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Il miraggio dell'immortalità PDF Stampa E-mail

9 settembre 2012

Questo articolo è apparso su Il Gazzettino del 17 agosto scorso (N.d.d.)  

E ci risiamo. La John Templeton Foundation ha finanziato il filosofo John Fisher con 5 milioni di dollari perchè coordini un team di scienziati sulla ricerca dell’immortalità. Il sogno dell’immortalità è antico quanto l’uomo. E si capisce facilmente perchè. L’uomo è l’unica creatura vivente lucidamente consapevole della propria fine. Tutte le religioni, promettendo una vita ultraterrena, sono nate per lenire questa angoscia di morte. Ma con i progressi della scienza questo sogno si è spostato dal piano metafisico a quello terreno. Da anni si susseguono ricerche per assicurare all’uomo l’immortalità qui sulla terra. Ebbene, se ciò si avverasse, il sogno si rivelerebbe un incubo. Perchè impedendo il ricambio, pietrificherebbe, alla lunga, l’umanità. Le toglierebbe ogni futuro. L’immortalità sarebbe la morte.

Sono "le trappole della ragione" (moderna). Senza spingerci fino all’immortalità, pensiamo all’allungamento della vita che è uno dei miti dei nostri giorni (anche Berlusconi ha finanziato ricerche in proposito: il Cavaliere si accontenterebbe di arrivare a 120 anni, in fondo non ne è poi tanto lontano). E in effetti, grazie agli sforzi della medicina tecnologica, rispetto all’epoca preindustriale, in termini di aspettativa di vita (che non va confusa con le statistiche sulla vita media che scontano l’alta mortalità natale e perinatale di un tempo) abbiamo guadagnato circa dieci anni. In pieno Medioevo, padre Dante fissa il "mezzo del cammin di nostra vita" a trentacinque anni e qualche millennio prima il biblista afferma: "Settanta sono gli anni della vita dell’uomo". Oggi siamo a 82 per le donne e a 79 per gli uomini. Ma come si vivono questi anni rosicati? A parte persone della tempra eccezionale (che ci sono oggi come c’erano prima, anzi un tempo erano probabilmente di più perchè moltissimi sono gli esempi di ottuagenari, nonagenari e persino centenari attivi e in buona salute), si passano nella malattia, nelle limitazioni sempre più pesanti e degradanti. Nella solitudine. E c’è un ulteriore controeffetto. Conosco molti amici cinquantenni e sessantenni, ancora nel pieno del loro vigore e che avrebbero diritto di vivere la loro vita, oberati da genitori ultraottantenni, novantenni, defedati, non autosufficienti, il cui peso è difficilmente sopportabile. O ci si sacrifica, in un’età ancora buona, o c’è l’umiliazione, reciproca, della "badante" oppure il calcio in culo del cronicario.

L’allungamento della vita ha avuto altre conseguenze pesanti. Se da qui a poco saremo costretti ad andare in pensione in un’età molto vicina alla morte, e quindi inutilmente, è perchè in circolazione ci sono troppi vecchi. Ma la conseguenza più devastante è che la speranza di poter prolungare la propria vita "ad libitum" ha indotto una paura della morte (l’ossessione della medicina preventiva, per limitarci a questo aspetto, ce lo dice ogni giorno) quale nessuna società del passato ha conosciuto in uguale misura. E come diceva il saggio Epicuro: "Muore mille volte chi ha paura della morte". 

Massimo Fini

 

 
La vista lunga dei reazionari PDF Stampa E-mail

6 settembre 2012

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Engels, in genere più grossolano dell’amico Marx, fu molto acuto in una lettera che ci è rimasta e che può ancora stimolare riflessioni. Scrisse che il romanziere francese Honoré de Balzac fu un critico radicale e severissimo della società borghese a lui contemporanea, non perché fosse un progressista ma, al contrario, perché era un reazionario, nostalgico dell’antico regime. Da quel suo osservatorio poteva denunciare tutta la degradazione morale dell’affarismo borghese, giudicato secondo la prospettiva dei valori tradizionali.

Potremmo applicare quel criterio di giudizio anche alla letteratura italiana. Addirittura è possibile abbozzare una regola generale, che come tutte le regole ammette del resto numerose eccezioni: i grandi scrittori sono grandi moralisti e i grandi moralisti sono fondamentalmente dei reazionari. Esemplificando, ci imbattiamo nel primo e più grande dei nostri: Dante. Nessuno può contestare che fosse un reazionario. Era un nostalgico dei buoni vecchi tempi andati, quando Firenze era una piccola città dai costumi semplici, governata da un’aristocrazia rispettata e in cui ognuno sapeva stare al proprio posto. La degenerazione fu provocata dalla “gente nuova” e dai “sùbiti guadagni”, cioè dai nuovi venuti dal contado e dall’avidità dei borghesi, i nuovi arricchiti che hanno contaminato i costumi. Su queste convinzioni Dante ha costruito l’immenso edificio della sua opera, in cui con forza evocativa senza paragoni ha denunciato le storture del suo tempo, nel tessuto sociale, nella Chiesa, nell’Europa imperiale e in quella dei nascenti Stati nazionali. Un grande moralista, un reazionario fustigatore dei costumi e proprio per questo il più profondo nell’affondare la lama della critica.

Leopardi, nonostante la grossolana forzatura di chi l’ha definito “progressista”, fu un reazionario, non nel modo bigotto di suo padre ma nel senso più radicale e più fondato del termine. Non fu solo il poeta del lamento e dell’infelicità, ma soprattutto un intellettuale estremamente lucido nello smascherare i miti progressisti della sua epoca e nell’evidenziarne le rovinose linee di tendenza. Costante fu la sua polemica contro chi parlava di progresso dei tempi moderni e dell’umanità moderna rispetto agli antichi. Esplicito il suo sarcasmo verso chi credeva nelle “magnifiche sorti e progressive”. Nemmeno la consolazione della fede aveva presa su di lui né pensava che una Costituzione liberale e un diverso assetto della società potessero rendere gli individui più felici. L’unico rimedio era la solidarietà contro la Natura matrigna, cioè contro l’inevitabile tragicità della condizione umana, una solidarietà da vivere nel virile rifiuto di ogni facile mito consolatorio e nel sostegno reciproco. Una concezione da moralista laico, fondamentalmente reazionario, che gli ha consentito di vedere più lontano del tanto celebrato liberal-catto-democratico Manzoni.

Verga, siciliano disilluso, approdato a una concezione prettamente reazionaria, quell’esaltazione dell’ “ideale dell’ostrica”, il ripiegamento in difesa dei valori eterni della famiglia, del duro e onesto lavoro, l’ostrica aggrappata allo scoglio in attesa che passi la burrasca, seppe cogliere tutto il vano sproloquio, la falsità della retorica risorgimentale. Nelle sue pagine, non in quelle dei liberali progressisti, si può vedere rispecchiata la vera realtà sociale dell’Italia di fine Ottocento. 

Anche negli scrittori italiani più recenti possiamo ritrovare la profondità quasi profetica dello sguardo critico proprio in chi parte da un rifiuto della società contemporanea in nome di un passato di cui si riconoscono tutti i limiti e tutta la durezza del vivere ma in cui si ritrovano valori veri. P.P.Pasolini, pur nel suo proclamato marxismo, fu fondamentalmente un moralista reazionario. Solo ammettendo questa realtà possiamo capire la sua opposizione al divorzio e all’aborto, possiamo capire la sua clamorosa presa di posizione per i poliziotti figli di proletari che si scontravano coi giovani figli di papà nelle mischie del famoso ’68. Proprio da quel suo fondo di moralismo reazionario Pasolini ha potuto gridare la sua protesta contro un mondo del quale vedeva lucidamente le tendenze distruttive. La sua denuncia dell’ omologazione e della mutazione antropologica ne fanno un riferimento attualissimo per chi volesse cercare di capire per quali processi siamo giunti al disastro di civiltà che ci affligge. Guido Ceronetti, dall’alto del suo coltissimo moralismo e della sua spiritualità senza dogmi e senza chiese, restìo a qualunque compiacimento e a qualunque concessione al progressismo, è fra i viventi uno dei più profondi fustigatori dei nostri costumi e di quella barbarie che chiamiamo civiltà occidentale. 

Luciano Fuschini  

 

 
Le trappole della Rete PDF Stampa E-mail

3 settembre 2012

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Articolo apparso su Appelloalpopolo del 12-8-2012 (N.d.d.) 

Ogni strumento apporta una utilità o crea una possibilità e al tempo stesso arreca danni o comunque cagiona perdite: l’esempio paradigmatico è il telefono, che quando venne introdotto consentì agevoli contatti con la persona lontana ma spinse ben presto ad abbandonare la scrittura di lettere: l’uomo che telefona non è necessariamente migliore dell’uomo che scrive lettere. La rete di internet non si sottrae alla regola generale. Nessuno può contestare che la rete consente di reperire informazioni  che altrimenti non avremmo avuto e di conoscere riflessioni che altrimenti non avremmo mai letto. La rete ha permesso, non soltanto in Italia, di organizzare partiti politici – è il caso del movimento cinque stelle o dei diversi partiti dei pirati. Perciò essa è anche mezzo organizzativo, oltre che mezzo di diffusione di informazioni e riflessioni estranee al pensiero unico (nelle due versioni di sinistra e di destra, comprese le varianti della sinistra e della destra radicali).

Tuttavia, queste indubbie potenzialità della rete non devono spingere verso il disinteresse per le trappole che la rete tende e nelle quali si cade facilmente. La prima trappola consiste nell’indurre il navigante a credere che coloro che sono in possesso di una determinata notizia o che accolgono un preciso punto di vista morale o politico o una interpretazione storica o una proposta di politica economica siano molti di più di quanti sono effettivamente. La chiamerei la trappola dell’illusione quantitativa. E’ una trappola che la rete tende per sua natura. Tutti i pesci che amano un determinato cibo, ossia tutti gli utenti che si interessano di alcuni temi o che vanno in cerca di posizioni eterodosse intorno a una certa materia – per esempio la sovranità monetaria, economica o politica o i temi connessi alla decrescita -, sono attirati, per il funzionamento di internet, in un preciso “luogo” o meglio tratto, più o meno ampio, della rete. Quanti sono i siti di “controinformazione” (uso una parola che non amo, soltanto in ragione della sua diffusione) o di “controriflessione” che occupano quel luogo? Tutto sommato sono pochi e comunque non molti. Accade così che un gruppo di siti o di pagine facebook sia frequentato in gran parte dalle medesime persone. Quindi un sito avrà mille contatti giornalieri, un altro duemila, un altro tremila e un altro ancora seimila; ma le persone che approfondiscono quotidianamente il tema principale di questo gruppo di siti non sono dodicimila (mille più duemila, più tremila più seimila), bensì sei o settemila al giorno e verosimilmente dieci-dodicimila a settimana. Ma la trappola consiste in altro e segnatamente nel fatto che quei siti e quelle pagine facebook sono frequentati da pochissimi sostenitori della linea dominante. In calce agli articoli si accumulano commenti, talvolta a decine, tutti favorevoli a una nuova linea politica, a una deversa politica economica, a una diversa politica energetica, a una diversa collocazione geopolitica dell’Italia. Frequentando quotidianamente quei siti, nei quali si dileggiano e denigrano con strafottenza le concrete e reali decisioni o affermazioni di politici, economisti e giornalisti mainstream, si finisce per avere l’impressione di appartenere a una minoranza non così poco numerosa come si credeva. Non solo. Dinanzi al fatto che, sia pure lentamente, i siti di controinformazione e controriflessione aumentano e così pure i frequentatori di quei siti, si ha l’impressione di appartenere a un movimento politico in grande crescita o che comunque si sta diffondendo in misura maggiore di come effettivamente si va diffondendo.

La verità è che la rete aggrega e segrega; riunisce i pesci che amano un determinato cibo in un tratto di rete e così separa quei pesci dai tanti altri che si nutrono di altri cibi. L’illusione quantitativa non riguarda soltanto il numero di persone che aderirebbero a una nuova dottrina e sosterrebbero politiche economiche alternative alla linea dominante, riguarda anche e soprattutto il livello di disperazione, di rabbia e di contestazione; la disponibilità a ribellioni, ad invadere piazze e città, a partecipare a occupazioni illegittime. Frequentando taluni siti o alcuni gruppi facebook si scopre che migliaia di persone scagliano quotidianamente offese, insulti,  e frasi di rabbia contro i politici. Si ha come l’impressione che esistano centinaia di migliaia di ribelli. Si è indotti inizialmente a credere che coloro che si esprimono su quei siti siano rappresentativi di un modo di essere molto diffuso.  Tuttavia, quando fuori dalla rete si parla con le persone comuni, al bar, in incontri occasionali con vecchi amici, durante incontri lavorativi o professionali o sotto l’ombrellone, ci si avvede che al massimo una persona su cento rivela quella rabbia, quella perdita di controllo, quella volontà ribelle. Coloro che parlano della crisi sono molti di più. Moltissimi commercianti, molti imprenditori, tutti i disoccupati e molti lavoratori precari. Salvo alcune eccezioni, non lo fanno tuttavia con ossessione. Nella maggior parte dei casi si tratta di uno degli argomenti di conversazione. Soltanto una parte degli ossessionati è persuasa che si debba uscire dalla crisi con scelte politiche innovative, che segnino un netto distacco dalle politiche fino ad ora seguite. Molti, infatti, sono convinti che il sistema si riprenderà tra qualche anno o magari tra un paio di anni; non pochi accettano l’idea che la crisi sia un costo da pagare e che poi si ripartirà. Alcuni dicono che la crisi farà bene, perché è nei momenti difficili che le persone di valore si fanno valere. Altri dichiarano di non capire le ragioni delle diffuse difficoltà economiche. Moltissimi sparano la sentenza risolutiva: se facessero pagare le tasse a tutti….; se licenziassero tutti gli statali che non lavorano…..; se eliminassero gli intralci burocratici…..; se abbassassero le imposte a un livello accettabile….. Si tratta di un gruppo molto nutrito, per il quale la soluzione è in fondo agevole, salvo il fatto che chi è al governo non avrebbe interesse a prenderla. Ma le persone che, pur avvertendo una qualche perdita economica, o invece non subendo alcun effetto negativo della crisi, si disinteressano alla crisi e non parlano di euro e unione europea più di una volta, per venti minuti, ogni due settimane sono di gran lunga la maggioranza.

La rete è dunque utile per scoprire informazioni e riflessioni. Ma poi va utilizzata per uscirne: per organizzare un’associazione o movimento o partito di persone che militino nelle cittadine e nelle città italiane. Portare la “controinformazione” e la “controriflessione” fuori dalla rete è già militare. Organizzare volontà politiche collettive, che si esprimano e agiscano fuori dalle catacombe di internet, e che diffondano controinformazioni e controriflessioni al fine di fare proseliti ed ingrandire l’esercito dei militanti è ancora meglio.  L’obbiettivo è sacrosanto ma non così facile da realizzare. La rete, infatti, tende un’altra trappola: dà la dipendenza[...]

 

Stefano D’Andrea 

 

 
Socialismo antiprogressista PDF Stampa E-mail

30 agosto 2012

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Questo testo tutto da meditare, pubblicato da Diorama Letterario del 9-7-2012 e ampiamente circolato in Rete, viene riproposto riassunto in questa sede per la sua eccezionale rilevanza e per la sua pertinenza con l’articolo di Cossu che appare immediatamente sotto (N.d.d.)

Come osserva Serge Salimi, «la sinistra riformista si distingue dai conservatori per il tempo di una campagna elettorale grazie a un effetto ottico. Poi, quando le è data l’occasione, si adopera a governare come i suoi avversari, a non disturbare l’ordine economico, a proteggere l’argenteria della gente del castello» .
La domanda che si pone è: perché? Quali sono le cause di questa deriva? La si può spiegare unicamente con l’opportunismo dei singoli, ex rivoluzionari divenuti notabili? Bisogna vedervi una lontana conseguenza dell’avvento del sistema fordista? Un effetto della congiuntura storica, cioè del crollo del blocco sovietico che ha annientato l’idea di una credibile alternativa al sistema di mercato?
Ne Le complexe d’Orphée, il suo ultimo libro pubblicato, Jean-Claude Michéa dà una risposta più originale e anche più profonda: la sinistra si è separata dal popolo perché ha aderito molto presto all’ideologia del progresso, che contraddice nettamente tutti i valori popolari .
Fondamentalmente orientata verso l’avvenire, la filosofia dei Lumi, come si sa, demonizza le nozioni di «tradizione», «consuetudine», «radicamento», vedendovi solo superstizioni superate e ostacoli alla trionfale marcia in avanti del progresso. Tendendo all’unificazione del genere umano e contemporaneamente all’avvento di un universo «liquido» (Zygmunt Bauman), la teoria del progresso implica il ripudio di ogni forma di appartenenza «arcaica», ossia anteriore, e la distruzione sistematica della base organica e simbolica delle solidarietà tradizionali (come fece in Inghilterra il celebre movimento delle enclosures, che costrinse all’esodo migliaia di contadini privati dei loro diritti consuetudinari, per convertirli in manodopera proletaria sradicata e dunque sfruttabile a volontà nelle manifatture e nelle fabbriche ). In un’ottica «progressista», ogni giudizio positivo sul mondo così com’era una volta rientra dunque necessariamente nell’ambito di un passatismo «nostalgico»: «Tutti coloro i quali – ontologicamente incapaci di ammettere che i tempi cambiano – manifesteranno, in qualunque campo, un qualsiasi attaccamento (o una qualsiasi nostalgia) per ciò che esisteva ancora ieri tradiranno così un inquietante “conservatorismo” o addirittura, per i più empi tra loro, una natura irrimediabilmente “reazionaria”» . Il mondo nuovo deve essere necessariamente edificato sulle rovine del mondo di prima. Poiché la liquidazione delle radici forma la base del programma, se ne deduce che «solo gli sradicati possono accedere alla libertà intellettuale e politica» (Christopher Lasch).
Questa è la rappresentazione del mondo che, nel XVIII secolo, ha accompagnato l’ascesa sociale della borghesia e, con essa, la diffusione dei valori mercantili. Atteggiamento moderno corrispondente a un universalismo astratto nel quale Friedrich Engels vedeva, a giusta ragione, il «regno idealizzato della borghesia». (Anche Sorel, a suo tempo, aveva sottolineato il carattere profondamente borghese dell’ideologia del progresso). Ma anche antico comportamento monoteista che scaglia l’anatema contro le realtà particolari in nome dell’iconoclastia del concetto, vecchio atteggiamento platonico che discredita il mondo sensibile in nome delle idee pure .
La teoria del progresso è direttamente associata all’ideologia liberale. Il progetto liberale nasce, nel XVII secolo, dal desiderio di farla finita con le guerre civili e di religione, rifiutando al contempo l’assolutismo, ritenuto incompatibile con la libertà individuale. Dopo le guerre di religione, i liberali hanno creduto che si potesse evitare la guerra civile solo smettendo di appellarsi a valori morali condivisi. Erano favorevoli a uno Stato che, per quanto riguardava la «vita buona», fosse neutro.
Poiché la società non poteva più essere fondata sulla virtù, il buon senso o il bene comune, la morale doveva restare un affare privato (principio di neutralità assiologia). L’idea generale era che si poteva fondare la società civile solo sull’esclusione di principio di ogni riferimento a valori comuni – il che equivaleva, in compenso, a legittimare qualunque desiderio o capriccio che fosse oggetto di una scelta «privata».
Il progetto liberale, spiega Jean-Claude Michéa, ha prodotto due cose: «Da un lato, lo Stato di diritto, ufficialmente neutro sul piano dei valori morali e “ideologici”, e la cui unica funzione è di badare che la libertà degli uni non nuoccia a quella degli altri (una Costituzione liberale ha la stessa struttura metafisica del codice della strada). Dall’altro, il mercato auto-regolatore, che si presume permetta a ciascuno di accordarsi pacificamente con i suoi simili sull’unica base dell’interesse ben compreso delle parti interessate» .

Durante tutta la prima parte del XIX secolo, sono appunto i liberali a formare il cuore della «sinistra» parlamentare dell’epoca (il che spiega il senso che ha conservato oggi negli Stati Uniti la parola liberal). I liberali riprendono quell’idea fondamentalmente moderna consistente nel vedere nello «sradicamento dalla natura e dalla tradizione il gesto emancipatore per eccellenza e l’unica via d’accesso a una società “universale” e “cosmopolita» . Benjamin Constant, per citare solo lui, è il primo a celebrare quella disposizione della «natura umana» che induce a «immolare il presente all’avvenire».
Mentre la III Repubblica vede la borghesia assumere a poco a poco l’eredità della rivoluzione del 1789, il movimento socialista si struttura in associazioni e partiti. Ricordiamo che la parola «socialismo» appare solo verso il 1830, in particolare in Pierre Leroux e Robert Owen, nel momento in cui il capitalismo si afferma come forza dominante. Il diritto di sciopero è riconosciuto nel 1864, lo stesso anno della fondazione della I Internazionale. Orbene, i primi socialisti, la cui base sociale si torva soprattutto tra gli operai di mestiere, non si presentano affatto come uomini «di sinistra». Michéa ricorda, d’altronde, che «il socialismo non era, in origine, né di sinistra né di destra»  e che non sarebbe mai venuto in mente a Sorel o a Proudhon, a Marx o a Bakunin di definirsi come uomini «di sinistra». A parte i «radicali», la «sinistra», all’epoca, non designa niente.
In origine, il movimento socialista si pone, in effetti, come forza indipendente, sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei «reazionari» che dei «repubblicani» e di altre forze di «sinistra». Ovviamente, si oppone ai privilegi di caste legate alle gerarchie dell’Ancien Régime – privilegi conservati in altra forma dalla borghesia liberale – ma si oppone ugualmente all’individualismo dei Lumi, ereditato dall’economia politica inglese, con la sua apologia dei valori mercantili, già così ben criticati da Rousseau. Esso, dunque, non abbraccia le idee della sinistra «progressista» e comprende bene che i valori di «progresso» esaltati dalla sinistra sono anche quelli cui si richiama la borghesia liberale che sfrutta i lavoratori. In realtà, lotta, al contempo, contro la destra monarchica e clericale, contro il capitalismo borghese, sfruttatore del lavoro vivo, e contro la «sinistra» progressista erede dei Lumi. Si è così in un gioco a tre, molto differente dallo spartiacque destra-sinistra che si imporrà all’indomani della Prima Guerra mondiale.
È, d’altronde, contro il riformismo e il parlamentarismo della «sinistra» che il socialismo proudhoniano o il sindacalismo rivoluzionario soreliano oppongono allora l’ideale del mutualismo o dell’autonomia dei sindacati e la volontà rivoluzionaria all’opera nell’«azione diretta» - ideale che si cristallizzerà nel 1906 nella celebre Carta di Amiens della CGT.
I primi socialisti non erano nemmeno avversari del passato. Più esattamente, distinguevano molto bene ciò che, nell’Ancien Régime, rientrava nell’ambito del principio di dominazione gerarchica, da essi rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio «comunitario» (la Gemeinwesen di Marx) e dai valori tradizionali, morali e culturali che lo sottendevano. «Per i primi socialisti, era chiaro che una società nella quale gli individui non avessero avuto più niente altro in comune che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati non poteva costituire una comunità degna di questo nome» . Proprio per questo, Pierre Leroux, uno dei primissimi teorici socialisti, affermava non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».

In Francia, l’alleanza storica tra il socialismo (influenzato prima dalla socialdemocrazia tedesca e poi dal marxismo) e la «sinistra» progressista si instaura all’epoca dell’affare Dreyfus (1894). Svolta profondamente negativa. Nato dalla preoccupazione di una «difesa repubblicana» contro la destra monarchica, clericale o nazionalista, si delinea un compromesso che partorirà in primo luogo i cosiddetti «repubblicani progressisti». Si crea allora una confusione tra ciò che è emancipatore e ciò che è moderno, i due termini essendo a torto ritenuti sinonimi.
È in questo momento, scrive Michéa, che il movimento socialista è stato «progressivamente indotto a sostituire alla lotta iniziale dei lavoratori contro il dominio borghese e capitalista quella che avrebbe presto opposto – in nome del “progresso” e della “modernità – un “popolo di sinistra” e un “popolo di destra” (e, in questa nuova ottica, era evidentemente scontato che un operaio di “sinistra” sarebbe stato sempre infinitamente più vicino a un banchiere di sinistra o a un dirigente di sinistra del FMI che a un operaio, a un contadino o a un impiegato che dava i suoi voti alla destra)» . Allora – e soltanto allora – la causa del popolo ha cominciato a divenire sinonimo di quella di progresso, all’insegna di una «sinistra» che voleva essere anzitutto il «partito dell’avvenire» (contro il passato) e l’annunciatrice dei «domani che cantano», ossia della modernità in marcia. Soltanto allora si è reso necessario, quando ci si voleva situare «a sinistra», ostentare un «disprezzo di principio per tutto ciò che aveva ancora il marchio infamante di “ieri” (il mondo tenebroso del paese d’origine, delle tradizioni, dei “pregiudizi”, del “ripiegamento su se stessi” o degli attaccamenti “irrazionali” a esseri e luoghi)» . Il movimento socialista, e poi comunista, riprenderà dunque per proprio conto l’ideale «progressista» del produttivismo ad oltranza, di quel progetto industriale e iperurbano che ha completato lo sradicamento delle classi popolari, rendendole ancora più vulnerabili all’influenza della Forma-Capitale. (Il che spiega anche che quell’ideale abbia ricevuto una migliore accoglienza tra gli operai già sradicati che tra i contadini).
D’ora innanzi, per difendere il socialismo, bisognava credere alla promessa di una marcia in avanti dell’umanità verso un universo radicalmente nuovo, governato soltanto dalle leggi universali della ragione. Per essere «di sinistra», bisognava classificarsi tra coloro che, per principio, rifiutano di guardare indietro, così come fu intimato a Orfeo. Separato dalle sue radici, il movimento operaio è stato nello stesso tempo privato delle condizioni e dei mezzi della sua autonomia. Come aveva ben visto George Orwell, la religione del progresso priva infatti l’uomo della sua autonomia nel momento stesso in cui pretende di garantirla emancipandolo dal passato. Orbene, sottolinea Michéa, «dal momento in cui un individuo (o una collettività) è stato spossessato dei mezzi della sua autonomia, non può più perseverare nel suo essere se non ricorrendo a protesi artificiali. Ed è appunto questa vita artificiale (o “alienata”) che il consumo, la moda e lo spettacolo hanno il compito di offrire a titolo di compensazione illusoria a tutti coloro la cui esistenza è stata così mutilata» .
Poiché la sinistra si considera innovatrice, il capitalismo sarà nello stesso tempo denunciato come «conservatore». Altra deriva fatale, perché la Forma-Capitale è tutto tranne che conservatrice! Marx aveva già mostrato bene il carattere intrinsecamente «progressista» del capitalismo, cui riconosceva il merito di aver soppresso il feudalesimo e annegato tutti gli antichi valori nelle «gelide acque del calcolo egoistico». A questo tratto fondante se ne aggiunge un altro, tipico delle forme moderne di questo stesso capitalismo. «Una economia di mercato integrale», spiega Michéa, «può funzionare durevolmente solo se la maggior parte degli individui ha interiorizzato una cultura della moda, del consumo e della crescita illimitata, cultura necessariamente fondata sulla perpetua celebrazione della giovinezza, del capriccio individuale e del godimento immediato.  Dunque, è proprio il liberalismo culturale (e non il rigorismo morale o l’austerità religiosa) a costituire il complemento psicologico e morale più efficace di un capitalismo di consumo» . Ora, diventando «di sinistra», il socialismo ha fatto suoi anche i principi del liberalismo culturale. La sinistra «permissiva» è così divenuta il naturale humus di espansione della Forma-Capitale. È il capitalismo che permette meglio di «godere senza ostacoli»!
Per decenni, sotto l’etichetta di «sinistra», si troveranno dunque associate, in una permanente ambiguità, due cose totalmente differenti: da una parte, la giusta protesta morale della classe operaia contro la borghesia capitalista, e, dall’altra, la credenza liberale borghese in una teoria del progresso la quale afferma, in linea di massima, che «prima» non ha potuto che essere peggiore e che «domani» sarà necessariamente migliore. In effetti, il movimento socialista è veramente degenerato dal momento in cui è divenuto «progressista», ossia a partire dal momento in cui ha aderito alla teoria (o alla religione) del progresso – cioè alla metafisica dell’illimitato – che costituisce il cuore della filosofia dei Lumi, e dunque della filosofia liberale. Essendo la teoria del progresso intrinsecamente legata al liberalismo, la «sinistra», diventando «progressista», si condannava a confluire un giorno o l’altro nel campo liberale. Il verme era nel frutto. Il liberalismo culturale annunciava già il capovolgimento nel liberalismo economico. L’ultimo bastione a cedere è stato il partito comunista, che ha progressivamente smesso di svolgere il ruolo che in passato ne aveva decretato il successo: fornire «alla classe operaia e alle altre categorie popolari un linguaggio politico che permettesse loro di vivere la loro condizione con una certa fierezza e di dare un senso al mondo che avevano sotto gli occhi» .
Ciò che Michéa dice della sinistra potrebbe, beninteso, essere detto della destra, con una dimostrazione inversa: la sinistra ha aderito al liberalismo economico perché era già acquisita all’idea di progresso e al liberalismo «societale», mentre la destra ha aderito al liberalismo dei costumi perché ha prima adottato il liberalismo economico. Alla stupidità delle persone di sinistra che ritengono possibile combattere il capitalismo in nome del «progresso», corrisponde l’imbecillità delle persone di destra che ritengono possibile difendere al contempo i «valori tradizionali» e un’economia di mercato che non smette di distruggerli: «Il liberalismo economico integrale (ufficialmente difeso dalla destra) reca in sé la rivoluzione permanente dei costumi (ufficialmente difesa dalla sinistra), proprio come quest’ultima esige, a sua volta, la liberazione totale del mercato» . Ciò spiega che destra e sinistra confluiscano oggi nell’ideologia dei diritti dell’uomo, il culto della crescita infinita, la venerazione dello scambio mercantile e il desiderio sfrenato di profitti. Il che ha almeno il merito di chiarire le cose.
La sinistra si è molto presto convinta che la globalizzazione del capitale rappresentava una evoluzione ineluttabile e un avvenire insuperabile, con la politica che, nello stesso tempo, si adattava alla globalizzazione economica e finanziaria. Il grande divorzio tra il popolo e la sinistra ne è stata la conseguenza più clamorosa.

Ormai, la sinistra celebra la crescita, ossia la produzione di merci all’infinito, negli stessi termini dei liberali, il nemico non è più il capitalismo che sfrutta il lavoro vivo degli uomini, ma il «reazionario» che ha il torto di rimpiangere il passato.
I «valori» della sinistra non sono più valori socialisti, ma valori «progressisti»: immigrazionismo, apertura o soppressione delle frontiere, difesa del matrimonio omosessuale, depenalizzazione di certe droghe, ecc., tutte opzioni con le quali la classe operaia è in completo disaccordo o di cui si disinteressa totalmente.
Poiché l’obiettivo non è più lottare contro il capitalismo, ma combattere tutte le forme di preoccupazione identitaria, regolarmente descritte come il risorgere di una mentalità reazionaria e arretrata, «ciò spiega», constata Jean_Claude Michéa, «che il “migrante” sia progressivamente divenuto la figura redentrice centrale di tutte le costruzioni ideologiche della nuova sinistra liberale, sostituendo l’arcaico proletario, sempre sospetto di non essere abbastanza indifferente alla sua comunità originaria o, a più forte ragione, il contadino, che il suo legame costitutivo con la terra destinava a diventare la figura più disprezzata – e più derisa – della cultura capitalistica» ..
Il popolo non si riconosce più in una sinistra che ha sostituito l’anticapitalismo con un simulacro di «antifascismo», il socialismo con l’individualismo radical chic e l’internazionalismo con il cosmopolitismo o l’«immigrazionismo», prova solo disprezzo per i valori autenticamente popolari, cade nel ridicolo celebrando al contempo il «meticciato» e la «diversità» , si sfinisce in pratiche «civiche» e in lotte «contro tutte le discriminazioni» (con la notevole eccezione, beninteso, delle discriminazioni di classe) a solo vantaggio delle banche, del Lumpenproletariat e di tutta una serie di marginali.
Non è sorprendente nemmeno che il popolo, così deluso, si volga frequentemente verso movimenti descritti con disprezzo come «populisti» (uso peggiorativo che manifesta un evidente odio di classe). Georges Sorel diceva che «il sublime è morto nella borghesia, che è dunque condannata a non avere più una morale». Anche Michéa parla di morale. Ma qui non si tratta del «sublime», bensì della decenza comune (common decency) tanto spesso celebrata da Orwell.
«È morale», diceva Emile Durkheim, «tutto ciò che è fonte di solidarietà, tutto ciò che costringe l’uomo a tenere conto dell’altro, a regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso dagli impulsi del proprio egoismo». «Ciò spiega», aggiunge Michéa, «che la rivolta dei primi socialisti contro un mondo fondato sul solo calcolo egoistico sia stata così spesso sostenuta da una esperienza morale» . Si pensi alla «virtù» celebrata da Jaurès, alla «morale sociale» di cui parlava Benoît Malon. La «decenza comune», che è mille miglia lontana da ogni forma di ordine morale o di puritanesimo moralizzatore, è infatti uno dei tratti principali della «gente normale» ed è nel popolo che la si trova più comunemente diffusa. Essa implica la generosità, il senso dell’onore, la solidarietà ed è all’opera nella triplice obbligazione di «dare, ricevere e restituire» che per Marcel Mauss era il fondamento del dono e del controdono. A partire da essa, si è espressa in passato la protesta contro l’ingiustizia sociale, perché permetteva di percepire l’immoralità di un mondo fondato esclusivamente sul calcolo interessato e la trasgressione permanente di tutti i limiti. Ma è altresì essa che, oggi, protesta con tutta la sua forza contro quella sinistra «moderna» di cui un Dominique Strass-Kahn è il simbolo e nella quale non si riconosce più. «Da questo punto di vista», scrive Michéa, «il progetto socialista (o, se si preferisce l’altro termine utilizzato da Orwell, quello di una società decente) appare proprio come una continuazione della morale con altri mezzi» .
Come si è capito, Michéa non critica la sinistra da un punto di vista di destra – e ce ne rallegriamo – bensì in nome dei valori fondanti del socialismo delle origini e del movimento operaio. Tutta la sua opera si presenta, d’altronde, come uno sforzo per ritrovare lo spirito di questo socialismo delle origini e porre le basi del suo rinnovamento nel mondo di oggi. Assumendo la difesa della «gente normale», egli rifiuta anzitutto che si screditino valori di radicamento e strutture organiche che, in passato, sono stati spesso l’unica protezione di cui disponevano i più poveri e i più sfruttati.
Non è un punto di vista isolato. Il percorso di Jean-Claude Michéa si inscrive piuttosto in una vasta galassia, dove troviamo, in primo luogo, ovviamente, il grande George Orwell, al quale Michéa ha dedicato un libro notevole (Orwell, anarchiste tory), come pure Christopher Lasch, teorico di un «populismo» socialista e comunitario, grande avversario dell’ideologia del progresso , di cui ha contribuito più di chiunque altro a far conoscere il pensiero in Francia. Vi troviamo anche, per citare solo pochi nomi, il giovane Marx critico dei «diritti dell’uomo», i primi socialisti francesi, William Morris, Charles Péguy e Chesterton, l’Antonio Gramsci che sottolinea l’importanza delle culture popolari, il Pasolini degli Scritti corsari (colui che diceva: «Ciò che ci spinge a tornare indietro è umano e necessario tanto quanto ciò che ci spinge ad andare avanti»), Clouscard e la sua critica dei liberali-libertari, Jean Baudrillard e la sua denuncia della «sinistra divina», i films di Ken Loach e di Guédiguian, la canzoni di Brassens, senza dimenticare Walter Benjamin, Cornelius Castoriadis, Jaime Semprun, Anselm Jappe, Serge Latouche[...]

Alain de Benoist

 

 
Socialismo e antimodernità PDF Stampa E-mail

28 agosto 2012

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Generalmente l’antimodernismo più ortodosso rifiuta le idee di matrice socialista come residui di quelle ideologie moderne cui esso si contrappone. Che storicamente il socialismo sia un prodotto moderno è innegabile, ma è anche innegabile che quella modernità oggi sia abbastanza lontana nel tempo e soprattutto è altrettanto chiaro che attualmente la modernità si oggettivi in un modello economico totalitario e planetario che sta puntando alla distruzione scientifica e mirata di ogni forma di welfare e appunto di socialismo (oltre che come ben sappiamo di tutte le culture non allineate al verbo del mercato e della democrazia occidentale).

Questi elementi dovrebbero spingerci oggi ad una riflessione e ad un superamento di tipo quasi hegeliano di questa dicotomia socialismo/antimodernismo. Se, infatti, come scriveva Aristotele, l’uomo è essenzialmente un essere sociale che si realizza nella comunità, vien da sé che ogni uomo deve poter avere accesso a tutte quelle risorse materiali necessarie al suo sostentamento, essendo anch’egli incarnato e non puro spirito. Se ciò in epoca pre-moderna era garantito tramite regole comunitarie, anche in presenza di economie statiche e di penurie rispetto agli standard attuali, ciò con l’avvento del capitalismo divenne problematico e da qua nascono appunto il socialismo moderno e le sue battaglie. Come abbiamo detto in precedenza, se la situazione attuale si caratterizza come una distruzione scientifica di tutte le conquiste sociali avvenute per mitigare gli effetti del capitalismo, è lampante che ad un’ennesima accelerazione liberista sia comunque preferibile un freno. Anche se per l’antimodernista, sia liberismo che socialismo sono due facce della stessa medaglia, pragmaticamente, poiché tutti dobbiamo vivere qui ed ora, è necessario mettere nero su bianco che ad ulteriori accelerazioni in avanti è preferibile comunque un arresto e un attestarsi su situazioni precedenti (se pure di poco). Moltissimi storceranno il naso, ma urge ricordare che questa idea era chiaramente espressa anche da una persona del calibro di Renè Guenon che certo non è definibile un progressista.

Per questi motivi riteniamo che oggi una linea politica antimodernista non debba rifiutare per combattere il nemico che è qui ed ora ci minaccia, un’impostazione strategicamente socialista nel breve periodo, puntando logicamente sempre non alla razionalizzazione pianificata dell’industrialismo come recita il marxismo ma ad una sua eliminazione graduale, ma appunto perché graduale, governata da una politica sociale per evitare che decrescita significhi miseria per molte persone.

Concludendo, riteniamo che un nucleo pragmatico minimo di socialismo come quello da noi identificato nel ritenere che ciascun membro di una comunità abbia diritto al suo sostentamento materiale, debba entrare tra le idee guida della futura azione politica di MZ. Un socialismo minimo che non prevede chiaramente né l’affiancamento necessario a concetti quali democrazia parlamentare, internazionalismo, libertà politiche e civili secondo i dettami socialdemocratici, né gli eccessi scientifico-collettivizzanti alla maniera marxista, né forme di nazionalismo novecentesco come quelle proposte dalla destra sociale.Il nostro deve essere un nucleo socialista, come abbiamo detto minimo, ma anche agile per poter interagire con quelle forze che in questo momento condividono la nostra scelta pur magari sostenendo le forme di socialismo sopra menzionate. Unica discriminante deve essere sempre e comunque la non accettazione di quelle forze organiche o vicine al sistema della partitocrazia. Chiaramente il nostro ideale rimane l’antimodernismo e il nostro fine il superamento dell’industrialismo, ma se si vuole fare qualcosa qui ed ora, è necessario muoversi per step successivi in modo pragmatico e coinvolgendo il maggior numero di forze possibili se davvero vogliamo lottare contro questo modello economico, contro il liberismo e contro questa Europa in cui ci è toccato vivere.

Alberto Cossu   

 

 
Due guerre civili PDF Stampa E-mail

24 agosto 2012

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Paragonare epoche lontane è sempre una forzatura. Pertanto anche il confronto fra gli anni Trenta del secolo scorso e quelli che stiamo vivendo è un’operazione azzardata. In particolare è molto diverso il quadro degli opposti imperialismi. All’egemonia imperiale anglo-americana allora si opponeva un nascente e aggressivo imperialismo nazi-fascista. Oggi c’è un solo imperialismo onnipervasivo, quello americano, che dal crollo dell’URSS in poi non incontra ostacoli significativi.

Eppure la tentazione di paragonare i due periodi è forte, e non solo per la gravità della crisi economica internazionale che li contraddistingue. Nella seconda metà degli anni Trenta, l’espansionismo nazifascista mise a segno una serie di colpi che alterarono gli equilibri internazionali. La conquista dell’Etiopia e poi dell’Albania da parte dell’Italia, l’annessione tedesca dell’Austria e successivamente della regione dei Sudeti, col conseguente asservimento della Cecoslovacchia, mentre nell’estremo Oriente asiatico il Giappone alleato delle due potenze europee aggrediva la Cina, trovarono debole opposizione nelle cosiddette democrazie.

In quegli anni la prova più traumatica fu però la guerra civile spagnola, che contrappose il governo repubblicano agli insorti falangisti capeggiati dal generale Franco. Fu una mischia feroce, come tutte le guerre civili (in quel caso, come in casi analoghi, compresa l’attuale strage in Siria, il criterio discriminante per schierarsi da una parte o dall’altra non è il livello di crudeltà dei contendenti, perché la ferocia è un tratto comune a tutti). La guerra di Spagna si internazionalizzò rapidamente. Dalla parte del governo repubblicano si pronunciarono, molto debolmente e predicando il non intervento, le “democrazie” occidentali, e con un po’ più di decisione l’URSS. Ma soprattutto quella causa poté contare sull’afflusso di gruppi di combattenti volontari, le brigate internazionali. Dalla parte dei rivoltosi franchisti si schierarono la Germania nazista e l’Italia fascista, con massicci invii di armi e di formazioni militari. Alla fine trionfarono i franchisti, grazie a quegli interventi esterni. Si era nel 1939. La Germania nazista e l’Italia fascista giunsero alla conclusione che l’Occidente democratico era debole e decadente. La mossa successiva fu l’invasione della Polonia, dopo un accordo provvisorio con l’URSS, e a quel punto la guerra generale, che sarebbe diventata mondiale, non era più evitabile. 

Nei nostri anni un Impero che sente di poter dominare il mondo ha aggredito la Serbia, ultimo Paese di quell’area amico della Russia, inventando un genocidio inesistente nel Kossovo, provincia serba e non Stato indipendente. Col pretesto dell’oscurissimo episodio dell’11 settembre  ha invaso prima l’Afghanistan e poi l’Iraq, impadronendosi di aree strategiche e installando altre basi lungo i confini della Russia e della Cina. Inventando la ridicola minaccia di inesistenti missili intercontinentali iraniani, ha installato basi missilistiche nell’Europa orientale, lungo i confini con la Russia. Infine ha aggredito la Libia, per fare dell’intero Mediterraneo un’area sotto il totale controllo dell’Impero. Le reazioni a queste mosse sono state debolissime o inesistenti, tali da incoraggiare una nuova avventura approfittando della guerra civile in Siria. Qui troviamo da una parte il governo sostenuto attivamente da Iran e Russia e diplomaticamente dalla Cina; dall’altra parte ribelli di variegata coloritura politica e religiosa, sostenuti massicciamente da USA, UE, Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Finalmente Russia e Cina hanno capito qual è la posta in gioco. Se l’Impero sfonderà anche in Siria, la prossima pedina a saltare sarà l’Iran, dopo di che la guerra mondiale diventerà pressoché inevitabile. Dopo la Spagna fu la Polonia e la seconda guerra mondiale. Dopo la Siria sarà l’Iran e un’altra guerra mondiale.

È proprio azzardato questo parallelismo? Se non lo è, e molte cose fanno pensare che non lo sia, in Siria si sta giocando una partita decisiva per le sorti del mondo. Putin sembra aver compreso che dopo il vergognoso cedimento sulla Libia, la Siria è l’ultima trincea. La nostra flebile voce si aggiunga a quella di altri che sulla Rete tentano di sensibilizzare a questi temi, ben più fondamentali dello spread e dell’andamento delle Borse. Si sta consumando una tragedia che riguarda il futuro del mondo intero, nell’indifferenza, nell’abulìa, nell’atonìa di generazioni perdute. 

Luciano Fuschini

 

 
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