretendeva di costruire un mondo, liscio come una palla di biliardo”. La vecchia ideologia comunista, sconfitta dalla storia, si è convertita in progressismo libertario e si contende il controllo della globalizzazione con il suo rovescio, un liberismo reazionario, ed entrambe contengono le stesse premesse giacobine, la stessa arroganza, la stessa patologica ossessione di “correggere la natura”, cambiare la storia, imporre una morale politica che renda le persone “perfette”, e il mondo pacificato. Ebbene se questa è la pace, preferiamo la lotta!

 

Gianluca Donati  

 

 

 

  

 
Dopo la morte di Chavez PDF Stampa E-mail

16 Marzo 2013

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Dopo la morte di Chavez, le speranze di sopravvivenza dell’esperimento da lui prospettato per il Venezuela sono affidate alla rete di solidarietà fra i diversi paesi dell’America latina che si sono dati governi popolari e anti imperialisti. Infatti quel subcontinente è l’area del mondo più avanzata da questo punto di vista.

Il Venezuela di Chavez, col suo bolivarismo, si rifà alla figura di Simon Bolivar, che nell’Ottocento fu l’eroe dell’indipendenza dal colonialismo spagnolo. Nell’area andina Evo Morales e Correa sono i campioni di un riscatto degli indios; in Argentina la presidente Cristina Kirchner si ricollega alla tradizione della sinistra peronista; il Brasile è orientato nel senso di una socialdemocrazia avanzata.

 

In tutti i casi, escluso forse il Brasile, la parola d’ordine unificante è: “Patria e Socialismo”. La stessa Cuba castrista ha sempre innalzato la bandiera dell’orgoglio patriottico: Patria o muerte.

Alla luce degli schemi Otto-Novecenteschi, siamo in presenza di una contraddizione.

Il socialismo era internazionalista, sognava un mondo senza frontiere. L’inno che i marxisti di tutto il mondo intonavano recitava: l’internazionale futura umanità.

Il patriottismo acceso, spinto fino al nazionalismo, era considerato una deviazione verso il fascismo.

Per questo i marxisti ortodossi bollarono come fascista, sia pure un fascismo “di sinistra”, il primo peronismo, che pure fu un movimento che infiammò le masse popolari dei descamisados col suo programma anti imperialista e anti capitalista.

Chavez è stato un nazionalista in camicia rossa, con ciò evidenziando anche iconograficamente il superamento di una barriera che non aveva ragion d’essere, come aveva già dimostrato  l’impronta fortemente patriottica che Stalin aveva dato al suo regime.

 

Queste considerazioni spiegano come oggi Chavez sia pianto sia dai gruppi che  si rifanno al comunismo, sia da quell’area che si considera in rapporto di continuità col fascismo sociale.

Potremmo salutare come positivo questo abbattimento di steccati, se non fosse che anche questa sorta di rossobrunismo sa di vecchiume, col suo proposito di operare una sintesi fra correnti politiche che appartengono a un passato irripetibile.

I termini delle questioni che oggi travagliano il mondo esigono parametri nuovi e nello stesso tempo antichi, di un antico che non può essere il vecchio rappresentato dalle false antitesi fra destra e sinistra, socialismo e fascismo, democrazia e autoritarismo.

 

In questo senso il Movimento Cinque Stelle appare il primo veramente ascrivibile al XXI secolo, col suo rifiuto nelle parole e nei fatti di essere ingabbiato in quelle dicotomie.

Tuttavia anche a questo proposito si affaccia un problema.

Sembra che si possa uscire da quelle strettoie soltanto rinunciando all’ideologia. Ma l’ideologia ha una funzione irrinunciabile, quella di ricondurre a una logica di fondo punti programmatici che altrimenti si presentano come frammentari.

Questo è precisamente il limite del programma di Cinquestelle, limite che scaturisce da un difetto di ideologia.

 

Non è vero che tutte le ideologie sono finite. C’è un’ideologia dominante, quella del libero mercato nella globalizzazione.

A quella ideologia se ne possono contrapporre due diverse.

Una è quella decrescista in un quadro antimoderno e in una dimensione economica rivolta al massimo possibile di autoproduzione e autoconsumo in aree regionali collegate ma ristrette.

L’altra è quella sovranista, il recupero delle sovranità nazionali, presupposto per ricostruire alleanze  con nazioni vicine che abbiano fatto la stessa scelta contro la globalizzazione del capitale: la via bolivarista dello slogan Patria e socialismo.

Il compito dei movimenti antisistema è dare concretezza e vigore a una di queste alternative oppure di trovare una possibile convergenza fra loro.

Sarebbe il modo migliore per raccogliere e far fruttare l’eredità di Chavez.

 

Luciano Fuschini

 

 

 

 

   

 
Ancòra sull' 11 Settembre PDF Stampa E-mail

13 Marzo 2013

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Da Europeanphoenix, ripreso da Rassegna di Arianna dell’8-2-2013 (N.d.d.) 

 

 

 

Recentemente, il sito “Luogocomune” ha rilasciato un breve filmato relativo ai fatti dell’11 settembre 2001 a New York, nel quale si mostra un fenomeno a dir poco “magico”. Scrive un mio corrispondente che mi ha segnalato il nuovo documento video: “Migliaia di corpi umani a Ground Zero, durante il crollo delle Torri gemelle, si sono dissolti nel nulla, e minuscoli pezzettini sono stati proiettati in ogni direzione. Come è stato possibile se, a quanto ci dicono, quelle torri sono crollate implodendo su se stesse?”.

Già, bella domanda. Come se non bastassero le altre, che sorgono inevitabilmente in ogni mente appena raziocinante a causa dell’assurdità, contraria alla minima logica e alle leggi (sin qui note) della fisica, della versione ufficiale che ancora circola nei media di regime (si pensi, tra tutte quelle ammissibili, al crollo - per di più annunciato in anticipo da una tv! – dell’edificio 7).

Alcuni ricercatori hanno praticamente demolito pezzo per pezzo ogni tassello di una versione che è a tutti gli effetti un campionario di trovate degne d’un illusionista. Ma tant’è, sono i vari Meyssan, i Chiesa, i Mazzucco eccetera a doversi veder appiccicare addosso la squalificante etichetta di “complottisti”, quando l’unico vero complottismo sta nella narrazione ufficiale, indimostrata ed indimostrabile, diffusa sin dal primo momento dalle “autorità” e ripresa acriticamente, ancora oggi, a distanza di dodici anni e dopo una serie incalcolabile d’inchieste, dai “mezzi d’informazione” cosiddetti “autorevoli”.

Ma c’è anche di peggio: sulla testa dei “complottisti” aleggia l’altra, questa volta infamante, accusa di essere dei… “negazionisti dell’11 settembre”. Sappiamo dove si vuole andare a parare: attaccarli come “immorali”, in quanto, contestando sulla base di prove documentarie e studi tecnici la corrispondenza alla realtà dei fatti di una storia che ha più a che fare con le novelle per ragazzi si macchierebbero d’una onta indelebile, “uccidendo una seconda volta” quelle povere vittime.

 

È una consumata retorica questa, la quale agisce su un pubblico aduso ad essere gestito con scosse emotive e nient’altro, che conosciamo bene in quale ambito viene adoperata da decenni, ma è bene ribadire che se una cosa non sta né in cielo né in terra, ripugnando alla più elementare logica, persino se l’intero genere umano cominciasse a considerarla vera, si ha il sacrosanto diritto e dovere di contestarla.

Ma qui si ha a che fare più che altro con una credenza, una parodia di “fede”, funzionale a tutto il resto, ovvero integrata con tutto quanto circola nella mente e nell’animo d’un individuo conquistato ai valori dell’americanismo. Perciò, con chi proprio non ne vuol sapere di ragionare e svegliarsi dal mondo delle favole non c’è “argomento” che tenga: ha troppa paura che, mettendo in discussione la corrispondenza alla realtà dei fatti della versione ufficiale, possa incrinarsi il suo bel mondo di “certezze”, che gli permettono in qualche modo di tirare avanti dalla mattina alla sera.

Pertanto, un siffatto ‘fedele’ (dell’11/9 ma anche di altre parodie della religione) non verrà mai scalfito da alcuna dimostrazione, né dall’esposizione di un ‘banale problema’ come il seguente: si parla sempre delle “vittime del World Trade Center”, ma quelle degli aerei, di cui devono per forza esistere delle liste, chi sono?

Le “autorità” affermano di aver ricostruito il Dna di tutti i passeggeri degli aerei. Particolare alquanto sospetto, visto che l’aereo di linea che dicono essersi infilato nel Pentagono si era letteralmente disintegrato!

Sulle liste dei passeggeri dei “voli dirottati” sorgono così dubbi d’ogni genere che non è possibile risolvere, semplicemente perché manca la volontà di farlo. Caso stranissimo, dato che negli aeroporti (già all’epoca) è tutto monitorato da telecamere, non abbiamo nessuna foto scattata al momento dell’imbarco che ci fa vedere, e i passeggeri poi “vittime dei dirottamenti”, e i terroristi (l’unico frammento è relativo ad un imbarco precedente di alcune ore, non di quello decisivo sull’aereo che poi avrebbe colpito il WTC).

Ma tutti, almeno una volta abbiamo preso un aereo, quindi sappiamo bene che non c’è bisogno di nessuna “ricostruzione del Dna”, semplicemente perché su un aereo, se il tuo nome non è in lista, non sali!

E, altra considerazione dettata dal basilare buon senso, se muori in quel modo, ci sono come minimo dei familiari che certificheranno il tuo decesso, in quanto erano al corrente del fatto che viaggiavi su quell’aereo! Non possono essere tutti casi da “Chi l’ha visto?”...

Si è tanto parlato – anche con appositi film - di eroiche cazzottate coi dirottatori e di telefonate (impossibili a farsi coi cellulari, da quella quota e a quella velocità)... E pare anche che siano circolate liste di falsi passeggeri: di gente, insomma, che doveva rifarsi un'identità (spie, faccendieri, maneggioni vari). Che magnifica occasione!

Ma alla fine in quegli aerei, se non erano altro (cioè “droni” e/o simulacri teleguidati mandati a colpire il WTC, poi fatto esplodere con una demolizione controllata; oppure semplici ologrammi televisivi), i passeggeri ci dovevano pur essere. Così come nell’aereo di linea che avrebbe colpito il Pentagono, dei cui passeggeri non esiste nemmeno un brandello (mentre si trovano – guarda un po’ - frammenti del passaporto dei dirottatori!).

 

Ogni anno, vi è la cerimonia in ricordo delle vittime dell’11 settembre, con tanto di elenco dei nomi. Ma quali sono quelle perite a bordo degli aerei? Mistero fitto.

C’è, dunque, una basilare domanda inevasa, che da sola basta a mettere in crisi l’intero impianto della versione ufficiale: dove sono i familiari dei passeggeri degli “aerei dirottati”? Semplicemente, non ci sono perché mancano le vittime stesse, a meno che non stiamo parlando di nomi di comodo inseriti in liste manomesse.

E, particolare agghiacciante, se davvero di “voli dirottati” si trattasse (ma è altamente improbabile, per non dire impossibile), che fine hanno fatto i veri passeggeri?

A mio modesto parere, da non specialista della questione, è questa la domanda capitale, il cuore di tutto il mistero, per capire se “l’11 settembre” è una colossale bufala oppure no.


Enrico Galoppini

 




 

 
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