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Guerra contro la natura umana PDF Stampa E-mail

12 Aprile 2024

 Da Rassegna di Arianna del 10-4-2024 (N.d.d.)

Molti sapranno della triste vicenda della statua della donna che allatta il suo pargoletto al seno, della scultrice Vera Omodeo, a cui l’amministrazione Sala di Milano ha negato una piazza in quanto «la scultura rappresenta valori non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini». Ora sembra che si sia individuata una collocazione più consona, più discreta, fuori dal viavai cittadino, meno “divisiva” perché meno appariscente: una clinica, la Mangiagalli. La decisione dell’amministrazione milanese risponde alla folle, perversa, distopica ideologia che ritiene discriminante la parola mamma, come d’altronde quella di papà, per non parlare di quella di donna, parole per le quali circolano definizioni improbabili provenienti dal puritano mondo angloamericano che, oltre che ridicole, la dicono lunga sullo stato di salute mentale e sociale sia degli ambienti generanti simili storture sia delle élite che questi ambienti coccolano e sponsorizzano. Definizioni che la prendono alla larga al solo fine di evitare il riferimento a ciò che madre natura impone. Per cui, abbiamo per donna in gravidanza “persona in gravidanza”, per allattamento al seno “alimentazione al petto”, per donne con le mestruazioni “menstruators”, per donne “persone con la cervice”… chi ha la curiosità oltre che lo stomaco adatto può scoprire tanti altri di queste bizzarre quanto inquietanti espressioni della neo lingua genderiana consultando sulla rete i dizionari lgbt che spiegano l’uso “corretto” delle parole.

La statua di Vera Omodeo quindi offenderebbe o potrebbe essere non condivisibile da tutti. Al fine della mia breve e semplice riflessione ritengo superfluo intraprendere qualsiasi ragionamento che, se sviluppato secondo principio di coerenza, porterebbe inevitabilmente alla constatazione della totale irrazionalità di un simile impianto, che ha come logica conclusione l’assurdo della non definizione, nulla può essere più definito in quanto la stessa definizione diventa condizione di discriminazione di ciò che non rientra nella stessa. Premessa di un ritorno all’età preneolitica, quando l’Uomo ancora si esprimeva per suoni gutturali non avendo ancora imparato l’uso della parola.

Ma ciò che in questo caso (purtroppo) mi preme mettere in evidenza è il fatto che una certa ideologia, divenuta predominante nell’Occidente, abbia ormai intrapreso una guerra totale contro la natura umana, per affermare una contro-natura del tutto funzionale alla logica perversa di una macchina sociale che deve fare completamente a meno dell’essere umano, inteso non solo e non tanto come forza lavoro, ma essenzialmente come essere dotato di libero arbitrio e quindi di capacità di giudizio e di intervento autonomi. Guai celebrare la vita che nasce, guai celebrare la maternità, guai celebrare l’allattamento materno al seno, immagini di cui serbiamo una magnifica iconografia di mamme che allattano, che stringono al seno il proprio pargolo, le tante Madonne di cui risplendono chiese, gallerie d’arte e monumenti! In questi bui e degradati anni, in cui il nostro occidente sta esprimendo il peggio di sé, nella deliberata intenzione di andare contro natura, l’idea stessa di maternità è considerata offensiva. [Notare l’apparente paradosso: più avanza l’ideologia “green” più avanza l’ideologia anti-umana.]

Ma offensiva verso chi, ditemi di grazia? Si facciano avanti coloro che si sentono offesi, che siano visibili a tutti! Con ogni probabilità ci si renderebbe facilmente conto che si tratta solo di una costruzione mediatica imposta, una cosiddetta narrazione, di quelle che servono ad ipnotizzare le coscienze. E se qualcuno dovesse alzarsi per dire: io mi sento offeso perché non rappresentato da quella statua, niente paura, chiameremmo in causa l’umana pietà e faremmo di tutto per aiutare tale persona a intraprendere un percorso di transizione umana.

Antonio Catalano

 
Follia autodistruttiva PDF Stampa E-mail

8 Aprile 2024

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 Da Comedonchisciotte del 4-4-2024 (N.d.d.)

C’erano già dei segnali da tanto tempo, ma devo ammettere che mi sono pienamente reso conto della gravità della mutazione che ha subito la società occidentale e soprattutto quella europea, solo pochi anni fa, esattamente in occasione della “pandemia” quando per far fronte ad una emergenza più creata ad arte che reale, sono state prese misure straordinarie, irrazionali e incoerenti. Ci siamo improvvisamente trovati all’interno di un tipo di situazione che non mi pareva più possibile potesse verificarsi nei nostri “ragionevoli” paesi e ciò in conseguenza della crescita scientifica, civile e sociale che credevo si fosse verificata e consolidata quantomeno a partire dal dopoguerra. Che la società contemporanea potesse di nuovo infilarsi in una sorta di delirio paranoico e irragionevole senza che la grande maggioranza delle persone se ne rendesse neppure conto, mi pareva oramai qualcosa fuori dai tempi, impossibile da ripetersi, anche se situazioni simili si erano verificate ripetutamente nella storia. Come potevano i bonari e ragionevoli governanti dell’occidente, pensavo, che finora più o meno bonari e ragionevoli lo erano spesso stati quanto meno all’interno dei propri confini, essersi trasformati all’improvviso in burattini malevoli e dolosi in mano ad un potere sfuggente, pronti a qualsiasi misfatto verso i loro stessi popoli pur di portare avanti i loro progetti scellerati? E d’altra parte, come potevano questi popoli, benestanti, scafati e istruiti farsi convincere che una epidemia parainfluenzale più severa del solito fosse la peste nera? Avrebbe dovuto essere sufficiente guardarsi attorno, eppure i fatti stanno a dimostrare che non è così. Oramai la realtà virtuale era diventata più forte di quella reale. Paradossalmente da tutta la faccenda “pandemia” ne è uscita molto meglio la società africana, cui di solito non diamo molto credito, dove infatti i danni procurati non tanto dalla malattia, ma dalle reazioni alla malattia sono stati di gran lunga inferiori. L’occidente pandemico, isterico e paranoico, mi pareva irriconoscibile rispetto a quello nel quale ero cresciuto. Ma ne ho preso atto: la maggioranza, al contrario, sembrava non accorgersene e, soprattutto, non volersene accorgere. Pareva abbastanza ovvio pensare che l’emergenza sanitaria sarebbe finita nel momento stesso in cui si fosse cessato di fare “tamponi”, ma quando il fatto è successo davvero, di nuovo mi è parsa irreale la subitanea accettazione da parte della massa della nuova realtà: com’è che una persona terrorizzata oramai da anni dai quotidiani bollettini dei morti, convinta della necessità di andarsene in giro con una pezzuola sulla faccia e di farsi iniettare da sana misteriose pozioni, poteva così rapidamente dimenticare  tutto senza neppure porsi qualche domanda?

La verità  è che quasi tutti sono incredibilmente disposti a credere ad una narrazione sufficientemente ripetuta e a eseguire senza discutere,  e soprattutto senza pensare, gli ordini che di volta in volta  vengono diramati dalla televisione e dai telefonini perennemente tra le mani,  per quanto mutevoli e contraddittori possano essere. A raccontarla qualche decina di anni fa, non ci avrebbe creduto nessuno, sarebbe parso un racconto di fantascienza come infatti ce n’erano di simili. Ma non era affatto finita lì, i burattini malevoli, dato che nessuno metteva in dubbio il loro operato, sono rimasti al potere con tutti i loro progetti e, dato il buon successo ottenuto, smessi i tamponi, hanno ben pensato di passare ad altro. Così, in sostituzione della morte nera, si sono subito attivati a propagandare ciò che sembrava oramai impensabile e definitivamente screditato in Europa: la buona, vecchia guerra.

Tutti i media, sempre guidati dalla televisione e dai telefonini, hanno improvvisamente cominciato ad assuefare il pubblico alla guerra e alle sue cupe atmosfere. Lasciato cadere il virus assassino, aiutati anche dal fatto che i più anziani erano stati allevati nel clima della guerra fredda, hanno costruito un nuovo spauracchio, la Russia del sanguinario dittatore Putin, che per quanto riluttante ad impegnarsi e accomodante fosse stata fino ad allora, è stata alla fine costretta a reagire alle incessanti provocazioni. Che cos’era questa reazione, in vero molto misurata, se non la prova provata che le bestiali orde bolsceviche erano di nuovo in procinto di invadere la civile Europa? Per la verità era sempre accaduto il contrario, ma fa niente: licenza poetica. Lo stupefacente è che nonostante lo scontro sia stato previsto ricercato e voluto con tutti i mezzi possibili, l’occidente è parso completamente impreparato non appena la realtà ha cominciato a differire dalle previsioni incredibilmente ottimiste secondo le quali la Russia avrebbe dovuto subitaneamente crollare di fronte alle irresistibili sanzioni, disarcionando il malvagio Putin e dividendosi da sola in innocui pezzetti. Nessuno, pare, aveva pensato a cosa fare nel caso la Russia avesse resistito almeno un poco senza arrendersi agli ucraini che erano superiori per definizione in quanto armati, addestrati e diretti dalla Nato. Forse l’eventualità pareva troppo stravagante ai think tank per prenderla in considerazione. Con la guerra che proseguiva, l’occidente è subito apparso debole sia dal punto di vista militare, che industriale, che sociale. Gli eserciti europei, si sapeva, sono poco più di una barzelletta: probabilmente la stessa Ucraina sarebbe al momento in grado di arrivare facilmente a Berlino. L’unica forza militare seria, per quanto enormemente esagerata dalla propaganda, è  in pratica l’esercito statunitense o, meglio, l’aeronautica e la marina, ma anch’ esso è più una macchina per far soldi, come tutto in occidente, che una forza militare. Se ci sono voluti mesi di sforzi mondiali congiunti per mettere insieme un corpo di spedizione in grado di sconfiggere un paese povero, piccolo e arretrato come l’Iraq, c’è da pensare che neanche in anni la Nato sarebbe in grado di fare qualcosa di simile in Europa contro un avversario di status comparabile al proprio. Di fatto tutti i numerosi conflitti successivi alla II guerra mondiale combattuti dagli Stati Uniti in giro per il mondo, sono stati contro paesi quasi indifesi: erano solo la parodia della guerra per di più con esiti incerti dal punto di vista militare e decisamente negativi da quello politico. Come si può in tali condizioni pensare di sfidare una potenza nucleare come la Russia? Evidentemente solo sottovalutandola in maniera grottesca.

Dal punto di vista industriale – e la produzione industriale è la  parte più importante in una guerra moderna – l’occidente esce da decenni di progressiva finanziarizzazione e dematerializzazione dell’economia e trasferimento della produzione di beni reali in paesi terzi al solo fine di poter lucrare sulla differenza dei salari e dei costi. È quindi solo dopo essersi impegnati fino al collo in un conflitto per procura che ci si accorge che il potenziale produttivo non è in grado di fronteggiare una guerra vera contro un nemico vero? Saranno anche i soldi a vincere la guerra, ma i cannoni ci vogliono pure, almeno se il nemico non è in vendita. Dal punto di vista sociale, la guerra trova un occidente grasso e svogliato, indebolito da folli politiche di immigrazione di massa che hanno minato le stesse basi etniche delle nazioni, da altrettanto folli ideologie di distruzione delle basi fondanti dell’identità occidentale propagandate come un nuovo vangelo, da impulsi suicidi giustificati da inaffidabili scenari di cambiamenti climatici e perfino dalla recente follia pandemica. Fuori da poche migliaia di deficienti, dove pensano di trovare le truppe per invadere la Russia? Truppe che anche qualora esistessero, non sarebbero in grado di rifornire?

Sembra insomma che, schizofrenicamente,  da una parte si voglia per forza sfidare i russi alla guerra e dall’altra, anziché prepararsi, si faccia il possibile per rendersi sempre più deboli. Credono forse di vincere la guerra con le politiche green? vincitori? […] Eppure la malafede della controparte era già chiara all’epoca di Euromaidan e ribadita con gli accordi di Minsk primo e secondo (c’è pure la confessione di dolo dei protagonisti), ma ancora nella primavera del ‘22, subito dopo l’inizio dell’Operazione Speciale, nuovi compromessi furono quasi raggiunti con la mediazione dell’infido (ma almeno infido pro domo sua) Erdogan e l’intesa prevedeva clausole non molto diverse dai Minsk: questa volta indipendenza anziché autonomia degli oblast di Donetsk e Lugansk, riconoscimento di fatto della sovranità russa sulla Crimea, impegno alla neutralità dell’Ucraina. Il minimo indispensabile per non dichiararsi sconfitti. Nessun riferimento alla “denazificazione” che in pratica non può che significare un cambio di regime a Kiev. Viene da chiedersi: questo sarebbe stato sufficiente alla risoluzione della questione ucraina dal punto di vista russo? Ricordo che il cuore del problema è l’espansione progressiva della Nato verso est fino ad incorporare parti stesse del mondo russo come è certamente il caso dell’Ucraina. Aveva forse un qualche senso l’impegno del governo Zelensky, fantoccio Nato,  a non aderire alla Nato? Anche se garantito da Parigi, Londra e Washington? L’Ucraina di Zelensky non è già membro della Nato a tutti gli effetti pratici tranne il formalismo giuridico? Non sta forse combattendo una guerra per conto della Nato con i soldi e le armi della Nato? È un paese indipendente che può trattare in politica estera o è già un protettorato occidentale con un governo nato da un colpo di stato organizzato dalla Cia? Cosa faceva pensare ai russi che un accordo ulteriore con le stesse inaffidabili controparti  che avevano già tradito i primi potesse questa volta essere rispettato? Come pensavano di costringere l’Ucraina non tanto a non entrare nella Nato, ma ad uscirne? Tutto questo mi è sempre sembrato piuttosto misterioso. In un certo senso, paradossalmente, il famoso intervento di Boris Johnson può essere visto come una benedizione per i russi: ha evitato loro di impantanarsi per qualche anno ancora nella rasputiza di un ennesimo accordo farsa. E viene da chiedersi: il prossimo accordo sarà ancora su questa falsariga? Forse no: mi pare che lo stesso Putin abbia recentemente confessato di essere stato in passato piuttosto “naif” nei suoi rapporti con l’occidente.

Ma il massimo dell’irragionevolezza sembra comunque appannaggio della vecchia Europa. Gli americani qualche successo importante l’hanno ottenuto, primo fra tutti la separazione dell’Europa dalla Russia, e hanno ottenuto la rovina dell’industria europea loro temibile concorrente, per non parlare della soddisfazione di essere riusciti a provocare una guerra civile nel mondo russo. Il bilancio degli europei, al contrario, è fallimentare sotto ogni punto di vista e, ragionevolmente, non poteva che esserlo: lo avrebbe capito un bambino. Ma evidentemente non uno Scholz o un Macron, o una Van der Leyen o anche una Giorgia Meloni.  Hanno semplicemente gettato alle ortiche l’accesso conveniente all’ energia, alle materie prime e ad un mercato importante per le loro merci. Tutto in cambio di una guerra in casa.

Incredibilmente i leader del continente continuano a dimostrarsi persino più bellicisti dei neocons americani, fremono per una guerra che deve necessariamente svolgersi sul loro territorio e non su quello di Washington e dalla quale hanno tutto, ma proprio tutto, da perdere.  Persino al punto al quale siamo arrivati, cioè a guerra quasi persa, insistono e continuano a rilanciare, col rischio sempre presente di una catastrofe nucleare. Un comportamento più stupido di così, è riuscito solo agli ucraini. Invocare la dipendenza e la subordinazione agli Stati Uniti, non basta più: questi europei ci mettono molto del loro e mi paiono alla fine pienamente responsabili della loro rovina. Sarebbe infatti bastato molto poco per evitare di essere trascinati nella situazione attuale, non sarebbe stato neppure necessaria una ribellione aperta od un cambio di campo, bastava non collaborare, mantenersi equilibrati, tirare indietro, mandare a quel paese la Nuland, non farcisi mandare da lei e le cose non sarebbero mai arrivate fino a questo punto.

A quanto pare, ci sono dei periodi nella storia in cui intere nazioni si fanno prendere da una sorta di follia autodistruttiva e i nostri giorni sembrano uno di quei momenti. Col senno del poi ci sembra incredibile che i pragmatici ed efficienti olandesi del Seicento si siano fatti prendere dalla febbre del tulipano o che i popoli europei dell’era moderna consentissero ad essere terrorizzati da un pugno di fanatici religiosi che seri e compunti disputavano su fatti inesistenti con ragionamenti ridicoli. Chi prenderebbe sul serio oggi le streghe che volano al sabba sulle scope? (Forse qualcuno sì)  Eppure prendiamo molto sul serio fior di ciarlatani televisivi che un giorno ci dicono che le pezzette sul viso non servono a nulla e quello successivo che ci salvano la vita, oppure ci ordinano di prepararci alla guerra perché i cavalli cosacchi stanno per abbeverarsi alle fontane di Roma. Non c’è molta differenza coi tulipani. Anzi, negli ultimi anni mi pare di assistere a un declino intellettuale progressivo. I lettori più anziani ricorderanno di aver sentito parlare in televisione i politici della prima repubblica; ebbene tutti, indipendentemente dal colore politico, davano l’impressione di essere ben preparati, di sapere di cosa stavano parlando, di aver fatto una sorta di scuola ed era facile capire che non sarebbe stato facile per nessuno batterli sul piano dialettico. Provate ad ascoltare quelli che vanno per la maggiore adesso: faticano a mettere assieme un ragionamento coerente, sembrano non sapere quasi nulla del mondo, parlano per lo più per slogan e si contraddicono a distanza di pochi giorni. Probabilmente sono lo specchio dei loro elettori. Nessuno propone più visioni differenti della società, tentano di dare un colore ai loro partiti sostanzialmente intercambiabili azzuffandosi su questioni irrilevanti, ma senza mai non solo mettere in dubbio, ma neppure parlare dei fondamenti dell’attuale sistema di potere sui quali sono tutti d’accordo come si è d’accordo sull’esistenza della gravità: il primato dell’oligarchia economica sulla politica, il liberismo, il mito del mercato, i miti sanitari e ecologici, l’Unione Europea, la Nato, la subordinazione agli Stati Uniti, l’appoggio a Israele qualunque cosa faccia, il politicamente corretto, l’auto da fé da imporre ai rieducandi. La popolazione, sempre più instupidita dalla propaganda incessante, da un’istruzione sempre più carente, dai telefonini (qui non prende? sei riuscito col wifi?), dai social, dalle imprese filantropiche degli oligarchi “visionari”, rincoglionita di sigle al posto dei nomi e di serie televisive inclusive, ecocompatibili, gay friendly e a cervello zero, non riesce neppure più a immaginare che possa esistere una visione alternativa delle cose e gli pare che il progresso consista nel mettere una terza o magari una quarta opzione alla voce sesso dei formulari on line.

Intanto la propaganda bellica va avanti e pian piano la guerra per imporre una democrazia di cui si sono perse le tracce, viene sdoganata, diventa normale, come le pezze sul viso e la cura obbligatoria per sani. Forse, chissà, la guerra vera e propria a casa nostra non ci sarà, soprattutto perché, a quanto pare, non ci sono proprio i mezzi per farla, ma un’economia di guerra mi sembra probabile e sarà una buona scusa per distruggere quel che resta del benessere degli europei. […]

Io intanto ho prenotato le vacanze estive: con certi Micronapoleon in giro, fosse mai che siano le ultime.

Nestor Halak 

 
Pacifismo che nasce zoppo PDF Stampa E-mail

5 Aprile 2024

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Da Rassegna di Arianna del 2-4-2024 (N.d.d.)

Escalation, secondo la Treccani, sta per aumento progressivo e graduale nell’impiego delle armi e nell’estensione delle misure militari. In seguito alle dichiarazioni di Putin dopo il vile e terrorista attentato al Crocus di Mosca, in ambienti pacifisti circola la voce: fermare l’escalation! Strano, si accorgono dell’escalation ora che la Russia sembra non più disposta a tollerare l'insistente alzare il livello dello scontro da parte della Nato. Come se in questi anni non ci fosse stata una continua e pervicace azione americana tesa, come ha recentemente dichiarato lo stesso Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, a determinare l’inevitabile intervento russo per neutralizzare l’Ucraina. «Abbiamo provocato l’ostilità di Putin affinché invadesse l’Ucraina» [«We antagonised Putin so he would invade Ucraine»]. Intervento esercitato tramite l’Operazione Speciale (altra cosa da guerra dichiarata) a un livello di bassa intensità proprio per dar adito ai manovratori di Zelensky di decidersi ad addivenire a più miti consigli, naturalmente considerando lo stato di cose dopo oltre due anni di conflitto.

Costoro, i “pacifisti” nostrani, rifiutano di riconoscere che è la Nato (che ha usato come carne da cannone il popolo ucraino) ad aver aumentato progressivamente l’impiego delle armi al punto che non è più tabu parlare di uso del nucleare. I leader politici europei gareggiano per dimostrare chi sia il più servile alla logica Nato, e in questa gara si distingue particolarmente la Polonia, che per bocca del suo premier Tusk qualche giorno fa affermava che i giovani devono ormai smettere di pensare al futuro in termini di pace, la guerra è una prospettiva concreta, bisogna cominciare a calarsi l’elmetto. A Pasqua quattro aerei da ricognizione della Nato volavano sul Mar Nero e, come sanno gli osservatori, l'esperienza insegna che tale attività di ricognizione precede solitamente di 24-48 ore un imminente attacco ucraino alla Crimea. Voglia Iddio che non sia così, stiamo a vedere. La Nato schiaccia il pedale dell’escalation agitando il pretesto propagandistico di una Russia che minaccia di riconquistare i territori e le nazioni perse dall’impero russo, insieme ai paesi baltici, Moldova, Polonia eccetera. Argomento che ripeteva pari pari da brava scolaretta Giorgia Meloni nell’ultima puntata di “Fuori dal coro”. Putin ha invaso l’Ucraina per «riportare la Russia alla grandezza di un tempo, ripristinare i confini storici della Russia… Ucraina, Georgia, i Baltici, una parte della Finlandia e volendo anche la Polonia». Invasione iniziata – è sempre la Meloni che parla – due anni fa, dopo il ritiro dall’Afghanistan, avendo constatata la debolezza dell’Occidente e che quello quindi era il momento giusto per tentare di realizzare il proprio sogno espansivo. La Meloni dopo la “conversione” atlantica. Tra virgolette perché questa conversione non c’è mai stata, le sue urla sovraniste erano l’ennesimo specchietto per le allodole con il quale si continuava la volgare tradizione italica di un trasformismo politico prima di lei magistralmente espresso dai grillini (che continuano con l’ineffabile Conte a praticarlo con un finto e incoerente pacifismo per incassare un po’ di consensi, come se lui e i suoi non avessero votato tutti i pacchetti a favore di Zelensky e recentemente non si fossero astenuti sulla missione navale nel Golfo Persico). 

Agli smemorati “pacifisti” preoccupati dell’escalation, senza andare troppo indietro, ricordo il colpo di stato a Kiev del 2014 organizzato dagli americani. Americano, ci sono le prove, come le telefonate dell’allora vice Segretario di Stato Usa Victoria Nuland con l’ambasciatore ucraino. «Potrebbe essere ottimo, credo, aiutare a sistemare questa situazione e avere l’aiuto delle Nazioni Unite… e fanculo l’Unione europea». Dopo il golpe iniziano le manovre per far entrare (ma già c’era di fatto) l’Ucraina nella Nato, la quale cambia la Costituzione laddove si parla di neutralità tra i due blocchi. Hai voglia Putin, sin dal 2007, a dichiarare che la Nato aveva messo le sue forze di prima linee ai confini con la Russia, un’espansione considerata una vera e propria provocazione! La Russia sempre più accerchiata dalla Nato, con l’aggiunta ufficiale dell’Ucraina la situazione sarebbe diventata «inaccettabile». Come ebbe a dire Putin nel dicembre 2021, non erano i russi a mettere i propri missili ai confini degli Usa ma questi a volerli mettere «vicino a casa nostra». Ricordiamo ancora ai nostri smemorati pacifisti i continui bombardamenti di Kiev contro i russofoni del Donbass… nonostante gli accordi di Minsk secondo i quali i bombardamenti avrebbero dovuti essere sospesi e il Donbass diventare una regione autonoma. Accordi mai rispettati, come riconosciuto dagli stessi Macron e Merkel. Insomma, per farla breve, la Russia ha avviato la sua Operazione Speciale perché gli americani l’hanno obbligata a farlo, come detto da Stoltenberg.

Continuare ancora a dire che “comunque la Russia il 24 febbraio 2022 ha invaso l’Ucraina” significa schierarsi quindi con la vulgata atlantica, e chi di solito parte da questo presupposto non è uno sprovveduto, ha un minimo di nozioni politiche, in fin dei conti vede nella Nato, se va bene, un male necessario. Pensiamo poi quale disponibilità possa esserci in costoro a considerare positivamente il processo in corso di superamento dell’unipolarismo americano. Ora, da un “pacifismo” che nasce da queste premesse cos’altro attendersi se non la paura di un’escalation che si avverte solo in relazione alle ultime dichiarazioni di Putin: state attenti, non continuate su questa strada, se usate i vostri F-16 li colpiremo anche nelle vostre basi? Chi vuole l’escalation, la Nato che dichiara e schiera i suoi caccia per abbattere i missili russi o la Russia che dice di volersi difendere se ciò accadesse? Eccoci quindi arrivati alla debolezza di questo pacifismo che nasce dalla paura che si estenda la guerra ma che si guarda bene dal riconoscere le responsabilità occidentali nell’aver creato una situazione del genere. Un pacifismo di siffatta pasta, che innanzitutto rimprovera alla Russia di aver avviato le danze con l’invasione del febbraio 2024 eccetera, rappresenta la componente “buona” dello schieramento atlantico, quella che magicamente vorrebbe veder volare una candida colomba bianca sui cieli d’Europa. Un pacifismo che nasce zoppo, perché dà per buone le ragioni che hanno spinto gli atlantisti sulla strada dell’escalation, timoroso che la situazione sfugga di mano e con questo timore spinge ad imbracciare uno sterile pacifismo che al più serve ad inoculare nel popolo il senso dell’impotenza di fronte al giganteggiare delle forze. Un pacifismo sospetto perché non individua le responsabilità, e senza questa premessa contro chi muoversi per evitare che si determini la resa ai grandi fautori della guerra che godono nel vedere i popoli scannarsi tra loro?

Un pacifismo efficace, ma meglio chiamarlo movimento contro la guerra, perché possa svilupparsi e soprattutto affermarsi, deve reggere su solide premesse, innanzitutto non strumentalizzabili, deve aver ben chiare le responsabilità degli attori in gioco, e sapere da che parte è la minaccia alla pace tra i popoli.

Antonio Catalano

 
Insopportabile aria fritta PDF Stampa E-mail

2 Aprile 2024

 Da Rassegna di Arianna dell’1-4-2024 (N.d.d.)

Beata ignoranza. Il 20 marzo scorso era la “giornata internazionale della felicità” e non lo sapevo. Ero sereno, immerso nei fatti miei, senza pensare ai massimi sistemi. Tra giornate della donna, della memoria, feste della mamma, del babbo, dei nonni e presto anche dei cognati, Halloween il dì delle zucche vuote, festa degli innamorati, dell’orgoglio gay e LGBT, sommate alle varie solennità civili, non ne posso più. Mi rendono infelice, per dirla tutta, schiacciato dalla retorica dolciastra, dai finti buoni sentimenti, dall’ipocrisia un tanto al chilo, dall’ obbligo di condividere le parole vacue del circo della comunicazione, a cui è difficilissimo sfuggire a meno di non ritirarsi su un alto monte. Nella debole speranza di non essere raggiunti – specie nel fine settimana – da torme di turisti transumanti alla ricerca della loro fettina di felicità, debitamente immortalata dai selfie e prontamente postata sui media sociali. Mi piace, il pollice alzato, buffo surrogato della felicità.

Ho un pessimo carattere e uno degli elementi della mia felicità (o almeno della pace interiore) è stare lontano dalla massa, dai suoi riti ridicoli e dalle idee propalate dall’altoparlante del potere, per difendermi dalle quali invoco il ripristino del reato di abuso della credulità popolare, da punire con severissime pene. Detesto perciò che persino la felicità, questo sentimento impalpabile e indescrivibile che apre il cuore, abbia la sua giornata, cioè la sua razione di enfatiche melensaggini. Giusto allo scopo di farmi male e diventare infelice, mi sono informato. La superflua giornata della Felicità (con la maiuscola, è scritto così sul sito dedicato) è stata istituita dalle Nazioni Unite (espressione bugiarda che mi fa fremere di fastidio) nel 2012. Se ne sentiva davvero il bisogno: la felicità per un giorno e per decreto approvato con la risoluzione dell’ ONU 66/281 del 28 maggio 2012, anno primo dell’E.F. (Era Felice).

A giudicare dalle guerre in atto, dalle innumerevoli dipendenze, dall’abuso di farmaci, dal tasso di suicidi, siamo infelici. È difficile definire il concetto di felicità: ci hanno provato in molti e nessuna definizione è soddisfacente. A me piace il verso alessandrino di Edmond Rostand nel Cyrano (un uomo infelicissimo per colpa del naso, che inventava frasi d’amore per un amico bello e sciocco). “Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità.” Ognuno lo ha sperimentato e può dirsi fortunato di avere vissuto alcuni di quei momenti. La nostra è l’era dei diritti. Il “dirittismo” – fastidiosa escrescenza retorica della libertà comandata – nacque con la rivoluzione americana del 1776 e si propagò come un incendio in quella francese del 1789. Da allora godiamo di un numero crescente di diritti, che, tutti insieme, dovrebbero garantirci la felicità. La costituzione americana pone il diritto alla ricerca, o al perseguimento (pursuit) della felicità addirittura nel primo articolo. Illuminismo declamatorio, fonte di nuove infelicità. […] Ci scuseranno i lettori se ci muove al riso (una forma immediata di felicità) la formula di Pietro Verri, solido illuminista milanese, che pubblicò le serissime “Meditazioni sulla felicità” , secondo cui la legislazione più perfetta è quella in cui è “distribuita la felicità con la più uguale misura possibile su tutti i membri”. Fantastico: la distribuzione della felicità. L’ironista immagina una lunga fila di uomini e donne con il piattino in mano, in attesa della razione quotidiana di felicità, dispensata dalle “buone leggi”, ossia dal potere . Un po’ come il patriottismo costituzionale, che consiste nel voler bene al proprio paese – o a un altro – in quanto approviamo le norme su cui si sostiene. A beneficio degli sfaccendati lettori, abbiamo scoperto che i fondatori degli Stati Uniti d’America furono preceduti dalla costituzione della Corsica del 1755, in cui la felicità fu proclamata come principio politico codificato. La repressione dei padroni genovesi – che all’epoca non scherzavano – mandò tutto all’aria. L’illuminato granduca Leopoldo di Toscana progettò a sua volta una norma che recitava così: “in una ben composta società tutti [hanno ] un egual diritto alla felicità”. Felicità con il bilancino del farmacista: guai se me ne tocca più che al vicino.

Tutto questo per ricordare che la felicità non si istituisce per legge, decreto o giornata internazionale proclamata dall’ONU. È un sentimento, come tale personale, soggettivo, impalpabile. Robert Stevenson, l’autore dell’Isola del tesoro e de Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde (questo spiega tutto) arrivò a considerare un dovere l’essere felici. Meglio, molto meglio le paradossali Suggestioni sulla psicologia del piacere di Ezra Pound. Felicità: regolato scorrimento di lubrificanti endocrini. Forse è quella la felicità razionale. Invece apprendiamo che nella data della celebrazione a Milano si è svolto un festival organizzato da un tale Walter Riolfo, autonominato “ingegnere della felicità”. La gioia a prova di logaritmo. Ha ragione Massimo Fini – uno scettico a ventiquattro carati – a parlare di “edonismo straccione contemporaneo che ha trasformato il diritto alla ricerca della felicità in un vero e proprio diritto alla felicità”. A chi lo rivendicheremo, quanto costerà? Pagheremo un ticket in base al reddito? Ci sarà un misuratore di felicità? Forse esisterà una modulistica scaricabile online, la burocrazia della felicità. Divento sarcastico – dunque infelice – dopo aver letto una dichiarazione a margine della giornata della felicità rilasciata da un esperto (per tutto ci sono esperti, nel felicissimo secolo XXI) , John Helliwell, Senior Fellow dell’Istituto Canadese per la Ricerca Avanzata, mica pizza e fichi .” Un ambiente sociale felice è quello in cui le persone percepiscono un senso di appartenenza, un posto in cui gli uni si fidano degli altri e delle loro istituzioni condivise. In un ambiente sociale felice c’è più resilienza, poiché la fiducia condivisa riduce il peso delle difficoltà, e quindi diminuisce la disuguaglianza del benessere”. Un condensato di pompose banalità, pensiero magico a base di “istituzioni condivise” e “ resilienza”, una parola che fa saltare la mosca al naso e induce deplorevoli accessi di violenza. Quanto al senso di appartenenza, la cultura dominante persegue il suo contrario, la perdita di identità e di comunità, ovvero diffonde infelicità sociale. La “disuguaglianza di benessere “ è precisamente l’esito del liberismo globalista Peraltro, gli studi dell’economista Richard Easterlin hanno negato la relazione tra felicità e ricchezza misurata in Prodotto Interno Lordo. Niente paura: l’ONU ci addita l’esempio del Bhutan, remota nazione tra le montagne dell’ Himalaya che misura la Felicità Nazionale Lorda, non sappiamo se a metri, in dollari o in ngultrum, la valuta nazionale. Un irritante lavacro della coscienza, una volta l’anno, da parte dei globalisti delle Nazioni Unite. La dogmatica ufficiale informa che la Giornata Internazionale “è una ricorrenza per riconoscere l’importanza della felicità nella vita delle persone in tutto il mondo. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, lanciati nel 2015, contengono gli aspetti chiave per raggiungere il benessere e la felicità; come la riduzione delle disuguaglianze, lo sradicamento della povertà e la protezione del pianeta.” Applausi scroscianti, entusiasmo planetario (con scadenza alla mezzanotte del 20 marzo) poiché l’evento “riconosce anche la necessità di un approccio più inclusivo, equo e bilanciato alla crescita economica, volto a promuovere lo sviluppo sostenibile”. Insopportabile aria fritta scritta in neolingua – equa, inclusiva, ecologica- mentre lo sviluppo sostenibile, come l’araba fenice, che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. Parole pronunciate per dovere d’ufficio, ascoltate tra gli sbadigli da soggetti istituzionali convocati alla bisogna, credute per sovraccarico da popoli manipolati.

Per non farci mancare nulla (il masochismo genera infelicità) la notizia dell’imperdibile giornata della felicità è completata dall’immancabile indagine statistica, sostituta della sapienza. Se ne è incaricata l’ IPSOS, multinazionale delle ricerche di mercato e consulenza (più pericolosi degli esperti, ci sono solo i consulenti). Preso atto che “ il tema della felicità e del benessere acquisisce sempre più valore nella nostra società, che l’esperienza del Covid ha spinto molte persone a rivedere la scala delle proprie priorità e che il diritto alla felicità oggi è rivendicato anche nella sfera pubblica con molta più enfasi e legittimazione”, i matematici si sono armati di pazienza e calcolatrice per stabilire se e quanto sono felici gli italiani (e le italiane, non sia mai scordare il linguaggio inclusivo). L’esito è consolante, rasserena, regala uno sprazzo di felicità: i/le connazionali sono statisticamente felici. La percentuale positiva è del 57 per cento. Sollievo e patriottico orgoglio. Gli uomini sono più soddisfatti e sereni delle donne, preoccupate, stanche e confuse. Per forza: hanno a che fare con compagni deboli, svirilizzati, l’ombra del maschio che fu. Genera infelicità allo scrivano la divisione in Generazione X, Y, Z a seconda della nascita, dal 1961 al 2010. Purtroppo sono un “boomer” degli anni Cinquanta e scopro di essere più “speranzoso” delle altre fasce di età. I più malinconici, frustrati sono i millennials (1980-1995), forse perché, diventati maturi, hanno perduto le illusioni. C’era bisogno di esperti, consulenti a fattura , statistiche e istogrammi per stabilire, come fa l’IPSOS, che la felicità risiede nelle buone relazioni familiari, nella salute e nell’assenza di preoccupazioni economiche? Bastava chiedere alla signora Mariuccia del quinto piano. Con il timbro della scienza, tuttavia, è confermata la vecchia canzone: “basta ‘a salute e ‘n par de scarpe nove, puoi girà tutto er monno”. La felicità è come la salute: se non te ne accorgi, vuol dire che c’è. Parola di Ivan Turgenev, se è possibile citare un russo, sospetto di credere nella bieca famiglia tradizionale avendo scritto Padri e figli.

Nella fiera delle parole delle sedicenti Nazioni Unite, ripetute in magniloquenti cerimonie ufficiali da funzionari a stipendio con rimborso spese a piè di lista, tra le matematiche banalità degli scopritori dell’acqua calda e il diabetico zucchero filato delle declamazioni valide per un giorno, meglio la semplicità minimalista di Al Bano e Romina. “Felicità è tenersi per mano, andare lontano, la felicità è il tuo sguardo innocente in mezzo alla gente; la felicità è restare vicini come bambini, è un bicchiere di vino con un panino.”

Roberto Pecchioli

 

 

 

 
Morire di NATO PDF Stampa E-mail

28 Marzo 2024

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 Da Rassegna di Arianna del 27-3-2024 (N.d.d.)

L’unico motivo per cui la Russia potrebbe colpirci con missili nucleari è la presenza in Italia di missili nucleari statunitensi puntati contro la Russia. Se scoppierà una guerra tra Washington e Mosca, noi saremo vaporizzati per questa unica ragione. Dunque, lungi dal costituire una protezione, la NATO è l’unica possibile causa della nostra distruzione.

Assediata ormai da decenni dall’espansione verso Est della NATO e da una sessantina di basi militari USA intorno ai suoi confini, la Russia non ha interesse né mezzi né uomini per invaderci o per sostenere una guerra convenzionale con la NATO, i cui membri hanno un PIL e un bilancio della difesa ventupli di quelli russi. Inoltre, annettere un paese, poniamo la Polonia, contro la volontà del suo popolo, comporterebbe per essa dapprima il conquistarlo militarmente (con enormi perdite e costi, oltre al fatto che scatterebbe l’intervento NATO); e successivamente il sostenere enormi, permanenti  spese per l’occupazione, subendo al contempo continui e sanguinosi attacchi partigiani, sia in Polonia che in Russia, e reprimendoli con misure poliziesche altrettanto sanguinarie, mentre gran parte dell’opinione pubblica di gran parte del mondo, oltre che interna, si farebbe sentire pesantemente. Dato quanto sopra, è del tutto inverosimile che la Russia intenda annettere anche solo la parte non russofona dell’Ucraina, ancor più inverosimile è che intenda occupare paesi NATO, mentre per converso è evidente che chi afferma che ha tali progetti sta mentendo al fine di portare soldi del già tartassato contribuente all’industria degli armamenti, e lo fa esponendoci al rischio di una guerra termonucleare. È pure da menzionare che soprattutto gli USA, oltre a star declinando sempre più come potenza globale unipolare, sono attanagliati da una grave crisi innanzitutto sociale, e minacciati, assieme al resto dell’Occidente, da un gigantesco tracollo finanziario, bancario e monetario, specialmente a causa dell’enorme massa di moneta e bonds creata in occasione della pandemia e poi della campagna ucraina. Gli allarmi di guerra probabilmente servono anche a distrarre l’opinione pubblica da tali problemi e a preparare uno stato di emergenza bellico-sanitaria permanente, che consenta di gestire più liberamente e coercitivamente il corpo sociale.

Sempre da quanto detto  sopra, è ovvio che, se scoppiasse una guerra tra la NATO e la Russia, essa sarebbe automaticamente una guerra con i missili nucleari strategici, e noi, con tutte le basi statunitensi che ospitiamo sul nostro territorio, verremmo letteralmente fritti in poche ore, e non ci sarebbe di alcuna utilità che gli USA venissero successivamente in nostro soccorso – e probamente non verrebbero affatto, non potrebbero venire, essendo anch’essi stati colpiti come noi e non avendo alcun interesse a venire, tanto più che dovrebbero attraversare un Oceano Atlantico pattugliato da sommergibili russi. Quindi, di nuovo, a che ci serve la NATO? (Se mi concedete una battuta, io spero che, in caso di guerra termonucleare, i dirigenti russi decidano di concentrare i loro missili su bersagli politicamente più importanti e di risparmiare l’Italia e i paesi NATO mediterranei, in modo di lasciare queste zone libere da contaminazioni radioattive, così da potersi trasferire qui dopo la catastrofe, che guasterà anche la parte più vivibile della Russia stessa).

Intanto, governanti di Washington, Londra, Parigi Berlino, Stoccolma e Varsavia stanno evocando esplicitamente la guerra con la Russia. Il patetico Macron, prodotto di sintesi dei laboratori Rothschild, parla addirittura di inviare soldati francesi al fronte del Donbass. Ciò oggettivamente aumenta il rischio di una tale guerra, sebbene lo scopo di tali evocazioni, con tutta probabilità, sia solo quello di far guadagnare gli industriali degli armamenti e costruire un regime di controllo sociale in stato di economia di guerra oltre che di pandemia e di crisi climatica permanenti – con immancabile controllo dell’informazione. Grazie alle sanzioni ufficialmente dirette contro la Russia, già si è ottenuto di far pagare all’Europa “libera” almeno il quadruplo per il gas, a vantaggio delle compagnie statunitensi che ce lo vendono e che hanno raddoppiato i loro utili a spese delle nostre bollette e della competitività delle nostre industrie, le quali infatti stanno chiudendo per trasferirsi all’estero, dato che oramai l’Europa libera è l’area del mondo dove l’energia costa di più, quindi dove produrre conviene di meno. Ciò anche a causa dei costi della green transition, adottata solo da noi nel mondo, quindi già per questo assurda ed autolesionista. Persino la Porsche trasferisce la sua produzione negli USA, i quali, grazie a questa migrazione di fabbriche e di capitali, stanno reindustrializzandosi a nostro spese oltre che recuperando, a scapito dell’euro, parte del terreno perduto dal dollaro come moneta degli scambi internazionali.

Questo è il quadro delle alleanze tra noi vassalli e il capitale dominante al di là dell’Atlantico. Ma è anche il quadro di un apparato istituzionale statuale e sovra statuale oramai palesemente in mano a un’oligarchia portatrice di interessi antisociali – un’ Oligarchia per popoli superflui (come intitolai il mio saggio del 2010): la fine del “pubblico”, della res publica.  Ultima nota: ad esortare all’invio di nostri soldati in Ucraina per contrastare l’imperialismo russo è proprio Emmanuel Macron, presidente di un paese che esercita, esso sì, un feroce imperialismo economico e militare sulle sue 14 ex colonie africane, costrette a versare l’85% degli introiti delle loro esportazioni alla Banque de France. Finché non si ribellano.

Marco Della Luna

 
Falso ambientalismo PDF Stampa E-mail

27 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte del 21-3-2024 (N.d.d.)

“Chi teme l’eccesso di turismo in Italia sarà lieto di sapere che in alcune aree siamo alla vigilia di un forte calo delle presenze. Tali sono, per esempio, la Maremma toscana, le dolci colline fra la Laguna di Orbetello (tombolo della Giannella), il promontorio di Talamone coi Monti dell’Uccellina e il mirabile borgo di Magliano in Toscana con la sua cinta muraria quattrocentesca. Nove gigantesche pale eoliche, alte 200 metri (contro i 130 delle mura di Magliano), e per giunta collocate in parte su una collina, provvederanno a rendere. irriconoscibile quel paesaggio, secondo la proposta di Apollo Wind srl. Questo progetto di parco eolico è comparso il 6 luglio sul sito del Comune di Orbetello e già ieri sono scaduti i termini per formulare osservazioni. Troppo facile profezia è che la sindrome della fretta indotta dal Pnrr, la diffusa insensibilità politica e la crescente rassegnazione dei cittadini avranno la meglio su ogni obiezione. Ora che è arrivato il momento della verità è il caso di chiedersi di quale transizione ecologica stiamo parlando. Le scelte di oggi avranno conseguenze di lunghissimo periodo. Gli impianti eolici e fotovoltaici, infatti, possono avere effetti positivi, ma anche un impatto assai negativo su valori di grande rilevanza ecosistemica, a cominciare dal paesaggio e dall’agricoltura di qualità”.

Parole durissime quelle di Salvatore Settis, uno dei nomi più autorevoli al mondo per la cultura, l’archeologia  e l’arte. Classe 1941, presidente del Consiglio Scientifico del Louvre; membro delle Accademie di Francia, di Berlino, di Baviera e del Belgio, dei Lincei, dell’American Philosophical Society di Philadelphia e dell’American Academy of Arts and Sciences; membro fondatore dell’ European Research Council (2005-2011); presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali (2007-2009); direttore del Getty Research Institute di Los Angeles (1994-99); Professore emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa.  E, nonostante cotanto curriculum, i suoi accorati appelli  contro la follia green e lo scempio dei beni paesaggistici e culturali italiani restano del tutto inascoltati. Riportiamo una sintesi delle sue denunce, prima che sia troppo tardi…

Nel Pnrr la transizione ecologica comporta un grande investimento complessivo (quasi 70 miliardi di euro), con l’obiettivo di raggiungere il 30% di energia rinnovabile entro il 2030, portando questa percentuale al 50% entro il 2050. Se l’intensificazione di pannelli solari e torri eoliche dovesse comportare la devastazione di preziosi paesaggi storici, quali saranno le nostre priorità? Negli ultimi due decenni, già si è moltiplicata oltre ogni misura ragionevole la presenza di turbine eoliche alte fino a 250 metri, distribuite sul territorio con scarsa considerazione per le caratteristiche paesistiche; per non dire delle grandi estensioni di terreno sottratte all’agricoltura per cospargerle di pannelli solari. […] L’Italia ha pochi spazi pianeggianti, che dovrebbero essere dedicati all’agricoltura onde assicurare non solo il nostro sostentamento ma la produzione di cibo sano e di qualità; ma questi spazi, dalla pianura padana alla Campania, sono stati devastati da un consumo di suolo che è il più alto d’Europa, superiore anche a quello della Germania che ha più abitanti. E tuttavia il disegno di legge inteso a limitare il consumo di suolo, dopo nove anni di traversie parlamentari, è stato da poco affossato in Senato. Intanto sono rallentati manutenzione e incremento dei bacini idroelettrici, che producono il 15% del fabbisogno di energia elettrica, per giunta non intermittente, e dunque più affidabile di eolico o fotovoltaico. Mettendo in sicurezza le dighe e ripulendo i fondali dai detriti si potrebbe non solo aver cura dell’ambiente ma anche accrescere la produzione, riducendo la corsa a nuove fonti di energia.

Non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte al pericolo di danneggiare in modo irreversibile un Paese, il nostro, che fu un tempo il giardino d’Europa e di assecondare la messa in opera di torri eoliche e pannelli solari facendo l’interesse delle imprese (in gran prevalenza non italiane) che li producono ma non di chi vive in Italia e ha diritto a un contesto paesaggistico rispondente alle caratteristiche del Paese. A questi temi l’Italia di oggi sembra insensibile: come si può altrimenti spiegare il duro contrasto fra il Regolamento europeo 2021/241, secondo cui le misure Pnrr devono proteggere gli ecosistemi senza produrre alcun danno ambientale, e il “Dl Semplificazioni”, dove tale principio è sostanzialmente ignorato? E che cosa saprà fare l’Italia, dove la tutela del paesaggio è fra i principi fondamentali dello Stato (art. 9 Cost.) di fronte a un’Europa che propaganda il Green New Deal senza menzionare il paesaggio e il patrimonio storico-artistico e archeologico? Che cosa faremo per regolare la scelta di luoghi idonei ad accogliere i nuovi impianti, o per lavorare d’anticipo coprendo sin dal principio il costo dello smantellamento di tali impianti, e non lasciarlo in eredità ai nostri figli e nipoti? Franosità, fragilità idrogeologica, alta sismicità, densità di popolazione da un lato; ricchezza di paesaggi, ecosistemi, produzione agricola e monumenti preziosi dall’altro: sapremo tener conto di questi fattori e del loro combinarsi? O li cancelleremo dalla memoria storica in nome di una transizione ecologica ciecamente concentrata solo su se stessa?

L’Italia ha alle spalle una grande storia frutto di talento artistico e creatività. Oggi bisogna favorire la crescita di attività creative basate sull’interazione necessaria tra il fascino dei luoghi, l’intensità della storia, l’antichità delle presenze umane e la possibilità di creare qualcosa di nuovo e originale. Il passato va inteso come un conto in banca dal quale prelevare energie per creare un futuro migliore per chi verrà dopo di noi.

Non bisogna respingere le nuove tecnologie e l’idea di poter disporre di energia pulita, ma è rischioso svendere la bellezza costruita nel corso dei secoli e che, in parte, ci è stata donata dalla natura. Non possiamo rovinare le bellezze di cui siamo gli amministratori in via temporanea. Non sono solo nostre, sono nostre e anche dei nostri pronipoti. “La bellezza è una forma del genio” sostiene Oscar Wilde. È un concetto relativo al tempo e alla cultura ma esiste, come filo conduttore, un elemento spirituale che supera la vita quotidiana e che accomuna tutte le civiltà a partire dal Paleolitico. L’arte e la cultura, espressioni di una ricerca della perfezione che ha una forte valenza spirituale, sono aspetti caratterizzanti di tutte le esperienze umane. Se pensiamo che solo la matematica e la tecnologia possano assicurare un futuro all’umanità, siamo completamente fuori strada.

C’è una normativa (DM 219/2010) che regola l’impatto visivo dei parchi eolici, in quanto visibili in qualsiasi contesto territoriale. L’alterazione visiva deve essere riferita all’insieme delle opere previste per la funzionalità dell’impianto, e pertanto la localizzazione e la configurazione progettuale devono esser volte al recupero di aree degradate e alla creazione di nuovi valori coerenti con il contesto paesaggistico. In altri termini, l’impianto eolico dovrebbe essere l’occasione per il progetto di un nuovo paesaggio, ma solo laddove quello esistente sia in qualche modo deteriorato. Si vedono migliaia di torri eoliche in tutta Italia, ma non saprei indicare un solo luogo in cui questa norma sia stata rispettata e il progetto di Orbetello è anche a questo riguardo esemplare. […]

Intanto, sotto la pressione del Pnrr, si moltiplicano in tutta Italia i progetti di campi eolici: una decina solo nel Viterbese, più o meno tutti nella valle del Marta, fra Tarquinia e Bolsena. Saranno tutte aree degradate? E che speranza può mai esserci, se perfino in vista del Duomo di Orvieto, una delle cattedrali più importanti e nobili d’Europa, la società Rwe Renewables Italia sta per piantare sette torri eoliche alte 200 metri? Di questo parco eolico la sola cosa davvero appropriata è il nome, Phobos (che in greco vuol dire paura). Paura, o fobia, di chi o di che cosa? Saranno i turisti a fuggire spaventati dagli aerogeneratori giganti? O chi le ha volute, quelle torri, aveva paura di un paesaggio ancora intatto?  Eppure sono caduti nel vuoto non solo l’accorato appello di Ernesto Galli della Loggia, ma anche le vibrate proteste di otto associazioni (fra cui Lipu, Pro Natura, Associazione Bianchi Bandinelli, Gruppo di intervento giuridico). Tutto vano: il progetto risulta approvato. Eppure i cittadini (gli ambientalisti veri) non demordono, tanto è vero che alcuni da Orvieto hanno partecipato a un’assemblea di pochi giorni fa a Orbetello. Nel miope localismo che ci assedia, la convergenza di analisi e proteste fra cittadini di aree diverse è sempre un buon segnale, e un possibile asse Orvieto-Orbetello è un caso simile alla sintonia fra cittadini di Milano, Parma e Roma contro infelicissimi progetti di nuovi stadi. Solo facendo rete tra loro i cittadini possono contrastare la deriva in cui i governi hanno gettato la politica delle energie rinnovabili in Italia, affidandola interamente al caso. In assenza di qualsivoglia piano regionale di localizzazione, è sempre e solo l’impresa proponente a prendere l’iniziativa, che i poteri pubblici, dal comune alla regione allo Stato, possono passivamente accettare o rallentare mediante “osservazioni”. Sembra di là da venire una forte e mirata iniziativa pubblica, che capovolga questa dissennata procedura. All’insegna della crisi energetica, è in corso una sorta di metaforica sostituzione etnica: aerogeneratori in luogo degli olivi, sfruttamento industriale del territorio anziché tutela dei paesaggi, la vista corta del Pnrr con le sue scadenze invece dell’interesse delle generazioni future, la retorica di corto respiro di un falso ambientalismo del profitto in luogo dello sguardo lungimirante della Costituzione.

Si deve partire dall’identificazione delle aree più idonee agli impianti, nel pieno rispetto delle attività agricole e delle norme di tutela (nonché delle Soprintendenze che vigilano su di esse), e solo dopo individuare le imprese a cui affidare i progetti. Invece, negli ultimi anni si va addensando sulle norme la fitta nebbia di una stratificazione normativa frammentaria, tortuosa e confusa, ma comunque ispirata da un chiaro indirizzo: il trionfo del mercato contro le pubbliche istituzioni, il guadagno immediato dei pochi contro l’interesse di tutti nei tempi lunghi. Come diceva Andrea Zanzotto, “un bel paesaggio una volta distrutto non torna più”, e se durante la guerra c’erano i campi di sterminio, adesso siamo arrivati allo sterminio dei campi: fatti che, apparentemente distanti fra loro, dipendono tuttavia dalla stessa mentalità.

L’Italia, ce lo andiamo ripetendo come una litania, è stato il primo Paese al mondo a porre in Costituzione, fra i principi fondamentali dello Stato, la “tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione” (art.9). E allora come mai, di fronte all’avanzata inesorabile di torri eoliche sparse a caso dappertutto, non si sono stabiliti criteri adeguati a pilotare le ipotesi progettuali, scegliendo luoghi idonei non solo per la frequenza o l’intensità dei venti, ma anche per il rispetto dei valori paesaggistici e delle attività agricole? Come mai, anzi, c’è chi accusa le Soprintendenze di frenare la transizione ecologica con la scusa di difendere i paesaggi storici?

Sonia Milone 

 
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