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Ebrei e cinesi PDF Stampa E-mail

15 Dicembre 2012

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Fra ebrei e cinesi uno sguardo non superficiale può cogliere affinità profonde, pur nell’evidente lontananza.

Entrambi sono fra i rarissimi popoli che hanno mantenuto la loro lingua, la loro civiltà, la loro religione, senza grandi cesure negli ultimi 3.000 anni. Si presume che Mosè vivesse circa mille anni prima di Gesù. Confucio e Lao Tze vissero intorno al 500 prima di Cristo. Il giudaismo risale a quelle epoche lontanissime e si è protratto fino ai nostri giorni. Confucianesimo, taoismo e buddismo risalgono a 2.500 anni fa e sono tuttora vivi, nonostante l’assalto del materialismo. La lingua ebraica è sopravvissuta al trascorrere dei millenni, pur con le inevitabili trasformazioni, e lo stesso dicasi del cinese. Se antichità è sinonimo di nobiltà, le civiltà giudaica e cinese sono le più nobili.

I cinesi hanno dato molto alla cultura mondiale e ancora di più hanno dato gli ebrei. Si considerino i 4 pilastri su cui si è edificata gran parte della cultura occidentale del Novecento: Darwin, Marx, Freud, Einstein. Solo il primo non era ebreo. Marx era ebreo in quanto figlio di donna ebrea (nell’ebraismo la discendenza etnica e religiosa è matrilineare), e resta tale nonostante il suo ateismo dichiarato e i suoi giudizi assai duri sul giudaismo internazionale; Freud era notoriamente ebreo, tanto che dovette lasciare l’Austria dopo la sua annessione alla Germania nazista, nonostante il suo ateismo non sia meno dichiarato di quello di Marx; Einstein era ebreo, credente ma di una fede non assimilabile a quella giudaica (resta il bellissimo aneddoto della sua risposta a un questionario che le autorità americane pretendevano da parte di chi chiedeva di entrare negli USA. Una delle voci del questionario esigeva che si precisasse a quale razza si apparteneva. Einstein rispose: umana).

Gli ebrei sono stati costretti alla diaspora, mentre i cinesi sono stanziali, ma esiste pure una forte diffusione dei cinesi nel mondo. Anche i cinesi, popolo intelligente, laborioso e disciplinato, hanno dato un grande contributo ai Paesi che li hanno ospitati.

Ebbene, fra  i fattori che accomunano i due popoli, c’è anche l’antipatia che hanno sempre suscitato fra le nazioni che li hanno accolti.

L’antisemitismo, fenomeno apertamente razzista, è recente, risale alla modernità e più precisamente al XIX secolo. Tuttavia l’ostilità verso le comunità ebraiche è fenomeno ben più antico e comune a tutte le nazioni. Dopo l’olocausto questo è un argomento tabù, ma bisognerà pure prendere atto di quel fenomeno imponente che è l’astio verso l’ebreo, in Europa come nel Medio Oriente, sebbene abbia assunto le forme più virulente proprio nell’occidente cristiano. Per i cristiani gli ebrei erano il popolo deicida: gli ebrei non avevano riconosciuto la divinità di Gesù e lo avevano voluto morto sulla croce. Ma la motivazione religiosa non faceva che aggiungersi ad altre motivazioni più antiche, tanto è vero che gli ebrei erano malvisti anche nell’antichità pagana, che di Gesù figlio di Dio nulla sapeva. Bisognerà pur chiedersi il perché di un sentimento tanto diffuso, nello spazio e nel tempo.

La risposta non è difficile. Gli ebrei si ritenevano, e si ritengono, il “popolo eletto” dal Signore. Non sono tanto interessati a convertire gli altri perché anche il resto dell’umanità possa accedere alla salvezza eterna. Tendono piuttosto a preservare una loro purezza etnica, chiudendosi in loro comunità appartate, prima ancora che venissero chiusi nei ghetti. Preferivano sposarsi far loro, appoggiarsi a vicenda contro gli infedeli del mondo circostante, praticare il prestito dietro pagamento di un interesse, proibito dalla loro religione negli scambi fra giudei ma consentito verso  i “non eletti”. Spesso queste comunità così chiuse in se stesse erano anche più colte, essendo la sinagoga luogo non solo di preghiera ma anche di studio, dove il rabbino era il maestro dei piccoli ebrei in un mondo circostante in cui era regola l’analfabetismo. Insomma, erano comunità che non si integravano, spesso più ricche e più colte del resto del Paese. In queste condizioni, è naturale che maturino sentimenti di avversione verso chi è visto come appartato, diverso, perciò temibile. In realtà la tenace difesa della propria specificità, della propria lingua, della propria cultura, della propria religione, è cosa nobile e grande; tuttavia è comprensibile l’ostilità che si attira chi coltiva questa diversità da “popolo eletto”. Sui sentimenti diffusi hanno poi fatto leva i poteri per sviare contro gli ebrei il malcontento popolare, che altrimenti si sarebbe diretto contro quegli stessi poteri, politici e religiosi.

Anche sui cinesi, soprattutto, ma non solo, nei Paesi asiatici, in cui si sono insediati come minoranze numerose, si è periodicamente sfogata la rabbia popolare. Basti citare due episodi recenti: l’Indonesia del 1998 e l’Argentina dei primi anni del nuovo millennio, Paesi entrambi afflitti da gravissime crisi economiche. In Indonesia la rabbia popolare si scagliò contro i quartieri abitati da cinesi e in Argentina ci furono diversi episodi di saccheggi e incendi di negozi di proprietà di cinesi, non esclusi alcuni linciaggi.

Il fatto è che anche i cinesi si ritengono al centro del mondo, pur essendo loro estraneo il concetto di “popolo eletto”. Nella loro lingua il loro Paese si chiama Zhong Guo, il Paese del Centro: le altre nazioni sono ai margini di quella centralità che è esclusivamente loro.

Il fatto è che anche i cinesi tendono a chiudersi all’interno della loro comunità, anche loro hanno difficoltà ad assimilarsi agli indigeni, anche loro diventano rapidamente uno strato sociale benestante, impadronendosi di attività economiche locali grazie alla loro intraprendenza, all’aiuto reciproco che si forniscono, alla grande capacità di sacrificio e di lavoro disciplinato. In questo sono ammirevoli, come lo sono gli ebrei. Raramente troviamo cinesi fra gli accattoni che ci assillano per le strade e nei parcheggi. Raramente un cinese bussa alla porta per chiedere elemosine. Lavorano, si aiutano reciprocamente, risparmiano, investono e comprano interi quartieri delle nostre città.

Nel rilevarlo non c’è il minimo accenno di razzismo, semmai c’è una profonda ammirazione per questi popoli tanto capaci, non per una loro natura diversa dalla nostra ma per una storia che ne ha fatto ciò che sono. Comprendere le cause profonde di questi fenomeni non solo non è un incentivo all’odio razziale ma ne è piuttosto l’antidoto.

 

Luciano Fuschini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

     

 
Manifesto e sinistra PDF Stampa E-mail

13 Dicembre 2012

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Pubblicato su il-main-stream e ripreso da Rassegna di Arianna del 5-12-2012 (N.d.d.)

La crisi del “Manifesto” è arrivata ad un punto particolarmente acuto, con la rottura fra l'attuale redazione e alcuni personaggi storici del giornale, come Rossana Rossanda, Marco D'Eramo, Joseph Halevi. Non abbiamo ovviamente titolo per intervenire in queste specifiche vicende, delle quali sappiamo solo ciò che si può leggere sui giornali. Possiamo intuire che, come sempre in questi casi, sono in questione nodi che avviluppano assieme dissensi politici, problemi economici, intolleranze caratteriali.
Al netto di tutto questo ci sembra però che una considerazione si possa fare con molta tranquillità.
La crisi attuale del “Manifesto” è solo l'ultimo episodio, speriamo definitivo e conclusivo, del fallimento di un'intera strategia politica e culturale, che caratterizza da decenni il gruppo che ha dato vita al giornale, tanto da definirne la stessa identità. Il gruppo del “Manifesto” si è infatti sempre pensato come la coscienza critica della sinistra, come l'avanguardia culturale di una sinistra radicale che cerca compromessi di alto livello, favorevoli ai ceti subalterni, con la sinistra moderata, e in tal modo cerca di spostare in senso progressivo gli equilibri politici. Ora, si potrebbe discutere a lungo se tutto ciò avesse senso in un tempo lontano, diciamo negli anni Settanta: ma non vogliamo iniziare qui questa discussione, quindi concediamo al gruppo del “Manifesto” il beneficio del dubbio, per quanto riguarda i suoi primissimi anni di vita.
 

Quello su cui non è più possibile il minimo dubbio è il fatto che una tale strategia ha perso ogni senso, ogni possibilità, ogni aggancio con la realtà, e si è ridotta ad un vaniloquio onirico. E questo non da ieri o l'altro ieri, ma da venti o trent'anni.
 Non esiste più nessuna sinistra emancipativa, né moderata né radicale, che cerchi di difendere i diritti e i redditi dei ceti medi e bassi, e di ampliare la democrazia. Le scelte politiche di ciò che attualmente si chiama “sinistra” non sono “errori” o “ritardi” che possano essere illuminati e corretti dalle superiori capacità analitiche di qualche intellettuale. Sono la logica e chiara conseguenza della trasformazione della sinistra (e della destra) in un gruppo di funzionari dei ceti dominanti, addetti a mettere in opera politiche ferocemente antipopolari costruendo il consenso dei ceti medi e bassi, o controllandone il dissenso. E tutto questo, ripetiamolo, non da ieri o ieri l'altro, ma da venti o trent'anni.

In questa situazione, un gruppo come quello del “Manifesto”, che crede ancora di avere di fronte quella  sinistra emancipativa che nella realtà è scomparsa da decenni, ha necessariamente un ruolo del tutto negativo: quello di avvolgere i suoi lettori in una cortina onirica che nasconde loro la realtà di cosa sia diventata la sinistra. Se le cose stanno così, la crisi del “Manifesto” ci sembra la dimostrazione del fatto che sono sempre meno le persone che hanno bisogno di questo tipo di oppiacei. Questa crisi è dunque un buon segnale, il segnale di un possibile risveglio, di una possibile presa di coscienza. D'altra parte, non si può pretendere che chi ha vaneggiato per vent'anni possa adesso rimettersi a ragionare, e non si può pretendere che il gruppo del “Manifesto” possa finalmente cominciare a capire e a farci capire la realtà. L'unico esito ragionevole e giusto della crisi ci sembra allora la chiusura definitiva del giornale. Se questo dovesse succedere, non mancherà da parte nostra una prece e un pensiero commosso, ricordando quando, del “Manifesto”, eravamo lettori giovani, pieni di fiducia e speranza.

Marino Badiale  


 

 

 
MUOS PDF Stampa E-mail

10 Dicembre 2012

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Pubblicato su byebyeunclesam e ripreso da Rassegna di Arianna del 5-12-2012 (N.d.d.) 

Ogni articolo sul MUOS inizia esplicitando il significato di questo cacofonico acronimo, provocando al lettore una sensazione di noia mista a nausea che, momentaneamente, vorrei evitarvi. Comincerò dunque raccontandovi di un ridente paesello siciliano, tutto sole, carciofi, cannoli e “Bedda matri”: Niscemi che – lo precisiamo per dare un aiuto a chi non ha un buon rapporto con la geografia – sorge su una collinetta orientale dell’isola, da cui potreste ammirare il mar Mediterraneo senza neanche sporgervi troppo.

Un bel giorno del lontano 1943, tra venditori ambulanti sgolati e scagnozzi armati di lupara, giunse qui una comitiva di fusti alti, biondi, rasati e con qualcosa in bocca che a mio nonno apparve come estremamente fastidioso. Era il chewingum. E loro erano soldati della flotta statunitense che dal giorno dello sbarco in Sicilia continuarono a passeggiare in zona. Ma perché? Per godere del paesaggio che si apre dal belvedere del paese? Per gustare l’ottima parmigiana che le mogli dei massari gli offrivano forse? Non lo sapevamo (ancora). Fatto sta che a Niscemi i soldati statunitensi ci sono rimasti.

Nel frattempo l’uomo metteva piede sulla Luna, Mary Quant inventava la mini-gonna, Berlusconi trovava sotto l’albero il suo primo blocchetto di fatture e, all’insaputa dei più, lo Stato italiano acquisiva degli appezzamenti di terra situati nel territorio che sarebbero stati dopo poco ceduti agli Stati Uniti per farne un’inquietante e antiestetica base militare. Oggi l’area, che si trova in prossimità del centro abitato e nelle vicinanze di una splendida riserva naturale popolata da specie uniche di piante e animali, è una delle più importanti centrali di telecomunicazione della marina militare USA, comprendente 41 antenne, delle quali la più alta raggiunge i 160 metri circa; adesso potrei dilungarmi dicendovi che le antenne operano nella banda High Frequency, HF (frequenza 3-30 MHz, lunghezza d’onda 10-100 mt), per le comunicazione di superficie, ma mi tratterrò per fare in modo che arriviate alla fine dell’articolo senza accusare mal di testa e spasmi. Vi basterà sapere che tutto questo comporta la presenza di un campo elettromagnetico intenso e costante il cui raggio d’azione danneggia uomini, animali, pomodori e cannoli. Sì, perché è proprio a colpi di radiazioni che gli USA vogliono salvarci dal terrorismo!
Nel corso degli anni, infatti, non contenti dell’operato di queste antenne, che si presentano alla vista come degli abnormi scheletri di insetti preistorici, gli ingegneri dell’esercito in stile Elvis Presley, con annessa brillantina ai capelli, hanno creato il suddetto MUOS.

Le circostanze adesso mi costringono a spiegarvi cos’è: l’acronimo sta per “Mobile User Objective System” ovvero, senza spingerci troppo nella traduzione letterale, un’accozzaglia di pali, parabole e pannelli di ferro giganteschi e MUOStruosi (pensate che la costruzione prevede la cementificazione di 2059 mq dell’area) che dovrebbero dar vita ad un nuovo e più sofisticato sistema di comunicazione della marina USA, in grado di connettere tutti i propri mezzi – dalle navi agli aerei senza pilota – con centri di intelligence di qualsiasi parte del mondo.
Il progetto è partito nel 2001 a seguito di un accordo bilaterale sancito dagli USA e dallo Stato italiano, ma solo nel 2008 la notizia, prima insabbiata dagli organi di informazione, diviene di dominio pubblico. A quel punto la popolazione inizia a mobilitarsi e, studiando il caso, perviene ad un’informazione eclatante: esistono già tre installazioni MUOS operanti nel pianeta, collocati in Virginia, nelle Hawaii e in Australia; tutti luoghi parzialmente desertici. Insomma, oltre al danno la beffa. Ma al peggio non c’è mai fine. E’ inaccettabile, infatti, come grazie ad alcuni semplici giochetti burocratici, la regione e il governo nazionale, a cui sono state inviate negli anni decine di interrogazioni parlamentari senza ricevere mai risposta, siano riusciti a concedere il lasciapassare agli Stati Uniti per la costruzione di un eco-mostro, come l’ha definito il giornalista Antonio Mazzeo, che incrementa la massiccia presenza di venti di guerra in tutto il Mediterraneo.
A questo punto alcuni cittadini, arrabbiati e amareggiati, consci del mancato appoggio da parte dell’amministrazione nazionale, regionale e locale, decidono di riunirsi e aggregarsi: nasce così il Comitato NO MUOS che dopo anni di battaglie, indagini, manifestazioni e sigarette consumate nevroticamente davanti a infinite pile di scartoffie, è riuscito finalmente a farsi sentire, arrivando fino a Montecitorio, anche grazie all’appoggio di altri comitati che nel frattempo sono nati in tutta l’isola.

Il 6 Ottobre di quest’anno è stata inaugurata la prima manifestazione nazionale firmata NO MUOS, che ha visto la partecipazione di più di duemila persone accorse a Niscemi per appoggiare la causa. Proprio alla vigilia della manifestazione è giunta la notizia del sequestro dell’area nella quale continuavano incessanti i lavori per la costruzione del MUOStro, ma questo non deve essere un motivo per abbassare la guardia. L’obiettivo dei comitati, infatti, è quello di sensibilizzare l’intera nazione e diffondere la notizia che per troppo tempo è stata prigioniera della dimensione locale. Rendiamoci conto dell’importanza della smilitarizzazione e della pericolosità della presenza imponente in Italia degli USA, ovvero di uno Stato che fonda il cosiddetto “sogno americano” sulla morte. Sì. Quella degli altri però.

Rossella Cirrone  


 

 

 
Specialisti PDF Stampa E-mail

6 Dicembre 2012

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Da Appelloalpopolo dell’8-11-2012 (N.d.d.)

Viviamo in una società che si è sviluppata in modo centrifugo, spalmando con la sua forza gli individui da un centro morale ad una periferia specialistica. A seguito del moltiplicarsi per via logaritmica delle competenze, le regolamentazioni sono tanti e tali per cui occorre uno specialista per sistemare una qualsiasi cosa. Se non interviene l'elettricista, giusto per fare un esempio a caso, non viene rilasciata quella certificazione che permette di rivendere l'appartamento cui sono state apportate modifiche all'impianto elettrico. A sostenere d'autorità le infinite specializzazioni esiste l'abuso di professione, nato nel nome della cosiddetta “cultura del rispetto delle competenze”: solo se hai adeguato percorso formativo puoi permetterti di formulare le tue proposte progettuali. 

Risulta abbastanza ovvio come chi progetta un impianto frenante per camion debba necessariamente avere capito l'entità del problema. Il fatto storico è che i camion sono un'invenzione recentissima, e poco tempo fa non esisteva quindi necessità alcuna di professionisti di questo tipo. Quindi la specializzazione è una necessità dettata da questo modello di sviluppo. Prima, molto semplicemente, le specializzazioni riguardavano poche attività artigiane e non si sentiva alcun bisogno di quell'esercito di specialisti che oggi invadono le nostre vite. Ma c'è di più: se ammettiamo che le nostre società a struttura piramidale siano controllate da settori dell'economia che hanno poteri così ampi da formare un sodalizio con le classi politiche, quali garanzie abbiamo che la cosiddetta “cultura del rispetto delle competenze” non sia tutta una messinscena per intimorire e quindi soggiogare i non addetti (catalogati per la bisogna come classi di minus habens che hanno un costante bisogno di essere monitorizzati dai vari professionisti) attraverso una pletora di tecnicismi legislativi e normativi? 

Fino a pochi decenni or sono la maggior parte degli uomini sapeva coltivarsi un orto e costruirsi la casa. Impianti inclusi. E le case non crollavano né scoppiavano tubazioni o prendevano fuoco gli impianti elettrici. Oggi l'orto non esiste più, obbligati come siamo a vivere all'interno di un appartamento “dotato di ogni comfort” che ci toglie così qualsiasi obbligo (viene tutto gestito dagli specialisti: l'amministratore, l'imbianchino, perfino le pulizie). Fine dell'iniziativa. Vite appaltate, per lasciarci tutto il tempo di frequentare i lager commerciali. Il moto centrifugo ci allontana da noi stessi, dalla nostra storia, dai nostri sentimenti, dalla nostra intelligenza, dalle nostre responsabilità per proiettarci in un rutilante quanto strampalato mondo in cui possiamo solo essere consumatori di ciò che gli specialisti hanno organizzato per noi, ed i legislatori hanno consolidato. Vietato perfino portare una torta fatta in casa a scuola. Servono specialisti anche per festeggiare il compleanno dei bambini. Il processo centrifugo porta a questa deresponsabilizzazione sociale: nessuno è autorizzato fare o pensare nulla, pensano a tutto gli specialisti. Noi ci possiamo solo adeguare. O infrangere la legge.  

Enormi possono essere i sentimenti di diffusa diffidenza e anche repulsione verso le varie classi professionali (mediche, politiche, imprenditoriali etc..) contro i quali viene opposta una feroce campagna di propaganda mediatica svolta, anche in questo caso, da specialisti della comunicazione ed intesa ad offrire il massimo grado di sconforto a chiunque avesse in mente di contestare questo modello sociale che accorda illimitata fiducia al centralismo burocratico degli esperti. Questi sentimenti nascono perchè gli specialisti non necessariamente curano l'interesse della collettività intera; anzi molto spesso (sempre?) fanno l'interesse delle lobbies che garantiscono loro onori, prebende ed elogi.

Da qui la domanda: ma perchè ci dobbiamo fidare sempre degli specialisti? Nel nome di quale divinità saremmo costretti a rinunciare ad un'elaborazione del nostro pensiero (difficile, costosa ma formativa perchè non necessariamente allineata) o ad una nostra azione diretta per accogliere (spesso è puro obbligo) nozioni o interventi che ci vengono imposti dall'alto? Quando, nel nome del proprio sentire o pensiero, si vuol contestare qualcosa, qualche professionista di settore se ne viene fuori snocciolando scientifici elenchi di improbabili dati. Che, guarda caso, coincidono con l'idea che uno specialista deve avere sulla specialità che sta snocciolando a noi poveri ed imbelli mortali. Dati contro memorie e senso comune, questa è la battaglia che gli specialisti stanno combattendo. 

A scanso di equivoci: ci dovrebbe essere abbastanza buon senso da decidere che è indispensabile l'intervento di un professionista quando è in gioco il benessere delle persone. Ma qui le cose si complicano, perchè non esistono “professionisti del buon senso”. E così ci troviamo con i professionisti di Standard & Poor's che vengono condannati per avere fornito un rating "fuorviante e ingannevole" ad alcuni prodotti finanziari. La tesi del giudice è che un'agenzia "ragionevolmente competente" non avrebbe potuto dare una valutazione tale a un titolo così nocivo. Occasione rara in cui lo Stato si prende delle rivincite sull'economia nel nome del buon senso.  Siamo diventati così ostaggi nelle mani di professionisti della conoscenza specializzata. Ora che un ingegnere nucleare sia bravissimo a costruire centrali non significa che sia anche in grado di capire dove stia la vera questione del nucleare, ovvero la sua pericolosità ed il problema delle scorie. Si affiderà ad altri esperti che valuteranno i due problemi separatamente e così via in un sistema di scatole cinesi dove nessuno sa esattamente quello che fa l'altro.

Sono tutti freddi e razionali. Prendono soldi per far funzionare questo sistema, e lo fanno funzionare al meglio. In base alle innumerevoli fonti specialistiche dotate dei cospicui budget messi a disposizione dalle varie lobbies, diventa quindi pretestuoso criticare chi ha messo in piedi e ha fatto funzionare Fukushima o le politiche neoliberiste. La fantasia comunicativa di chi è pagato profumatamente per convincerci sa sfruttare al meglio la propria posizione di potere. Salta così fuori che la centrale nucleare ha avuto problemi a causa di eventi inimmaginabili, errori umani, disfunzioni strutturali mai registrate prima, l'appartenenza ad una categoria costruttiva ormai abbandonata e così via, il tutto condito da suadenti frasi da carta patinata.

 E se Monti insiste nell'informarci quotidianamente che siamo usciti dalla crisi grazie alle politiche attuate, non sta facendo molto diversamente dagli specialisti del nucleare che rassicurano i giapponesi che la fuga radioattiva è sotto controllo. Cambia il problema ma la tecnica di mettere sotto scacco il cittadino è identica. Ovviamente nessuno di questi specialisti cita i dati relativi a povertà diffusa, disoccupazione e disagio oppure radiazioni, malattie e contaminazioni. I disastri non li riguardano, l'importate è non togliersi i paraocchi e recitare, nel nome della logica specialistica, il mantra che scongiura la critica. Vietato contestualizzare, proibito deragliare dai prevedibili binari che la formazione specialistica impone: l'obbligo è di guardare sempre avanti, anche quando il binario si interrompe bruscamente ed il locomotore è destinato a trascinare il treno in fondo al burrone. Nelle carrozze, ovviamente, ci siamo noi. Che non abbiamo saputo contrastare con il nostro buon senso la criminale efficienza degli specialisti.

Tonguessy    

 

 
A piedi PDF Stampa E-mail

3 Dicembre 2012

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Testo apparso su biourbanism.org e pubblicato da Rassegna di Arianna del 29-11-2012 (N.d.d.) 

Chi ha inventato e diffuso l’espressione «fatto con i piedi», per indicare qualcosa di mal realizzato? Viene da sospettare un produttore di automobili, o un petroliere, desiderosi di aggiungere denigrazione alla forzata inattività del primo organo che possa difenderci dalla rovina urbana. Sappiamo bene che la realtà automobilistica è solo in minima parte circoscritta alla meccanica dei veicoli, alla chimica e al commercio dei combustibili, e alla fascinazione del design.

Essa influenza pesantemente l’economia, l’ambiente, il modo in cui sono costruite le città, la disposizione dei percorsi possibili nello spazio, la psicologia e la socialità delle persone, fino a delineare una civiltà peculiare e recentissima che non ha precedenti nella storia umana. Secondo Ivan Illich, tale realtà del veicolo meccanico è innanzitutto un devastante strumento di deformazione antropologica. E poiché ciò che è culturale ha sempre un equivalente fisico, si dimostra come valga anche l’inverso constatando che la trasformazione dell’umano indotta dall’auto comincia dai nostri organi locomotori: l’auto castra i piedi, e dopo, come una conseguenza, la nostra immaginazione, il senso del luogo e del mondo, il sentimento della libertà. Uomini dalle gambe deboli e disabituate all’esperienza e al piacere di camminare, sono allo stesso tempo effetto e causa di una perdita spirituale che incide su quella che per millenni è stata considerata la natura umana.

Nel brevissimo lasso di un secolo, la sostituzione della locomozione umana (e della trazione animale che ne era l’ausilio organico) con una macchina, ha rovesciato inarrestabilmente un ordine antico quanto la specie. La rivoluzione di John Ford – l’auto di massa – corrisponde alla più vasta obliterazione di una facoltà umana mai vissuta prima, una sorta di programma di sterilizzazione di massa, del quale è impossibile oggi non constatare il successo. Non propongo qui un discorso salutista. La prima conseguenza della fine dell’era del piede non consiste nelle varici, nell’obesità o nei problemi cardiocircolatori e respiratori che pure ne derivano in grandissima parte. A morire con i piedi è innanzitutto lo spazio. Vale a dire, un tesoro di esperienza, libertà, esercizio sensoriale ed esistenziale che è incomparabilmente più importante della stessa buona salute quale viene intesa dalla nostra medicina. Un uomo malato secondo i parametri del dottore, infatti, può ben essere un uomo, e conserva in sé tutta la potenzialità di essere felice. Un uomo senza spazio, invece, è come un topo nel labirinto tracciato dalla mano invisibile delle esigenze tecniche ed economiche apparentemente più grandi dell’individuo, ma in realtà infinitamente sottodimensionate rispetto al passo che, calcando l’esistenza, porta una concreta persona verso il proprio posto nel mondo. 

Fuor di poesia, ad es. tutti sappiamo che la politica è esercizio di conoscenza, scelta, e assunzione di responsabilità; secondo Aristotele, il commercio umano per eccellenza, che identifica addirittura la nostra stessa natura. Ma tale esercizio diviene impossibile al di fuori di uno spazio fisico. Quando la città (polis, in greco) si è arresa all’invasione dell’auto, insieme alle sue mura smantellate per far posto a milioni di veicoli affamati di nastri d’asfalto, sono cadute anche le mura della politica, attaccate da un’economia accelerata che ha nel consumo il proprio fine cieco. Al posto della responsabilità umana si è insediato un surrogato illusorio di interfacce mediatiche e presunti rappresentanti della volontà comune. I sudditi umani, sottomessi, sono stati costretti a ritirarsi in case trasformate in rifugi immersi nei flussi del traffico veicolare, dai quali la vita stessa ha cominciato a dipendere. La socialità si è ridotta al simulacro dell’informazione, che ha assunto anch’essa la forma di un ininterrotto flusso senza senso. Gli uomini le cui città sono state invase dal barbaro meccanico ora camminano e vivono costantemente ai margini di tali flussi, non un passo più vicino né uno più lontano da essi, quasi vi fossero legati da catene. Gli spazi comuni – i luoghi neutrali teatro della dialettica fra i cittadini, come le antiche piazze – sono divenuti “non luoghi”, secondo la giusta definizione di Marc Augé, irti di frastuono e gas di scarico. L’intera vita sociale (incontrarsi, ascoltarsi e parlare a voce viva, persino annusarsi) ne ha subito l’imperio rozzo e arrogante. 

Riprendiamoci lo spazio. Riappropriamoci della città, del luogo della vita comune, condivisa, dialettica, anche conflittuale. Riafferriamo la nostra dimensione umana con lo strumento umano del corpo, cominciando dai piedi: svegliamole queste appendici allegre, facciamole correre come bambini, com’è nella loro natura, per tastare la terra intorno, misurarla, conoscerla, così come per centinaia di migliaia di anni hanno felicemente fatto i nostri predecessori. È dai piedi ingiustamente disprezzati che possiamo ricostruire la nostra società, sono loro a dover guidare il modo in cui tornare a definire dal basso lo spazio urbano, dopo tanti danni imposti dal dominio dell’automobile. Il petrolio finisce, genera guerre, sembra offuscare insieme alle acque del mare inquinato il futuro, impregnandolo di egoismi folli, astratti, solitari? Fidiamoci dei piedi, camminiamo, incontriamoci, costruiamo. Il futuro autenticamente umano non è tanto lontano da non poter essere raggiunto di buon passo. 

Stefano Serafini  


 

 

 
La farsa delle primarie PDF Stampa E-mail

30 Novembre 2012

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Sintesi di un articolo apparso su europeanphoenix e ripreso da Rassegna di Arianna del 27-11-2012 (N.d.d.) 

Saremo brevi perché la cosa non merita molto tempo. Tuttavia due parole vanno spese per commentare le “primarie” del Partito Democratico, alle quali, pare, faranno seguito quelle del Pdl, che non può ancora chiamarsi “Partito Repubblicano” per il semplice fatto che in Italia una “Partito Repubblicano” esiste già. Sennò avremmo già avuto due “grandi partiti”, come in America.

Stabiliamo subito che della modalità con cui sono state svolte queste “primarie” e dei vari particolari più o meno “curiosi” ad esse legati non ce ne frega assolutamente nulla. E sommo disinteresse ci provoca il “boom” con cui tutti gli apparati di persuasione di massa presentano questa patetica “operazione simpatia”. Ma andiamo in ordine su quanto invece è più importante, che non le bagattelle tra questo o quel “candidato” e la relativa “tifoseria”. La prima cosa da ficcarsi bene nella zucca è che queste “elezioni interne” sono scopiazzate a menadito dall’America, che per un verso ce le impone, per un altro ce le ispira. Intendo dire che il diktat è chiaro: “dovete fare come noi!”. Ma ciò sfrutta anche una forma mentis che fa breccia col procedere dell’americanizzazione della nostra nazione. Dunque, le “primarie” sono né più né meno che uno strumento con cui veniamo ulteriormente soggiogati dai nostri padroni, ed uno specchio della mentalità che va modificandosi verso quella americana, punta avanzata di quella “moderna”, in cui l’ipocrisia e il gusto per la sceneggiata hanno una parte preponderante.

La seconda cosa da capire è che il Partito Democratico è il più americanizzato sulla scena, il che è tutto dire. Infatti è quello che – erede della ‘tradizione chiesastica’ del PCI, in cui il “gregge” obbediva ciecamente, ed uscito indenne da “Mani Pulite”… – ha meno patito nell’imbastire questa baracconata, che mette vergogna al solo pensarci. Il PdL, a causa della presenza “forte” del Cavaliere, stenta ad adeguarsi, ma lo farà (quanto sia “forte” Berlusconi in realtà lo si è visto quando in quattro e quattr’otto è stato eliminato dalla scena, tra l’assassinio di Gheddafi, lo “spread impazzito” e la speculazione sui titoli delle sue aziende).

Altra questione da capire: in scala ridotta, le “primarie” ripropongono l’inutile teatrino dello scontro tra “destra” e “sinistra”, ma su un piano “interno”; ma anche la tensione  tra “vecchio” e “nuovo”, altro tormentone di ogni consultazione elettorale, tanto parole d’ordine tipo “svecchiamento”, “cambiamento” e “rinnovamento” sono l’irrinunciabile armamentario dialettico di ogni mestierante di una “politica democratica” che si rispetti. Quanta “novità” vi sia in tutto ciò, ciascuno lo giudichi da sé, cercando di sviluppare la capacità di andare almeno oltre il fenomeno del “verbalismo”, che è l’uso per così dire “pubblicitario” delle parole, per il semplice ‘suono’ che evocano alle orecchie di chi le ascolta. 

Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è che, coerentemente col diktat americano di cui sopra, la politica, da “ideologica” diventa sempre più “personalizzata”, seguendo una tendenza innescatasi con evidenza dalla fine dell’Unione Sovietica, che ha posto fine all’esigenza di propinarci inutili partiti “ideologici”, sostituiti da qualcosa che sta tra il “comitato elettorale” e il “partito personale”, nel quale il “faccione” del candidato pare essere l’unico contenuto reale. Va da sé che tutti quelli che concorrono a questo teatrino non possono che essere intimamente convinti della necessità di aderire intimamente all’unica ideologia ammessa, quella liberaldemocratica, ed alla relativa mentalità. Ciò non può avvenire che in una situazione di sudditanza politica, economica, culturale e militare qual è quella in cui versa la nostra Italia, perché è riprovato che come una nazione si libera da questo gioco comincia a sbarazzarsi della liberaldemocrazia e della relativa mentalità, che sono state fabbricate ed introdotte esattamente per indebolirci e così meglio dominarci, perché in questo modo non siamo più noi stessi[...]

Altro insegnamento da trarre dalle “primarie” è che questa “politica” ormai interessa solo ai vecchi, che come si recano alle urne come per ‘dovere religioso’, così si mettono in fila, come pecore, per “scegliere”, “decidere”, “partecipare”, coerentemente con quella “mistica democratica” che ci sta conducendo verso il baratro, sia a livello materiale che morale. Ed esalta anche gli ingenui, che pensano basti darsi la patente di “onesti” per misurarsi con l’“arte della politica”. Infine, queste “primarie” non possono non piacere ai soddisfatti e agli arrivati, che coincidono in parte con i suddetti incartapecoriti ed illusi, ma annoverano tra i loro ranghi anche tutti quelli per i quali, come che vada, andrà sempre “bene”: male che vada si ritroveranno sempre tra di loro, snobisticamente, a “resistere, resistere, resistere”… 

Enrico Galoppini

 


 

 

 
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