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Le pretese della tecnologia PDF Stampa E-mail

13 Febbraio 2013

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Sintesi di un articolo apparso su Rassegna di Arianna dell’ 1-2-2013. (N.d.d.)

 


La vecchia e ormai stucchevole discussione se la scienza e la sua derivata, la tecnica, siano un bene o un male per la maturità etica dell’individuo e della società, sempre più malamente riesce a celare, dietro i suoi veli pretestuosi, il problema di fondo che si cerca di occultare, proprio sommergendoci sotto un mare di chiacchiere insulse: e cioè che la scienza e la tecnica, o meglio l’odierna tecno-scienza, non sono in grado di salvare nessuno, né l’individuo, né la società, per il loro stesso statuto ontologico; eppure, surrettiziamente, si cerca in continuazione di suggerire proprio questa conclusione, cioè che da esse verrà la nostra redenzione.

La tecno-scienza ci han già aiutati in tante circostanze, dalla lotta alle malattie epidemiche ai trapianti d’organi, e ci ha già reso la vita comoda in tante maniere, allungando, si dice, la sua durata media, che non si esita a suggerire, sia pure in maniera obliqua e indiretta, che essa, prima o poi, riuscirà a sconfiggere anche l’ultimo nemico: la morte; e che, nel frattempo, possiamo fidarci di essa quanto basta per sottoscrivere una cambiale in bianco: dignità, autodecisione, senso morale, tutto può essere accomodato, aggiustato e, se necessario, sospeso, in nome del bene supremo che la tecno-scienza è in grado di offrirci: una vita sempre più comoda, un benessere sempre più grande, una sicurezza tale da coprire quasi tutti i fattori di rischio, che rendevano tanto incerta e tribolata l’esistenza dei nostri nonni e dei nostri progenitori.

Il problema è proprio questo: che la comodità, il benessere, la sicurezza sono stati realmente accresciuti, nessuno lo nega e nessuno potrebbe farlo; ma, insieme ad essi e contemporaneamente, sono cresciuti anche una serie di effetti collaterali, da essi ineliminabili, di segno negativo, che hanno reso la nostra vita più difficile, più problematica, più angosciosa. Si pensi solo, tanto per fare un esempio, alle malattie iatrogene, provocate, cioè, dalle cure stesse o dalle strutture sanitarie, che formano una percentuale tutt’altro che secondarie delle malattie che la nostra tanto vantata medicina moderna si vanta di potere, essa sola, diagnosticare correttamente e curare. Tutto nasce dalla grande illusione e dal grande inganno dell’Illuminismo: che il benessere sia press’a poco sinonimo di felicità; che il progresso porterà a tutti benessere e felicità; che la ragione, la ragione critica e spregiudicata, metterà in moto la ruota del progresso; e che il metodo empirico e sperimentale, formulato da Galilei oltre un secolo prima, sia il solo modo giusto per accostarsi alla conoscenza del reale, il solo che possa dare risultati esatti e, quindi significativi e utili per l’umanità: insomma, il solo capace di realizzare il progresso.

Il metodo empirico e sperimentale, così come è stato formulato da Francis Bacon, Galilei, Cartesio, Newton, e come è tuttora divulgato dalla cultura dominante, parte da una premessa rigorosamente meccanicista: l’universo è una macchina; le sue leggi sono fisse e immutabili; sono anche traducibili in termini matematici; dunque, quello matematico è il solo metodo corretto per porsi davanti alla natura e, per estensione, davanti a se stessi, davanti al prossimo, davanti a Dio (al punto che Galilei, che si ritiene un buon credente, nel «Dialogo sopra i due massimi sistemi» si spinge ad affermare che, quanto alla certezza delle conoscenze matematiche, quella posseduta dell’uomo è pari a quella di Dio stesso).

E poco importa che fior fiore di scienziati e di filosofi, a cominciare da Émile Boutroux, abbiano mostrato, da più di un secolo, tutta l’inconsistenza e la fallacia di una simile armatura concettuale: della pretesa della scienza, in particolare, di porsi come sapere “certo”, e, a maggior ragione, della pretesa della scienza non solo di poter spiegare, un poco alla volta, i misteri della natura, ma anche di potersi ergere a sapere normativo nel campo della ragion pratica, dell’etica; in poche parole, di dirci cosa sia bene e cosa sia male, cosa sia lecito e cosa sia illecito, cosa sia giusto e cosa sia ingiusto, e che cosa noi dobbiamo fare e come dobbiamo regolarci davanti alle scelte che ci si pongono nel corso della vita.

La verità è che nella natura non ci sono affatto delle “leggi”, perché quelle che noi chiamiamo pomposamente leggi  (addirittura costanti e immutabili, secondo Galilei), altro non sono che le etichette che noi applichiamo a una realtà che, nella sua intima essenza, ci sfugge inesorabilmente: il “noumeno” kantiano, l’”in sé” delle cose, di cui non sappiamo nulla, perché, come diceva il buon vecchio Berkeley, “esse est percipi”, essere è l’essere percepito, e tutto ciò che noi sappiamo e conosciamo della natura, in realtà lo conosciamo per mezzo dei nostri sensi, dentro la nostra mente e non “fuori”. E le scoperte più recenti nel campo della scienza, specialmente nella fisica delle particelle sub-atomiche, come il principio di indeterminazione di Heisenberg, altro non hanno fatto che confermare questa semplice verità: non c’è nessuna legge inerente ai fenomeni della natura, anzi, già il solo fatto di osservarli significa agire su di essi e  modificarli. E dunque tali fenomeni non sono nella natura, o, se lo sono, la loro vera essenza sfugge inesorabilmente al nostro sguardo; noi vediamo solo ciò che crediamo di vedere, solo ciò che la nostra mente è in grado di organizzare e i nostri sensi sono in grado di percepire; ma non vi è la minima prova a sostegno del fatto che quanto vi è nella nostra mente e nei nostri sensi coincida con quanto esiste realmente al di fuori di noi, in un supposto regno della natura che esista indipendentemente da noi, che lo pensiamo e che lo osserviamo.

di fiducia nel senso della nostra vita[...]

 

Non si tratta, è vero e lo ripetiamo, di concetti nuovi; Drieu La Rochelle, fra gli altri, lo aveva già detto almeno ottant’anni fa, allorché affermava che l’umanità ha bisogno di ben altro che di macchine, per ritrovare l’equilibrio e la pace con se stessa; pure, nel coro desolante degli asini conformisti che ragliano a comando, tutti insieme, le stesse stupidaggini neopositiviste, imbevute di materialismo grossolano e di meccanicismo ingenuo e superato dai fatti, nondimeno sgradevole e arrogante, il fatto che qualcuno li riprenda e li sappia esporre con sufficiente chiarezza e capacità argomentativa, non può che essere considerato in maniera positiva.

La conclusione a cui necessariamente si arriva, dopo aver preso atto che nessuna tecnica può redimere l’uomo, né potrebbe salvare il nostro mondo, è che la nostra civiltà, nella misura in cui si fonda sulla pretesa, o sull’illusione, che la tecnologia ci possa redimere, sta letteralmente poggiando sul vuoto; e, quindi, che essa è perduta, e noi con lei.

Se vogliamo scongiurare una simile prospettiva, se vogliamo allontanare lo spettro del tramonto, del collasso, dell’implosione, non ci resta altra strada che quella di riconoscere l’errore commesso, di fare ammenda della nostra presunzione, di purificarci con un salutare bagno di umiltà; e ritirare al più presto la cambiale in bianco che, imprudentemente, abbiamo rilasciato al Dio falso e bugiardo della tecno-scienza, investendo quest’ultima di un ruolo che non le compete e che non appartiene al suo statuto ontologico.

La tecnica, per definizione, è un mezzo: e come potrebbe un semplice mezzo, una tecnica appunto, sostituirsi ai valori e indicarci quali fini dobbiamo perseguire, quali dobbiamo evitare, e che cosa dobbiamo ritenere giusto e degno di essere realizzato nella nostra vita?

 

Francesco Lamendola


 

 
Controllo totale PDF Stampa E-mail

10 Febbraio 2013

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Chissà quanti cittadini in Italia e in Europa sanno che nel 2007 è stato firmato il trattato di Velsen, ratificato al Senato il 28 aprile 2010 con la legge 84 del 14 maggio 2010 che, di fatto, sancisce l’esistenza della Eurogendfor, gendarmeria europea sovranazionale. Chissà quanti sono a conoscenza del fatto che questa forza poliziesca europea, non è soggetta alle leggi dei tribunali nazionali e che Inghilterra e Germania sono escluse, in quanto la stessa gendarmeria non può agire in queste due nazioni. In pratica stanno creando – con la complicità dei parlamenti nazionali – una nuova “Gestapo”. Proprio in questi ultimi giorni, si è lavorato per il mandato di arresto europeo. Che cos’è? Semplice, se un rumeno, per esempio, in Italia compie un’azione che in Romania è reato, ma in Italia no, finisce in carcere. Ciò non è altro che il frutto maturo (anzi marcio) dell’universalità del diritto, di derivazione illuministica, solo che anziché estendere i diritti, rischia di cancellarli. Supponiamo di giungere a un mandato di arresto mondiale – cosa tutt’altro che impossibile – e che un cubano gay venga in Italia a fare sesso con un altro uomo. Che succede? Teoricamente dovrebbe essere spedito a Cuba per scontare il carcere, in quanto a Cuba l’omosessualità è reato. Ho fatto solo uno delle migliaia di esempi che potrei fare. Si procede a tutta velocità verso il Governo Mondiale, un governo che rischia di essere un insieme del peggio del comunismo e del nazismo.

Quando parlo di queste cose, generalmente mi si ride in faccia, negando che ci sia un reale rischio di un Quarto Reich, invece è proprio questo il rischio. In particolar modo la Germania sta tentando di realizzare con l’economia e la finanza, quello che non riuscì a realizzare Hitler con la Wehrmacht. La crisi economica dell’Europa è usata per mandare gli Stati nazionali in bancarotta, allo scopo di farli traghettare nello Stato europeo. Quando questo processo politico unitario sarà completato, l’Europa non sarà unita solo economicamente, ma lo sarà anche politicamente, con uno Stato e un governo europeo. Questo Stato- continente, sarà, di fatto, un impero tecno-finanziario antidemocratico, e l’Eurogendfor avrà il compito di reprimere con la forza qualsiasi tentativo di protesta sociale. Quanto accade in Europa, però, non è che parte di qualcosa di più ampio che si sta muovendo a livello globale. Andiamo a vedere quanto accade in Usa; qualcuno si è chiesto come mai improvvisamente le istituzioni americane si stanno accorgendo delle “stragi della follia” provocate dalla vendita di armi da fuoco, comprese quelle d’assalto? In Usa si è sempre dibattuto su questa questione, non si è mai giunti a una conclusione, ma adesso sembra che qualcosa stia cambiando. Come mai? Sono forse aumentate le stragi? A prescindere dalla propaganda, direi che statisticamente siamo nella solita media. La verità è che si sta cavalcando le notizie delle stragi, allo scopo di trovare una motivazione che consenta al governo americano di disarmare il suo popolo. Per quale motivo? Semplice, considerando la gravità della crisi economica in Usa e nel mondo, si prevede che possa compiersi un’insurrezione popolare in America e forse nel mondo. A dire il vero è molto probabile che queste rivolte siano volute dall’elite globale, allo scopo di creare un caos globale, in grado di sgretolare le unità nazionali e farle convogliare nel Nuovo Ordine Mondiale, ovverosi, un Governo dittatoriale globale. Basta vedere un film come “Il cavaliere oscuro: il ritorno” di Christopher Nolan, per averne una conferma. Nessuno nega l’indiscusso talento visionario del regista, né il fatto che il film in questione sia ben girato. Non si nega neppure a Nolan il diritto di credere nelle sue idee e nei suoi valori e anzi, possiamo affermare con certezza che questo genere di film – in forte aumento in Usa – rappresentano una boccata di ossigeno, all’interno della soffocante egemonia culturale “Liberal” che domina da troppo tempo ormai. Però è inutile che Nolan neghi che il film contenga un significato ideologico: il personaggio di Bane rappresenta l’anarchia e il male, ma è un male “necessario”, perché da questo caos sorgerà il Nuovo Ordine Mondiale, imposto dal “reazionario” Batman, che è il bene. Il film sembra influenzato da idee “relativistiche”, dove bene e male sono parte della stessa realtà. Punto di vista interessante e in parte anche vero, però che si dica esplicitamente: è tecno-nazismo, bellezza! Hollywood sembra volerci abituare all’ineluttabilità dell’evento imminente, in realtà creato ad arte dalle élite mondiali.

Ma quale sarebbe questo “bene supremo” necessario che giustificherebbe le guerre, le violenze, le crisi economiche, che stanno distruggendo stati, nazioni, popolazioni, in virtù di questo Nuovo Ordine Mondiale? Un’idea di come potrebbe essere questo paradiso terrestre ci è suggerito da una delle ultime orripilanti notizie che è circolata: la riforma Obama – già approvata – sancirebbe l’introduzione del chip RFID, un microchip che sarebbe installato dentro il corpo umano e che conterrebbe al suo interno non solo i nostri dati sanitari, ma anche il nostro conto bancario. Si delinea un futuro alla Orwell, dove l’individuo è annullato e risucchiato all’interno di un processo di omologazione, un collettivismo assoluto nel quale nulla di privato e d’intimo è più consentito. Non c’è bisogno di molte spiegazioni per dimostrare che una simile prospettiva è mostruosa, ma chiediamoci se c’è il rischio che ciò possa avvenire anche in Italia. Se consideriamo l’idea di Monti, Bersani e Vendola, concordi nel portare il limite massimo di utilizzo del contante a cinquanta Euro, e se consideriamo che circolano voci secondo le quali il loro obbiettivo finale sarebbe quello di arrivare ad abolirlo completamente, possiamo legittimamente temere che dall’obbligo di pagamento esclusivamente con carta di credito all’installazione del chip RFID, il passo non sia poi così lungo. Mi chiedo se la lotta all’evasione fiscale possa giustificare l’abolizione del contante o addirittura l’inviolabilità del proprio corpo. Chi scrive quest’articolo non ha mai posseduto una carta di credito, né un conto in banca. È evidente che se il contante fosse abolito, sarei costretto a cambiare abitudini. Posso essere libero di non voler possedere carte di credito o conti in banca? È democratica una società che obbliga ad aprire un conto in banca – facendo, di fatto, un favore alle banche – e pagare con carta di credito? E ancora: se voglio fare l’elemosina a un mendicante, come faccio? E mi sia consentito: se una persona vuole andare con una prostituta, come fa? È evidente che in tal caso la carta di credito sarebbe bloccata, non limitandosi a trasformare un’azione immorale in un reato penale, ma, di fatto, rendendola impossibile da compiere. La carta di credito – e peggio ancora – il chip, non sono solo mezzi per spiarci, per sapere in ogni istante, quanti soldi abbiamo, come li abbiamo avuti e come li spendiamo. Se per esempio compro un libro di tizio, anziché di Caio, se finanzio un partito, se pago una prostituta, se ho il vizietto di bere o fumare, se sono un filantropo, ecc, tutte cose che dovrebbero rimanere leggibilmente questioni personali. Ma ancor peggio, l’obbligo della carta di credito o il chip, consentirebbero alle oligarchie tecno-finanziarie, di avere il controllo assoluto sul nostro potere d’acquisto: sono loro che controllano la nostra carta o il nostro chip e se non ubbidiamo a lorsigori, disattivano, e noi non possiamo più accedere al nostro conto. Sarebbe la più orrenda e la più materialistica delle dittature della storia. Di fronte ad una prospettiva simile, non ci possano essere “vie di mezzo”, il “passaggio al bosco” jungeriano deve essere assoluto. Alla dittatura totale, si risponde con la ribellione totale!

Gianluca Donati

  

 

 

 

 

 

 

  

 
Società del malessere PDF Stampa E-mail

6 Febbraio 2013

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 Da La Voce del Ribelle del 30-1-2013 (N.d.d.)

Una verifica empirica sull'andamento dei risparmi dei cittadini, condotta a livello europeo per via di una commissione della Ing Bank ed estesa a oltre 14 mila persone divise in tantissimi paesi (Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia e Regno Unito) ha evidenziato, numeri alla mano, un dato inequivocabile. Soprattutto, ci offre la possibilità di interpretare tale dato e dunque fare una previsione che a questo punto viene confermata in corso d'opera.

Ad effettuare il sondaggio è stato l'istituto tedesco TNS, e il quadro che ne esce non può essere frainteso: un terzo degli europei non ha soldi, circa la metà non riesce proprio a risparmiare, nel senso che spende tutto il denaro che ha - come in Italia e in Spagna - oltre ovviamente a quelli che pur spendendo tutto ciò che hanno non riescono in ogni caso ad arrivare alla fine del mese. Non solo: da quanto emerge dal sondaggio, vi sono più europei che dicono che sarebbero in grado di vivere dei loro risparmi per almeno tre mesi (49%), rispetto a quelli che invece affermano che non potrebbero in alcun modo (47%).

Insomma, anche per chi ne ha ancora, i risparmi stanno finendo, e visto che di lavoro ce ne è poco, una volta finito ciò che si ha da parte si apriranno le porte dell'indigenza.

Si tratta, anche solo a prima vista, degli ovvi effetti della crisi in cui siamo, ma molto più che solo a livello numerico, lo studio porta a evidenziare un cambiamento sensibile proprio dal punto di vista sociale. In altre parole, la crisi in corso e i suoi aspetti economici plasmano la società ben oltre i numeri. 

Spieghiamoci: l'austerità imposta dai vari governi, ad esempio quello italiano e quello spagnolo, ha evidentemente relegato i due Paesi nella spirale recessiva che può solo avvitarsi su se stessa. Meno lavoro, meno denaro a disposizione e soprattutto, congiuntamente, visti i tagli allo Stato sociale, meno servizi. Il che significa che i pochi denari privati che si hanno (o che si avevano) vengono utilizzati esclusivamente, quand'anche bastassero e in molti casi non è neanche così, per soddisfare i meri bisogni primari. Non c'è il benché minimo margine per poter accedere a nulla di ciò che la società dei consumi sino a ieri poteva "consentire". Altri interessi, che siano culturali o di hobbystica o di carattere ludico, semplicemente sono stati tagliati del tutto dalla maggior parte dei cittadini.

Ciò implica evidentemente un cambiamento paradigmatico che molti si ostinano a non voler comprendere neanche avendolo davanti agli occhi, e che è però da solo in grado di tratteggiare, già oggi, un modello di vita completamente differente rispetto a quello di ieri. Il che ha delle evidenti conseguenze non solo dal punto di vista patrimoniale e potremmo dire fisico, ma anche psicologico e spirituale.

L'accordo implicito della società dei consumi, sintetizzando al massimo ed esprimendoci in parole molto semplici, era quello di vivere in situazioni evidentemente alienanti (traffico, caos e accettazione di lavori che in larga parte umiliavano nell'intimo la persona stessa) ma in cambio offriva l'accesso al consumo. Ammesso e non concesso che il meccanismo fosse giusto e accettato - e in larga maggioranza lo era (sic) - ci si piegava a fare una vita in fin dei conti noiosa e poco soddisfacente, quando non anche decisamente faticosa dal punto di vista dello stress, e si veniva ripagati potendo accedere all'acquisto di una serie infinita di "cose".

Oggi tale accordo è saltato: si continua a fare una vita poco soddisfacente, e anzi ancora di più di prima, visto che a favore della produttività e del contenimento dei salari si lavora di più, peggio e per stipendi che si riducono, e allo stesso tempo non si ha accesso più al consumo né si può sperare (a meno di credere al nulla) di riavere indietro, magari in futuro, in vecchiaia, ciò che lo Stato sino a ieri prometteva: pensioni, sanità, servizi.

In sostanza: si lavora - e male - e si sopravvive a malapena. E di qui in avanti sarò plausibilmente ancora peggio.

Dal punto di vista sociologico abbiamo dunque società che sono composte in larga maggioranza da individui insoddisfatti che non si possono permettere altro che lavorare come schiavi e quindi tornare a casa, per riposarsi pronti per la prossima giornata di guerra, in una situazione se non di stenti almeno priva di tutto quanto sia oltre la mera sopravvivenza. In altre parole, priva di tutto ciò che potrebbe dare un senso alla vita stessa.

Quali che siano le conseguenze di una società che volge alla tristezza e all'alienazione più profonda è difficile dire. Storicamente, in Europa, e in particolare in Germania, è facile ricordare dove sfociò, negli anni Trenta, una situazione generale di questo tipo. Ma per quanto riguarda i giorni nostri siamo solo agli inizi. 

Valerio Lo Monaco 

 
Diritti gay PDF Stampa E-mail

3 Febbraio 2013

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Da Voce del Ribelle del 23-1-2013 (N.d.d.)

 

Che noia, questo Obama. Il politico più progressista e cool del pianeta per rilanciarsi non trova di meglio che rispolverare il politically correct per antonomasia, scontato e innocuo, dunque perfetto per il sentimentalismo liberal a buon mercato: la sorte dei «fratelli e sorelle gay». Premessa: da parte di chi scrive nessuna moralina cristianeggiante - per l’esattezza: alla Paolo di Tarso, pervertitore dell’amorale Cristo - né alcun pregiudizio tardo-borghese d’importazione puritana. Personalmente, da pagano, sia pur moderno e perciò miscredente, vedo la sessualità come un ingrediente naturale, istintivo, ludico, dionisiaco, goloso, ferino, e amare un uomo o una donna dovrebbe essere affare libero e privato. L’eros antico avrebbe molto da insegnare ai nostri residui preconcetti e sensi di colpa derivati da duemila anni di repressione sessuofoba. Ma c’è una differenza fondamentale, un limite invalicabile perché anch’esso dettato dalla natura: nell’unione fra un uomo e una donna è inscritta la procreazione, la nascita della vita; nell’amore fra due persone dello stesso sesso, no. È così e basta, e saggezza vorrebbe che questo discrimine sia rispettato, venerando il principio stesso su cui la natura-madre crea l’uomo e armonizzandovi il suo corrispondente sociale e legislativo. Con ragionevolezza, prendendo atto che alcune esigenze attuali sono passabilissime. In breve: no al matrimonio gay, in quanto sterile; sì ai diritti di buonsenso per le coppie omosessuali. 

Approfondiamo. Un conto è la questione delle convivenze, un altro il bisogno di riconoscimento delle relazioni omo. Due conviventi possono essere un uomo e una donna, e lo sono sempre di più in quest'epoca secolarizzata e individualista in cui al matrimonio civile o religioso i giovani preferiscono un eterno e meno impegnativo fidanzamento. Ma possono essere anche due amici che condividono lo stesso tetto per smezzare il caro-vita, oppure due vecchietti o nonnine che alleviano la solitudine abitando insieme. 

Ora, se un ragazzo e una ragazza non vogliono assumersi la responsabilità giuridica e sociale dei doveri matrimoniali, non si vede perché debbano poter pretenderne i conseguenti diritti. Per gli altri, dal testamento per la successione, dalla delega per le cartelle cliniche alla cointestazione dell'affitto, le leggi esistenti prevedono blande tutele. Insufficienti? Le si integrino con misure come il certificato di famiglia anagrafica adottato in alcuni Comuni italiani. Ma è troppo facile rifiutare di sposarsi con atto pubblico ed esigere la stessa considerazione di chi si sposa: è volere la botte piena e la moglie ubriaca. Spiace per i giuristi lettori di Harmony, ma l'amore-sentimento, bellissimo desiderio, non compete al legislatore. Ed è bene che continui a non competergli, onde evitare di ficcare il naso nella nostra intimità.

Diverso il discorso per le coppie gay. La sentenza 4148 della Cassazione del 15 marzo 2012 ha respinto la trascrizione in Italia di un matrimonio fra due uomini avvenuto all'estero. Nel nostro paese, infatti, è assente una legislazione in merito. Al contempo, tuttavia, la suprema corte ne ha sostenuto la necessità, invocando per gli omosessuali un "trattamento omogeneo" a quello dei coniugi etero. 

La Cassazione, che non è il verbo divino in terra, ha torto a chiedere un'equiparazione tra matrimonio e unione gay. E non tanto per il famoso dettato della Costituzione, che pure all'articolo 29 parla correttamente di famiglia come "società naturale". Quanto, piuttosto, per una constatazione pre-costituzionale e pre-sociologica: la famiglia è tale se ha come scopo ultimo la prole, il donare la vita. Lo stesso significato di matrimonio rimanda alla maternità, a sua volta indissolubilmente legata, e non potrebbe essere altrimenti, alla paternità. Le eccezioni sfortunate, come le coppie incapaci di procreare, confermano la regola decretata dalla differenza fra sessi. 

Il matrimonio omosessuale (attenzione: non la relazione e men che meno il sesso, Dio ci scampi e liberi dall'omofobia pretesca) è un controsenso biologico. E lo è anche dal punto di vista psicologico, perché l'equilibrio naturale del bambino non è dato solo dall'amorevolezza e dalle cure, ma dall'educazione interiore e dall'esempio inconscio che solo una coppia uomo-donna può dare. Il complesso di Edipo diventerebbe una fantasia letteraria di Freud se ci convincessimo dell'idea assurda che basta il semplice "affetto" di due persone, a prescindere del loro genere, per crescere futuri adulti psicologicamente sani e completi. Perciò trovo l’adozione o i figli in provetta per i gay profondamente sbagliate: il bene del bambino è superiore alla volontà egoistica di essere padri o madri quando non si può esserlo. 

Sotto il profilo sociale, infine, una società che non predilige l'eterosessualità si allontana da quello che, piaccia o no, la natura ha decretato come presupposto dell'esistenza stessa: la tensione degli opposti che genera l’energia che sostiene il mondo, senza la quale la vita cesserebbe - e sappiamo quale prezzo stiamo già pagando in termini esistenziali per aver rimosso e rinnegato i limiti e i ritmi naturali in tanti aspetti della nostra vita, rendendola un consumo usa-e-getta di oggetti e sensazioni mercificate, meccanizzate, commercializzate, superficializzate. 

Detto questo, penso che diritti minimi, di buon senso, vadano riconosciuti agli omosessuali. Soddisfare bisogni elementari e sacrosanti senza stravolgere l'impianto del matrimonio, mi pare una cosa altrettanto naturale e giusta. Per dire: non è umanamente ammissibile che in ospedale il compagno di un malato non possa ricevere informazioni sulla sua cartella clinica. In sintesi, vedo bene quelle unioni civili limitate ad una serie di garanzie, per l'appunto, di decenza civile. 

Un'ultima considerazione finale. L'amore dovrebbe essere la cosa più libera del mondo, anche dalle leggi. Compreso quello omosessuale, che come impulso è naturale tanto quanto quello etero, visto che si tratta di un’inclinazione che segue gli oscuri meandri della psiche, e perciò non va né condannato né esaltato, ma semplicemente accettato. Ma è sempre la natura ad averlo reso sterile e inadatto al ruolo differenziato di padre e madre, e nessuno può farci nulla. Se altri popoli in materia hanno fatto scelte legislative diverse, questo non significa automaticamente che occorra imitarli. Altrimenti potrà saltar fuori qualcuno a chiedere d'imitare la democraticissima e liberalissima Inghilterra (dove è lecito adottare per le coppie omosessuali), ad esempio, che so, nei licenziamenti più facili. Ops, dimenticavo: questo l’hanno già fatto abbondantemente, da un pezzo, e con saccenza tipicamente liberale. 

Alessio Mannino 

 

 

 
I mali della pace? PDF Stampa E-mail

31 Gennaio 2013

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Erich Fromm nel suo “Anatomia della distruttività umana” ha sostenuto che la causa ultima delle guerre è l’aggressività innata nella specie umana, la pulsione verso la distruzione e la morte. Anche l’ultimo Freud vide nell’umanità del XX secolo  una crescente propensione verso Thanatos, l’istinto di morte, l’altro polo dialettico rispetto a Eros.

Pertanto le varie cause che storici e politologi individuano per spiegare le guerre, sarebbero niente altro che pretesti. Non le motivazioni economiche, non il controllo delle risorse, non il bisogno di fare razzìa di schiavi, non l’odio etnico o settario, non il calcolo di impadronirsi di posizioni strategiche prima che lo facciano potenziali nemici, ma l’istinto primario di sopraffazione e di esercitare la violenza è la causa vera dei conflitti.

 Se questa carica aggressiva non si sfoga all’esterno, finisce con lo scaricarsi all’interno della stessa comunità, con conseguenze che possono portare alla sua dissoluzione. Oppure la compressione dell’istinto che porta a crearsi un nemico e a combatterlo, infiacchisce gli animi e corrompe i costumi. Se la violenza non è esercitata all’esterno, finisce col manifestarsi in guerra civile o a tramutarsi nell’infiacchimento della decadenza. Era quanto intendevano gli antichi romani col loro detto longae pacis patimur mala: soffriamo i mali di una (troppo) lunga pace.

 Seguendo questa linea di pensiero, dovremmo concludere che i casi frequenti di follia omicida , gli scontri fra le fazioni rivali nelle competizioni calcistiche, gli atti apparentemente insensati di puro teppismo, sono la conseguenza di una pace pluridecennale.

Perfino il fenomeno del femminicidio, da non confondersi con lo stupro, essendo il femminicidio un omicidio, quasi sempre  entro le mura domestiche e attuato da compagni delle vittime, potrebbe essere interpretato in questa ottica. La carica di violenza che l’obbligo del “politicamente corretto” non permette più di sfogarsi sul nemico esterno, si rivolge contro un altro oggetto, nell’intimità stessa della casa, contro la donna muscolarmente più debole ma altrettanto aggressiva, competitiva e prevaricatrice.

 Questo modo di ragionare è non solo pericoloso ma sbagliato.

Gli istinti aggressivi possono essere deviati e controllati. La pratica sportiva, la competizione fisica, è da sempre una guerra ritualizzata, un modo per sfogare l’aggressività rendendola innocua. Cos’altro è in una partita di calcio l’azione di una squadra che invade la metà campo avversaria per impadronirsene e violare la sua porta se non una guerra ritualizzata e risolta in modo simbolico?

Se l’aggressività diventa scontro con le armi, strage e sopraffazione sul nemico vinto, ci sono motivazioni economiche, politiche, interessi di gruppi sociali, che devono essere denunciati. Inoltre vediamo che i reduci dai fronti, anziché diventare persone pacifiche che hanno scaricato la loro aggressività contro un nemico esterno, sono abbastanza spesso segnati dalla violenza in modo tale da diventare psicopatici con la coazione a ripetere anche nella vita civile i comportamenti violenti dei loro traumi bellici. Del resto la guerra odierna, almeno quella condotta dalle forze armate supertecnologiche dell’Occidente, facendo largo uso di droni, robot, armi telecomandate, non è più lo scontro fisico diretto dei guerrieri di un tempo, escludendo con ciò qualunque tentativo di riscattarla in nome di una presunta istintualità che richiede di sfogarsi.

Quanto al femminicidio, qualunque tentativo di sminuirne la gravità sarebbe colpevole.

Se sommiamo alle più di cento donne uccise in un anno in Italia dai loro uomini le tante altre  che vengono ferite o pestate a sangue, abbiamo il quadro di un conflitto fra generi che si fa crescente quanto più si affievolisce il conflitto fra le generazioni.

Qui siamo in presenza non di un istinto aggressivo che non sfogandosi più contro il nemico esterno lo trova fra le mura domestiche, ma di un uomo che non ha saputo riposizionarsi adeguandosi a quella rivoluzione femminile che, piaccia o non piaccia, era inevitabile in un’epoca in cui le uniche cause dell’inferiorità sociale delle donne, la minore potenza muscolare e le frequenti gravidanze, non esistono più o non hanno più l’incidenza di un tempo. L’uomo ha reagito al nuovo protagonismo femminile o deresponsabilizzandosi e femminilizzandosi o, nei casi estremi ma sempre più frequenti, col ricorso alla regressione verso la violenza improvvisa e irriflessa.

 

Ci sono colpe, ci sono responsabilità che esigono la critica consapevole e l’autocritica. Non è il caso di trovare il facile capro espiatorio in una generica tendenza naturale alla violenza.

 

Luciano Fuschini            

 
Europa e sovranità nazionale PDF Stampa E-mail

26 Gennaio 2013

 

“Una volontà unica, formidabile, capace di perseguire uno scopo per migliaia di anni”; con questa frase Nietzsche definiva il destino ineluttabile dell’unificazione europea. Che Nietzsche detestasse il nazionalismo e ritenesse di dover andar oltre il concetto di nazione, per ricollegarsi all’idea di Impero, nel senso di un recupero del modello classico greco-romano e pagano, è cosa risaputa. Nel pensiero decadente di Thomas Mann c’e la stessa consapevolezza nicciana del nichilismo imperante e perciò anche la percezione della crisi europea, ma in Mann tale percezione si ammanta di una patina opaca di pessimismo conservatore; dove in Nietzsche il pessimismo dionisiaco è produttivo perché tradotto in azione “tragica”, in Mann, viceversa, volge verso un senso crepuscolare di sconfitta.

La storia ha purtroppo dato ragione a Mann, perché la Volontà di potenza nicciana – seppur arbitrariamente interpretata – si è tradotta nella furia nazista, dove il sogno di un’Europa unificata è degenerato nel delirio del III Reich hitleriano. La sconfitta storica del nazismo non ha però cancellato il sogno dell’unificazione europea; infatti, dal dopoguerra comunismo e capitalismo – che Massimo Fini definisce due facce della stessa medaglia – hanno perseguito lo stesso obbiettivo e “le destre”, malgrado appaiano antieuropee o euroscettiche, sembrano in realtà avere in mente “un’Europa diversa”. Tranne rari casi, anche a destra non si chiede di tornare alla “sovranità monetaria”, bensì la trasformazione della Banca centrale europea in prestatore di ultima istanza per proteggere l'euro dagli attacchi speculativi, mantenendo la sua indipendenza funzionale e coordinandosi con le altre istituzioni rappresentative. Non viene però specificato come ciò potrebbe risolvere gli attuali problemi: se s’immagina una Banca centrale europea indipendente dagli stati nazionali, di fatto, immaginiamo o una Banca centrale europea, privata, che domina sopra gli stati nazionali o viceversa una Banca centrale europea, pubblica, che in quanto tale implica la creazione di uno Stato Europeo e quindi il superamento del concetto di Stato nazionale.

Quelle forze politiche che si definiscono “nazionali” o “nazionaliste”, in realtà vogliono superare l’attuale Europa solo “economica e monetaria”, per giungere alla creazione dell’unificazione politica dell’Europa. Questa posizione tradisce reminiscenze nicciane ed evoliane e il sogno di un’Europa intesa come nuovo “Impero Romano d’Occidente”. Comunque sia, qualsiasi progetto di Europa significa la perdita di sovranità nazionale e quindi il rischio di disperdere la propria identità culturale. Anche nel pensiero di Alain de Benoist e di Massimo Fini, si prevede l’inesorabilità del superamento del concetto di stato-nazione. Benoist, pur essendo piuttosto critico nei confronti dell’attuale Unione Europea, è tornato recentemente a criticare il “sovranismo”, affermando che “un’altra Europa è possibile”. Il pensiero di Benoist volge verso un’idea di Europa unita e federale, dove il concetto di nazione è superato, in virtù di una visione d’identità regionali unite da un comune senso di appartenenza continentale. Il debito nei confronti di Nietzsche e di Carl Schmitt è palese. Fini ha scritto un articolo, riportato anche da questo blog, nel quale affermava che l’Europa è nata male, perché sarebbe dovuta nascere prima l’Europa politica e solo successivamente quella economica e monetaria, e rilevava come l’unificazione europea sui versanti politico, economico e militare, sia sempre stata temuta e quindi ostacolata dagli Usa. La conclusione è che nessuno stato nazionale europeo può da solo competere con gli Usa e ancor meno con potenze emergenti come Cina, India e Brasile.

Personalmente mi devo dire scettico; quando ci domandiamo cosa unisca veramente l’Italia, viene a mente la lezione di Pasolini che indicava nella lingua l’elemento unificante, una lingua di derivazione latina che con Dante, Petrarca e Boccaccio, era diventata lingua nazionale; ma a unire l’Europa, non c’è neppure una lingua e se ci fosse sarebbe sicuramente l’inglese. Le differenze, non solo linguistiche, ma anche etniche, culturali, e in parte religiose, sono tali da non ritenere auspicabile – dal mio punto di vista – un processo unificante. L’unificazione politica dell’Europa, comporterebbe un’unificazione culturale e quindi  un processo di omologazione tipico di una visione mondialista e incoerente con un pensiero antimodernista. Il pensiero di chi vuole un’Europa delle piccole patrie rivendica il suo tradizionalismo, in virtù del fatto che già l’era cristiana rappresenta una “decadenza moderna” che deve essere superata per ricostituire un’era pagana pre-cristiana. Con questo escamotage, si pretende di dare una parvenza di coerenza tradizionalista e antimodernista a un pensiero che invece condivide con il mondialismo l’idea fondante: l’unificazione e la semplificazione. Alla fine, tutto si esaurisce in un semplice scontro tra due diverse visioni d’Europa: quella illuminista di matrice comunista/capitalista e quella medievale di matrice tradizional-antimodernista. Supponiamo anche che questo sia giusto e sufficiente per preservare le varie identità, pur in un ritrovato spirito continentale unitario: com’è possibile non temere che sbriciolare le nazioni europee in tante “piccole patrie” non sia altamente pericoloso in tempi di globalizzazione? Non potrebbe essere che i fautori del mondialismo non solo non lo temano, ma anzi incoraggino i moti secessionistici e separatistici, perché potrebbero facilitare il processo unificante euromondialista del Nuovo Ordine Mondiale?  E se poi vogliamo parlare della necessità di unire i popoli nelle “piccole patrie”, allora invece dell’unificazione europea, sarebbe opportuna l’unificazione dei tre principali ceppi etnici: i nordici, gli slavi e i latini; tre ceppi che dovrebbero rimanere separati e distinti tra loro, non per motivi razziali bensì per ragioni identitarie. L’Italia ha molto più in comune con le popolazioni arabe, con l’Africa settentrionale e il Medio Oriente; più che all’Impero Romano d’Occidente, bisognerebbe aspirare a un nuovo Impero bizantino, ma ciò non implica necessariamente un’unità né monetaria, né politica. Seppur consapevole che questa mia opinione non sia condivisa né da Benoist, né da Fini, affermo di ritenere che l’unico argine possibile alla globalizzazione mondialista sia il ritorno senza indugi alle sovranità monetaria e nazionale. 

Gianluca Donati

 

 

 

  

 
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