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Tutto si tiene PDF Stampa E-mail
28 gennaio 2012

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Fra i gruppi di varia gradazione di rosso, nero e rossobruno, si diffonde la convinzione che il debito pubblico sia un falso problema creato dalle élites finanziarie per depredare i popoli costringendo i governi a tagliare servizi sociali, pensioni, stipendi, in una parola il tenore di vita. Secondo costoro la passata prosperità fu determinata dal fatto che le banche centrali erano in mano allo Stato, che così poteva creare moneta a proprio piacimento, moneta non gravata dagli interessi che i banchieri privati pretendono quando prestano le banconote da loro stampate. La pratica del signoraggio bancario sarebbe insomma la responsabile pressoché unica del saccheggio delle risorse nazionali e dell’impoverimento dei popoli a vantaggio delle cricche dei dominatori. Riappropriamoci della nostra moneta e una strada di luce ci avvierà ai “domani che cantano”.
Tanta faciloneria lascia allibiti. Intanto le cause della spettacolare crescita dell’economia occidentale dopo la guerra furono la ricostruzione, lo sfruttamento neocolonialista delle risorse del cosiddetto terzo mondo da cui venivano saccheggiate materie prime a basso costo, e proprio quella pratica del debito che ora, dopo tanti decenni di follia, ci esplode fra le mani. Se l’attribuzione allo Stato del compito di coniare moneta fosse il segreto della prosperità, il blocco sovietico sarebbe ancora in piedi ed egemone, la Corea del Nord sarebbe un giardino fiorito e non un posto dove si muore di fame, Cuba non sarebbe costretta a sperare nel turismo per non sprofondare nella miseria nera. La nazionalizzazione della Banca Centrale resta un giusto obiettivo politico ma pensare che sia la panacea è una convinzione alquanto bizzarra. Inoltre, a ogni debito corrispondendo un credito e a ogni debitore un creditore, occorre distinguere fra i creditori stranieri extracomunitari, i creditori della Comunità Europea, le banche che possiedono nostri titoli pubblici e i privati cittadini italiani. Ignorare il debito per colpire indiscriminatamente tutti i creditori sarebbe ingiusto e controproducente.
Per una volta si deve dire che il gran parlare del debito pubblico non è un polverone propagandistico ma addita il cuore del problema. La civiltà della modernità nella sua fase estrema è la civiltà fondata sul debito. Da almeno 50 anni l’Italia e l’Occidente tutto conducono un tenore di vita assurdamente elevato grazie al debito, ma non perchè il debito non sia un problema, bensì perchè la modernità capitalista è pervenuta al punto in cui per espandersi ulteriormente ha avuto bisogno di stimolare il consumo di massa. Chi non è più giovane ricorda bene le sollecitazioni martellanti a comprare comunque, a rate, firmando cambiali, senza preoccuparsi del debito perchè  un’economia in costante sviluppo proprio grazie agli elevati consumi avrebbe creato la ricchezza capace di garantire tutti. Al cittadino-consumatore lo Stato dava i mezzi per pagare sotto forma di assistenza, sovvenzioni varie, servizi a basso costo, prepensionamenti, trasformando il debito privato in debito pubblico, aggravato dalla speculazione finanziaria e dalle ruberie della casta. Il cittadino diventava poi  creditore verso lo stato attraverso il possesso di titoli pubblici, con la conseguenza che gli interessi sui titoli di stato non fecero che aggravare il debito pubblico di anno in anno. Fra consumismo sfrenato e debito pubblico c’è un rapporto strettissimo. Il debito e l’usura che ne è la conseguenza sono il grande problema di una civiltà decadente. Quando Berlusconi dice, scandalizzando il coro degli ipocriti, che i ristoranti pieni sono la prova del tenore di vita elevato della popolazione, dice il vero, almeno nel senso che pur nelle ristrettezze il cittadino medio non sa più rinunciare a una scala di priorità del tutto distorta. Una marea di auto con a bordo il solo guidatore invade tutti gli spazi, tanto che il parcheggio diventa un problema esistenziale in questa deformazione grottesca dell’umano cui siamo pervenuti; nelle regioni più ricche ogni componente maggiorenne della famiglia ha la propria auto; in tante case c’è un televisore in ogni stanza, compreso il bagno; dal bambino di otto anni in su, ogni componente la famiglia ha il telefonino, da cambiare quasi ogni anno all’uscita di un nuovo prodotto sempre più tecnologico. Negare che questa sia la vita della maggioranza degli italiani e degli occidentali, è negare l’evidenza. Tutto ciò è pura follia e ha un rapporto strettissimo col debito pubblico. Affermare che il debito è un’invenzione di cui non dobbiamo curarci è un’affermazione insensata e politicamente conservatrice perché vuole perpetuare un tipo di civiltà e di consumi che sta portando il mondo alla distruzione e ciò che era umano alla degradazione.
Invece di sprecare energie intellettuali nella denuncia del signoraggio e nel tentativo di negare che il debito pubblico sia un problema, bisognerebbe lucidamente concentrarsi sull’opportunità che la crisi di sistema offre per una svolta finalmente radicale. Ragionando in termini politici, si tratta di prospettare poche parole d’ordine, semplici e mobilitanti, su obiettivi di per sé capaci di mettere in moto processi a catena. La prima di queste parole d’ordine è fuori l’Europa dalla NATO, fuori gli americani dall’Europa. La passività dei popoli europei davanti alla vicenda libica e più in generale davanti a una china che ci sta portando a una guerra di spaventose proporzioni a solo vantaggio di USA e Israele, è qualcosa di angoscioso. Occorre rimettere questa rivendicazione al primo posto all’ordine del giorno. Fuori dalla NATO significa che l’Europa dovrà darsi una propria forza armata più credibile, offrendola anche come garanzia agli Stati dell’est europeo, filoamericani perché timorosi di una ripresa espansionistica della Russia. Con la stessa Russia occorrerà stabilire rapporti di buon vicinato, dandole a nostra volta garanzie e offrendo collaborazione economica in cambio di forniture energetiche. Tutto ciò implica una politica di vasto respiro, che comporta la necessità di un vero governo europeo riducendo il peso spropositato della BCE.
Una seconda parola d’ordine è fare pagare i maggiori responsabili del debito pubblico. Questo significa colpire duramente i grandi patrimoni, le rendite, compresi i depositi bancari eccedenti una certa cifra, i beni voluttuari, compresi prostituzione e droga da legalizzare e tassare, i redditi  della casta, intendendo con questo termine ormai abusato non solo i parlamentari e gli organismi locali pleonastici come i consigli e le giunte provinciali, ma soprattutto le migliaia di consiglieri di amministrazione di municipalizzate varie, inutili carrozzoni mangiasoldi. Aggredire il debito pubblico significa anche ridurre il peso dei servizi assistenziali, compresi gli assurdi sprechi di una sanità gonfiata all’inverosimile. Questo comporta ripristinare la centralità della famiglia e delle sue attività di cura e di assistenza. Perché queste attività non gravino esclusivamente sulle donne, come è storicamente successo, i rapporti all’interno della famiglia dovranno riposizionarsi con un mutamento delle mentalità. Per ridare questo ruolo decisivo alla famiglia sarà indispensabile ristrutturare l’economia verso la stabilità del posto di lavoro e una graduale decrescita. Lo spazio della transazione monetaria si ridurrà a favore dell’economia del dono e dello scambio. Così si dimostra che far passare certi obiettivi comporta la messa in moto di un processo in cui tutto si tiene: se vogliamo uscire dalla NATO dovremo costruire un’altra Europa, se vogliamo affrontare alle radici il debito pubblico dobbiamo operare una svolta nei comportamenti e nella mentalità. In definitiva: una svolta di civiltà. Per noi si tratta di un’antimodernità che non può essere pura e semplice premodernità. Tornare alla lira e negare che esista un problema di debito pubblico equivale alla rinuncia a utilizzare la crisi per un vero cambiamento. Qualunque rimedio autentico comporta un sostanziale impoverimento della parte benestante della popolazione italiana, vale a dire almeno 30 milioni di persone. O si ha il coraggio di affrontare questa verità o continueremo a rimestare il nulla.

Luciano Fuschini

 
La schiavitù del postmoderno: dalla quantità alla meritocrazia PDF Stampa E-mail

21 gennaio 2012

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La sfida lanciata dalla modernità a ogni “sapere” è stata quella di tentare l’autoriduzione di se stesso al paradigma delle scienze naturali: per ogni scienza l’aspirazione legittima diventava cioè quella di “avere il proprio Newton”, che l’avrebbe portata a misurarsi sul terreno della verificabilità -confutabilità, dopo Popper- empirica, della controllabilità intersoggettiva e della capacità previsionale. Ritagliatasi una fetta del reale, ciascuna scienza doveva pertanto procedere a scioglierlo (ana-lizzarlo) nelle sue componenti ultime (a-tomiche) indagandone le leggi di interazione, ossia il meccanismo di funzionamento.
L’esprit de finesse soccombeva all’esprit géométrique, che da Euclide fino a Kant fu circoscritto alle sole scienze matematico-geometriche, la Ragione soccombeva all’Intelletto, il pensare al calcolare, la causa finale alla causa efficiente.
Del “reale” cadevano ad una ad una tutte le differenziazioni qualitative (disincanto del mondo), e, sotto il dominio della “legge del numero”, tutto veniva riportato a “oggettività estesa manipolabile”.
Nel campo delle scienze naturali questo ha determinato il più straordinario successo della storia dell’uomo, che è pervenuto a una descrizione dell’universo esplicativamente esauriente e causalmente efficace, da cui proviene tutto l’incredibile progresso nei campi dell’industria, dell’ingegneria, della medicina ecc ecc...
L’inverso si è realizzato nell’esportazione del paradigma alle scienze umane. L’inglobazione dell’uomo nella res extensa, e la sua messa a sistema, nei rigidi schemi dell’economia, della sociologia, dell’antropologia, ne ha infatti comportato l’oblio della propria essenza, che è appunto il non avere essenza -essere cioè “possibilità”, “apertura”, in termini esistenzialisti. Già Kant si trovò costretto a reintrodurre la libertà "dalla finestra", cioè nella sfera coscienziale, dopo averne constato l’inapplicabilità alla sfera fenomenica, in cui l’uomo co-soggiace al determinismo naturale. Heidegger andò a fondo nella denuncia, mostrando come l’entificazione dell’uomo, cioè la pretesa di stabilirne l’essenza, ne aveva prodotto la “caduta” a cosa tra le cose (merce tra le merci, aveva detto Marx), la mutazione ontologica da ek-sistente (cioé vivente in-determinato) a ente (cioé vivente pre-determinato).
Le due metà del cielo, ossia il mondo umano e il mondo animale-naturale, sono state così unificate sotto l’imperio della legge di necessità; e si è dato mandato alle scienze sociali di estendere all’ambito “umano” le medesime idiosincrasie descrittive/predittive delle scienze naturali.
Questa concezione del reale come indistinto qualitativo che va dal sasso all’uomo costituisce la “visione del mondo” in cui siamo immersi, e che, come detto, ha conseguenze immediate nella delegittimazione di qualunque concezione “essenzialistica” della realtà (mondo come pluriversum qualitativo), e nell’espunzione della nozione di “causa finale”, che sempre Kant recuperava nel giudizio estetico, meramente contemplativo. Variando Musil, viviamo l’epoca senza qualità: tutto è diventato quantità. Valide sono solo le scienze che illustrano nessi tra le parti, cioè descrittive, non quelle che pretendono di fornire senso al Tutto, assiologiche. Destino comune e parallelo è così toccato alla filosofia e alla politica, entrambe prive di oggetto ma bensì fornitrici di “télos” (scopo). L’una, scienza architettonica (secondo definizione aristotelica) delle “forme del sapere”, l’altra delle “forme del fare”. Entrambe, ovvero, “scienze prime”; entrambe rigettate come non-senso.
Assieme al loro tramonto si compie così la sparizione di qualunque pretesa interrogativa rispetto al “presente come totalità”, nei confronti del quale l’unico atteggiamento possibile diventa la volontà di assorbimento in una delle sue “parti”.
L’equivoco con cui l’uomo ha pensato di voler ridurre le proprie leggi alle “proprie leggi di necessità” trova così compimento nel Sistema attuale. La stessa nozione di Sistema è d’altronde la più congrua, poiché rimanda analogicamente alla strutturazione meccanicistica e funzionalistica propria degli organismi naturali. L’uomo contemporaneo, interiorizzata la legge di necessità che soggiace ai flussi economici, sociali, demografici, si dispone “autonomamente” a essere ingranaggio del Sistema, di cui comprende la dinamica perfettamente razionale. Dalla società della disciplina si passa così alla società dell’efficienza, in cui la sottomissione dell’uomo si esercita non più nell’adeguamento a una volontà arbitraria esterna, ma nell’adeguamento alla propria legge interiore, che è diventata legge di necessità, e non di libertà, in un ribaltamento dell’auspicio kantiano.
Il grande sociologo della modernità, Max Weber, identificò non a caso nel “funzionario” la figura paradigmatica dello Stato moderno: questi è infatti l’agente dedito alla razionalizzazione di mezzi in presenza di fini pre-determinati e in-discutibili, in quanto naturali. Sua naturale evoluzione, nell’epoca della globalizzazione, l’individuo “a taglia unica” ultracapitalista e iperrelativista.
I totalitarismi politici novecenteschi, checché se ne blateri nella “chiacchiera” accademica, rappresentarono proprio il tragico tentativo di reimmettere la “vita” nel Sistema; ciò è specialmente evidente nel nazismo, tragica ambivalenza di gelido razionalismo e fanatico irrazionalismo, di ipermodernità e antimodernità.
Ma qual è dunque lo stato dell’arte dopo il secolo dei totalitarismi e delle guerre mondiali? Abbiamo forse riscoperto la libertà assieme al guadagno della “pace perpetua”?
Neanche per idea. La pace perpetua cui assistiamo è la mala pax della disillusione. Il Sistema è approdato alla sua versione quintessenziale, poiché ridottosi alla dimensione puramente “formale”, quella cioè di semplice contenitore di leggi completamente naturalizzate. In tale contesto si coniuga definitivamente con la realizzazione della piena libertà dell’individuo come “libertà da” (la libertà dei moderni). L’individuo postmoderno è così completamente svincolato esteriormente e al contempo completamente cooptato interiormente. L’adesione alle leggi del mercato presentate come naturali e in generale al “presente” come intrascendibile è inconscia e assoluta. La presenza di un potere dispotico si rende così inutile, e gli epigoni dell’illuminismo, di cui in Italia abbiamo un folto drappello, possono perseverare nella loro crociata contro il Potere -immancabilmente arbitrario, oscurantista e piduista- senza costituire il benché minimo pericolo per il Sistema. Anzi, rappresentandone il più prezioso alleato, poiché teso a spazzar via gli ultimi residui di “vecchio potere” che ancora resistono.
In questo senso veramente emblematica la battaglia per la meritocrazia, vera e propria bandiera senza colore, “parola colluttorio” oggetto di gargarismi bipartisan. Il Sistema-Dio ha bisogno di scegliere (fare recruitment, nel lessico anglomane del Nuovo Potere) i propri ingranaggi tramite criteri quantitativi di selezione, e questi si risolvono nella battaglia per il “merito”, inteso appunto come quantificazione del valore delle capacità personali, messe in vendita come al mercato degli schiavi. L’uomo è così compiutamente negato come “regno dei fini” e come creatore di “qualità”, ed è messo a totale disposizione strumentale del Sistema. Homo hominis objectum.
Nondimeno, accompagnandosi alla completa rivendicazione del soggetto come autoponentesi in assenza di vincoli esterni, il peggior totalitarismo della storia riesce tuttavia a esibire il fascino ambiguo del libertinismo. Ciò particolarmente evidente nell’ultimissimo sviluppo postborghese, in cui la compulsiva dinamica di creazione ex nihilo di bisogni non naturali e non necessari rende improcrastinabile la riabilitazione e la messa a sistema dell’elemento creativo. “Anche il riso è diventato maledettamente serio”, ammise Milan Kundera nell’Immortalità.
Servono veri creativi.

Matteo Zullo

 
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di Marco Francesco De Marco

14 gennaio 2012

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Qualcuno spieghi a Paolo Barnard che siamo in guerra da prima che lui si svegliasse, buttato giù dal letto dalla Gabanelli, la stessa che vorrebbe eliminare il contante per combattere le mafie e l’evasione fiscale (delirio). Quella che dichiara che lei non parla di signoraggio in TV perché la gente non capirebbe (ridicolo). Nella guerra che vede schierato anche Barnard, ora che si è svegliato ed informato, da un lato c’è la piramide usurocratica, con le elite tecno-finanziarie che dettano le regole e le impongono, grazie alla servitù politica, giornalistica ed “intellettuale”.
Dietro la maschera dei banchieri, vi è il démone Usur, assetato di sangue, che si nutre della cupa mestizia che ci viene trasmessa attraverso il mantra mefistofelico della crisi. Dall’altra parte è tutto da costruire il fronte avverso, attualmente costituito da un galassia infinita di piccoli movimenti o singole persone, poco o per niente collegati tra loro. Nulla che possa essere definito "esercito", ma nemmeno “movimento”, non avendo né la consapevolezza né la lucidità del fronte avverso. Di tutti loro così messi, di tutti noi, il nostro nemico ride, perchè in realtà noi non esistiamo. Per sconfiggere il nemico, o almeno per battersi con lui, bisogna risalire al suo principio primo. Capire qual è la sua origine ed il suo fine. Saper riconoscere i suoi servitori, le sue spie, i suoi alleati. Ed infine costituire una forza da contrapporgli. Per la nostra causa e la nostra parte sarà gradito il contributo di chiunque sia in buona fede, non abbia interessi personali legati al mondo usurocratico, e sia disposto a correre qualche rischio serio. Perché se la guerra è tale bisogna mettere in preventivo i pedaggi che essa da sempre richiede. Ci vorrà un'elite del pensiero e dell’analisi tattica, dei soldati dell’idea, degli alleati. Per far parte della classe dirigente rivoluzionaria non sarà inutile, assieme ad altre qualità, avere un buon curriculum.
Certo qualcuno si sarà svegliato tardi, dopo lunghe dormite, e noi non gliene faremo una colpa. A patto che non pretenda di spiegarci tutto quello che noi sappiamo e scriviamo da anni e che, per inciso, non costituisce il maggior problema del fronte opposto alle armate di Usur. A patto che si abbandoni lo stile profetico e messianico di portatore del verbo. Oggi la difficoltà maggiore risiede nel coagulare le forze divise, dargli dignità intellettuale e militante, aumentarne la capacità detonante fino al punto di essere in grado di dichiarare guerra al nemico, e possibilmente sconfiggerlo. La pretesa di Barnard di incarnare l’inizio della consapevolezza, di datare l’anno "uno" dell’era ribelle, è fonte di ulteriore polemica sterile ed è utile solo per creare deleterie frammentazioni; segno evidente del solito vezzo ipertrofico di chi è concentrato su se stesso piuttosto che sulla guerra che dice di voler combattere. Amore di sè che forse costituisce il motivo per il quale ha dormito a lungo, e ciò nonostante oggi non è disposto, per principio, ad ascoltare nessun’altra opinione. Si ricordi che di lui nessuno sapeva nulla fino al suo litigio con la Gabanelli, questione veramente di poco conto, visto che solo Barnard non si era ancora reso conto dell'impossibilità di fare informazione libera in Rai. Comunque, la storia oggettivamente non riguardava l’esproprio della sovranità monetaria e le altre libertà sottratte, delle quali Barnard sembrava non sapere nulla.

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L'illusione democratica della primavera araba PDF Stampa E-mail

7 gennaio 2012

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Democrazia e Islam. Una forma di stato e una forma di religione. Due termini apparentemente indipendenti, ma sempre più spesso usati in contrapposizione ad indicare una incompatibilità latente, supportata anche dalle analisi empiriche che vedono i paesi MENA (Middle East and North Africa) all'ultimo posto nella graduatoria delle libertà politiche e civili e allo stesso tempo caratterizzati da un'altissima percentuale di fedeli musulmani sul totale della popolazione.
Un credo che diventa parte attiva nella vita del cittadino, imponendo non solo un modo di pensare, ma anche un modo di agire. La dottrina –nel suo concetto più ampio- specifica infatti una dettagliata condotta comportamentale, che fa riferimento alla sfera personale (come il matrimonio e l'igiene), ma anche commerciale, penale ed educativa. È chiaro perciò il nesso tra dimensione teologica e dimensione istituzionale.
Un Islam quindi che pone il gruppo, il clan e la famiglia al centro degli interessi personali, chiarendo che un'equa distribuzione della ricchezza è fondamentale, garantita dal divieto di richiedere un interesse sui prestiti e in parte dal sistema ereditario. L'elemosina, poi, è un dovere morale. L'accumulazione di potere –e denaro– è quindi da evitare ad ogni costo, in nome dell'uguaglianza formale e sostanziale davanti a Dio e all'intera comunità. È semplice comprendere come l'assetto morale e politico dei paesi islamici non si possa conciliare con la democrazia, laica e capitalista, del mondo occidentale.
Per quanto riguarda lo sviluppo economico, si nota che i paesi MENA esportatori di materie prime, come Qatar, Emirati Arabi, Kuwait, Arabia Saudita e Bahrain, sono caratterizzati da un Pil pro capite che oscilla tra i ventitremila e gli ottantottomila dollari annui. Si tratta di “stati rentier” che, appropriandosi delle rendite del suolo, riescono a mantenere un'elevata spesa pubblica a fronte di una minima, nonché nulla, imposizione fiscale.
Le recenti rivolte che hanno preso il nome di “Primavera Araba”, nate in paesi privi di risorse naturali -fatta eccezione per la Libia che costituisce un caso a sé- possono essere ricondotte a una classe politica che non è riuscita a cogliere appieno le esigenze di una popolazione che vedeva il proprio potere d'acquisto corrodersi. Molti dei paesi MENA  più ricchi hanno di contro reagito aumentando la spesa pubblica, erogando, talvolta, anche sussidi diretti, scongiurando in questo modo l'insorgere di malcontenti.
Ciò significa che, indipendentemente da quale sia il modello istituzionale, quello che conta è il benessere economico percepito dalla popolazione. La richiesta di maggiori libertà è stata una conseguenza dell'evolversi delle rivoluzioni, non la causa scatenante, ma tuttavia condizione necessaria per presentare al mondo occidentale la visione di una repressione schiacciante da parte dei governanti, legittimando perciò l'intervento diretto delle organizzazioni mondiali.
In altre parole, la garanzia di una democrazia sembra essere più una richiesta avanzata dai paesi occidentali stranieri, invece che un'esigenza dei cittadini stessi. Il motivo è forse spiegato da una peculiarità di queste economie. I dati rivelano infatti che i paesi islamici sono caratterizzati da una scarsa apertura commerciale verso l'estero, fatta eccezione per le esportazioni legate a gas e petrolio. In passato hanno infatti preferito puntare sulla domanda interna, che da una parte ha causato un imperfetto sviluppo economico, ma dall'altro ha permesso di non risentire così negativamente della crisi finanziaria internazionale degli ultimi anni. Paesi impermeabili, fino ad ora, alla modernizzazione economico-finanziaria.
Cosa accadrà in futuro non è dato sapere. Si può però ipotizzare che se dal lato delle libertà non vi sarà un cambiamento radicale a causa della forte presenza religiosa nei partiti di maggioranza, sicuramente si avvertirà una forte spinta verso la colonizzazione (economica) di una regione geografica che conta più di trecentocinquanta milioni di individui. Un mercato che fa gola agli investitori stranieri, pronti  ad iniettare ingenti capitali come è accaduto in passato in altri mercati emergenti, con tutti i risvolti, positivi e negativi, del caso. Ma a differenza dell'America Latina, che ha visto le libertà individuali migliorare di pari passo con il processo finanziario, forse ci si indirizzerà maggiormente verso un modello che ricorda più la realtà asiatico-cinese. Come dire: un paese autoritario, ma democraticamente aperto verso l'estero sembra la soluzione migliore.

Gianluca Lattuada

 
I pericoli della democrazia elettronica PDF Stampa E-mail
31 dicembre 2011

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Tutti esaltano la comunicazione internet, la nuova (ormai non troppo) pionieristica frontiera dell’informazione. In realtà a me sembra uno strumento sì efficace, ma pericoloso. Pericoloso perché difficile da controllare. E qui apro una parentesi: come può una rivoluzione rovesciare un regime, che sia democratico oppure oligarchico poco importa, se il popolo non si riversa nelle piazze, se non imbraccia forconi e fiaccole –senso figurato e romantico delle rivoluzioni che furono– e non pretende furioso la testa dei grandi re? Quale altro potere efficace ha il popolo se non quello universalmente noto di cambiare gli assetti politici attraverso la violenza? (anche la guerra ha queste caratteristiche, ma è una risoluzione estrema tra le Nazioni, e non tra i cittadini e l’apparato governativo...). Nessun altro. Dicono che la sovranità popolare del cittadino oggi è il voto elettorale. Ma questo è ovviamente una truffa: in una democrazia rappresentativa, infatti, attraverso il voto il cittadino non decide le questioni, ma decide chi deve decidere le questioni.
Mi sono dilungato per dire che dall’alba dei tempi ciò che è forza e potere è il sacrosanto diritto della Rivoluzione nelle piazze. Ecco, ho quasi la sensazione che Internet possa stravolgere questa millenaria caratteristica. Oggi la protesta nei confronti dello Stato e dei suoi oligarchi –oligarchi travestiti da parlamentari– si riduce, spesso e volentieri, nel dissenso virtuale dell’universo dei socialnetwork. Prendiamo ad esempio Facebook. Basta un “mi piace” sotto un articolo o un commento di protesta per convincere lo scontento a dire “il mio l’ho fatto”. E’ sufficiente commentare l’invito di un sit-in contro la privatizzazione delle risorse idriche con un “non potrò esserci, ma col pensiero sarò con voi” per pulirsi la coscienza da ogni passività. Oggi lo scontento contesta davanti al Pc, raccogliendo firme virtuali e spedendole, virtualmente, alle istituzioni. E’ tutta una creazione intangibile del dissenso. Non che oggi le piazze siano sempre più vuote (o forse sì?), ma in futuro lo saranno? E se lo saranno, in che modo il popolo potrà ancora una volta rovesciare i regimi e ridisegnare gli assetti politici?
Vi è, in secondo luogo, un fattore intrinseco al potere di tutti i governanti della Terra, e di qualsiasi epoca, comunemente denominato "potere invisibile", caratteristica che la nascente democrazia settecentesca intendeva, almeno idealmente, eliminare. Mafia, camorra, logge massoniche anomale, servizi segreti deviati e controllati, P2, P3 e P4: tutti poteri invisibili che funzionano e agiscono, segretamente, all’ombra del potere democratico.
Scrive Norberto Bobbio: “che la democrazia fosse nata con la prospettiva di fugare per sempre dalle società umane il potere invisibile per dar vita a un governo le cui azioni avrebbero dovuto essere compiute in pubblico è ben noto”. Anche Kant, nell’Appendice alla Pace Perpetua, dipinse la maschera del potere invisibile: “Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste”. Che significa: un’azione che io sono costretto a tener segreta è certamente un’azione non solo ingiusta ma tale che se fosse resa pubblica susciterebbe una reazione tale da rendere impossibile il suo compimento.
Il controllo pubblico del potere, a fronte della potenza del sistema invisibile che gli ruota attorno, è dunque una necessità, tanto più in una età come la nostra, in cui chi detiene le redini del comando dispone di mezzi tecnologici così avanzati da poter controllare segretamente e illegalmente i cittadini. Nessun tiranno dell’antichità, infatti, come nessun monarca assoluto dell’età moderna, pur avendo a disposizione centinaia di spie e di informatori, poteva disporre di tutte le informazioni sui propri sudditi come oggi un qualsiasi governo democratico è in grado di disporre. “L’ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti”, scrive Bobbio.
Pensate allora in che mondo potremmo mai vivere se la potenza di internet, il suo occhio sul mondo globale, fosse unicamente a disposizione di quella elite di oligarchici che manovra l’intero sistema: chi controllerebbe i controllori? La democrazia come governo visibile, in questo caso, sarebbe perduta per sempre. La computer-crazia, ovvero il sistema di controllo del potere da parte del cittadino, non dovrà mai tendere al suo contrario, e cioè il controllo dei sudditi da parte del potere. In un mondo tristemente globalizzato e omologato, internet è il più grande potere di controllo nelle mani del popolo.
Ma se nutro certezze nella computer-crazia come sistema governante, al contrario, nutro dubbi nella computer-crazia come sistema governato. L’ipotesi, infatti, che la computer-crazia possa diventare fonte di democrazia diretta mi sembra una eventualità disastrosa.
Scrive infatti il politologo Giovanni Sartori: “La democrazia referendaria è un animale che non esiste ancora ma aleggia nell’aria: è un sistema politico nel quale il demos decide direttamente le singole questioni non più assieme, ma separatamente e in solitudine. E la democrazia elettronica ne costituisce l’incarnazione più avanzata. Qui il cittadino siede ad un tavolino davanti a un computer e ogni sera, mettiamo, gli arrivano dieci domande alle quali è tenuto a rispondere “sì” o “no” premendo un tasto. Con questo sistema arriviamo all’autogoverno integrale. Tecnologicamente la cosa è ormai fattibilissima. Ma è da fare? Il presupposto e la condizione necessaria di questi sviluppi è che per passare dalla democrazia elettorale fondata sull’opinione pubblica a una democrazia nella quale il demos decide da sé ogni questione, occore un nuovo demos, un popolo che sia davvero informato e competente. Altrimenti il sistema diventa suicida. Se affidiamo agli analfabeti (politici) il potere di decidere questioni su cui non sanno niente, allora povera democrazia e poveri noi”.
A giudicare infatti da tutte le leggi che vengono emanate ogni giorno nei parlamenti, il cittadino sarebbe chiamato a esprimere il proprio voto almeno una volta al giorno, anche su temi a lui sconosciuti e troppo tecnicisti. L’eccesso di partecipazione democratica, quindi, finirebbe con il trasformare il cittadino in "cittadino totale": il soggetto di un mondo dove tutto è politica, e dove l’individualità e le libertà particolari si mischiano con quelle collettive e generali. Un mondo fantoccio. Nulla uccide la democrazia più dell’eccesso di democrazia.

Marcello Frigeri

 
Luce ed ombra PDF Stampa E-mail
24 dicembre 2011

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Siamo in guerra. Non c’è la crisi. E se c’è e così la vogliamo chiamare, chi l’ha creata a tavolino oggi ci presenta i suoi servi per fingere di risolverla. Per chi domina il mondo è relativo che si produca troppo o troppo poco. Non è fondamentale che si cresca né tantomeno decrescere (che non significa niente). Questi sono fenomeni secondari, che pur producono tragedie sociali, disperazione, alienazione. Secondari perché non cause ma effetti.
Ad un livello più alto, in una partita a scacchi che dura da millenni, luce ed ombra si fronteggiano. L’avanzata e l’arretramento dell’una o dell’altra producono le evidenze sulle quali si attestano le attenzioni ipnotizzate dei popoli “lucidamente e responsabilmente vigili sui democratici destini del mondo”. Se volessimo calare nella storia lo schema apparentemente manicheo, potremmo dire che questa è l’ennesima guerra tra Roma e Cartagine, tra l’ordine ed il caos, tra il bello e la distruzione, tra i boschi ed il deserto…tra la vita e la morte. Nel mondo cancerogeno e radioattivo appare difficile identificare un fronte luminoso. Più semplice, per i pochi che posseggono i mezzi per una lettura “strutturata” della storia, l’identificazione di un fronte oscuro, organizzato piramidalmente, dal livello esoterico fino a quello politico culturale, passando per le elite sapienziali e quelle tecno-finanziarie.
Ma se Cartagine è viva ed in buona salute, Roma dov’è? Dovunque vi sia vita, speranza, luce. Roma è il simbolo di un mondo nel quale il ghiacciaio concede acqua al fiume, che la porta agli esseri viventi, che la assumono quale parte dinamica di sè. I nemici di questo mondo desiderano intensamente, ossessivamente, che quel fiume sparisca e che al suo posto vi sia solo sabbia, pietrisco e polvere. Essi bramano la distruzione di ogni foresta, l’inquinamento di ogni mare o fiume o lago. Vogliono la fine di ogni luogo silenzioso ed ispiratore, odiano l’arte, la vera arte, ed ogni forma di viaggio che porta l’uomo a staccarsi dal suo corpo per poi tornare con una musica struggente, un tratto fascinoso da pennellare, un muscolo virile da scolpire. Odiano tanto gli uomini quanto gli animali, e progettano l’estinzione degli uni attraverso le tecnologie genetiche e l’indifferenziazione razziale, culturale e linguistica, e degli altri attraverso l’attacco ad ogni residuo habitat naturale che permetta l’esistenza di un microcosmo equilibrato ed indipendente dalle distruzioni moderne.
Il mondo delle origini e delle meraviglie naturali, e le civiltà che in esso nacquero e si estinsero, era nel suo insieme, la luce, il bello, l’armonia. Quello che la Roma delle origini volle rappresentare. Anzi, il motivo stesso per il quale Roma fu fondata: oltre il millennio etrusco ed il caos imminente, un principio di affermazione di luce e splendore. Non la perfezione, orribile orizzonte psichico di natura giacobina, che alcuni modernissimi anti-moderni agitano sconsideratamente contro chi ricorda le civiltà antiche ispirate ed orientate verso l’alto. Oggi Roma resiste perché ed essa appartengono tutti i residui di vita e bellezza, di flora e fauna; perché ogni celeste del cielo e verde di selva è frutto della “mente” degli dei che così vollero pensare e disegnare il mondo. La luce resiste perché è immensamente vasto il cosmo delle meraviglie, e la sua definitiva distruzione potrà avvenire solo quando tutto, tutta la Terra avrà cessato di brillare e pulsare. Ecco perché i padri ed i figli di Cartagine vogliono distruggere tutto senza fare prigionieri, ecco perché vogliono la fine di ogni tradizione, di ogni via al sacro, di ogni popolo, lingua. Capitalismo e tecno finanza, sovranità monetaria usurpata, controllo dei media per narcotizzare ed ipnotizzare, sono solo dei mezzi e non il fine ultimo. Ci vogliono lasciare nei recinti muti colorati della modernità, con tanto materialismo, un po’ di decrescita, un pizzico di buddismo o di islam, che qualcuno considera “ultimo baluardo della tradizione”, ed ovviamente il solito pacco di democrazia, egualitarismo, solidarietà, pacifismo, buonismo, volontariato, società civile, razionalismo. C’è n’è per tutti, al supermercato del simulato dissenso. Da Marx alla new age dispongono di ogni percorso e, diabolico assurdo, traggono profitto da ogni opzione, sia essa conformista o anticonformista, atea o new age, pantofolaia o vitalistico titanica.
Tanto, che tu sia buddista o cattolico o musulmano, a loro poco importa. Puoi essere uno skin head od un no global, un keynesiano, un socialista, uno statalista, un liberale, un turbo capitalista od un fondamentalista ecologico. L’importante è che tu non sappia, o non creda solo anche per un attimo, che tutto avviene nello stesso recinto e che tu in quel recinto, nel quale non credi di vivere, sviluppi il tuo apparente dissenso, opposto ad apparenti dissensi di segno diverso, anch’essi come il tuo sapientemente controllati. I figli di Cartagine, così come il predatore di cui ci parla Castaneda, si nutrono di ogni forma di vita ed energia (prana) ed in particolare della sua forma umana (ki). Ogni forma di libertà assoluta, ogni lucidità estrema è sintomo di grandi risorse energetiche (la patina di luminosità di cui ci parla Don Juan) e come tale va attaccata e predata.
Riflettiamo per qualche momento, ma poi il predatore ci sussurra perfidamente: “Ma quale Roma e Cartagine, ma quale ombra o luce, tutto questo non esiste, è solo il delirio di un pazzo. I pazzi erano sacri solo nelle civiltà primitive, nelle caverne degli uomini preistorici con la pelliccia, la clava e la lingua scimmiesca, come ci insegna il grande Darwin. Esiste solo la storia, il suo divenire, lo sviluppo e l’antisviluppo, la democrazia, e la dittatura. La modernità è la meraviglia delle meraviglie che ti renderà felice, e se dovrai pagare piccoli pedaggi, un figlio morto per overdose di eroina, qualche aborto per affermare i diritti civili, una strage di operai sterminati dalla chimica e dai suoi veleni, un po’ di morti in incidenti stradali durante le feste consumistiche travestite da eventi religiosi; ebbene non ti preoccupare: noi figli di Cartagine ci nutriamo delle energie di quei morti allo stesso modo di quelle dei vivi che nascono e muoiono nei nostri recinti. E’ un piccolissimo pedaggio alla modernità, l’era della felicità che tutti aspettavate da sempre. E se non vorrai essere entusiasticamente moderno, non ti preoccupare…potrai scegliere di essere anti-moderno."

Marco Francesco De Marco

 
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