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10 Febbraio 2013

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Chissà quanti cittadini in Italia e in Europa sanno che nel 2007 è stato firmato il trattato di Velsen, ratificato al Senato il 28 aprile 2010 con la legge 84 del 14 maggio 2010 che, di fatto, sancisce l’esistenza della Eurogendfor, gendarmeria europea sovranazionale. Chissà quanti sono a conoscenza del fatto che questa forza poliziesca europea, non è soggetta alle leggi dei tribunali nazionali e che Inghilterra e Germania sono escluse, in quanto la stessa gendarmeria non può agire in queste due nazioni. In pratica stanno creando – con la complicità dei parlamenti nazionali – una nuova “Gestapo”. Proprio in questi ultimi giorni, si è lavorato per il mandato di arresto europeo. Che cos’è? Semplice, se un rumeno, per esempio, in Italia compie un’azione che in Romania è reato, ma in Italia no, finisce in carcere. Ciò non è altro che il frutto maturo (anzi marcio) dell’universalità del diritto, di derivazione illuministica, solo che anziché estendere i diritti, rischia di cancellarli. Supponiamo di giungere a un mandato di arresto mondiale – cosa tutt’altro che impossibile – e che un cubano gay venga in Italia a fare sesso con un altro uomo. Che succede? Teoricamente dovrebbe essere spedito a Cuba per scontare il carcere, in quanto a Cuba l’omosessualità è reato. Ho fatto solo uno delle migliaia di esempi che potrei fare. Si procede a tutta velocità verso il Governo Mondiale, un governo che rischia di essere un insieme del peggio del comunismo e del nazismo.

Quando parlo di queste cose, generalmente mi si ride in faccia, negando che ci sia un reale rischio di un Quarto Reich, invece è proprio questo il rischio. In particolar modo la Germania sta tentando di realizzare con l’economia e la finanza, quello che non riuscì a realizzare Hitler con la Wehrmacht. La crisi economica dell’Europa è usata per mandare gli Stati nazionali in bancarotta, allo scopo di farli traghettare nello Stato europeo. Quando questo processo politico unitario sarà completato, l’Europa non sarà unita solo economicamente, ma lo sarà anche politicamente, con uno Stato e un governo europeo. Questo Stato- continente, sarà, di fatto, un impero tecno-finanziario antidemocratico, e l’Eurogendfor avrà il compito di reprimere con la forza qualsiasi tentativo di protesta sociale. Quanto accade in Europa, però, non è che parte di qualcosa di più ampio che si sta muovendo a livello globale. Andiamo a vedere quanto accade in Usa; qualcuno si è chiesto come mai improvvisamente le istituzioni americane si stanno accorgendo delle “stragi della follia” provocate dalla vendita di armi da fuoco, comprese quelle d’assalto? In Usa si è sempre dibattuto su questa questione, non si è mai giunti a una conclusione, ma adesso sembra che qualcosa stia cambiando. Come mai? Sono forse aumentate le stragi? A prescindere dalla propaganda, direi che statisticamente siamo nella solita media. La verità è che si sta cavalcando le notizie delle stragi, allo scopo di trovare una motivazione che consenta al governo americano di disarmare il suo popolo. Per quale motivo? Semplice, considerando la gravità della crisi economica in Usa e nel mondo, si prevede che possa compiersi un’insurrezione popolare in America e forse nel mondo. A dire il vero è molto probabile che queste rivolte siano volute dall’elite globale, allo scopo di creare un caos globale, in grado di sgretolare le unità nazionali e farle convogliare nel Nuovo Ordine Mondiale, ovverosi, un Governo dittatoriale globale. Basta vedere un film come “Il cavaliere oscuro: il ritorno” di Christopher Nolan, per averne una conferma. Nessuno nega l’indiscusso talento visionario del regista, né il fatto che il film in questione sia ben girato. Non si nega neppure a Nolan il diritto di credere nelle sue idee e nei suoi valori e anzi, possiamo affermare con certezza che questo genere di film – in forte aumento in Usa – rappresentano una boccata di ossigeno, all’interno della soffocante egemonia culturale “Liberal” che domina da troppo tempo ormai. Però è inutile che Nolan neghi che il film contenga un significato ideologico: il personaggio di Bane rappresenta l’anarchia e il male, ma è un male “necessario”, perché da questo caos sorgerà il Nuovo Ordine Mondiale, imposto dal “reazionario” Batman, che è il bene. Il film sembra influenzato da idee “relativistiche”, dove bene e male sono parte della stessa realtà. Punto di vista interessante e in parte anche vero, però che si dica esplicitamente: è tecno-nazismo, bellezza! Hollywood sembra volerci abituare all’ineluttabilità dell’evento imminente, in realtà creato ad arte dalle élite mondiali.

Ma quale sarebbe questo “bene supremo” necessario che giustificherebbe le guerre, le violenze, le crisi economiche, che stanno distruggendo stati, nazioni, popolazioni, in virtù di questo Nuovo Ordine Mondiale? Un’idea di come potrebbe essere questo paradiso terrestre ci è suggerito da una delle ultime orripilanti notizie che è circolata: la riforma Obama – già approvata – sancirebbe l’introduzione del chip RFID, un microchip che sarebbe installato dentro il corpo umano e che conterrebbe al suo interno non solo i nostri dati sanitari, ma anche il nostro conto bancario. Si delinea un futuro alla Orwell, dove l’individuo è annullato e risucchiato all’interno di un processo di omologazione, un collettivismo assoluto nel quale nulla di privato e d’intimo è più consentito. Non c’è bisogno di molte spiegazioni per dimostrare che una simile prospettiva è mostruosa, ma chiediamoci se c’è il rischio che ciò possa avvenire anche in Italia. Se consideriamo l’idea di Monti, Bersani e Vendola, concordi nel portare il limite massimo di utilizzo del contante a cinquanta Euro, e se consideriamo che circolano voci secondo le quali il loro obbiettivo finale sarebbe quello di arrivare ad abolirlo completamente, possiamo legittimamente temere che dall’obbligo di pagamento esclusivamente con carta di credito all’installazione del chip RFID, il passo non sia poi così lungo. Mi chiedo se la lotta all’evasione fiscale possa giustificare l’abolizione del contante o addirittura l’inviolabilità del proprio corpo. Chi scrive quest’articolo non ha mai posseduto una carta di credito, né un conto in banca. È evidente che se il contante fosse abolito, sarei costretto a cambiare abitudini. Posso essere libero di non voler possedere carte di credito o conti in banca? È democratica una società che obbliga ad aprire un conto in banca – facendo, di fatto, un favore alle banche – e pagare con carta di credito? E ancora: se voglio fare l’elemosina a un mendicante, come faccio? E mi sia consentito: se una persona vuole andare con una prostituta, come fa? È evidente che in tal caso la carta di credito sarebbe bloccata, non limitandosi a trasformare un’azione immorale in un reato penale, ma, di fatto, rendendola impossibile da compiere. La carta di credito – e peggio ancora – il chip, non sono solo mezzi per spiarci, per sapere in ogni istante, quanti soldi abbiamo, come li abbiamo avuti e come li spendiamo. Se per esempio compro un libro di tizio, anziché di Caio, se finanzio un partito, se pago una prostituta, se ho il vizietto di bere o fumare, se sono un filantropo, ecc, tutte cose che dovrebbero rimanere leggibilmente questioni personali. Ma ancor peggio, l’obbligo della carta di credito o il chip, consentirebbero alle oligarchie tecno-finanziarie, di avere il controllo assoluto sul nostro potere d’acquisto: sono loro che controllano la nostra carta o il nostro chip e se non ubbidiamo a lorsigori, disattivano, e noi non possiamo più accedere al nostro conto. Sarebbe la più orrenda e la più materialistica delle dittature della storia. Di fronte ad una prospettiva simile, non ci possano essere “vie di mezzo”, il “passaggio al bosco” jungeriano deve essere assoluto. Alla dittatura totale, si risponde con la ribellione totale!

Gianluca Donati

  

 

 

 

 

 

 

  

 
Società del malessere PDF Stampa E-mail

6 Febbraio 2013

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 Da La Voce del Ribelle del 30-1-2013 (N.d.d.)

Una verifica empirica sull'andamento dei risparmi dei cittadini, condotta a livello europeo per via di una commissione della Ing Bank ed estesa a oltre 14 mila persone divise in tantissimi paesi (Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia e Regno Unito) ha evidenziato, numeri alla mano, un dato inequivocabile. Soprattutto, ci offre la possibilità di interpretare tale dato e dunque fare una previsione che a questo punto viene confermata in corso d'opera.

Ad effettuare il sondaggio è stato l'istituto tedesco TNS, e il quadro che ne esce non può essere frainteso: un terzo degli europei non ha soldi, circa la metà non riesce proprio a risparmiare, nel senso che spende tutto il denaro che ha - come in Italia e in Spagna - oltre ovviamente a quelli che pur spendendo tutto ciò che hanno non riescono in ogni caso ad arrivare alla fine del mese. Non solo: da quanto emerge dal sondaggio, vi sono più europei che dicono che sarebbero in grado di vivere dei loro risparmi per almeno tre mesi (49%), rispetto a quelli che invece affermano che non potrebbero in alcun modo (47%).

Insomma, anche per chi ne ha ancora, i risparmi stanno finendo, e visto che di lavoro ce ne è poco, una volta finito ciò che si ha da parte si apriranno le porte dell'indigenza.

Si tratta, anche solo a prima vista, degli ovvi effetti della crisi in cui siamo, ma molto più che solo a livello numerico, lo studio porta a evidenziare un cambiamento sensibile proprio dal punto di vista sociale. In altre parole, la crisi in corso e i suoi aspetti economici plasmano la società ben oltre i numeri. 

Spieghiamoci: l'austerità imposta dai vari governi, ad esempio quello italiano e quello spagnolo, ha evidentemente relegato i due Paesi nella spirale recessiva che può solo avvitarsi su se stessa. Meno lavoro, meno denaro a disposizione e soprattutto, congiuntamente, visti i tagli allo Stato sociale, meno servizi. Il che significa che i pochi denari privati che si hanno (o che si avevano) vengono utilizzati esclusivamente, quand'anche bastassero e in molti casi non è neanche così, per soddisfare i meri bisogni primari. Non c'è il benché minimo margine per poter accedere a nulla di ciò che la società dei consumi sino a ieri poteva "consentire". Altri interessi, che siano culturali o di hobbystica o di carattere ludico, semplicemente sono stati tagliati del tutto dalla maggior parte dei cittadini.

Ciò implica evidentemente un cambiamento paradigmatico che molti si ostinano a non voler comprendere neanche avendolo davanti agli occhi, e che è però da solo in grado di tratteggiare, già oggi, un modello di vita completamente differente rispetto a quello di ieri. Il che ha delle evidenti conseguenze non solo dal punto di vista patrimoniale e potremmo dire fisico, ma anche psicologico e spirituale.

L'accordo implicito della società dei consumi, sintetizzando al massimo ed esprimendoci in parole molto semplici, era quello di vivere in situazioni evidentemente alienanti (traffico, caos e accettazione di lavori che in larga parte umiliavano nell'intimo la persona stessa) ma in cambio offriva l'accesso al consumo. Ammesso e non concesso che il meccanismo fosse giusto e accettato - e in larga maggioranza lo era (sic) - ci si piegava a fare una vita in fin dei conti noiosa e poco soddisfacente, quando non anche decisamente faticosa dal punto di vista dello stress, e si veniva ripagati potendo accedere all'acquisto di una serie infinita di "cose".

Oggi tale accordo è saltato: si continua a fare una vita poco soddisfacente, e anzi ancora di più di prima, visto che a favore della produttività e del contenimento dei salari si lavora di più, peggio e per stipendi che si riducono, e allo stesso tempo non si ha accesso più al consumo né si può sperare (a meno di credere al nulla) di riavere indietro, magari in futuro, in vecchiaia, ciò che lo Stato sino a ieri prometteva: pensioni, sanità, servizi.

In sostanza: si lavora - e male - e si sopravvive a malapena. E di qui in avanti sarò plausibilmente ancora peggio.

Dal punto di vista sociologico abbiamo dunque società che sono composte in larga maggioranza da individui insoddisfatti che non si possono permettere altro che lavorare come schiavi e quindi tornare a casa, per riposarsi pronti per la prossima giornata di guerra, in una situazione se non di stenti almeno priva di tutto quanto sia oltre la mera sopravvivenza. In altre parole, priva di tutto ciò che potrebbe dare un senso alla vita stessa.

Quali che siano le conseguenze di una società che volge alla tristezza e all'alienazione più profonda è difficile dire. Storicamente, in Europa, e in particolare in Germania, è facile ricordare dove sfociò, negli anni Trenta, una situazione generale di questo tipo. Ma per quanto riguarda i giorni nostri siamo solo agli inizi. 

Valerio Lo Monaco 

 
Diritti gay PDF Stampa E-mail

3 Febbraio 2013

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Da Voce del Ribelle del 23-1-2013 (N.d.d.)

 

Che noia, questo Obama. Il politico più progressista e cool del pianeta per rilanciarsi non trova di meglio che rispolverare il politically correct per antonomasia, scontato e innocuo, dunque perfetto per il sentimentalismo liberal a buon mercato: la sorte dei «fratelli e sorelle gay». Premessa: da parte di chi scrive nessuna moralina cristianeggiante - per l’esattezza: alla Paolo di Tarso, pervertitore dell’amorale Cristo - né alcun pregiudizio tardo-borghese d’importazione puritana. Personalmente, da pagano, sia pur moderno e perciò miscredente, vedo la sessualità come un ingrediente naturale, istintivo, ludico, dionisiaco, goloso, ferino, e amare un uomo o una donna dovrebbe essere affare libero e privato. L’eros antico avrebbe molto da insegnare ai nostri residui preconcetti e sensi di colpa derivati da duemila anni di repressione sessuofoba. Ma c’è una differenza fondamentale, un limite invalicabile perché anch’esso dettato dalla natura: nell’unione fra un uomo e una donna è inscritta la procreazione, la nascita della vita; nell’amore fra due persone dello stesso sesso, no. È così e basta, e saggezza vorrebbe che questo discrimine sia rispettato, venerando il principio stesso su cui la natura-madre crea l’uomo e armonizzandovi il suo corrispondente sociale e legislativo. Con ragionevolezza, prendendo atto che alcune esigenze attuali sono passabilissime. In breve: no al matrimonio gay, in quanto sterile; sì ai diritti di buonsenso per le coppie omosessuali. 

Approfondiamo. Un conto è la questione delle convivenze, un altro il bisogno di riconoscimento delle relazioni omo. Due conviventi possono essere un uomo e una donna, e lo sono sempre di più in quest'epoca secolarizzata e individualista in cui al matrimonio civile o religioso i giovani preferiscono un eterno e meno impegnativo fidanzamento. Ma possono essere anche due amici che condividono lo stesso tetto per smezzare il caro-vita, oppure due vecchietti o nonnine che alleviano la solitudine abitando insieme. 

Ora, se un ragazzo e una ragazza non vogliono assumersi la responsabilità giuridica e sociale dei doveri matrimoniali, non si vede perché debbano poter pretenderne i conseguenti diritti. Per gli altri, dal testamento per la successione, dalla delega per le cartelle cliniche alla cointestazione dell'affitto, le leggi esistenti prevedono blande tutele. Insufficienti? Le si integrino con misure come il certificato di famiglia anagrafica adottato in alcuni Comuni italiani. Ma è troppo facile rifiutare di sposarsi con atto pubblico ed esigere la stessa considerazione di chi si sposa: è volere la botte piena e la moglie ubriaca. Spiace per i giuristi lettori di Harmony, ma l'amore-sentimento, bellissimo desiderio, non compete al legislatore. Ed è bene che continui a non competergli, onde evitare di ficcare il naso nella nostra intimità.

Diverso il discorso per le coppie gay. La sentenza 4148 della Cassazione del 15 marzo 2012 ha respinto la trascrizione in Italia di un matrimonio fra due uomini avvenuto all'estero. Nel nostro paese, infatti, è assente una legislazione in merito. Al contempo, tuttavia, la suprema corte ne ha sostenuto la necessità, invocando per gli omosessuali un "trattamento omogeneo" a quello dei coniugi etero. 

La Cassazione, che non è il verbo divino in terra, ha torto a chiedere un'equiparazione tra matrimonio e unione gay. E non tanto per il famoso dettato della Costituzione, che pure all'articolo 29 parla correttamente di famiglia come "società naturale". Quanto, piuttosto, per una constatazione pre-costituzionale e pre-sociologica: la famiglia è tale se ha come scopo ultimo la prole, il donare la vita. Lo stesso significato di matrimonio rimanda alla maternità, a sua volta indissolubilmente legata, e non potrebbe essere altrimenti, alla paternità. Le eccezioni sfortunate, come le coppie incapaci di procreare, confermano la regola decretata dalla differenza fra sessi. 

Il matrimonio omosessuale (attenzione: non la relazione e men che meno il sesso, Dio ci scampi e liberi dall'omofobia pretesca) è un controsenso biologico. E lo è anche dal punto di vista psicologico, perché l'equilibrio naturale del bambino non è dato solo dall'amorevolezza e dalle cure, ma dall'educazione interiore e dall'esempio inconscio che solo una coppia uomo-donna può dare. Il complesso di Edipo diventerebbe una fantasia letteraria di Freud se ci convincessimo dell'idea assurda che basta il semplice "affetto" di due persone, a prescindere del loro genere, per crescere futuri adulti psicologicamente sani e completi. Perciò trovo l’adozione o i figli in provetta per i gay profondamente sbagliate: il bene del bambino è superiore alla volontà egoistica di essere padri o madri quando non si può esserlo. 

Sotto il profilo sociale, infine, una società che non predilige l'eterosessualità si allontana da quello che, piaccia o no, la natura ha decretato come presupposto dell'esistenza stessa: la tensione degli opposti che genera l’energia che sostiene il mondo, senza la quale la vita cesserebbe - e sappiamo quale prezzo stiamo già pagando in termini esistenziali per aver rimosso e rinnegato i limiti e i ritmi naturali in tanti aspetti della nostra vita, rendendola un consumo usa-e-getta di oggetti e sensazioni mercificate, meccanizzate, commercializzate, superficializzate. 

Detto questo, penso che diritti minimi, di buon senso, vadano riconosciuti agli omosessuali. Soddisfare bisogni elementari e sacrosanti senza stravolgere l'impianto del matrimonio, mi pare una cosa altrettanto naturale e giusta. Per dire: non è umanamente ammissibile che in ospedale il compagno di un malato non possa ricevere informazioni sulla sua cartella clinica. In sintesi, vedo bene quelle unioni civili limitate ad una serie di garanzie, per l'appunto, di decenza civile. 

Un'ultima considerazione finale. L'amore dovrebbe essere la cosa più libera del mondo, anche dalle leggi. Compreso quello omosessuale, che come impulso è naturale tanto quanto quello etero, visto che si tratta di un’inclinazione che segue gli oscuri meandri della psiche, e perciò non va né condannato né esaltato, ma semplicemente accettato. Ma è sempre la natura ad averlo reso sterile e inadatto al ruolo differenziato di padre e madre, e nessuno può farci nulla. Se altri popoli in materia hanno fatto scelte legislative diverse, questo non significa automaticamente che occorra imitarli. Altrimenti potrà saltar fuori qualcuno a chiedere d'imitare la democraticissima e liberalissima Inghilterra (dove è lecito adottare per le coppie omosessuali), ad esempio, che so, nei licenziamenti più facili. Ops, dimenticavo: questo l’hanno già fatto abbondantemente, da un pezzo, e con saccenza tipicamente liberale. 

Alessio Mannino 

 

 

 
I mali della pace? PDF Stampa E-mail

31 Gennaio 2013

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Erich Fromm nel suo “Anatomia della distruttività umana” ha sostenuto che la causa ultima delle guerre è l’aggressività innata nella specie umana, la pulsione verso la distruzione e la morte. Anche l’ultimo Freud vide nell’umanità del XX secolo  una crescente propensione verso Thanatos, l’istinto di morte, l’altro polo dialettico rispetto a Eros.

Pertanto le varie cause che storici e politologi individuano per spiegare le guerre, sarebbero niente altro che pretesti. Non le motivazioni economiche, non il controllo delle risorse, non il bisogno di fare razzìa di schiavi, non l’odio etnico o settario, non il calcolo di impadronirsi di posizioni strategiche prima che lo facciano potenziali nemici, ma l’istinto primario di sopraffazione e di esercitare la violenza è la causa vera dei conflitti.

 Se questa carica aggressiva non si sfoga all’esterno, finisce con lo scaricarsi all’interno della stessa comunità, con conseguenze che possono portare alla sua dissoluzione. Oppure la compressione dell’istinto che porta a crearsi un nemico e a combatterlo, infiacchisce gli animi e corrompe i costumi. Se la violenza non è esercitata all’esterno, finisce col manifestarsi in guerra civile o a tramutarsi nell’infiacchimento della decadenza. Era quanto intendevano gli antichi romani col loro detto longae pacis patimur mala: soffriamo i mali di una (troppo) lunga pace.

 Seguendo questa linea di pensiero, dovremmo concludere che i casi frequenti di follia omicida , gli scontri fra le fazioni rivali nelle competizioni calcistiche, gli atti apparentemente insensati di puro teppismo, sono la conseguenza di una pace pluridecennale.

Perfino il fenomeno del femminicidio, da non confondersi con lo stupro, essendo il femminicidio un omicidio, quasi sempre  entro le mura domestiche e attuato da compagni delle vittime, potrebbe essere interpretato in questa ottica. La carica di violenza che l’obbligo del “politicamente corretto” non permette più di sfogarsi sul nemico esterno, si rivolge contro un altro oggetto, nell’intimità stessa della casa, contro la donna muscolarmente più debole ma altrettanto aggressiva, competitiva e prevaricatrice.

 Questo modo di ragionare è non solo pericoloso ma sbagliato.

Gli istinti aggressivi possono essere deviati e controllati. La pratica sportiva, la competizione fisica, è da sempre una guerra ritualizzata, un modo per sfogare l’aggressività rendendola innocua. Cos’altro è in una partita di calcio l’azione di una squadra che invade la metà campo avversaria per impadronirsene e violare la sua porta se non una guerra ritualizzata e risolta in modo simbolico?

Se l’aggressività diventa scontro con le armi, strage e sopraffazione sul nemico vinto, ci sono motivazioni economiche, politiche, interessi di gruppi sociali, che devono essere denunciati. Inoltre vediamo che i reduci dai fronti, anziché diventare persone pacifiche che hanno scaricato la loro aggressività contro un nemico esterno, sono abbastanza spesso segnati dalla violenza in modo tale da diventare psicopatici con la coazione a ripetere anche nella vita civile i comportamenti violenti dei loro traumi bellici. Del resto la guerra odierna, almeno quella condotta dalle forze armate supertecnologiche dell’Occidente, facendo largo uso di droni, robot, armi telecomandate, non è più lo scontro fisico diretto dei guerrieri di un tempo, escludendo con ciò qualunque tentativo di riscattarla in nome di una presunta istintualità che richiede di sfogarsi.

Quanto al femminicidio, qualunque tentativo di sminuirne la gravità sarebbe colpevole.

Se sommiamo alle più di cento donne uccise in un anno in Italia dai loro uomini le tante altre  che vengono ferite o pestate a sangue, abbiamo il quadro di un conflitto fra generi che si fa crescente quanto più si affievolisce il conflitto fra le generazioni.

Qui siamo in presenza non di un istinto aggressivo che non sfogandosi più contro il nemico esterno lo trova fra le mura domestiche, ma di un uomo che non ha saputo riposizionarsi adeguandosi a quella rivoluzione femminile che, piaccia o non piaccia, era inevitabile in un’epoca in cui le uniche cause dell’inferiorità sociale delle donne, la minore potenza muscolare e le frequenti gravidanze, non esistono più o non hanno più l’incidenza di un tempo. L’uomo ha reagito al nuovo protagonismo femminile o deresponsabilizzandosi e femminilizzandosi o, nei casi estremi ma sempre più frequenti, col ricorso alla regressione verso la violenza improvvisa e irriflessa.

 

Ci sono colpe, ci sono responsabilità che esigono la critica consapevole e l’autocritica. Non è il caso di trovare il facile capro espiatorio in una generica tendenza naturale alla violenza.

 

Luciano Fuschini            

 
Europa e sovranità nazionale PDF Stampa E-mail

26 Gennaio 2013

 

“Una volontà unica, formidabile, capace di perseguire uno scopo per migliaia di anni”; con questa frase Nietzsche definiva il destino ineluttabile dell’unificazione europea. Che Nietzsche detestasse il nazionalismo e ritenesse di dover andar oltre il concetto di nazione, per ricollegarsi all’idea di Impero, nel senso di un recupero del modello classico greco-romano e pagano, è cosa risaputa. Nel pensiero decadente di Thomas Mann c’e la stessa consapevolezza nicciana del nichilismo imperante e perciò anche la percezione della crisi europea, ma in Mann tale percezione si ammanta di una patina opaca di pessimismo conservatore; dove in Nietzsche il pessimismo dionisiaco è produttivo perché tradotto in azione “tragica”, in Mann, viceversa, volge verso un senso crepuscolare di sconfitta.

La storia ha purtroppo dato ragione a Mann, perché la Volontà di potenza nicciana – seppur arbitrariamente interpretata – si è tradotta nella furia nazista, dove il sogno di un’Europa unificata è degenerato nel delirio del III Reich hitleriano. La sconfitta storica del nazismo non ha però cancellato il sogno dell’unificazione europea; infatti, dal dopoguerra comunismo e capitalismo – che Massimo Fini definisce due facce della stessa medaglia – hanno perseguito lo stesso obbiettivo e “le destre”, malgrado appaiano antieuropee o euroscettiche, sembrano in realtà avere in mente “un’Europa diversa”. Tranne rari casi, anche a destra non si chiede di tornare alla “sovranità monetaria”, bensì la trasformazione della Banca centrale europea in prestatore di ultima istanza per proteggere l'euro dagli attacchi speculativi, mantenendo la sua indipendenza funzionale e coordinandosi con le altre istituzioni rappresentative. Non viene però specificato come ciò potrebbe risolvere gli attuali problemi: se s’immagina una Banca centrale europea indipendente dagli stati nazionali, di fatto, immaginiamo o una Banca centrale europea, privata, che domina sopra gli stati nazionali o viceversa una Banca centrale europea, pubblica, che in quanto tale implica la creazione di uno Stato Europeo e quindi il superamento del concetto di Stato nazionale.

Quelle forze politiche che si definiscono “nazionali” o “nazionaliste”, in realtà vogliono superare l’attuale Europa solo “economica e monetaria”, per giungere alla creazione dell’unificazione politica dell’Europa. Questa posizione tradisce reminiscenze nicciane ed evoliane e il sogno di un’Europa intesa come nuovo “Impero Romano d’Occidente”. Comunque sia, qualsiasi progetto di Europa significa la perdita di sovranità nazionale e quindi il rischio di disperdere la propria identità culturale. Anche nel pensiero di Alain de Benoist e di Massimo Fini, si prevede l’inesorabilità del superamento del concetto di stato-nazione. Benoist, pur essendo piuttosto critico nei confronti dell’attuale Unione Europea, è tornato recentemente a criticare il “sovranismo”, affermando che “un’altra Europa è possibile”. Il pensiero di Benoist volge verso un’idea di Europa unita e federale, dove il concetto di nazione è superato, in virtù di una visione d’identità regionali unite da un comune senso di appartenenza continentale. Il debito nei confronti di Nietzsche e di Carl Schmitt è palese. Fini ha scritto un articolo, riportato anche da questo blog, nel quale affermava che l’Europa è nata male, perché sarebbe dovuta nascere prima l’Europa politica e solo successivamente quella economica e monetaria, e rilevava come l’unificazione europea sui versanti politico, economico e militare, sia sempre stata temuta e quindi ostacolata dagli Usa. La conclusione è che nessuno stato nazionale europeo può da solo competere con gli Usa e ancor meno con potenze emergenti come Cina, India e Brasile.

Personalmente mi devo dire scettico; quando ci domandiamo cosa unisca veramente l’Italia, viene a mente la lezione di Pasolini che indicava nella lingua l’elemento unificante, una lingua di derivazione latina che con Dante, Petrarca e Boccaccio, era diventata lingua nazionale; ma a unire l’Europa, non c’è neppure una lingua e se ci fosse sarebbe sicuramente l’inglese. Le differenze, non solo linguistiche, ma anche etniche, culturali, e in parte religiose, sono tali da non ritenere auspicabile – dal mio punto di vista – un processo unificante. L’unificazione politica dell’Europa, comporterebbe un’unificazione culturale e quindi  un processo di omologazione tipico di una visione mondialista e incoerente con un pensiero antimodernista. Il pensiero di chi vuole un’Europa delle piccole patrie rivendica il suo tradizionalismo, in virtù del fatto che già l’era cristiana rappresenta una “decadenza moderna” che deve essere superata per ricostituire un’era pagana pre-cristiana. Con questo escamotage, si pretende di dare una parvenza di coerenza tradizionalista e antimodernista a un pensiero che invece condivide con il mondialismo l’idea fondante: l’unificazione e la semplificazione. Alla fine, tutto si esaurisce in un semplice scontro tra due diverse visioni d’Europa: quella illuminista di matrice comunista/capitalista e quella medievale di matrice tradizional-antimodernista. Supponiamo anche che questo sia giusto e sufficiente per preservare le varie identità, pur in un ritrovato spirito continentale unitario: com’è possibile non temere che sbriciolare le nazioni europee in tante “piccole patrie” non sia altamente pericoloso in tempi di globalizzazione? Non potrebbe essere che i fautori del mondialismo non solo non lo temano, ma anzi incoraggino i moti secessionistici e separatistici, perché potrebbero facilitare il processo unificante euromondialista del Nuovo Ordine Mondiale?  E se poi vogliamo parlare della necessità di unire i popoli nelle “piccole patrie”, allora invece dell’unificazione europea, sarebbe opportuna l’unificazione dei tre principali ceppi etnici: i nordici, gli slavi e i latini; tre ceppi che dovrebbero rimanere separati e distinti tra loro, non per motivi razziali bensì per ragioni identitarie. L’Italia ha molto più in comune con le popolazioni arabe, con l’Africa settentrionale e il Medio Oriente; più che all’Impero Romano d’Occidente, bisognerebbe aspirare a un nuovo Impero bizantino, ma ciò non implica necessariamente un’unità né monetaria, né politica. Seppur consapevole che questa mia opinione non sia condivisa né da Benoist, né da Fini, affermo di ritenere che l’unico argine possibile alla globalizzazione mondialista sia il ritorno senza indugi alle sovranità monetaria e nazionale. 

Gianluca Donati

 

 

 

  

 
Diritti di voto PDF Stampa E-mail

23 Gennaio 2013

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Il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri ha negato agli studenti italiani all’estero la possibilità di partecipare alla prossima consultazione elettorale.

Motivazione: "non potranno andare al voto perché proprio tecnicamente non è possibile, in quanto per potere essere elettori bisogna essere iscritti nelle liste elettorali dell'Aire [Anagrafe italiani residenti all'estero] e non sono previste per chi sta all'estero da meno di un anno. E poi non ci sono i tempi tecnici per istituire delle liste elettorali.".

Così 25 mila cittadini italiani – perfettamente informati sulla situazione politica italiana e che ritorneranno a breve in un’Italia che non possono contribuire a cambiare – non avranno la possibilità di esprimere le proprie preferenze elettorali. Al contrario centinaia di migliaia di cittadini stranieri – la maggior parte con doppia nazionalità – che non hanno nessuna conoscenza di un’Italia di cui hanno solo il passaporto e che sono perfettamente integrati da decenni – se non da sempre – in realtà sociali e politiche differenti, potranno contribuire a modificare un Paese che non è più il loro e che di cui sovente neppure conoscono la lingua.

Da dove nasce quest’ennesimo nonsenso all’italiana?

Nasce dalla brillante idea di Mirko Tremaglia – ex-repubblichino di Salò, poi MSI, AN e infine Pdl - di regolamentare il diritto di voto agli italiani all’estero, divenuta legge il 27 dicembre 2001 (Legge 459).

Se l’idea era targata inizialmente AN va notato che essa è stata tosto entusiasticamente condivisa da tutto l’arco costituzionale; ci mancherebbe di dover perdere qualche voto in un piatto così ricco…

La legge 459, dunque, sancisce la possibilità di eleggere rappresentanti dei cittadini italiani residenti all’estero in quattro circoscrizioni: Europa, (compresa Turchia e territori della Russia orientale) America del Sud, America del Nord e del Centro e infine Africa, Asia, Oceania e Antartide.

Ciascuna di queste quattro circoscrizioni ha diritto a un deputato e a un senatore. Ulteriori 12 deputati e 6 senatori vengono poi nominati in base al “numero dei cittadini italiani che [in tali circoscrizioni] risiedono”. Per essere eletti non è necessario essere nati in Italia ma è sufficiente risiedere nella circoscrizione scelta ed essere iscritti all’Aire.

Ma su questa legge e sui suoi effetti perversi – com’è facilmente comprensibile - c’è molto da discutere.

Così, per approfondire la questione, abbiamo voluto indagare più a fondo parlando con gli ‘addetti ai lavori’ delle nostre rappresentanze diplomatiche all’estero.

E siamo venuti a conoscenza di alcuni aspetti poco noti al grande pubblico, ma non per questo meno ‘illuminanti’ su una situazione davvero bizzarra.

Dividiamo allora la nostra analisi in quattro punti.

1- Che senso ha il voto degli italiani all’estero? Dovrebbe essere quello di dare l’opportunità a persone che sono momentaneamente fuori dall’Italia, che contano di ritornarci, che comunque pagano le tasse in Italia e per le quali l’Italia è il Paese principale, di dare il proprio contributo alla res publica.

Invece no.

La maggior parte dei votanti sono cittadini italiani per Jus sanguinis (magari era italiano il nonno e loro non sono mai stati in Italia) e dell’Italia non hanno neppure il ricordo. Figuriamoci la conoscenza delle nostre leggi e dei nostri bisogni. Cosa rappresenta dunque il loro voto? Nulla, solo un gioco politico e un tornaconto economico per i soliti noti.

A margine vale la pena forse ricordare che lo stesso personale delle sedi consolari italiane all’estero può votare solo da pochissimi anni.

2 – L’invio delle schede e la sicurezza. Secondo la legislazione vigente gli italiani residenti all’estero da oltre un anno possono votare per corrispondenza, inviando per posta la scheda elettorale che ricevono dal proprio consolato o ambasciata. Ora, una parte dei ‘plichi elettorali’ va regolarmente smarrita o ritorna al mittente, e, a quel punto, l’elettore – se è al corrente delle elezioni - può ritirarne una copia presso il consolato o l’ambasciata. Se vive nella città dove c’è la nostra rappresentanza, bene, ma chi vive lontano dalle sedi diplomatiche? Magari a ore di volo di distanza? Poi, una volta votato, le schede devono tornare alle sede diplomatiche via posta ordinaria. Ci arrivano veramente? E, una volta arrivate, chi garantisce quello che accade dopo? Come varie esperienze passate dimostrano, questo sistema è ampiamente esposto alla possibilità di brogli.

3 – I costi. Se per le elezioni politiche 2008 sono stati spesi 16 milioni di euro, per i referendum del 2011 l’onere a carico del contribuente italiano è stato di circa 24,5 milioni di euro. Nel 2011 coloro che avevano diritto al voto erano 3.300.496, di cui sono risultati votanti 761.752, vale a dire il 23,07% del totale. Ora, gli italiani all’estero rappresentano ben il 7% di tutti gli aventi diritto; come si vede una percentuale abbastanza rilevante per modificare i risultati elettorali, che dunque non può non far gola ai nostri politicanti, di qualsiasi colore

Ma, come si è detto, la gran parte di queste persone non ha alcun legame con il nostro Paese. Senza contare quanto ci vengono a costare gli eletti, i quali, vista la distanza fisica dall’Italia, hanno diritto a rimborsi e prebende milionarie.

Vediamo quali.

Camera - Nel bilancio 2012 della Camera i 12 deputati eletti nelle circoscrizioni estere hanno ottenuto ben 950 mila euro solo come rimborso per i viaggi aerei. Che fanno 80 mila euro tondi tondi all’anno solo per gli spostamenti 

Poi c’è il capitolo dei ‘furbacchioni’ – e qui davvero c’è da pensare che il DNA italico si mantenga inalterato anche nelle seconde e terze generazioni dei trapiantati all’estero – che camuffano allegramente i loro viaggi di piacere con missioni istituzionali. Naturalmente i costi delle ‘vacanze italiane’ sono a carico nostro. Ma, d’altra parte, il Paese dei ‘furbacchioni’ metropolitani, dei Lusi, dei Fiorito, dei Formigoni, come poteva restare sordo alle esigenze dei ‘furbacchioni’ esteri?  Questi signori vengono chiamati – con un bizzarro senso dell’umorismo - i ‘missionari’, perché ‘costretti’ a viaggiare da un capo all’altro del mondo per esercitare la propria attività nel loro feudo elettorale.

Rimborsi di viaggio a parte i nostri bravi deputati eletti all’estero portano a casa un lordo di 10,435 euro/mese, mentre il rimborso per le spese di soggiorno a Roma è di altri 3.503,11 euro/mese. Ogni giorno di assenza produce un decurtamento di 206,58 euro, ma se si partecipa almeno al 30% delle votazioni, si è considerati presenti.

Poi ci sono altri 3690 euro; 50% a titolo di rimborso di spese documentate (collaboratori, consulenze, ricerche, gestione dell’ufficio, uso di reti pubbliche di dati, convegni etc) e 50% a forfait. Per spostarsi hanno una tessera di libera circolazione mentre per i trasferimenti casa-aeroporto e Fiumicino–Montecitorio ricevono 3.323,70 euro ogni tre mesi, che salgono a 3.995,10 euro se la distanza da percorrere supera i 100 km.

Ma non è finita qui; va aggiunta un’indennità annua di 3.098,74 euro per le spese telefoniche.

Poi, a fine mandato, il deputato ‘estero’ incassa un assegno pari all’80% dell’importo mensile lordo dell’indennità per ogni anno di ‘lavoro’ o per ogni frazione inferiore a sei mesi. In pensione – udite gente - si va a 65 anni dopo un mandato di almeno 5 anni. Per ogni anno in più diminuisce l’età minima, fino a 60 anni.

Mentre al cittadino qualsiasi non ne bastano 40 di anni di lavoro per andare in pensione! 

Senato – I senatori ricevono una indennità lorda di 12.005,95 euro con una diaria di 3.500 euro, somma da ridurre di un quindicesimo se non partecipano ad almeno il 30% delle votazioni della giornata. Per le attività vengono erogati 4.180 euro, di cui 1.680 corrisposti direttamente al politico e 2.500 versati al Gruppo parlamentare cui appartengono. E i rimborsi forfettari? 1.650 euro l’anno, comprensivi di spese di viaggio e spese telefoniche.

Ecco che allora, pur rappresentando cittadini che – per la maggior parte - del nostro Paese sanno e si curano ben poco, gli onorevoli ‘esteri’ guadagnano molto di più degli omologhi italiani, che pure – come è ben noto – non si fanno mancare nulla.

4 – Il lavoro delle rappresentanze. Dopo i tagli della benemerita spending review montiana i bilanci e il personale delle sedi diplomatiche all’estero sono stati ampiamente – ed empiamente - falcidiati.

Non vi sono più fondi per la rappresentanza, per la lingua e cultura italiane, per gli eventi artistici, nonostante i tromboni governativi si riempiano la bocca con il refrain ‘2013 anno della cultura italiana’.

Eppure si trovano senza problemi oltre 25 milioni di euro di fondi per il nonsenso del voto degli italiani all’estero che comporta evidentemente un superlavoro che aggrava una situazione di già precario equilibrio.

Infatti – a differenza di altri Paesi dove il cittadino residente all’estero deve andare precedentemente a registrarsi presso il proprio consolato per attestare il suo diritto al voto e poi andare a votare – le nostre rappresentanze diplomatiche fanno l’inverso: vanno a ‘cercare’ i cittadini italiani sulla base delle liste Aire. Ciò richiede un enorme lavoro di aggiornamento dei dati anagrafici che comporta – come scrive una nota del Ministero Affari Esteri – “l’impiego a tempo pieno di uno o due addetti in media per ciascuna sede diplomatica o consolare, di un ufficio (sei funzionari/impiegati e un diplomatico) presso la sede centrale, nonché l’assunzione di mano d’opera temporanea presso le sedi all’estero in occasione delle singole consultazioni per le operazioni di “allineamento” dei dati” ). Ora – prosegue giustamente il documento –“questo personale potrebbe essere impiegato nella promozione economica o culturale dell’Italia. Da non sottovalutare, inoltre, che ogni Capo Missione o Capo ufficio all’estero è costretto a dedicare alla materia gran parte del proprio tempo per almeno un mese in occasione di ogni singola consultazione elettorale, a inevitabile detrimento di altri settori”.

Così, grazie alla ‘caccia all’elettore’ condotta faticosamente dalle rappresentanze precedentemente ‘sfoltite’, i residenti all'estero ricevono a domicilio il plico elettorale contenente le schede e le istruzioni sulle modalità di voto. All’impegno lavorativo dei funzionari consolari vanno poi aggiunte le spese di spedizione postale verso oltre 3 milioni di persone, i costi postali dei plichi che ritornano al mittente, e non solo.

Già, perché la ciliegina sulla torta è costituita dai costi pubblicitari sui media locali, volti a comunicare l’esistenza della sessione elettorale.

Insomma, se tu sei un italiano che dell’Italia non sa più nulla e che magari ha cambiato domicilio e non è in grado di ricevere il plico, si presume che, aprendo il giornale della tua città, tu venga ‘casualmente’ a sapere delle prossime elezioni in Italia e, di conseguenza, ti precipiti in consolato per ritirare la tua scheda elettorale.

Peccato, però, che oltre a pagare queste inserzioni pubblicitarie normalmente a pagina intera a prezzo pieno – in quanto non clienti abituali – il ritorno delle stesse è praticamente infinitesimale, non producendo effetti sensibili sul voto.

Un voto che quindi, oltre a presentare gravissime lacune che ne compromettono la sicurezza, è costosissimo e crea seri problemi di funzionamento alla rete delle rappresentanze italiane all’estero.

Vogliamo azzardare delle conclusioni?

Allora, diciamo che mentre gli studenti italiani all'estero - che dovrebbero rappresentare l’avanguardia intellettuale e sociale del Paese e una garanzia per il futuro - o tornano in Italia a proprie spese o non possono esprimere il proprio voto alle elezioni politiche, centinaia di migliaia di connazionali – che d’italiano hanno solo il passaporto e talvolta neppure il cognome – possono esprimere a nostre spese un voto totalmente estraneo ai loro e ai nostri interessi.

Ma in fondo questo nonsenso appare in linea con la consolidata tendenza della governance italiota, che potrebbe venir così sintetizzata: nessun interesse per i giovani, per la scuola, per la ricerca, per l’arte, per la salute, ma grande riguardo per la casta, gli interessi particolari, le spartizioni dei partiti.

 

Piero Cammerinesi 

(corrispondente dagli USA di Coscienzeinrete Magazine e Altrainformazione)

  

 
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