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Civiltą pubblicitaria PDF Stampa E-mail

27 Ottobre 2012

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Qualche mese fa un giovane motociclista è disgraziatamente morto in un incidente stradale vicino a casa mia. Da quel giorno il tratto di strada in questione è addobbato con striscioni di parenti e amici del defunto che lo ricordano, che celebrano il suo compleanno o gli mandano altri messaggi.

Sempre più spesso si incontrano per le strade cartelli o lenzuoli che celebrano un matrimonio con frasi di auguri più o meno spiritose rivolte ai nubendi. Dopo lo scorso week è stata inflitta la gogna mediatica ai tifosi del Verona rei di aver intonato allo stadio cori di insulti nei confronti di un defunto calciatore del Livorno. Mi fermo qui, ma gli esempi potrebbero essere numerosissimi e tutti figli della stessa logica: lo slogan pubblicitario quale (unica) forma di espressione di sentimenti e comunicazioni che dovrebbero essere invece rivolti su un piano strettamente personale. L'uomo moderno, figlio della società del consumismo e appunto della pubblicità, dell'apparenza, dell'immagine, consacrati dalla televisione, non è quasi più in grado di scrivere una lettera privata o comunicare con la persona che gli sta a fianco. O forse potrebbe anche farlo ma ritiene che il valore del proprio messaggio sia accresciuto e assuma valore solo nel momento in cui lo espone al pubblico, nella forma più vicina a quella indotta dal modello televisivo. Senza rendersi conto che in questo modo cambia radicalmente non solo la forma della comunicazione stessa ma anche il suo significato. Da un lato, infatti, si deve cercare di congeniare uno slogan che faccia presa sul passante distratto, sull'automobilista, su chi insomma incrocia per caso lo striscione o il cartello in questione. Troppe parole, troppi approfondimenti non sarebbero neppure presi in considerazione. Va da sé quindi che sentimenti che dovrebbero essere profondi e sui quali si potrebbero scrivere dei trattati o quantomeno delle lettere dense di significato diventano delle superficiali frasi ad effetto. Ma questo meccanismo mostra anche come sia la funzione della comunicazione ad essere modificata alla radice: nel momento in cui mi rivolgo ad una massa indistinta e non ad uno specifico soggetto quello che mi interessa non è la persona che riceve, ma l'appagamento del mio ego. Non ti trasmetto e condivido privatamente il dolore per la morte di tuo figlio o il matrimonio di tuo fratello, non sei tu la persona alla quale mi sto rivolgendo. Il messaggio diventa una sorta di esibizione pubblica del mio privato. Ecco allora che la sua funzione, al di là delle apparenze, è soltanto un esibizionismo ai limiti della pornografia. Forse così qualcuno si sente più buono, come coloro che lasciano fiori e bigliettini sul luogo di un delitto mediatizzato rivolto ad una vittima che hanno conosciuto solo grazie alla TV.

Non più vera comunicazione, ma soltanto l'ennesima forma masturbatoria dell'individuo, monade alienata ed isolata dai suoi simili, che questa società ha saputo creare. Il contraltare è rappresentato, come nell'esempio dei tifosi veronesi, dalla demonizzazione di chi usa lo stesso strumento “pubblicitario” per esprimere sentimenti di natura opposta come lo scherno, l'odio, il disprezzo. I perbenisti da salotto televisivo, gli intellettuali del circo mediatico ma anche il lobotomizzato uomo comune crede di indignarsi per il contenuto del messaggio laddove invece non tollera semplicemente che esso sia reso pubblico. Se lo avesse sentito in una discussione al bar invece che attraverso il tubo catodico, non ci avrebbe fatto minimamente caso. Quello che avrebbe stigmatizzato come un commento da beceri imbecilli diventa un reato da punire con la massima severità, indignandosi per il quale torna ancora a sentirsi buono ed allineato alla massa. Non si rende conto che quei tifosi sono sì dei mostri, ma della sua stessa specie: uomini che stanno perdendo la loro anima, la capacità di scambiare sensazioni con i propri simili, di avere relazioni profonde con sé stessi e con gli altri. Mostri che hanno bisogno di apparire per sentirsi vivi. 

Andrea Marcon 

 

 
Moderati PDF Stampa E-mail

24 ottobre 2012

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Testo apparso su “europeanphoenix” e riprodotto su Rassegna di Arianna del 18-10-2012 (N.d.d.)

 È una vita che sento parlare di “moderati” e ancora non si capisce bene che razza d’individui siano. Nella mente della maggioranza delle persone, “moderato” è il contrario di “estremista”, e questo basta a rendere il concetto positivo, senza porsi troppe questioni. L’estremismo, a pelle, non piace. Dà l’idea di gente pazzoide e pericolosa. E con questo si può anche comprendere la tranquillità che infonde pensare di essere governati da dei “moderati” piuttosto che da “estremisti”.

“Moderato”, di per sé, significa che “ha il senso del limite”, “è incline alla misura” e alla “temperanza” (che è una gran virtù, infatti tutte le religioni l’hanno incoraggiata). Allora c’è qualcosa che non torna, se si pensa alle facce, alle parole, e in particolare alle azioni di certi “moderati”. Questi “moderati” per cui ci si spertica tanto, gareggiando per ingraziarsene le preferenze elettorali, fino a voler costruire, ciclicamente, “la grande casa dei moderati”, sono individui “misurati” e col “senso del limite”? Direi proprio di no. Anzi, direi che tutto sono tranne che persone di questo tipo. Sono degli “estremisti”, degli invasati della loro visione del mondo, tant’è vero che non accettano alcun contraddittorio né sono disposti ad ammettere deroghe all’applicazione delle loro “ricette”, che portano avanti a senso unico, senza alcuno scrupolo, naturalmente dove restano liberi di scorrazzare a briglia sciolta. Si prendano in esame tutti i provvedimenti in materia finanziaria, economica, politica, culturale, e persino militare di questi “moderati”, e si realizzerà che siamo di fronte ad una dittatura di estremisti della Liberaldemocrazia, nelle sue varianti di destra, centro-destra, centro-sinistra e sinistra, il tutto plasticamente raffigurato nella grande ammucchiata che sostiene l’attuale governo “italiano”, insediato con fulminea velocità dai cosiddetti “poteri forti” (mai che spiegassero alla gente cosa sono: non possono, perché sono tutti ai loro ordini) e alla faccia di colui che intendeva passare alla storia dopo il suo parodistico “ventennio”, per porre fine al quale è bastato un attacco speculativo sui titoli azionari delle sue aziende! Entrare nel dettaglio di tutte le linee di politica interna ed estera dei recenti governi della cosiddetta “Seconda Repubblica”, con l’ultimo che va inanellando una serie di “record”, sarebbe puramente ozioso e prolisso, ma ciascuno dei lettori di questo come di altri siti internet non appiattitisi sul culto della Liberaldemocrazia e del suo necessario corollario, il “laicismo”, possiedono tutti gli strumenti necessari per comprendere che quando si parla di “moderati” s’intende in realtà dei devoti dell’idea Liberademocratica, o meglio personaggi che sguazzano alla perfezione nel “mondo moderno” e i suoi “valori”, e più precisamente ancora figuri che dimostrano puntualmente una totale sottomissione ai loro padroni, palesi ed occulti, recependone ed attuandone con fanatica abnegazione i loro ordini.

Ecco, la questione di che cosa sono i “moderati” si riduce a questo. A descrivere dei fedeli servitori di chi ha tutto l’interesse a mettere in uno stato di prostrazione, con la scusa delle “inevitabili riforme”, intere comunità di uomini. Qualcuno ricorderà ancora la ridicola e stucchevole definizione di “Paesi arabi moderati”, ritualmente e platealmente riconosciuta da tutte le dirigenze occidentali agli ex presidenti egiziano e tunisino, Mubarak e Ben Ali. Al di là di tutto quel che si può pensare sulla “Primavera araba” , di quei due personaggi tutto si può dire tranne che non fossero degli estremisti del vassallaggio delle loro nazioni, porte con servizievole obbedienza alla mercé dello sfruttamento e dell’asservimento da parte degli occidentali. Che fine abbiano fatto quegli “arabi moderati” è poi un altro discorso (i servi li si disprezza e li si getta nel cestino, no?), ed altre considerazioni andrebbero svolte su che cosa sia “l’Islam moderato”, altrimenti detto “concezione dell’Islam e corrispondente tipo umano funzionali agli interessi occidentali”. 

Nella vulgata dei “padroni del discorso”, la patente di “moderato” è naturalmente l’esatto contrario di quella di “estremista”. Con quest’ultima tinta, i media-pappagallo dipingono, tra gli altri: in Latino-America, un Chavez, un Morales, un Correa, persino una Kirchner, e non parliamo di Castro; nel Vicino e Medio Oriente, un Ahmadinejad, un al-Asad (che appena due anni fa era “moderato”!), un Nasrallah, un Haniyyeh (ma nessun petromonarca autocratico del Golfo!); in Europa, un Lukashenko, un Putin, e, ad intermittenza, un Orban (Ungheria) ed altri capi di Stato europei che osano sgarrare dai diktat della “Commissione Europea”, della BCE e del FMI. In Africa, poi, il gioco è ancor più smaccato, ed è anche penoso elencare i casi di situazioni allucinanti (ultima quella in Costa D’Avorio) create con ogni sporco mezzo per mettere a capo dello Stato un cosiddetto “moderato”, cioè un perfetto cameriere con tanto di livrea e conto corrente da rimpinzare a dovere. Realtà e situazioni, queste, senz’altro caratterizzate da peculiarità inerenti a luoghi, popolazioni ecc., ma tutte unite da una caratteristica: l’indisponibilità a vendere la propria gente a beneficio d’interessi abominevoli sintetizzabili sotto la definizione della “liberaldemocrazia”. Cosa sono, sennò, le “liberalizzazioni” e la “democratizzazione” che di pari passo devono procedere ogniqualvolta una nazione viene sottoposta alle tutele di una élite di “moderati” insediata da “liberatori” (in mimetica o giacca e cravatta)?

Detto questo, e una volta chiarito che i “moderati”, in regime liberaldemocratico, sono gli estremisti della corrispondente visione del mondo, è doveroso specificare (soprattutto a beneficio di chi prova gusto a far finta di non capire) che l’alternativa a questa ributtante genia di “moderati” non è “l’estremismo”, di nessun tipo. Quelli che il sistema di potere vigente si compiace di definire “estremisti” (con relativa “patente”!), sono in maggioranza delle macchiette, dei figuranti e delle comparse di una giostra alla quale hanno accettato di partecipare, impersonando il necessario ruolo del “cattivo”. Ce n’è per tutti i gusti, di tutte le “ideologie” pretesamente “alternative” alla Liberaldemocrazia, compresi quelli – e sono forse i più patetici – che contestano gli assetti di potere reclamando ancor più “democrazia”, senza rendersi conto che “liberalizzazioni” e “democrazia” sono i due indispensabili ingredienti di una medesima ricetta che deve produrre un certo tipo umano, ridotto a un burattino disanimato in preda al proprio ego, illusosi sia di “prendere delle decisioni” (democrazia), sia di godere delle meraviglie di una “libera concorrenza” (liberismo) che non s’è mai vista in nessun tempo e luogo semplicemente perché è impossibile. Quindi o sono degli sciocchi o in malafede quelli che vorrebbero “il popolo al potere” (gli ‘estremisti democratici’) o coniugare “libero mercato” e “democrazia”, rispetto per il “sociale”, proprio perché l’esito del primo sono gli oligopoli, che obiettivamente tanto “democratici” e “sociali” non sono! Per non parlare di quelli che non sono mai sazi delle “libertà” disponibili (da quella di far adottare figli ai “gay” a quella di abortire per schiribizzo), che gridano al “fascismo” per ogni cosa che non gli va a genio, come se questa Liberaldemocrazia – che tutto è tranne che “fascista” - non concedesse già abbastanza spazio all’esercizio di una “libertà” anarcoide, dimostrando implicitamente che “anarchia” e “liberismo” (e il “liberalismo”), ergendo l’individuo a “suprema legge”, si stringono di fatto la mano. Si tranquillizzino, quindi, gliele daranno quelle “libertà”: è solo questione di tempo[...] 

Enrico Galoppini 

 

 
Postmodernitą? PDF Stampa E-mail

20 ottobre 2012

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La postmodernità di cui si parla comunemente può essere recuperata in una prospettiva antimoderna? Per rispondere a questa domanda occorre intanto ricapitolare brevemente cosa si intenda col termine modernità, che definisce il tipo di civiltà uscito dall’ Umanesimo-Rinascimento, dal colonialismo che accompagnò le prime manifestazioni del capitalismo, dalla Riforma protestante, dalla nuova scienza, dall’Illuminismo, dalla rivoluzione industriale, dalla rivoluzione francese e dal Positivismo.

La Modernità si configura come antropocentrismo, progressivo rifiuto del principio di autorità, perdita del senso del sacro e del simbolismo ad esso legato; è fiducia nella scienza come tecnica di dominio sulla natura e abbandono di quel senso del limite che la civiltà degli antichi aveva salvaguardato come qualcosa di sacro; coltiva i nuovi miti del progresso e dello sviluppo, nella ricerca costante delle novità. A livello politico segna la fine dell’universalismo medievale, con la creazione di potenti Stati nazionali, burocratici e accentrati. A livello economico la Modernità ha trovato la sua massima espressione nel capitalismo, che per la sua logica interna ha progressivamente spinto verso la rapida circolazione delle merci e delle persone, facendo infine del mondo un unico, enorme mercato. A livello sociale ha significato sradicamento, progressiva unificazione delle culture, rapida crescita demografica e urbanizzazione. 

Viviamo gli anni in cui la crisi della Modernità si fa esplicita. Crisi dei valori dopo la perdita del sacro; dubbi sull’onnipotenza della scienza: non solo produce una tecnica che rischia di distruggere il mondo, ma l’umanità illuminata dalle sue conquiste continua a brancolare nel buio; angoscioso disorientamento indotto dalla ricerca costante della novità e dal sovrapporsi frenetico delle mode; migrazioni di massa devastanti per il tessuto sociale, come conseguenza dell’apertura dei mercati e dello sviluppo disuguale; impossibilità di conciliare gli interessi dei diversi gruppi sociali, sempre più esigenti perché stimolati dal consumismo,  a sua volta indotto dalla logica del capitale e del mercato, causa prima del mostruoso debito pubblico; fenomeni di degenerazione sociale: droga, banditismo, corruzione; svuotamento della democrazia (che del resto è sempre stata poco più di un espediente propagandistico) a favore di mafie, servizi segreti, massonerie, alta finanza. Vi si accompagnano i fenomeni culturali e di costume propri di tutte le epoche di decadenza: inquietudine che spinge al viaggio come fuga da se stessi; divertimento chiassoso e ricerca di sensazioni sempre più forti, ma accompagnati dalla consapevolezza che incombe la fine; gusto del macabro, turbe mentali sempre più diffuse, cura maniacale del corpo, confusione dei ruoli sessuali. 

Il Postmoderno sarebbe la risposta a questa crisi ormai catastrofica. Intanto il postmoderno sarebbe il post-industriale, esplicitato dall’automatizzazione, dal decentramento delle attività produttive, dalla crescita dei servizi. A livello filosofico si afferma un relativismo eclettico, il decostruzionismo che cerca nel testo un altro testo, con un’operazione di collage-montaggio; la logica della probabilità subentra al rapporto causa-effetto, l’indecidibile è la terza opzione fra vero e falso; il sapere viene individuato come principale valore, la maggiore risorsa per imporsi nel mercato e per acquisire potere; lo Stato-Nazione, tipica espressione politica della Modernità, viene soppiantato dalle imprese multinazionali, dalla circolazione dei capitali regolata dalla telematica, mentre dettano legge i centri politici e finanziari sovrannazionali; il potere effettivo viene esercitato dalla finanza, dal credito, dal capitale fittizio (sorta di scommessa su una produzione futura); il contratto tende a prendere il posto della legge, in una società civile che si auto organizza; la realtà sociale si fa sempre più liquida, secondo la fortunata terminologia di Bauman. 

Se questi sono i caratteri distintivi del postmoderno, appaiono ben lungi dal costituire un’alternativa alla crisi. Il relativismo, il decostruzionismo, il pensiero debole o liquido, non possono fare a meno di una ideologia, di una interpretazione complessiva che dia contenuto alla ricerca di un senso dell’esistere; da una parte la demolizione dello Stato-Nazione porta al recupero delle tradizioni locali, regionali, delle radici, della purezza etnica, dall’altra parte l’estrema mobilità del mercato mondiale porta al mescolamento di popoli, lingue, razze; da una parte la società che si auto organizza esige maggiore democrazia, dall’altra parte assistiamo a nuovi autoritarismi di poteri forti che agiscono nell’ombra; la bomba demografica e i disastri ambientali esigono interventi autoritari per imporre un diverso modello di vita e di consumi e per regolare le nascite, quanto di più illiberale si possa immaginare. 

In conclusione, il postmoderno non è altro che la modernità nella sua fase di decadenza estrema. Non è un rimedio ma la rivelazione del disastro. L’alternativa non è la postmodernità ma l’antimodernità: il recupero del senso del sacro, la coscienza dei limiti che non vanno superati; il radicamento non nel vecchio ma nell’antico; l’autoproduzione e l’autoconsumo nel potenziamento, anche a livello culturale, di agricoltura e artigianato; tornare a vedere nel prodotto il valore d’uso prima di quello, mercificato, dello scambio. Ma le prediche battute sulle tastiere dei computer nulla possono: sarà la concretezza dei processi storici a imporre le svolte, inevitabilmente dolorose, che attendono un’umanità smarrita.

Luciano Fuschini

 

 
Rivoluzionari e ribelli PDF Stampa E-mail

15 ottobre 2012

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Sono zerista fin dalle origini nei primi anni 2000, semplicemente sull’onda dell’entusiasmo per gli scritti di Massimo Fini. Negli anni, mi sono chiesto perché un’idea così nuova, antitetica e giusta per il mondo allo sfascio in cui viviamo non abbia ancor avuto che il minimo impatto sulla società e sugli spiriti liberi che ancora vi sono, in piccolo ma non trascurabile numero.

La risposta che mi son dato è: non è l’organizzazione che cambia il mondo, ma le persone che la compongono, ed a queste manca ancora la preparazione, la Coscienza, il Giudizio sufficientemente alto per cambiare il Mondo stesso. Per prima cosa, occorre cambiare noi stessi. Un ribelle, per come intendo io questo termine, è un fenomeno spirituale. Il suo approccio è assolutamente individuale. La sua idea è questa: se vogliamo cambiare la società, dobbiamo cambiare l’individuo. La società in sé non esiste. Ovunque incontri qualcuno, incontri un individuo. Società non è altro che un nome collettivo privo di realtà, senza sostanza. Nessuna rivoluzione è ancora riuscita a cambiare gli esseri umani, ma sembra che non ce ne siamo accorti. Ancora continuiamo a pensare in termini di rivoluzione, di cambiamento della società, del governo, della burocrazia, delle leggi, dei sistemi politici.

Feudalesimo, capitalismo, socialismo, fascismo: tutti, a loro modo, erano rivoluzionari, e tutti hanno completamente fallito, un fallimento inequivocabile perché l’uomo è rimasto lo stesso. Il ribelle è tuttora una dimensione inesplorata. Dobbiamo essere ribelli, non rivoluzionari. Il rivoluzionario appartiene a una sfera terrena; il ribelle e la sua ribellione sono sacri. Il rivoluzionario non può stare da solo: ha bisogno di una folla, di un partito politico, di un governo. Ha bisogno del potere... e il potere corrompe. In particolare, il potere assoluto corrompe in modo assoluto. Tutti i rivoluzionari che sono riusciti a prendere il potere ne sono stati corrotti. Non sono riusciti  a cambiare la natura del potere e le sue istituzioni; il potere ha cambiato loro e la loro mente, corrompendoli. La società è rimasta la stessa, solo i nomi sono cambiati. Il mondo ha conosciuto solo pochissimi ribelli. Ma ora è il momento: se l’umanità non riesce a produrre un gran numero di spiriti ribelli, i prossimi decenni potrebbero diventare la nostra tomba. Siamo molto vicini a quel punto di non ritorno. Una discontinuità con il passato: questo è il significato della ribellione.

La ribellione è una discontinuità. Non è né riforma né rivoluzione: semplicemente, ti sconnetti da tutto ciò che è vecchio. Le vecchie istituzioni che hanno fallito come le religioni, le ideologie politiche, il vecchio essere umano...ti stacchi radicalmente da tutto ciò che è vecchio; riparti da zero, inizi la vita da capo. Il rivoluzionario cerca di cambiare il vecchio; il ribelle semplicemente ne esce, come il serpente che si lascia alle spalle la vecchia pelle senza mai guardare indietro. Ecco perché per ora è bene che raccogliamo nei nostri sparuti cenacoli i genuini ribelli i quali, ognuno per sé, cercheranno una loro dimensione ed una loro crescita interiore spirituale che personalmente sto perseguendo  da diversi anni, e condividendio con chi si prende la pena di ascoltare. Mi unisco a De Benoist nel suo motto che sta in calce a MZ, ricordando che solo il Ribelle, non certo il Mondo, può cambiare e migliorare se stesso. 

zerista toscano

 

 
A misura d'uomo PDF Stampa E-mail

12 ottobre 2012

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Da Megachip del 6-10-2012, a proposito di un dibattito sul problema del lavoro (N.d.d.)  

[...] Pierluigi Fagan, in una nota del nostro dibattito, ha giustamente rilevato lo stato confusionale in cui la discussione sulla decrescita si trova. Stato che è confermato da molti degli interventi letti fino ad ora, specificamente da tutti quelli degli economisti intervenuti. Se non si definisce di cosa stiamo parlando, è assai difficile poter raggiungere qualsiasi conclusione.
Vale per tutti l’intervento di Alberto Zamagni, che si concentra sul concetto (?) di “libertà di crescere” e sulla spasmodica ricerca di qualche artificio verbale che consenta il riuso del termine ”crescita“, laddove si spinge ad affermare che “l’eccedenza quantitativa” rende liberi, mentre si introduce il concetto di ”sviluppo umano integrale” (di nuovo e sempre la parola “sviluppo“, variamente condita di aggettivi e avverbi accattivanti) per sostenere infine che il paniere dei beni di consumo deve “restare intatto nel suo insieme“, mentre dovrebbe cambiare la sua composizione.
Acrobazie verbali che denotano come a sinistra l’ideologia della crescita, con tutti i suoi corollari, è entrata come il burro, trasmigrando dalla crescita socialista dei piani quinquennali alla crescita infinita del capitalismo totale. Analoga posizione – è un altro esempio di economista crescista che pensa di non esserlo – è quella di Roberto Romano, il quale afferma che “il pianeta non si salva riducendo i consumi ma cambiando i consumi e quindi il modello di sviluppo“.

Entrambi non vedono – letteralmente non vedono, essendo esso al di fuori del loro orizzonte concettuale – la necessità di fare i conti con i “limiti allo sviluppo“. Senza vedere questi limiti non si può mettere in discussione il tema dello sviluppo. Che, infatti, è piantato nella loro testa come un chiodo di platino inamovibile. E’ il mondo della fisica, oltre a quello della società  umana, ad essere esterno al loro ragionamento. I limiti si collocano in quel mondo, mentre sono assenti dalle astrazioni economiche in cui essi vivono. Quindi, per procedere logicamente, occorre definire il campo dell’indagine: della concreta possibilità di realizzare  sviluppo e crescita (che restano sinonimi fino a che non si sarà chiarito che cosa s’intende dire, di diverso dalla crescita del PIL e dalla crescita dei consumi energetici) si può parlare solo confrontando questo desiderio con i vincoli della limitatezza delle risorse, di tutte le risorse, e dopo avere preso atto che cambiare i consumi, senza ridurli, diventerà presto praticamente impossibile. O si dimostra che questa affermazione è errata, oppure si deve affrontare la questione della decrescita. Tra l’altro – e questo ragionamento concerne invece non pochi dei decrescisti, anche dei più sinceri – si dovrà aggiungere anche un altro dato sconfortante: non è soltanto una economia in crescita geometrica ad essere insostenibile, comunque la si voglia presentare.  Anche un’economia stazionaria, a crescita zero, è comunque insostenibile alla lunga. Anch’essa porta, sebbene più lentamente, al confine con i limiti, come ha bene dimostrato Luigi Sertorio nel suo “100 watt per il prossimo miliardo di anni“. Puntare a un’economia stazionaria – se non è chiaro, chiariamocelo - equivale a condannare a morte il capitalismo come lo conosciamo oggi. Infatti non c’è capitalismo che non cresce e un capitalismo a crescita zero è una contraddizione in termini. Eppure nemmeno essa sarà sufficiente a evitare una catastrofe strategica. Ma io credo che il compito principale che abbiamo oggi – compito pratico, compito politico – è individuare tutte le soluzioni che ci permettono di ”rallentare il disastro in corso“, cioè di guadagnare tempo per impostare e avviare la transizione..[...]

A me appare ovvio che si dovrà passare attraverso tappe intermedie, poiché è letteralmente inimmaginabile una trasformazione di breve periodo. Anche perché ciò che noi vediamo (non parlo ancora di ciò che noi proponiamo) è tale da richiedere comunque un radicale rivolgimento della scala dei valori umani in cui le popolazioni vivono e che conoscono come l’unico possibile. E questo rivolgimento può avvenire in due mondi principali: pacifico, se riusciremo a farlo avvenire come un “ripensamento consapevole, partecipato, democratico“. Oppure violento, traumatico, obbligato, cioè in forme politicamente autoritarie.
Nel primo caso, che è il migliore, avverrà comunque “con il passo dell’uomo“, poiché l’uomo, come parte della Natura, è organizzazione conservatrice e dunque non tollera violenza sui suoi ritmi, a cominciare dalle sue abitudini, consuetudini, cultura. Non c’è altra scelta, dunque, che evitare passaggi traumatici troppo repentini e dolorosi per grandi masse di individui. Dunque l’unico modo sarà quello di avviare una enorme riconversione industriale e di una altrettanto grande riconversione dell’organizzazione sociale.
Ciò richiederà una riconsiderazione del ruolo dello Stato. Direi che occorre pensare a uno “Stato della transizione“. Il cui compito sarà quello di “creare gradualmente le condizioni per la decrescita meno dolorosa possibile“. Il che, a sua volta, potrà (io credo dovrà) prevedere una crescita temporanea, selezionata, programmata dei settori da dove partirà la riconversione, che si accompagnerà ad una decrescita dei settori che dovranno progressivamente essere abbandonati. Ciò, a sua volta, richiederà una radicale modificazione dei meccanismi finanziari, essendo gli attuali assolutamente antagonistici a qualsivoglia idea di transizione alla decrescita. Qui l’innovazione dal basso, attraverso una finanza locale, nazionale, dovrà combinarsi con la modificazione della finanza internazionale

Chiunque capisce – anche da queste sommarie notazioni – che decrescita, transizione, occupazione ben difficilmente potranno essere risolte “in un paese solo“. Occorreranno strategie di solidarietà regionale, alleanze, misure concordate che non hanno nulla a che fare con l’attuale globalizzazione. L’intera architettura mondiale dovrà essere modificata. Io credo che il problema del lavoro assumerà in questo quadro la valenza in assoluto più grande. Il tema centrale è, già oggi,  come creare nuova occupazione qui, in Italia. Tutti gli altri compiti dovrebbero passare in secondo piano, perché si deve “passà a nuttata“. Sapendo che, se non passeremo la nottata in condizioni accettabili da grandi masse popolari, il risveglio sarà duro. Da qui una ulteriore notazione. Io mi trovo d’accordo con chi pensa che queste modificazioni richiederanno un forte e decisivo ruolo dello stato. Le strutture nelle quali viviamo hanno una vischiosità grande, che non potrà essere vinta da mille nicchie conviviali, per quanto positive possano essere le loro esperienze. La loro sommatoria non potrà risolvere il problema. Qui senza politica, senza rappresentanza, non se ne potrà uscire. Un programma di governo, ancora da formulare in tutti i suoi passaggi, dovrà individuare tutti i settori dove questa occupazione sarà creabile, a cominciare dall’agricoltura, da tutte le varianti di risparmio energetico, dal riciclo e recupero dei materiali e delle materie prime, dalla creazione di energia da fonti rinnovabili. Tutto ciò non sarà possibile senza una coerente strategia di investimenti indirizzati là dove è necessario. Ma proprio la complessità dei compiti richiede una nuova partecipazione. Questo Stato attuale non è lo Stato della transizione: è il suo contrario. Dunque si tratterà di agire per ”difendere i territori” e per moltiplicare i centri di partecipazione e di controllo.
 

Anche da qui potranno sorgere miriadi di nuovi posti di lavoro, costruiti e finanziati dalla partecipazione popolare: nella lunghissima serie di servizi integrativi di tipo mutualistico, di solidarietà, di consumo responsabile, di km zero, di monete locali alternative, dovunque le comunità si organizzino per fare fronte alla carenza di welfare pubblico che in molte situazioni esploderà, nella transizione, per mancanza di mezzi. Io credo che il problema del lavoro e dell’occupazione debba essere collocato in un contesto del genere. Che è anche quello dove si ricupera tutta la grande questione del governo dei beni comuni e di quelli pubblici. Un governo che dev’essere dal basso. Non penso che ci debbano essere contraddizioni – tanto meno aprioristiche, ideologiche – in questo percorso. Il criterio unificante dovrebbe essere uno: ogni nuovo posto di lavoro sarà una conquista collettiva e una vittoria collettiva.
A chi, giunto a questo punto, provasse spavento e incredulità di fronte a un tale scenario, io posso solo rispondere quello che penso, cioè che la decrescita reale in atto, determinata dall’inceppamento e dall’impazzimento dell’attuale sistema, fornirà un impulso possente per questi mutamenti. Con una postilla: il fattore tempo. Si tratterà di vedere se prendono il sopravvento i processi virtuosi o quelli viziosi. Nel primo caso avremo la pace; nel secondo caso avremo una serie di guerre catastrofiche.

Una seconda postilla sarà utile a noi, se vediamo questo scenario con sufficiente realismo: tentare di prefigurare a tavolino la fisionomia di una tale transizione sarebbe illusione completa. Saremo di fronte a processi immani, ciascuno dei quali sarà conseguenza delle storie e tradizioni di popoli diversi da noi, verso i quali dovremo mostrare rispetto e comprensione. A noi spetterà imparare la lezione più difficile, che è quella, appunto di saper “camminare con il passo dell’uomo“.

Giulietto Chiesa

 

 
Vita liquida PDF Stampa E-mail

9 ottobre 2012

Pubblicato su Appello al Popolo del 2-10-2012 (N.d.d.)  

Tra le idee peculiari dell'ARS (Associazione Riconquistare la Sovranità) c'è la volontà di prestare molta attenzione alla nostra esperienza legislativa, al nostro passato, recente e meno recente, anziché continuare a guardare a destra o a sinistra, nel desiderio di imitazione, e anziché insistere nell'andare alla ricerca di continue novità. Altra idea connessa alla prima è la critica severa della "volontà di riforma permanente" in ragione della consapevolezza che i settori vitali dell'ordinamento vanno modificati con molta attenzione e prudenza e dopo lunghissima riflessione.

L'ideologia riformistica, che è stata anch'essa una religione, è parte integrante, e non di secondo piano, del mondo moderno caratterizzato dalla "vita liquida": continue novità che non si consolidano e mai sfuggono alla natura di frammenti. Abbiamo distrutto sistemi consolidati, per non edificare nulla se non schegge e frammenti che si esauriscono dopo una vita di breve durata. Da quando sono stato assunto dall'Università nella quale insegno, ossia in dodici anni: a) "l'offerta formativa", che è la struttura dei corsi di studio, è stata modificata sei o sette volte; b) le discipline concorsuali sono state modificate cinque volte; c) le Facoltà sono state abolite e sostituite dai Dipartimenti; d) i modi e i criteri di distribuzione dei fondi sono mutati più volte; e) le tecniche di registrazione degli argomenti di lezione e degli esami sono state modificate; f) persino l'entrata nella mia Facoltà/Dipartimento è mutata due volte (quindi sono entrato da tre porte diverse).

Vita liquida nel senso più assoluto e veritiero. Io non potrò raccontare ai miei allievi e ai miei figli, come invece ha potuto la generazione precedente, come era la mia Università: chi vinse il concorso in quel tale anno; quando modificarono la disciplina concorsuale; quali erano le materie fondamentali che si insegnavano; quando una certa disciplina cominciò ad essere impartita in un corso accademico. Oggi l'Università non è: diventa, continuamente. Il miglior partito, nella vita liquida, è disinteressarsi di tutto. Questo è il mio partito. Io non so se i curricula esistevano, sono stati cancellati e poi reinseriti; ovvero se non c'erano e poi sono stati inseriti per essere di nuovo aboliti. Non so nulla di nulla. Nemmeno faccio richieste di fondi. Partecipo al Consiglio di Facoltà/Dipartimento con le orecchie foderate. E ancora dichiaro di insegnare nella Facoltà di Economia dell'Università della Tuscia. Nel Consiglio di Facoltà/Dipartimento ascolto ma non sento e rido di tutto; rido delle riforme. Naturalmente insegno con passione e studio. Per il resto rido, ormai anche quando insegno. Basta osservare e descrivere una riforma per suscitare il riso degli studenti, che sono più profondi dei riformatori, se solo hanno la possibilità di ascoltare una voce fuori dal coro. Quale docente universitario, dopo tanti anni di riforme, se la sente di smentire che se nulla fosse stato fatto negli ultimi dodici anni, se niente fosse mutato, se nessuna riforma fosse entrata in vigore (ma entrare "in vigore" per scomparire l'anno seguente è una contraddizione in termini) l'Università sarebbe molto ma molto migliore? 

Stefano D’Andrea 

 

 
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