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Sul "rossobrunismo" PDF Stampa E-mail

21 maggio 2012

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Ormai parlare di superamento della vecchia contrapposizione fra destra e sinistra è diventato un luogo comune. Tuttavia se ne parla secondo criteri assai diversi. L’unico che consiste in un vero superamento di quella falsa dicotomia e non in una semplice sovrapposizione di elementi tradizionalmente attribuiti alla destra e alla sinistra, è quello che non perde di vista i due punti fermi dell’antimodernità e della decrescita. Solo mantenendo la barra del timone ben orientata su questi due obiettivi si può legittimamente affermare di essere fuori dallo schematismo introdotto dalla rivoluzione francese.
Non è il caso degli ormai numerosi movimenti rossobruni. Essi si caratterizzano avendo tre punti programmatici in comune: 1) il nazionalismo (sarebbe doveroso distinguere, seguendo Mazzini, fra patriottismo e nazionalismo, ma un acceso patriottismo sfocia inevitabilmente nel nazionalismo); 2) il rifiuto dei meccanismi istituzionali rappresentativi del sistema liberal-democratico; 3) il socialismo, inteso più come nazionalizzazione degli istituti finanziari che come collettivizzazione dei mezzi di produzione.
L’unico punto in cui i movimenti rossobruni dissentono fra loro è il primo, in quanto alcuni intendono il nazionalismo in senso proprio, come difesa ed esaltazione dell’identità nazionale, mentre altri sostituiscono alla nazione l’Europa come riferimento identitario, un’Europa beninteso svincolata dalla tutela americana, verso la quale tutti i movimenti rossobruni manifestano una ripulsa totale. Ebbene, stando così le cose, bisogna giungere alla conclusione che il cosiddetto rossobrunismo non è altro che la sinistra fascista. Il rossobrunismo è il fascismo di sinistra.
Una sinistra fascista è sempre esistita e ha avuto un peso superiore a quanto la storiografia di orientamento marxista, per lungo tempo dominante, sia stata disposta ad ammettere. Del resto sarebbe sorprendente un’assenza di sinistrismo in un fenomeno, quello fascista, che ha avuto fra i promotori molti provenienti dal sindacalismo rivoluzionario e dal socialismo massimalista, primo fra tutti Mussolini. La linea “rossa” del fascismo è identificabile in tutta la sua storia. Il sindacalista rivoluzionario De Ambris e la sua Carta del Carnaro, lodata dallo stesso Lenin, espressione di un dannunzianesimo destinato a confluire nel fascismo; il programma del primo fascismo, quello sansepolcrista, repubblicano, anticlericale e socialisteggiante (sempre Lenin rimproverò i socialisti italiani per essersi lasciati sfuggire l’unico capo rivoluzionario fra loro, Mussolini); il corporativismo su cui tanto si adoperò Bottai, basato sull’idea della prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato; le nazionalizzazioni degli anni Trenta, affidate dallo stesso Mussolini al socialista Beneduce; la polemica contro le demo-pluto-crazie dell’Occidente; infine il programma molto avanzato socialmente della Repubblica di Salò. Se nel regime fascista prevalsero nettamente gli elementi  monarchici, borghesi e imperialisti, fu per i compromessi di potere con le forze conservatrici (industriali, agrari, Vaticano, corte dei Savoia, gerarchie militari) e soprattutto per la paura del bolscevismo. Ora che del bolscevismo non c’è più traccia, è comprensibile che il neofascismo si ripresenti col suo volto originario “di sinistra”.
Noi non siamo rossobruni, non abbiamo nulla da spartire col rossobrunismo, cioè col fascismo di sinistra. Non siamo nazionalisti, nutrendo piuttosto l’ideale di un radicamento nelle realtà regionali federate in un contesto nazionale a sua volta articolato in un’Europa federale. Quanto al nostro ideale sociale, è più definibile come un comunitarismo che come un socialismo statalista e accentratore. Eppure coi rossobruni, cioè con la sinistra fascista, che si riconosca come tale o non, è possibile e anche auspicabile un tratto di strada in comune.
Oggi la priorità assoluta è la demolizione di quella caricatura dell’Europa unita che è la UE.
Liberarci della stretta dell’Europa dei banchieri, appendice degli USA e non loro contrappeso, è la precondizione per ogni ulteriore liberazione. A questo fine occorrono parole d’ordine semplici e chiare, recepibili dai tanti che non sono pronti ad accogliere un discorso antimoderno e decrescista. Queste parole d’ordine semplici, chiare, mobilitanti, sono: recupero della piena sovranità nazionale, lotta alla speculazione finanziaria e alla rendita, forme di protezionismo compatibili con nuove relazioni internazionali. Volendo ragionare in termini politici, che non possono prescindere da alleanze e compromessi, questi sono gli obiettivi che permetteranno di mettere finalmente in moto un processo che dovrà portare più lontano. Si tratta di riavvolgere il nastro, di tornare indietro cancellando l’orrore devastante degli ultimi decenni, non per fare della Nazione il fine ultimo. Se così fosse, ci sfuggirebbe il carattere di svolta epocale che assume la crisi in cui ci troviamo. Ripristinare la sovranità nazionale è solo la via più breve e più praticabile per demolire un sistema, mettere in crisi questa Europa e la globalizzazione, creando le condizioni per la messa in discussione di tutta la modernità, compreso quello Stato-Nazione burocratico e accentrato che della modernità è stato un’espressione fondamentale.

Luciano Fuschini

 
Commiato e saluti finali PDF Stampa E-mail
18 maggio 2012

Per una naturale corrispondenza, spesso le volontà di chi guida e di chi segue sono legate: se il primo nutre entusiasmo, anche chi gli sta intorno respira la stessa aria; se invece si perde d'animo, anche il resto della squadra sente avanzare la demotivazione e la svogliatezza. Mi chiedevo negli ultimi tempi il perchè di un drastico calo nei commenti del blog di mz, nonchè una certa diminuzione degli articoli che mi giungevano. Adducevo cause esterne, contingenti...le difficoltà di un movimento antagonista, una normale ciclicità... Ma piano piano, accanto a tutte queste cause che non si potranno trascurare, osservando dentro di me, mi accorgevo che l'entusiasmo con cui in altri momenti avevo portato avanti il Giornale del Ribelle, stava venendo a mancare. Se non la vena creativa -non certo le idee- ma la volontà, la passione, si erano raffreddate. Non da poco probabilmente è stata l'influenza di certi eventi personali accaduti negli ultimi tempi -in particolare l'incontro con la Chiesa Ortodossa, che ha contribuito a spostare in parte i miei interessi dalla politica e dalla società allo spirito- senza che questo peraltro pregiudichi la mia permanenza entro Movimento Zero. Insomma, mi ero reso conto che come direttore del blog ero giunto al capolinea. Forse avevo riposto troppe aspettative nei cambiamenti che avrebbero dovuto seguire alla crisi economica, e ne ero rimasto deluso. O forse semplicemente mi rendevo conto di avere detto tutto quello che volevo dire. In tre anni ho cercato di toccare il maggior numero di temi possibili sotto l'ottica antimoderna, ricercando la qualità, l'originalità, e l'indipendenza di giudizio -anche e soprattutto cercando di stare sopra a certe diffuse e accattivanti tematiche di politica spicciola e di bassa cronaca giudiziaria. Agli altri il giudizio se mi sono attenuto onorevolmente al mio compito. Potrei essere criticato per un certo compiacimento magari un po' troppo elitario nella scelta dei temi e nello svolgimento delle idee. Non mi sottrarrei a tali critiche. Ma verso il fine ultimo del mio e del nostro compito -la critica alla modernità- credo di avere fatto il mio dovere, e di avere la coscienza a posto. Ringrazio tutti coloro che hanno contribuito a mantenere vivo questo spazio di riflessione in questi tre anni di mia gestione, sia coloro che per diversi motivi sono usciti da mz, sia coloro che vi permangono. Uno tra questi, forse colui che ha contribuito in modo più regolare alla mia gestione senza venire mai meno alla qualità dei suoi scritti, Luciano Fuschini, mi sostituirà per amministrare d'ora in avanti questo spazio. A lui vanno i miei più sentiti auguri per il suo nuovo compito, nonchè il mio riconoscimento per una costanza invidiabile unita all'entusiasmo di un ventenne, restando certo che non mi farà rimpiangere.

Massimiliano Viviani

 
I cristianisti postmoderni e la dissimulazione della controtradizione PDF Stampa E-mail

4 maggio 2012

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Negli ultimi anni, in particolare a partire dalle guerre scatenate dagli USA contro l’Afghanistan e l’Iraq, si è andata rafforzando una stravagante “alleanza” tra alcuni settori che potremmo definire “libertari” -molti degli esponenti dei quali già comunisti, liberali e socialisti- ed alcuni cattolici “anticomunisti”, talora anche sedicenti “tradizionalisti”. A nostro parere, ciò individua uno dei nodi fondamentali del “nuovo ordine” che caratterizza questo inizio di secolo: la paradossale relazione tra cattolici “di destra” (in realtà, talora provenienti dalle file moderniste e finanche “di sinistra”, ma, oggi, tatticamente situati “a destra”) e radicalismo “gnosticheggiante”; i rappresentanti di un tale côté sono stati non a torto etichettati come “cristianisti”. L’alleanza in oggetto non è solo strategico-politica, anche se tale fattore rimane centrale; noi riteniamo, infatti, che essa riveli fondi ideologici almeno parzialmente condivisi, il cui denominatore comune è un universo di valori “umanistico”, ed ultimamente massonico-protestante, a sua volta alimentato da un immaginario che, confondendo Occidente e Cristianesimo, produce un’immagine di “cristianità” mai esistita di fatto. Ricordiamo che qui non si tratta di disquisire su questioni “astratte”, visto che, come è noto, le idee formano (in questo caso deformano) l’uomo ed il mondo; si pensi solamente al cosiddetto “Sessantotto”, che di questa ideologia “radicale” costituisce l’epifania più pagliaccesca.
A far da collante, tra gli altri, i temi della laicità, della libertà e della “accettazione critica” del mondo moderno –e delle sue ancor più temibili propaggini postmoderne–, generalmente in funzione antiislamica (l’unica grande forza che mostra di reggere l’impatto con l’”Occidente” è infatti l’Islâm); la premessa maggiore, indimostrabile ma declamata a gran voce –un po’ come, in altro ambito, “l’ermeneutica della continuità”–, è la identità o compatibilità tra “civiltà cristiana” ed “Occidente”. Esito di ciò è la sacralizzazione della politica (oltre che, specularmente, la politicizzazione del “sacro”), carattere essenziale di una “religione del dominio” già ben analizzata in vari lavori.
Da un certo punto di vista, una delle fonti remote di questo “avvicinamento” è certamente stata la dichiarazione “Dignitatis Humanae”, in evidente opposizione alla enciclica di Pio IX “Quanta Cura”, come già scritto e dichiarato dall’attuale Pontefice. Mentre fino al 1965 si sosteneva che la Verità (Dio) era assolutamente prioritaria rispetto alla “libertà” (uomo), oggi si afferma il contrario, e si equivoca sulla nozione stessa di “libertà” (non esiste, a rigore, la libertà di fare il male o di credere a dottrine o religioni erronee). A tale proposito, la cd. “libertà religiosa”, anche pubblica, risulta teoreticamente fondata su di un antropocentrismo deteriore, a sua volta produttivo di inedite adunate ecumeniche, cui partecipano liberali di ogni risma e, ultimamente, anche irreligiosi (ma non, tanto per fare un nome, la Fraternità San Pio X!), che sarebbero gli “uomini di buona volontà” (!); da ciò discende pure l’abbraccio intellettuale di certi uomini di Chiesa –si pensi a Ratzinger stesso– con i cdd. “atei devoti”, oltre che un aziendalismo tipico di alcuni “movimenti” sorti o rafforzatisi con il Concilio Vaticano II. Al fondo di questa autentica “rivoluzione copernicana”, oltre al detto dato antropologico, vi è una nuova nozione di Chiesa, non più gerarchica “società sovrannaturale” il cui capo invisibile è Cristo, di cui Pietro è vicario, ma “popolo di Dio in cammino” nel tempo.
Ma, a ben guardare, il fatto che più sorprende è che un tale relativismo, benedetto dal Vaticano II, è oggi criticato da molti degli stessi che, a suo tempo, contribuirono ad introdurlo nella “dottrina” della Chiesa: quegli stessi che, nella gran parte dei casi, non hanno mai mostrato segni di pentimento, contro ogni evidenza fattuale (oltre che dottrinale). Non si capisce, allora, come si possa essere occidentali e antirelativisti, quando l’anima dell’Occidente moderno è in radice relativista. A scavare, ma neppure molto, si comprende che l’attuale pontefice, come scrisse nel suo “Principles of Catholic Theology”, accetta, della Rivoluzione francese, i suoi principi “liberali”, ma non quelli “giacobini”. Ecco svelato l’arcano, e mostrata la cerebrale distinzione –oltre che la profonda contraddizione teoretica, e quindi pratica– che avvince oggi la Chiesa, finanche sul trono più alto: abbiamo un papa che, nel solco dei suoi ultimi predecessori, è liberale.
Quello “cristianista”, pur apparendo, a chi guarda le cose di questo mondo da “esterno” e con fare distratto, un’espressione tradizionalmente cristiana, costituisce in realtà un fondamentalismo di derivazione ideologica anglosassone, una elaborazione postmoderna sapientemente operata in vitro e successivamente inoculata in menti sprovvedute ovvero interessate sulla base di un totale –e volgare– disconoscimento della tradizione. Tale disconoscimento ebbe il suo momento centrale e propulsivo nel Vaticano II, quando, oltre allo sfiguramento della liturgia, si propose un adattamento “a tavolino” della Chiesa alla modernità. Non si facciano, per carità di patria, sciocche distinzioni tra i documenti del Concilio e la sua applicazione, visto che si potrebbe facilmente dimostrare l’inanità di una tale tesi (ma altri, ben più qualificati di noi, l’hanno già fatto, mai confutati ed anzi talora confortati, pur da un punto di vista opposto, dal Pontefice regnante); e comunque, se anche quanto appena detto fosse vero, si confermerebbe l’incredibile inettitudine dell’autorità dagli anni ’60 ad oggi. Non tanto, dunque, “il mondo è cambiato”, come si dice oggi senza neppure porre mente a quanto si proferisce, ma la Chiesa, e quindi il mondo, è cambiata; l’apocalittica questione è, in una parola, se tale mutamento abbia toccato la sua essenza.

Andrea Antonacci

 
L’autunno freddo del capitalismo storico PDF Stampa E-mail

27 aprile 2012

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Al progredire dell’ennesima crisi economica, si fa sempre più spazio l’idea che la società odierna, per come la conosciamo, abbia raggiunto l’autunno della sua esistenza. Quasi senza accorgercene siamo entrati in una fase storica di transizione dal capitalismo, che, come tutti i sistemi storici, ha avuto un inizio e di conseguenza avrà anche una fine. Ma la questione, oggi, non è tanto sapere cosa avverrà dopo –prevedere il futuro, diceva Weber, è per demagoghi- quanto interrogarsi su quanto è stato, e chiedersi com’è stato.
La nostra società, cui il sistema storico, come detto, è quello capitalista –l’accumulazione senza fine di capitale- è stata definita la “società del progresso”, sottintendendo il fatto che nessun altro sistema storico precedente è stato migliore di questo. Infatti, a ben guardare, la teoria del processo evolutivo afferma una cosa ben chiara: il sistema che viene dopo è sempre migliore di quello precedente. Quindi oggi il capitalismo costituirebbe un progresso rispetto al feudalesimo, ed essendo l’ultimo sistema storico della serie, non potrebbe che essere il “migliore dei mondi possibili”. Ma è davvero così?
Non la possiamo fare soltanto una questione di crisi economica: pur non potendo parlare di “borse” e di “mercati”, di inflazione e di spread, infatti, anche secoli fa in Europa erano determinanti le crisi economiche. La differenza è che a causarle non era l’uomo, ma la natura: se per un anno andava male il raccolto perché faceva troppo freddo, o troppo caldo, la popolazione non mangiava, le riserve alimentari scarseggiavano, e di conseguenza si sviluppavano le crisi sociali. No, la nostra domanda non è rivolta a fattori esterni al nostro sistema storico, ma a quelli interni: come afferma Wallerstein, insieme ad altri grandi politologi e storici del nostro tempo, il capitalismo ha millantato fin dalla sua nascita migliori condizioni di vita per gli individui, maggiore ricchezza collettiva, maggiore attenzione per i diritti umani e maggior libertà rispetto ai sistemi storici precedenti. Sotto al capitalismo, infatti, si è sviluppata la democrazia, che per dirla alla Wallerstein sarebbe la massimizzazione della partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli sulla base dell’eguaglianza. Promesse che, tuttavia, non poteva mantenere, o quantomeno non per tutti.
Prima dell’avvento del capitalismo il divario tra ricchi e poveri, almeno materialmente, era enorme, e il povero –ad esempio il contadino dell’Ancien Regime– viveva in condizioni miserrime, mentre il ricco godeva dello sfarzo della sua incommensurabile ricchezza. Oggi questo squarcio tra ricco e povero pensiamo di averlo appiattito, e di aver diminuito drasticamente la disuguaglianza esistente al tempo del feudalesimo. In parte è vero, ma fondamentalmente è falso. Tendiamo infatti a considerare il nostro stile di vita un modello universalmente valido, per cui crediamo che gli agi di cui godiamo siano disponibili e accessibili a tutti. In realtà nel periodo capitalista ciò che abbiamo appiattito è il divario tra l’1% dei ricchi mondiali con il 15% della cosiddetta popolazione del ceto medio. La restante popolazione, l’84%, è stata resa misera dal capitalismo, e forse ancor più misera di quanto lo fosse nell’Ancien Regime. Il fatto è che, tirando le somme, non consideriamo mai il capitalismo in termini globali, cioè valido per tutto il mondo. In quanto occidentali, viviamo tra quel 15% della popolazione mondiale, e tendiamo a tener presente solamente la nostra condizione di vita. In più il ricco odierno è potenzialmente di gran lunga più ricco del nobile dell’Ancien Regime, per il fatto che la ricchezza un tempo si misurava in possedimenti terrieri, mentre oggi in quantità di denaro. E si sa, la terra ha dei limiti fisici, l’accumulazione di denaro no. Dunque è vero che il capitalismo ha offerto maggior ricchezza rispetto ai sistemi passati? In parte sì, ma per la gran parte della popolazione è vero il contrario.
E che dire sul miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo? Nell’era premoderna il problema principale dell’umanità era la carestia, dovuta ai cambiamenti climatici che periodicamente colpivano la produzione di alimenti. Oggi, senza dubbio, i perfezionamenti tecnologici hanno protetto le zone del mondo dai capricci del clima, mentre i collegamenti stradali, navali e aerei hanno permesso agli alimenti di viaggiare più velocemente, di conseguenza di arrivare all’uomo con maggiore quantità e in minor tempo. Ma tuttavia ancora oggi si muore di fame. È incredibile come la Coca Cola, infatti, arrivi negli angoli più remoti del mondo, come nei villaggi del Congo, dove ancora la mortalità è alta per mancanza di cibo. Vien da pensare, quasi spontaneamente, che in Africa si muoia di fame da sempre, come se il problema, anziché esterno, derivasse da una peculiarità del territorio. Bisognerebbe invece avere il coraggio di dire che il dramma della fame in Africa è reale da quando gli europei lo hanno considerato un territorio depredabile. Il capitalismo ha prima reso miseri gli africani, per poi tender loro la mano.
Del resto, anche se nel medio termine le condizioni di vita dell’uomo fossero migliorate –considerando solo alcune zone del mondo- che dire del lungo termine? A quale prezzo? Ad oggi non siamo del tutto in grado di valutare il danno causato dal disboscamento delle foreste, dalla desertificazione delle savane e dall’inquinamento chimico-biologico, ma è a tutti noto che questi processi saranno un grave problema per l’umanità e la natura nel lungo periodo. Dunque è vero che il capitalismo ha offerto migliori condizioni di vita, ma questo è valso per una residua parte della popolazione mondiale, e comunque nel breve termine.
E che dire dei diritti e delle libertà, da sempre cavalli di battaglia del capitalismo? Siamo nel periodo fiorente della universalizzazione delle libertà, iniziato con la Rivoluzione Francese, cui il capitalismo (mi rifaccio sempre alle parole del sociologo Wallerstein) ha avuto il “merito” di averne promosso l’espansione. Già esportare la democrazia con la forza contraddice le premesse su cui la democrazia stessa si dovrebbe basare. Ma che pensare, poi, al fatto che i diritti umani siano dolorosamente assenti nelle prassi reali del mondo? Ancora oggi si combatte in Occidente per i propri diritti, che tendono ad essere ancora idealizzati e non realizzati; e comunque sia, l’impressione è che siano maggiormente riconosciuti in alcune zone del sistema/mondo piuttosto che in altre, quasi come se alcuni non possano beneficiarne.
L’ipotesi è che i diritti sembrano essere sacrosanti soltanto quando a goderne sono le zone centrali del sistema/mondo, ovvero quelle zone in cui il capitalismo si è sviluppato, come l’Occidente, mentre le zone periferiche –ossia i territori che il capitalismo l’hanno subìto- proprio in quanto tali, non hanno gli stessi diritti. In conclusione, il capitalismo ha tradito le sue premesse: perchè tale sistema storico si è offerto, anche prepotentemente, non a una parte della popolazione del mondo, ma al suo intero sistema; lasciando però a fruirne soltanto una residua frazione dello stesso.

Marcello Frigeri

 
I nemici dei miei nemici sono miei amici PDF Stampa E-mail

20 aprile 2012

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L’Islam è l’ultima grande fede, diciamo pure l’ultima grande visione del mondo, che si oppone tenacemente al mercatismo e al pensiero unico liberal-scientista. Vediamo in atto il tentativo di minarlo laicizzandolo e liberalizzandolo. Eppure l’Islam militante, quello dei movimenti politici più estremi, contrariamente a quanto si pensa, è spesso alleato dell’Occidente. Il paradosso si spiega facilmente avendo presente una regola non scritta ma ferrea, che in politica funziona sempre, senza eccezioni: i nemici dei miei nemici sono miei amici. Nel XVI secolo i cattolicissimi Re di Francia si allearono di fatto col nemico della cristianità, il Sultano turco, evidentemente non per affinità ideologica  ma perché avevano un comune nemico: il cattolicissimo impero asburgico. Nei recenti anni Settanta del Novecento la Cina di Mao, baluardo del comunismo più intransigente, si alleò di fatto con gli USA, evidentemente non per affinità ideologica ma perché avevano un comune nemico, l’URSS, avvertita da entrambi come una potenza espansionista e minacciosa. Si potrebbero fare decine di altri esempi, comprese certe “strane” alleanze nelle due guerre mondiali.
Il colonialismo occidentale ha un grande nemico: i regimi laici, nazionalisti e in varia misura socialisteggianti, i più tenaci nell’opporsi alla penetrazione imperialista. Questi regimi sono anche gli acerrimi nemici dell’islamismo estremista, che li identifica con un laicismo ateo, materialista, un concentrato di negatività che viene bollato come “comunismo”, anche quando quei regimi i comunisti li impiccano. Da ciò una convergenza di fatto fra colonialismo occidentale e islamismo militante, di cui si danno molti esempi eloquenti.
L’iraniano Mossadeq, deciso fautore della nazionalizzazione delle risorse del suo Paese, non fu sostenuto dal radicalismo islamico e fu rovesciato da un colpo di Stato organizzato dai servizi segreti inglesi e americani. L’egiziano Nasser, nazionalista e socialista, fu il campione della rinascita araba e dell’anticolonialismo. Il suo era un nazionalismo panarabo, perchè sognava una Repubblica Araba Unita che andasse dal Marocco alla Siria. Fu il grande nemico dei colonialisti e di Israele, ma all’interno fu combattutto dai Fratelli Musulmani. Più recentemente, nell’Afghanistan invaso dai sovietici, la resistenza patriottica poté contare su una internazionale islamica armata e addestrata dalla CIA (Al Qaeda nacque in quell’occasione e un giovane Bin Laden fu l’uomo su cui gli USA giocarono le loro carte). In Bosnia e nel Kosovo le bande degli estremisti musulmani combattevano sotto la protezione dei bombardieri della NATO. In Libia l’alleanza fra NATO ed estremisti musulmani è stata aperta ed esplicita, per spodestare il nazionalista laico e sia pure ambiguamente socialisteggiante Gheddafi. La stessa operazione è stata tentata in Siria, con esiti ancora incerti. Del resto lo Stato che più di ogni altro si erge a custode dell’islamismo più rigoroso e intransigente, l’Arabia Saudita, è un pilastro del sistema di potere imperiale americano e israeliano. L’internazionale islamica che sconfisse i sovietici in Afghanistan era armata dalla CIA ma finanziata dall’Arabia Saudita, che fu decisiva nel crollo dell’URSS molto più del papa polacco. Infatti negli anni Ottanta l’Arabia Saudita, coordinandosi come sempre con gli USA, inondò di petrolio i mercati, determinando il crollo del suo prezzo e togliendo così la risorsa fondamentale alla disastrata economia sovietica, ulteriore colpo che ne preparò il collasso. Tutti questi fatti incontrovertibili dimostrano che fra Islam e potere occidentale non c’è quel conflitto politico che si è voluto far intendere.
Per la verità si potrebbero citare altri fatti che dimostrerebbero la tesi contraria: il terrorismo di Al Qaeda, gli ayatollah iraniani, la resistenza talebana, gli Shabaab somali. A ben guardare, l’Islam non c’entra molto nella loro opposizione all’Impero. Per l’Iran si tratta dell’ orgoglio patriottico di un’antica e nobile nazione, che usa l’Islam sciita per i suoi progetti di potenza regionale; Al Qaeda resta un’entità  sfuggente e  ambigua; la resistenza talebana e degli Shabaab ha a che fare più col tribalismo e la tenace difesa del proprio territorio che con la causa universalistica dell’Islam.
In definitiva, credo sia dimostrabile che il vero nemico del colonialismo sia sempre stato il nazionalismo laico e socialista, non l’Islam militante. Possiamo riconoscerlo pur non essendo noi nazionalisti né fautori di un socialismo statalista e accentratore. Quello che appare certo è che l’11 Settembre e la mobilitazione imponente della propaganda che dipingeva il terrorismo islamico come il nuovo Nemico, era solo una cortina fumogena per nascondere i piani di espansione nelle aree ricche di fonti energetiche strategiche e per completare una rete di basi che circondano Russia e Cina, nella prospettiva di una grande guerra prossima ventura contro i veri nemici, che non sono i barbuti guerrieri di Allah dallo sguardo allucinato.

Luciano Fuschini

 
La rivolta che verrà PDF Stampa E-mail
13 aprile 2012

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I recenti fatti come le contestazioni di Occupy Wall Street negli Stati Uniti, la rabbia disordinata in Italia di movimenti che vanno dai Forconi siciliani al movimento sardo contro Equitalia, ma soprattutto il movimento "No Tav" iniziano a prefigurare quali saranno le lotte del futuro, lotte molto diverse rispetto a quelle cui eravamo abituati di novecentesca memoria.
L’aggravarsi del panorama negli ultimi tempi, infatti, sta rendendo sempre più evidente la nuova dicotomia che caratterizzerà la contrapposizione che a breve esploderà nel nostro mondo. Non più uno scontro destra/sinistra tra conservatori e progressisti e nemmeno un semplice schema ricchi contro poveri. La sfida del futuro è ormai chiaro che partirà da una semplice domanda: siamo ancora disponibili a subire ulteriori vessazioni per mantenere in piedi questo modello di sviluppo? O forse per dirla volgarmente "non ne vale più la candela"? Molti iniziano, infatti, a chiedersi se forse gli oneri per mantenerlo sono più dei benefici. Non sarebbe meglio concentrarsi più sul benessere che sullo sviluppo, che ormai è chiaro non esserne sinonimo (in realtà tutto questo è evidente da molto tempo senza bisogno nemmeno di scomodare eminenze intellettuali anche tra loro eterogenee come un Guenon o un Pasolini) ma semmai lo mistifica?
E’ ormai chiaro che ulteriori passi in avanti verso nuovi orizzonti tecnologici, finanziari e globalizzanti non produrranno maggiore benessere né a livello economico generale né a livello di benessere concreto e manco di salute e soddisfazione psichica, ed anzi è da aspettarsi l’esatto contrario. Basti pensare come la ricchezza generale dagli anni sessanta ad oggi sia aumentata, ma sia aumentato in modo agghiacciante anche il divario tra ricchi e poveri; o come l’aumento delle tecnologie non abbia prodotto meno lavoro per tutti e più tempo libero, e come le condizioni di salute che il progresso sembrava aver migliorato piombano oggi verso situazioni terribili, dalle malattie causate dall’inquinamento, alle adulterazioni alimentari e agli stili di vita dissennati proposti come modello di comportamento.
La promessa del progresso costante e indefinito si è smascherata per quello che era: una menzogna ideologica. Venuto meno il tendere verso il meglio di per sé della storia, la fede nel potere messianico del libero mercato o del proletariato, viene prepotentemente fuori un'altra verità: le condizioni di vita dipendono solo dagli uomini e dalla loro capacità di organizzarsi in comunità secondo dei principi compatibili con l’uomo e la natura, non dalla forza taumaturgica della storia lineare, della ricchezza o di una classe sociale qualunque essa sia.
La lotta del futuro sarà quindi di chi si starà stufato di dover vivere schiavo di questo modello di sviluppo. Di chi, se è fortunato, è servo di un lavoro che ormai non è più nemmeno un mestiere ma mera soma e doma, senza potere decisionale su nulla che lo riguardi ma anzi infeudato sotto la casta finanziaria e politica. Una casta che fa il buono ed il cattivo tempo, tra comportamenti spudorati para legali e illegali, che viene meno alle stesse leggi che essa impone ai “cittadini” di fatto sudditi.
Da una parte avremo i pochi arricchiti da questo sistema coi loro servi stipendiati e un poderoso stato di polizia e dall’altra le masse stanche, sfruttate, fisicamente e moralmente abbruttite che si spera rendano a questo sistema pan per focaccia. Finirà il tempo dei “liberali” che sovvertirono l’ordine precedente, ma dichiarano il loro come il migliore dei mondi possibili, bandendo per sempre l’idea della rivolta. Ma i tempi cari signori stanno cambiando: quanto ancora possiamo sopportare di vedere i nostri nonni frugare nella monnezza? Giovani imprenditori che si suicidano? Giovani senza futuro, educazione, lavoro che si agitano ormai più come zombie che come persone in senso autentico? Tasse e balzelli che servono a pagare i vizi di una classe dirigente ormai solo “digerente”? Paesi fulcro della nostra identità europea come la Grecia mandati a morire dall’Europa stessa? Guerre “umanitarie” sporche e immorali per chi le subisce, ma anche per chi le fa? Se c’è rimasto un briciolo di dignità e vitalità ribelliamoci, la resa dei conti è vicina.

Alberto Cossu

 
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