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Elogio dell'intolleranza PDF Stampa E-mail

18 luglio 2012

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Qualunque cosa significhi il termine intellettuali, il loro compito primario, soprattutto quando lavorano nei media, sarebbe di demistificare il linguaggio, depurandolo delle incrostazioni e permettendo così quella trasparenza che dovrebbe essere la precondizione indispensabile di quella democrazia di cui  il sistema tanto si vanta. Ebbene, gi intellettuali fanno esattamente il contrario. Il loro lavoro, ben remunerato, consiste nella manipolazione consapevole e propagandistica del linguaggio, un’operazione letteralmente delinquenziale. Gli esempi sono innumerevoli.  Basti ricordarne alcuni dei più vistosi.

Quando un combattente suicida si fa saltare in aria in mezzo a un reparto di soldati invasori del suo Paese, tutti i media compatti parlano di “vile attentato terroristico” . Se questa è viltà, ritiriamo tutti i vocabolari in circolazione e ridefiniamo i significati delle parole. Le aggressioni imperialiste sono chiamate “missioni di pace” o “ingerenza umanitaria”. Un’alleanza militare fra alcuni Stati diventa pomposamente “la comunità internazionale”. Quando si decidono licenziamenti di lavoratori, determinando tragedie nelle famiglie, fino al suicidio, si parla di “personale in esubero”, usando un termine che, evocando la parola esuberanza, suggerisce impressioni di sana e gioiosa vitalità. Dal versante progressista, quello che M.Fini definisce delle “suorine di sinistra”, si fa abuso dell’accusa di “razzismo”. Questo termine dovrebbe correttamente definire coloro che sostengono che certi gruppi etnici sono per natura inferiori da un punto di vista intellettuale o etico. Definendo esattamente il termine, il che dovrebbe essere compito proprio degli intellettuali, risulterebbe che pochissimi italiani sono razzisti. Quello che viene definito “razzismo” è soltanto una reazione emotiva a fenomeni di degrado riferibili anche alla massiccia immigrazione, un’immigrazione che non è una “felice opportunità” come vogliono le suorine della sinistra, ma un grande dramma della globalizzazione del capitale, innanzitutto per gli immigrati ma anche per chi subisce gli sconvolgimenti del tessuto sociale.   Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi di mistificazione linguistica.

Basti soffermarsi su un ultimo punto: l’uso strumentale del termine ideologia. Il pensiero dominante si basa su tre pilastri concettuali: sviluppo, competitività, mobilità. Ognuno di questi concetti è minato da contraddizioni tali da renderlo insostenibile. Ormai dovrebbe essere chiaro che lo sviluppo e quindi la crescita continua è incompatibilie con le risorse limitate di un sistema chiuso e finito qual è un pianeta. La competitività implica competizione. La competizione è una gara e in una gara ci sono vincenti e perdenti. Se qualcuno è competitivo, qualcun altro deve soccombere. Dire “anche gli africani devono imparare a essere competitivi” è un’affermazione solo apparentemente indiscutibile. Lo dicevamo anche dei cinesi, degli indiani, dei brasiliani. Ebbene, hanno imparato a essere competitivi e la logica conseguenza è il nostro declino. Nella corsa forsennata della competizione, ora i vincenti sono loro. Quanto alla mobilità, non può conciliarsi con l’altro presupposto, quello della difesa della famiglia. La disponibilità a cambiare frequentemente lavoro e residenza significa sradicamento e crisi della famiglia. Eppure, nonostante tutte le contraddizioni che minano questa concezione, sviluppo, competitività e mobilità sono spacciati come qualcosa di naturale, di ovvio, la concezione che riflette fedelmente la natura delle cose. Il termine ideologia viene attribuito come etichetta spregevole a chi obietta che allo sviluppo continuo si deve contrapporre la mentalità della decrescita; che alla competitività si può contrapporre un’economia dello scambio reciprocamente conveniente, del dono, della collaborazione, secondo modalità che nobili civiltà hanno conosciuto e  praticato in epoche forse meno squallide della nostra; che alla mobilità si può contrapporre il radicamento in una comunità organica. Esprimersi in questi termini espone all’accusa di ideologismo. Siamo ideologi astratti, la realtà naturale e indiscutibile è quella della modernità sviluppista, competitiva, aperta alla mobilità e al continuo cambiamento, al continuo superamento dei limiti. Un’ideologia folle e devastante viene spacciata dai propagandisti del potere come l’unica visione realistica del mondo. 

Stando così le cose, essendo questa la pratica consapevolmente truffaldina di quel ceto intellettuale che è parte integrante e indispensabile del Potere,  è giunto il tempo dell’elogio dell’intolleranza. Con questa gente non si discute più.  

Luciano Fuschini    

 

 
Ma il problema è l'omosessualità o l'omofobia? PDF Stampa E-mail

13 luglio 2012

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Il testo è una sintesi dell’articolo apparso su Rassegna di Arianna del 5-7-2012 (N.d.d.)

Mi diceva ieri un’amica, mamma di un bambino di ventuno mesi, che, se non stai attento, in libreria ti rifilano fiabe per bambini che vorrebbero presentare l’omosessualità come la cosa più bella e naturale del mondo e l’esistenza di famiglie formate da una coppia di omosessuali come una cosa del tutto equivalente a quella delle famiglie fondate sull’unione tra uomo e donna. Si tratta di libretti illustrati, che sono mescolati insieme a tanti altri sugli scaffali, e che non subito rivelano la loro intenzione recondita (ma neanche tanto): per esempio, la storia - che si dice tratta da un fatto vero - di due pinguini dello zoo, maschi entrambi, che s’innamorano l’uno dell’altro e che cominciano a covare un sasso come fosse un uovo: del che accortosi un guardiano di buon cuore, il sasso viene sostituito da un uovo vero e così i due pinguini omosessuali finiscono per avere un piccolo e per mettere su felicemente una “famiglia”.

Recentemente ha fatto anche parlare di sé la figlia del cantautore Roberto Vecchioni, la quale, legata sentimentalmente, da cinque anni, a un’altra donna, è andata in Olanda (qualcuno parla, sgradevolmente ma efficacemente, di “turismo procreativo”, non certo alla portata di tutte le borse) a sottoporsi alla fecondazione eterologa e poi è tornata in Italia per dare alla sua compagna una coppia di gemelle: spiegando nell’intervista a un settimanale illustrato come una famiglia nasca dall’unione profonda e sincera tra due esseri umani, indipendentemente dal loro sesso. Il tutto corredato da foto ammiccanti, in una bella casa con giardino, assumendo pose da diva e non senza la benedizione di mamma e papà, felicissimi per l’arrivo delle nipotine.

Non solo, da anni, il cinema, la televisione, la letteratura, il giornalismo stanno conducendo una battaglia continua, ora sommessa, ora sguaiata, per assuefare il cittadino comune all’idea che le unioni omosessuali sono la cosa più naturale che si possa immaginare, e che non vi è alcuna differenza fra esse e quelle eterosessuali; ma, da qualche tempo, si è registrato un salto di qualità - si fa per dire - in questa crociata “libertaria”, ponendo al centro del dibattito non l’omosessualità, ma le reazioni che essa suscita e stigmatizzando l’inciviltà di quelle persone che mostrano comportamenti “omofobici”, anche solo a livello verbale. Sia ben chiaro: l’intolleranza fisica è sempre condannabile e, pertanto, le aggressioni o gli insulti ai danni degli omosessuali sono certamente qualcosa di squallido e di meschino, che va condannata con forza; ma da qui a dire che non si ha il diritto di esercitare una critica verso il dilagare del modello omosessuale, ce ne corre. Rifiutiamo fermamente il ricatto secondo il quale non accettare l’equiparazione, anche giuridica, delle coppie omosessuali alle famiglie formate da un uomo e una donna sarebbe una forma di intolleranza e, magari, di violenza e rivendichiamo il diritto al dissenso nei confronti di questa cultura basata sul totale relativismo etico. Quel che fanno le persone sotto le lenzuola, ne siamo profondamente convinti, è cosa privata, che attiene alla sfera di libertà del singolo: in questo senso, non siamo minimamente interessati a conoscere i dettagli della vita intima di personaggi omosessuali che hanno deciso di fare “outing” e ne faremmo volentieri a meno, grati se ci venissero risparmiati; ma che tale esibizione sia finalizzata a creare l’accettazione di un nuovo modello di famiglia, in cui il sesso dei genitori è indifferente e il fatto di avere dei bambini è un loro “diritto”, da realizzare in ogni modo, anche in barba alle leggi vigenti in Italia, così come si ha il diritto di acquistare un oggetto o di prenotare una vacanza, questo lo riteniamo subdolo e inaccettabile.

La cultura permissiva vive, da sempre, di ricatti psicologici e morali; chi non ricorda come, nelle grandi città, qualche anno fa era impossibile andare per strada senza essere fermati da persone volonterose e bene intenzionate che chiedevano soldi per questa o quella comunità di recupero per tossicodipendenti, le quali, davanti alla minima esitazione, la mettevano subito in questi termini: «Ma lei, per caso, ha qualcosa contro i tossicodipendenti?». Il ricatto è questo: se non si approva se non si partecipa, se non si aderisce, allora si è contro: e si passa dalla parte dei cattivi, degli intolleranti, degli oscurantisti; passaggio automatico, immediato, inesorabile, che equivale a una sentenza di condanna morale. Si arriva, così, a ribaltare la frittata e a far sentire il cittadino comune dalla parte del torto, a instillare in lui un senso di cattiva coscienza; in fondo, che cosa chiedono queste minoranze, se non il riconoscimento del loro diritto ad esistere, ad essere quello che sono? Tutta la cultura moderna, figlia dei Lumi e della Rivoluzione francese, parte dal dogma dei diritti: tutti hanno diritto a tutto, evviva la libertà; e chi non è d’accordo, è un miserabile reazionario, meritevole - per usare l’eloquente espressione di uno che di queste cose s’intendeva, Lev Trotzkij - di essere gettato nell’immondezzaio della storia (come se la storia avesse piani nobili e immondezzai; ma questo è un altro inevitabile portato dell’idea salvifica di Progresso).

Nei secoli passati, l’omosessualità era vista non solo come un disordine biologico e morale, ma anche come un gravissimo fattore di dissoluzione della società: per questo i nostri antenati erano così severi nel reprimerla; per questo il sommo Poeta mette i sodomiti nel profondo dell’Inferno, sferzati da una pioggia di fuoco (pur senza mancare di rispetto e di umana simpatia per singole persone, come il suo vecchio maestro Brunetto Latini). Si può e si deve biasimare la durezza con cui la società medievale puniva gli omosessuali, ma bisognerebbe essere cauti nel biasimare il punto di vista dal quale essa partiva: se la stabilità è il fondamento di una vita comunitaria pacifica e ordinata, allora è un fatto che l’omosessualità mina alla base tale fondamento. Inoltre, ai nostri giorni la cultura omosessuale non si accontenta più di vedersi riconosciuto il diritto alla propria diversità; vuole che le unioni omosessuali vengano equiparate, in tutto e per tutto, alla famiglia; ed esige anche il corollario di ciò, ossia l’adozione di bambini o la fecondazione eterologa (per le donne lesbiche) in modo da avere dei figli senza dover passare per la via naturale, che è l’unione sessuale fra uomo e donna; vuole, dunque, che questi bambini crescano con due mamme o con due papà, senza la presenza genitoriale del sesso opposto, considerata come cosa del tutto irrilevante; e vuole, infine, che tutto questo venga accettato, approvato e sottoscritto con perfetta naturalezza, come cosa assolutamente ovvia e scontata.Be’, andiamoci piano.

A noi sembra che la campagna per il rovesciamento della prospettiva, tendente a far passare come problema non il problema stesso (l’omosessualità e le cosiddette famiglie gay), ma la percezione del problema, sia il prolungamento di una impostazione unilaterale della questione della libertà, presente già nel padre nobile del pensiero liberale, John Locke. Questi, come è noto, pone la proprietà privata come uno dei diritti fondamentali dell’uomo, e sappiamo a quali aberrazioni ha portato la sua assolutizzazione: nella più rigorosa delle società liberali, quella statunitense, ammazzare un ladruncolo che si intrufola nel mio guardino per rubare quattro mele non è un reato, perché, sparandogli, io non ho fatto altro che difendere il mio sacrosanto diritto alla proprietà, sancito dalla Costituzione. Ebbene, il “diritto” a equiparare una coppia omosessuale a una famiglia e ad avere dei bambini (assimilabile, per questo verso, ad altri “diritti” alla maternità, come quello delle donne anziane che vogliono diventare mamme anziché fare le nonne) è, anch’esso, una estensione del diritto alla proprietà: in questo caso, alla proprietà dei bambini. Quel che conta non se è questi bambini cresceranno in un ambiente idoneo, ma il diritto degli adulti ad averli. Si sostiene che, per un bambino, quel che conta è l’amore dei genitori e non il sesso al quale essi appartengono: ragionamento aberrante, perché parte da una premessa giusta (quel che conta è l’amore dei genitori) per giungere, in maniera assolutamente illogica, a una conclusione assurda (i genitori possono essere tranquillamente due uomini o due donne). Si cita anche il caso dei bambini orfani di padre e di madre, cresciuti senza la presenza di una figura genitoriale: altro confronto privo di senso; qui non si tratta di avere un solo genitore, ma di averne due del medesimo sesso; di crescere con due papà o con due mamme che si baciano, si accarezzano, fanno l’amore e questo sotto gli occhi dei figli. E la psicologia, la regina delle cosiddette scienze umane, non ha niente da dire al riguardo? Va tutto bene, è tutto a posto?

Qui la posta in gioco, si badi, non è l’omosessualità, che è sempre esistita e sempre esisterà; ma il suo statuto sociale ed i suoi corollari legislativi, in particolare per quanto attiene alla famiglia e alla prole.

 

Francesco Lamendola

 


 

 
La dissimulazione della controtradizione PDF Stampa E-mail

11 luglio 2012

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Come è noto, gli esiti del Vaticano II – tra i quali l’emersione dei cosiddetti “movimenti ecclesiali”, spesso favorita da una ecclesiologia e da una antropologia fallace – sono stati spesso ambigui.  Ci si potrebbe chiedere, a buon diritto, se non sia il caso di cominciare a convertire al cattolicesimo, oltre ai cdd. “atei devoti”, gli stessi “cattolici occidentalisti” (collusi con i “poteri forti”: forse essi non hanno mai letto le “Beatitudini”).  Ci pare, infatti, che oggi il pericolo maggiore provenga da “destra”, ossia da chi difende contemporaneamente la “libertà religiosa” ed attacca il “relativismo”, chi addita ad esempio sia San Pio X ma anche Paolo VI e Giovanni Paolo II, chi considera con devozione l’orripilante “rito romano ordinario” e quello “straordinario” [sic]: chi, in pratica, è sempre pronto, anche per questa sua posizione “conciliare” e molto italianamente “conciliante”, a saltare sul carro del “vincitore”. In particolare, la figura di Giovanni Paolo II pare intoccabile: eppure, egli si è reso responsabile, oltre che del completamento della devastazione liturgica in ambito latino, di svariate profanazioni compiute nei suoi rocamboleschi viaggi, dell’introduzione dei cdd. “misteri luminosi” nel Rosario (dato dalla Vergine a S. Domenico: un “papa mariano” sarebbe un papa che “corregge” la Vergine!?), della tesi dell’”Antica Alleanza mai revocata” e quindi del riconoscimento diplomatico di Israele (quando si dice “teologia politica”!), del nuovo “concordato” con lo stato italiano e di una dubbia “politica” nei confronti di miserabili di ogni risma, ascesi fino ad altissimi livelli nella gerarchia della Chiesa durante il suo pontificato (da ultimo, si ricordi anche la sua palesemente falsa interpretazione dell’ultima parte del “terzo segreto di Fatima”, “svelato” nel 2000). Ad ogni buon conto, il problema, da circa cinquanta anni a questa parte, è che l’obbedienza dovuta al papa (ed alla Chiesa), che in tempi ordinari costituisce un elemento naturale del cattolicesimo, implica l’accettazione di numerose contraddizioni (in termini, oltre che rispetto alla Tradizione) ed anche, talora, di autentiche empietà: rimaniamo di sasso, ad esempio, quando apprendiamo che, secondo il documento della CEI “L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica” (31 maggio 1996), “[…] il tabernacolo per la riserva eucaristica [sic] deve essere unico e [che] l’altare della celebrazione non può ospitare la custodia eucaristica” (corsivi nostri: altro che continuità tra Vaticano II e Tradizione!); inoltre, dal trono più alto è giunta ultimamente la ennesima reiterazione di codesta stravaganza antropolatrica, molto à la page negli ultimi 45 anni: “[Ogni persona]… non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna” (Benedetto XVI,” Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace per l’anno 2011”; il nostro corsivo è volto ad evidenziare come con Benedetto XVI si sia passati ad un ulteriore livello della “libertà religiosa”, che contempla quell’amore degli atei che non era almeno così manifesto nel precedente papa).

Tristi e sgomenti, ci pare ovvio che quella appena descritta sia una nuova religione, cui, in coscienza e sulla base del criterio oggettivo della Tradizione cattolica, non possiamo (e non vogliamo) aderire. Praticamente, il cattolico postconciliare, “di destra” o “di sinistra”, considera la Chiesa come un partito e la religione alla stregua della politica, in quanto tale adattabile (e ormai quasi interamente adattata) al mondo; pure, il più pericoloso nemico della Chiesa, come è risaputo, è situato al suo stesso interno, e non dà segno alcuno di volerLa abbandonare. A ben guardare, il problema, oggi, non sono tanto le altre religioni, ma il mondo postmoderno: che ha abolito la trasmissione, e quindi il senso (anche dal punto di vista etimologico), della tradizione, sia familiare che sociale ed ecclesiastica. L’individuo di Occidente è oggi un atomo scisso da sé. Tutto ciò ha generato la noia, il caos e quella “libertà di scelta” che viene quasi universalmente presentata come progresso, ma che in realtà è una forma ultima della disgregazione interiore, che a sua volta costituisce la precipua nota della modernità quale rifiuto della vita autentica (di qui gli innumerevoli artifici del mondo contemporaneo). Da un altro punto di vista, parrebbe anche che, in questi ultimi tempi, si stia riproducendo quasi ciclicamente la situazione “primordiale” del “piccolo resto” che caratterizzò la Chiesa degli esordi. Se l’eclissi dell’autorità divinamente costituita ha prodotto il caos, che è, per le forze della sovversione, la vittoria, riteniamo di poter concludere che, in buona misura, una delle sue “epifanie”, la “politicizzazione” della religione – con la conseguente disgregazione in “correnti” della Chiesa, e la terribile, onnipervasiva profanazione del sacro – è quel “fumo di Satana” che addirittura Paolo VI denunciò (29/6/1972). Si tratta di essere onesti e coerenti: il cattolicesimo conciliare è un artificioso coacervo di idee ambigue, eccentriche e contraddittorie, peraltro già in stato di avanzata decomposizione. Tutto ciò ha una causa precisa, facilmente individuabile: e non si tratta certo degli ipocriti distinguo avanzati e difesi, contro l’evidenza, da molti scribacchini di regime. Se le situazioni fossero minimamente comparabili, si potrebbe dire che si è compiuto un paradosso, in certo senso analogo a quanto si verifica spesso in certe amare “commedie all’italiana”: il katéchon, senza neppure rendersene conto, pare aver abdicato al proprio ruolo, e, tutto intento a “dialogare” con chiunque, sembra quasi compiaciuto del disastro che egli stesso ha contribuito a determinare.

Andrea Antonacci

 
Di fronte al baratro PDF Stampa E-mail

6 luglio 2012

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Di fronte al baratro è giusto porsi la domanda “Che fare?”. C'è chi dice che non possiamo far altro che sederci sulla sponda e guardare. C'è chi invece prova, anche solo ad immaginare, una via d'uscita.

Alain De Benoist è tra questi. Immagina un diverso paradigma perché, prima o dopo la catastrofe, occorre qualcuno che sappia cosa volere e da che parte andare. A questo proposito ci sono già posizioni diverse. Una prima posizione (via riformista) è quella di chi ritiene che i problemi posti dal capitalismo finanziario saranno avviati a soluzione quando emergerà un nuovo antagonista in grado di abbassargli la cresta. Si tratta di costringere il capitalismo ad un nuovo compromesso. Si tratta in realtà di un orizzonte neoriformista e la  rabbia degli iindignados sembra non oltrepassarlo. Una seconda posizione (via altermondialista) è quella di chi vede nelle odierne tendenze capitalistiche, pur criticate fortemente, un fenomeno sostanzialmente positivo, che farebbe piazza pulita di ciò che rimane del vecchio mondo preesistente alla globalizzazione, conterrebbe cioè nuove possibilità di liberazione e favorirebbe l'avvento di una moltitudine, ovvero di una nuova “soggettività”, capace di legare  “la singolarità al comune”.

De Benoist fa parte di un terzo gruppo di persone che ritiene che solo costruendo un nuovo paradigma che ponga al centro il concetto di limite e di bene comune, sarà possibile ritrovare il bandolo della matassa. Egli sostiene che è il capitalismo stesso, la Forma-Capitale, che va combattuto. Nella sua storia il capitalismo ha attraversato diverse fasi. Il primo capitalismo si sforzava di comprimere il più possibile i salari, rischiando spesso di vedere la crescita rallentata o interrotta per crisi di sovrapproduzione. Il compromesso fordista ha permesso poi, ai capitalisti, di capire che il profitto poteva aumentare con l'avvento del  consumo di massa e il riformismo. Dalla crisi del '29 alla seconda guerra mondiale e poi alla guerra fredda, si è realizzato questo compromesso e lo sviluppo del capitalismo è rimasto sostanzialmente inserito entro spazi nazionali, con Stati assistenziali, keynesiani e sociali. Ora questa situazione si è completamente sfaldata per il fatto che negli anni Ottanta si è inaugurata la terza fase, quella del “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla “autonomizzazione” del capitale finanziario e dall'accresciuto potere dei detentori del capitale, soprattutto degli azionisti. In un certo senso si tratta di un ritorno al primo capitalismo, quello delle origini, avvenuto nel sistema globalizzato attraverso la messa in concorrenza dei lavoratori e la completa mobilità dei capitali.. Oggi i margini di manovra, iscritti principalmente in quadri nazionali, sono quasi impotenti. La pauperizzazione delle classi popolari e del ceto medio si espande. Secondo Alain De Benoist “è impossibile ridurre il sistema capitalistico a una semplice forma economica e considerare la Forma-Capitale nel suo solo aspetto finanziario. Esistono un'antropologia del capitalismo, un tipo d'uomo capitalista, un immaginario capitalista, una civiltà capitalista, un modo di vivere capitalista e, fino a quando non si romperà con il capitalismo in quanto “fatto sociale totale” e non si rimetterà in discussione “l'insieme dei modi di vivere alienati, strutturalmente legati all'immaginario capitalistico della crescita e del consumo illimitato” (Jean-Claude Michéa), sarà vano pretendere di lottare contro il capitale. Il motore del capitalismo è il profitto mentre gli uomini vengono considerati interscambiabili, merce fra le altre merci. Il capitalismo aspira ad un immenso mercato omogeneo, considera superfluo tutto ciò che non si lascia ridurre a calcolo, vuole produrre un uomo unidimensionale, senza vita interiore né immaginario, che aspiri alla “felicità” attraverso l'avere.Il disoccupato “inutile al mondo” è in qualche modo affetto da indegnità nazionale.

De Benoist conclude Il suo libro “Sull'orlo del baratro” con un richiamo al popolo, senza idealizzarlo come naturalmente buono, ma ritenendolo il depositario privilegiato della “comune decenza”, tipica delle persone comuni, fatta di senso dell'onore, lealtà, onestà, benevolenza, generosità, propensione all'aiuto reciproco, fiducia, senso del bene comune, adesione alla logica del dono e del controdono. Questa posizione è di destra e di sinistra. A me sta bene. 

 Daniela Salvini                                                                                    

 

 
Io sto con chi resiste PDF Stampa E-mail

4 luglio 2012

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Testo del 16-1-2012 ripreso dal blog di Alessio Mannino, Asso di Picche (N.d.d)      

C’è chi mi chiede: ma tu, da che parte stai? Ho scritto e riscritto ad nauseam che destra e sinistra sono categorie superate dalla storia, tenute in vita dall’inerzia politico-psicologica di massa che fa comodo ad un sistema di potere oligarchico neutro, post-ideologico, mondializzato e senz’anima, una megamacchina tecnocratica e finanziaria che dei vecchi schemi progressisti/conservatori se ne infischia e ingloba tutto in nome dell’unico dio, lo Sviluppo irragionevole e infinito. L’Ottocento è morto, il Novecento non si sente bene ma qui ci si combatte ancora fra fascisti e antifascisti, fra comunisti e anticomunisti come se il tempo si fosse fermato.

Il teatro dei fantasmi non mi interessa, e un giudizio realistico e scevro di pregiudizi non può che indurre a schierarsi caso per caso. Secondo i propri valori di fondo, certo, che per me si riassumono nella prevalenza dei valori ideali su quelli materiali, economici, utilitaristici del denaro virtuale, motore della globalizzazione. Chi resiste a questo Leviatano tecnocratico e anonimo mi diventa automaticamente simpatico. Pertanto, fatti tutti i distinguo che occorrerebbero se analizzate una ad una, in ciascuna situazione “calda” del mondo farei certe scelte e non altre. Negli Stati Uniti d’America, baricentro del pianeta globale, starei con Ron Paul, repubblicano, libertario, avversario implacabile dello strapotere bancario, isolazionista. In Venezuela starei con Hugo Chavez e il suo socialismo bolivariano. In Perù con Evo Morales e il suo socialismo indio. In Argentina con Christina Kirchner e la sua autarchia economica. In Francia appoggerei  Arnaud Montebourg, della sinistra del Psf, uno dei pochi politici europei a porre la questione della mondializzazione come problema a monte di tutti i problemi. In Ungheria, ingoiando il rospo di certi eccessi di rivalsa contro gli eredi dell’epoca comunista, sarei col governo nazionalista di Viktor Orban, che vuole liberare il suo paese dalle mire strangolatrici della Bce e del Fmi. A Cuba, sia pur mal sopportando, da guevariano quale sono, la gerontocrazia fidelista, affiancherei chi vuole mantenere un’identità alternativa al capitalismo, anche se finalmente dando libertà di iniziativa al singolo come ha cominciato a fare Raul. In Afghanistan mi batterei coi partigiani Talebani del Mullah Omar. In Palestina mi iscriverei ad Hamas, in Egitto probabilmente ai Fratelli Musulmani. In Iran, non so se con Ahmadinejad o con Kamenei, ma di sicuro lotterei per il mio orgoglio persiano prima ancora che islamico. In Gran Bretagna starei con Nigel Farage e il suo tradizionale anti-europeismo british. In Irlanda del Nord sarei indipendentista con l’Ira,  in Cina tenterei, coi mezzi che ho, di resistere al regime (Tibet libero!).

E in Italia? In Italia non c’è una forza politica che concentra in sé abbastanza ragioni da convincermi a sostenerla, sempre, beninteso, con senso critico e libertà intellettuale. Ce ne vorrebbe una che assommasse le due grandi questioni aperte specifiche della società italiana: la questione locale (autonomie locali, un vero federalismo) e la questione sociale (che è comune a tutti i paesi occidentali e si tradurrebbe nel porre fine alla dittatura della finanza, secondo un ideale ecologico e comunitario).  

Alessio Mannino

 

 
Il delirio della libertà PDF Stampa E-mail

30 giugno 2012

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Questo testo è la sintesi di un articolo apparso su Rassegna di Arianna del 16 giugno 2012 (N.d.d.) 

Da quando l’Illuminismo ha incominciato a predicare la continua perfettibilità dell’uomo, giungendo al suo corollario inevitabile, che il progresso è il motore della storia e che esso è per sua natura illimitato, l’Occidente - e, al suo rimorchio, un po’ alla volta, il mondo intero - si è avviato per una strada che non può non condurre all’implosione. Un progresso illimitato è una contraddizione in termini, sia sul piano materiale, sia sul piano spirituale. Sul piano materiale, perché un pianeta dalle risorse limitate non può offrire materia ad esso sufficiente (e una eventuale colonizzazione di altri corpi celesti non farebbe che spostare temporaneamente il problema); sul piano spirituale, perché pretende di spostare sul piano del quantitativo ciò che, per sua natura, non può che essere esclusivamente qualitativo: prima cosa fra tutte, appunto, la qualità della nostra vita, che non si misura in base al P.I.L. o ad altri indicatori economici, anzi non si può misurare  affatto. La libertà, il grande feticcio dei tempi moderni, dopo aver prodotto innumerevoli ecatombi e crudeltà, si è rivelata infine per quel che era: un vuoto simulacro, una parola d’ordine dietro la quale fa capolino la schizofrenia di una ideologia che, per garantire la massima fruizione di essa al maggior numero di persone, giunge al tragico paradosso di toglierne quote sempre più rilevanti ai cittadini, proprio in nome della difesa dell’ordine senza il quale la libertà stessa non può concretamente esistere. Prima, dunque, si è predicato che la società ad altro non serve che ad assicurare la libertà a tutti, intesa come godimento del maggior numero possibile di diritti; poi, per poter mantenere la promessa, si è introdotta una legislazione sempre più restrittiva della libertà medesima, al fine di tutelarne il godimento, si dice, da parte dei cittadini virtuosi che la rispettano, e contro i cattivi cittadini che ne abusano. Fatto sta che l’erosione della libertà colpisce tutti indiscriminatamente e che le istituzioni coercitive (giudici, tribunali, forze dell’ordine) stanno invadendo, su mandato dei parlamenti democraticamente eletti, spazi sempre più ampi della vita privata dei cittadini, guardati ormai tutti con sospetto dalle autorità, quali possibili sovvertitori dell’ordine costituito.Il serpente si morde la coda. Si voleva sempre più libertà per godere di sempre maggiori diritti; ma, nello stesso tempo, si pretende sempre più ordine pubblico, perché l’esercizio della libertà sia possibile: il risultato è la tendenza verso una società poliziesca, sul modello del Grande Fratello orwelliano, dove le cose proibite, non solo in ambito pubblico, ma perfino in quello privato o semi-privato (di fatto, in molti casi la distinzione netta é impossibile) diventano talmente numerose, che al comune cittadino diviene praticamente impossibile conoscerne e rispettarne l’elenco completo, trovandosi così perennemente esposto ai rigori della legge.

Questa è una delle aporie della moderna società “democratica”, esemplarmente messe a nudo nel nuovo libro di Luigi Iannone, «Il profumo del nichilismo. Viaggio non moralista nello stile del nostro tempo» (Chieti, Solfanelli, 2021), preceduto da una ricca presentazione di Alain de Benoist e scandito in quattro agili ma incisivi capitoli che passano in rassegna, con un taglio sociologico che ricorda un po’ gli «Scritti corsari» di Pier Paolo Pasolini, gli aspetto più invasivi e allarmanti di questa tarda modernità: «Il paese dei balocchi», «Civili e democratici», «L’insostenibile leggerezza delle idee», «La comunicazione globale». Il libro è una vera miniera di spunti di riflessione: argomentato con logica stringente, ma anche con ironia e un certo qual humour che ricorda un po’ Cioran, un po’ il Leopardi delle «Operette morali», persegue una tesi che non perde mai di vista, pur nella discussione degli aspetti particolari, e che si può riassumere in questa formula: in nome di una tecnologia disumana che avrebbe dovuto portarci il Paradiso in terra, stiamo costruendo volonterosamente, pezzo per pezzo, giorno per giorno, qualche cosa che finirà per somigliare molto, ma molto, all’Inferno[...] 

L’ideologia del progresso illimitato porta al conformismo di massa e, a sua volta, il conformismo di massa porta all’individualismo di massa; per reagire ai cui effetti distruttivi non resta che innalzare un idolo all’Ordine pubblico, delegandolo a fare da super-guardiano dei cittadini, nei quali non si è voluto, saputo o potuto gettare nemmeno un seme di spirito critico individuale, unica radice del senso di responsabilità che rappresenta la vera garanzia del vivere civile. Abbiamo eliminato i doveri dal nostro codice etico; anzi, abbiamo gettato via l’etica, considerata, al pari della metafisica, una anticaglia del passato; abbiamo creduto che, per garantire i diritti di tutti, fosse sufficiente stabilire una società perfettamente ordinata. Ora ci stiamo accorgendo che l’ordine presuppone il senso del dovere e non solo la coscienza dei propri diritti; ma, invece di comprendere l’errore commesso e tornare a parlare dei doveri, consumisti fino all’ultimo, stiamo preferendo affidarci al “deus ex machina” della legge, che ci salverà dall’anarchia e farà rigare dritto anche i soggetti meno propensi al bene comune. Insomma: se gli uomini non vogliono diventare perfetti con le buone, allora bisognerà renderli tali con le cattive, magari costringendoli sul letto di Procuste; perché è certo che non ci si può accontentare di niente di meno della perfezione. Infatti, una volta tolta di mezzo la scomoda, ingombrante figura di un Dio che tiene l’uomo in un perpetuo stato di minorità e che gli proibisce di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del Bene e del Male, a chi dare la colpa del fatto che il Paradiso in terra non sia stato ancora realizzato seguendo i dettami della Ragione? Rimane, in mezzo ai fumi dell’individualismo di massa, con tutti i suoi miti e i suoi discutibili riti, una diffusa carenza di senso del bene comune: questo è il problema più urgente che la nostra società dovrebbe affrontare, prima ancora della crisi economica che ci attanaglia: perché questa nasce da quello, e non viceversa. E tuttavia, da dove potrebbe mai scaturire il senso del bene comune, se l’ideologia dominante non ha fatto altro che battere e ribattere sul tasto dei diritti privati, della libertà privata, dell’edonismo individuale? Se non ha fatto altro che insegnare che la società esiste per garantire al singolo individuo il massimo della libertà possibile, del profitto possibile, della felicità possibile? Si raccoglie quel che si semina.

Francesco Lamendola   


 

 

 
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