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Non č mai troppo tardi (per eliminare la scuola...)! PDF Stampa E-mail

di Massimiliano Viviani

15 novembre 2010

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Questo è il periodo in cui sta cominciando l'anno scolastico, e l'occasione di per sè è sempre buona per mettere in discussione i fondamenti culturali ed educativi su cui la nostra società si basa. Ma un'altra ricorrenza, questa volta degli anni passati, offre lo spunto per avviare una simile riflessione: esattamente 50 anni fa infatti -il 15 novembre del 1960- iniziava "Non è mai troppo tardi", il programma televisivo ideato per permettere anche a chi a suo tempo non aveva avuto la possibilità di studiare, di farsi un'istruzione in età avanzata, sui banchi di una finta scuola, proprio come i bambini. Fu un'iniziativa che ebbe un successo strepitoso, imitato anche in altri Paesi, probabilmente perchè si inseriva perfettamente nel clima ottimistico di (ri)costruzione della modernità trionfante nel dopoguerra, che voleva sradicare -e lo avrebbe fatto con successo- le ultimi propaggini di un mondo, quello contadino, che di fatto era ancora restìo all'alfabetizzazione di massa e rappresentava un ostacolo ai luminosi fasti del progresso economico e tecnologico della nostra epoca.
In effetti in un mondo che si basa sulla scrittura -perchè la scrittura è la base della mentalità tecnica e mercantile, che invece non si trova a suo agio con l'indeterminatezza della tradizione orale, colta o popolare che sia- l'analfabetismo deve proprio risultare una bestemmia. L'equazione "analfabeta uguale ignorante" ne discende come un corollario, e poco importa se a formare la mente e il sapere di un uomo non ci sono solo la scrittura o le nozioni, ma anche l'indipendenza di giudizio, il controllo delle proprie passioni, l'integrità della visione, tutte cose che proprio l'attuale esplosione della civiltà della scrittura ha minato nel profondo. Per non parlare poi di quei popoli, classificati tout court come "analfabeti" e quindi arretrati, ignoranti, che la scrittura non la conoscono perchè non le danno importanza, per tutti quei motivi -che non staremo noi a ripetere- che un certo Platone più di duemila anni fa espose in modo lucido e tempestivo nei suoi dialoghi (e il fatto che il filosofo nel Fedro si mostra preoccupato dalla nuova tendenza e non dall'esistenza di ignoranti e zoticoni, la dice lunga...).
Del resto in un'epoca in cui tutto è scritto e ognuno ha bisogno di tutto, anche quei poveri vecchi senza scrivere non potevano stare, e molti di loro accettarono di buon grado per convenienza di stare al passo coi tempi. Ma che pena guardare quelle immagini in televisione! L'analfabeta non meritava un trattamento così umiliante, andare sui banchi di scuola come un bambino ed essere trattato come loro pari dal conduttore e forse pure con sufficienza e commiserazione dai telespettatori da casa!

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Gusci vuoti e rami secchi PDF Stampa E-mail

8 novembre 2010

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Il liberal-capitalismo, col contributo provvisorio della socialdemocrazia, ha vinto la sfida portata dal comunismo e dal fascismo sul suo stesso terreno, quello della Modernità.
Quando si fa questa affermazione, sui siti alternativi c’è sempre chi si inalbera.
Si inalberano gli irriducibili del marxismo-leninismo. Il loro argomento è in sintesi questo: quello che è stato sconfitto è lo stalinismo, non il comunismo. Il comunismo non è stato mai realizzato, ciò che si è affermato e che alla fine si è dissolto è lo stalinismo, che del vero comunismo è solo una caricatura e una negazione.
Credo che questo modo di ragionare sia soltanto autoconsolatorio. Il tentativo di realizzare il comunismo ha interessato circa metà dell’umanità. E’ stato il fenomeno politico e culturale più grandioso del Novecento e forse la più grande illusione nella storia dell’umanità. Pertanto non è limitabile al comunismo sovietico, che i neomarxisti definiscono stalinismo negandone la natura comunista. Essendo stato un processo di dimensioni mondiali, quel fenomeno ha interessato nazioni con storie e situazioni socio-culturali diversissime. Non c’è stato solo lo stalinismo sovietico con le sue propaggini nell’est europeo. Ci sono state altre esperienze che volevano essere originali e che si distinsero dal modello moscovita. Basti ricordare la Jugoslavia di Tito, dichiaratamente antistalinista. Basti ricordare la grande rivoluzione cinese, che ben presto ha cercato una sua via autonoma rispetto all’URSS. Infine non dimentichiamo Cuba, che voleva essere un altro riferimento ideale. Ma ci sarebbero anche la Romania, la Corea del Nord, il Viet Nam, ognuno con la propria storia e una propria via autonoma. Negli anni Settanta perfino alcuni Paesi africani scelsero la via del socialismo di ispirazione marxista. Ebbene, in tutti i casi registriamo delle costanti, nonostante la diversità delle condizioni storiche: un collettivismo statalista e accentratore, un’accentuata burocratizzazione, la dittatura di un partito unico. Evidentemente c’è un fondamento comune che dà luogo a fenomeni analoghi nonostante tutte le diverse circostanze. Questo elemento comune non è lo stalinismo ma qualcosa che attiene strettamente ai fondamenti ideologici condivisi. Avevano quindi ragione i vecchioni impataccati della gerontocrazia del Cremlino quando ribattevano ai loro critici, comunisti “democratici” alla Berlinguer, che quello era il socialismo reale (realizzato). Il resto è chiacchiera. Il comunismo libertario e procedente verso l’estinzione dello Stato è sempre di là da venire e rimane nel mondo dei sogni. Conta quello che è esistito nel concreto dei processi storici.
Si inalberano anche i nostalgici del fascismo. Il loro argomento è il seguente: il fascismo combatté con successo il capitale finanziario; risolse col corporativismo il conflitto fra capitale e lavoro; godette di un diffuso consenso e crollò solo per la sconfitta in guerra: vince il più forte, non necessariamente il più giusto. Il fascismo ha ceduto solo ai bombardamenti, mentre il comunismo si è svuotato al suo interno ed è morto per autoconsunzione.
Anche questi argomenti sono autoconsolatori. È molto discutibile che il fascismo abbia combattuto il capitale finanziario. Le grandi concentrazioni private industrial-finanziarie prosperarono sotto il fascismo e il nazismo. La pace sociale fu ottenuta più con la repressione poliziesca che col corporativismo. Infine non è vero che i fascismi hanno ceduto solo alla forza delle armi. Questo si può dire per il fascismo italiano e il nazismo, che essendo stati esperienze di breve durata non hanno avuto il tempo di esaurirsi per le loro contraddizioni interne. C’è stato anche un fascismo iberico, il franchismo in Spagna e il salazarismo in Portogallo. Quei regimi, che ebbero l’accortezza di non farsi coinvolgere nella guerra, durarono diversi decenni. Alla scomparsa dei loro caudillos svanirono come la nebbia al sole, esattamente come i regimi comunisti. Implosione per consunzione interna. Erano gusci vuoti, o rami secchi che un venticello stronca.
La conclusione è obbligata: il liberal-capitalismo ha vinto tutti coloro che lo hanno sfidato sul terreno della modernizzazione perché esso è la Modernità nella sua espressione più efficiente e più coerente.
Irriducibili del marxismo e nostalgici del fascismo hanno il grande merito di non essersi lasciati omologare. Hanno scelto di restare fra i perdenti senza saltare sul carro del vincitore. Ora devono fare un passo avanti. Devono prendere atto che oggi gli obiettivi da porsi sono la decrescita, il comunitarismo, la lotta alla speculazione finanziaria, la difesa delle culture locali e l’antiprogressismo. Su questo terreno potrebbero finalmente ritrovarsi dalla stessa parte della barricata. Bisogna liberarsi del peso di ideologie logore e sterili. Nella frana epocale che sconvolge i nostri orizzonti, il passato che deve ispirarci non è quello recente di ideologie consunte.

Luciano Fuschini

 
L'imperialismo dei defunti PDF Stampa E-mail
1 novembre 2010

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Seppur potremmo trarre giovamento dal riemergere di una sensibilità “pagana” che prenda spazi di sacro al materialismo imperante ma anche alla Chiesa cattolica che ci ha ammorbato con millecinquecento anni di dottrine avvelenatrici della natura, dobbiamo riconoscere che nulla di tutto ciò è espresso dalla festa di Halloween, parodia della festa celtica di fine estate di Samhain. Interessante rilevare per inciso che tale festa veniva collocata in una dimensione “esterna” alla dimensione temporale non appartenente all’anno vecchio né al nuovo, potendo in quel momento i vivi passare nel mondo dei morti. Di passata rileviamo come questa tradizione indoeuropea fosse la stessa alla base delle feste romane del "Mundus patet", apertura della fossa degli spiriti inferi che accadeva tre volte l’anno. La stessa divinità Samhain fu assimilata dai romani conquistatori della Britannia a Pomona, divinità ctonia ed infera.
Niente di tutto ciò nell’attuale festività americana, che, da una ventina d’anni giunta anche in Italia, si basa sul travestimento da “mostro” (con una fantasia “hollywoodiana” che ben denota l’apertura mentale dei mascheranti, giustificabili solo se in tenera età), specie dei bambini, che bussano alle porte delle abitazioni chiedendo dolci, e minacciando in caso negativo il proverbiale scherzetto.
Non vogliamo spendere troppo tempo a sottolineare un fenomeno talmente ovvio: l’americanizzazione sempre più massiccia delle abitudini e finanche delle festività europee. Questa festa è una vera macchina da soldi, che permette a molte aziende di vendere migliaia di prodotti carnevaleschi a fine ottobre, e trova un adesione massiccia presso genitori accondiscendenti ad ogni idiozia che i figli esigono, pena il fantasma della loro “esclusione sociale” con chissà quali “danni” psicologici futuri. D’altro canto non ci sentiamo nemmeno di condannare un bambino che in fondo si diverte e tira fuori una parte, quella “demonica” ed “oscura” che è in ognuno di noi. Questo teniamo a rammentarlo a “mamma Chiesa” che vede in ogni avvicinamento a certi argomenti “un avvicinamento a Satana”, dimostrando anche in questi giorni il solito bigottismo di molti suoi prelati, che invece di tuonare contro il consumismo non trovano di meglio che rimarcare la natura “pagana” della festa (ad ogni buon conto sottolineiamo che un pagano vero si offende a questi accostamenti). Si potrebbe riportare il tutto alla diffusione di un certo “spiritualismo” moderno, già da eminenti autori rilevato nella prima metà del secolo, come una sorta di ricerca del “sacro” al di fuori dei canoni della religione venuta a predominare in occidente. Ma non ci sembra questo il caso delle masse, seppur è innegabile una attrazione crescente per occultismo et similia, che probabilmente tratteremo in altra sede, e che nasconde pericoli non minori del materialismo imperante.
Ci sembra però rilevante che anche in cose del genere, nell’adesione alle feste, si riscontri un supino adagiarsi alla way of life d’Oltreoceano, considerata “in”, “più avanti”, della nostra “triste” e “vecchia” Europa. Ci piacerebbe che analoga adesione avessero le feste popolari regionali e locali, che spesso non hanno nulla da invidiare, come mascheramenti o liberazione degli impulsi sopiti, alla slavata, commerciale e inutile festa di Halloween, che, al contrario di ogni festa che si rispetti, difetta dell’elemento principale e fondamentale: la coesione sociale e comunitaria che questa crea, il rafforzamento dei vincoli personali e dello spirito di popolo. Ma si sa, mala tempora currunt, e cosi ci siamo accontentati di aver visto passare anche quest’anno questa triste e inutile sceneggiata, sperando che almeno i bimbi si siano divertiti, e che magari qualche padre un po’ meno “moderno”, e un po’ più attento alla sostanza delle cose, induca i propri figli a festeggiare ben altre ricorrenze.

Fabio Mazza

 
Pericolo giallo (come il grano...) PDF Stampa E-mail
di Alberto Cossu

25 ottobre 2010

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Le conseguenze della crescita esponenziale dell’economia cinese sono da tempo dibattute tra i politici e gli economisti di tutto il mondo, ma quelle che possono essere le conseguenze generali sul pianeta di questo fatto, sono prospettate in modo spesso generico dalla stampa e non sufficientemente dettagliato. Se l’entrata dei nipotini di Mao nel WTO ha sconvolto le economie occidentali in modo evidentissimo, le future conseguenze geopolitiche che l’attuale politica cinese avrà sul pianeta sono ancora poco dibattute, anche se allarmanti: il futuro, infatti, potrebbe riservarci un mondo cinesizzato, dove uno dei principali problemi sarà la difficoltà delle nazioni nel procurarsi il cibo necessario. Insomma il futuro potrebbe tristemente rassomigliare ad un film di fantascienza apocalittico se a ciò aggiungiamo anche la prevista scarsità delle risorse idriche e gli sconvolgimenti ambientali.
Dal 2000 al 2007 il reddito pro capite dei cinesi è raddoppiato, il numero delle automobili è decuplicato. Nonostante ciò la Cina è un paese ricco pieno di poveri: il reddito pro capite è un ventesimo di quello americano ed anche dopo alcuni miglioramenti retributivi avuti nel 2007 i differenziali salariali rispetto all’Occidente rimangono enormi. Nel 2006 la Cina ha sorpassato gli USA non solo economicamente, ma anche nel triste primato delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera a causa dell’aumento di centrali termoelettriche, industrie, automobili e ai maggiori consumi legati all’urbanizzazione di massa, tanto da immettere nell’atmosfera un quinto dell’anidride carbonica che viene rilasciata nel pianeta. I due terzi delle centrali termoelettriche cinesi sono a carbone, la fonte energetica più inquinante come Co2. Naturalmente anche le dimensioni demografiche costituiscono di per sé un problema, non solo per la nazione ma per il mondo intero: l’impatto della popolazione cinese sulle risorse naturali del pianeta è senza precedenti e a ciò si aggiunge che il modello di sviluppo prevalso nella fase di decollo industriale cinese ha assegnato un ruolo dominante ai settori industriali più energivori, dal cemento all’acciaio, dall’automobile all’edilizia. Su questi settori sono stati pochissimi i vincoli in termini di efficienza energetica. A causa di tutto ciò desertificazione, diminuzione delle terre coltivabili e penuria d’acqua aprono scenari allarmanti di nuove crisi alimentari e sanitarie nel Paese.
Dimensioni demografiche, aumento del reddito pro capite e industrializzazione fanno sì che oggi per la Cina e molti altri paesi emergenti l’urgenza non sia più come un tempo, conquistare il diritto ad esportare le proprie derrate agricole, bensì quella di destinarle all’approvvigionamento dei propri mercati interni in una situazione di iperinflazione e rischi di penurie. L’agricoltura cinese, infatti, non potrà mai bastare a sfamare 1,3 miliardi di persone la cui dieta diventa sempre più ricca. É sui mercati esteri che Pechino dovrà trovare accesso alle risorse naturali necessarie se vuole continuare in questa via di ipersviluppo forsennato.

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La tragedia e la farsa PDF Stampa E-mail
18 ottobre 2010

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Affrontando con diverse persone il tema della differenza tra i nostri tempi e quelli passati- in particolar modo di quelli preindustriali, secondo la concezione finiana dell'antimodernità- in risposta alla mia affermazione secondo cui in tali epoche complessivamente si viveva meglio di oggi, mi sento spesso ribattere che facendo tali paragoni, e rivisitando il passato, è facile cadere nella tentazione di dipingere tali epoche come più belle di quanto in realtà non fossero state, sia perchè il ricordo distorce le cose, sia perchè in fondo a tali epoche tendiamo ad attribuire le caratteristiche che piacciono a noi. Insomma, si rinfaccia quasi sempre che i "bei tempi andati" non erano poi così belli.
A questo punto credo sia doveroso chiarire un equivoco che ricorre ogniqualvolta si dibatte di antimodernità in questo senso. Chiunque tratta di questi temi infatti, chiunque li studia e li affronta in modo serio, solitamente non afferma affatto che i tempi passati fossero belli o felici. Ossia che siano mai esistiti dei "bei tempi andati". Se non lo si è, infatti, bisogna essere consapevoli di quanto fosse dura la vita dei tempi preindustriali: la famiglia patriarcale non era sempre quel luogo di armonia comunitaria che spesso ci dipingiamo, perchè spesso era teatro di conflitti e di sopraffazione; il lavoro artigianale o contadino che fosse, era un lavoro sereno e spensierato, ma nel contempo duro, spesso fisicamente, che permetteva per lo più di portare a casa quello che serviva per dar da mangiare un paio di pasti a tutta la famiglia; la vita di comunità era solidale certo, ma non priva di ingiustizie, soprusi e angherie; le condizioni igieniche erano precarie e la mortalità infantile era una realtà molto frequente. Insomma, niente di diverso da quello che sappiamo sui tempi premoderni, ma nemmeno niente a che vedere con una vita bucolica o arcadica, ossia "felice" nel senso che intendiamo noi moderni con questa parola.
Ma allora da tali premesse dobbiamo giungere a una sorta di "relativismo" generale? Se l'esistenza umana si manifesta ovunque e sempre nella sua perenne tragicità, perchè stiamo a dibattere sulle caratteristiche dei tempi moderni? In realtà la differenza sussiste eccome. Perchè a parità di condizioni "oggettive", altro è affermare un'amara verità, altro è dipingere una dorata menzogna. E' in questo che consiste la grande differenza tra le civiltà tradizionali e i tempi moderni, più che nella condizione della vità in sè. E non è una differenza di poco conto: le società premoderne sapevano benissimo che la durezza della vita è ineliminabile per ogni creatura, e che qualsiasi cambiamento strutturale, qualsiasi "rivoluzione" come la chiameremmo noi, non avrebbe fatto altro che spostare il problema, nasconderlo, camuffarlo, ma mai eliminarlo. Perchè l'uomo del passato la durezza della vita la guardava in faccia, e sapeva com'era e come affrontarla: essa aveva un nome, ma avevano un nome anche i mezzi con cui scongiurarla, vincerla, e nel caso non la si potesse vincere, con cui consolarsi. La superstizione del progresso invece ha nascosto la durezza della vita, ma non l'ha affatto eliminata, con la differenza non da poco che l'uomo moderno non ha più i mezzi per affrontarla. Egli è solo, sperduto, confuso, allo sbando. Perchè non è la stessa cosa provare dolore per qualcosa che ha un nome e un cognome, un inizio e una fine -sia esso la morte di un caro o un nemico alle porte- e provare invece quel senso di smarrimento, di vuoto, di inutilità tipico della nostra epoca, che corrode l'animo fin nelle fondamenta, giorno e notte, anno dopo anno, e non lascia via d'uscita se non la disperazione.
L'uomo moderno, perennemente illuso e puntualmente deluso, si trova quindi di fronte a una sofferenza senza nome, confusa, che gli sfugge in continuazione e che non può affrontare. Per questo su di lui la durezza della vita si manifesta in modo ancora più feroce: perchè non ha più il modo di vederla, nascosta dietro il luccichìo di un vacuo progresso, nè ha i mezzi per affrontarla, perchè è stato privato di tutto, comunità, famiglia, religione, autoproduzione economica. E a ben vedere, non potendo più guardare in faccia il dolore, ha perduto anche la soddisfazione di affrontarlo, e di misurarsi a viso aperto con gli ostacoli della vita. Dal che, quella mancanza di coraggio, di orgoglio, tipica dei tempi nostri.
Per questo il progresso è dei deboli di spirito, dei sofferenti, degli infantili, dei falliti, o di chi tale si sente. Progresso è fuggire, è non volere guardare in faccia la realtà. E' costruire con la fantasia un mondo irreale e puramente immaginario, in cui proiettare i nostri sogni di uomini perdenti o presunti tali. Altro che "bei tempi andati"! Sono i progressisti con i loro miraggi tecnologici, scientifici, sociali ed economici, con le loro utopie razionali, sono loro che dipingono in continuazione un paradiso venturo che è puro frutto della loro immaginazione! Sono questi i tempi bucolici che rinfacciano a noi di rimpiangere! Ma noi non rimpiangiamo nessuna arcadia: noi vogliamo solo che quella meravigliosa tragedia che è l'esistenza umana non venga trasformata in una buffonata o in una farsa.

Massimiliano Viviani

 
Guerra dei sessi? PDF Stampa E-mail

11 ottobre 2010

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Sempre più spesso i fatti di cronaca ci permettono, quasi più delle relazioni politiche, di avere il polso sullo stato della nostra civiltà occidentale. Non passa giorno che sui quotidiani, nei telegiornali e in internet non ci raccontino storie terrificanti. C'è chi dice che i nostri governanti fanno apposta ad amplificare a dismisura notizie locali per tenere tutti in uno stato di tensione continuo, per indurci ad accettare più volentieri regole limitative della libertà e controlli polizieschi. In caso contrario, in un sistema cosiddetto democratico come il nostro, non potrebbero avere spazio e giustificazione. Vero certamente, ma è altrettanto vero che gli avvenimenti non sono inventati, e sono lì, più forti di ogni immaginazione, a testimoniare una realtà cruda, feroce, sempre più diffusa. Quello che colpisce è  la quantità e la varietà dei fatti. Salgono alla ribalta con impeto, meravigliano il più incallito dei delinquenti per l'efferatezza, l'assurdità delle circostanze, come se si avesse a che fare con un meccanismo perverso che va per i fatti suoi, senza ragionevolezza, sempre più in fretta, e che produce mostruosità sempre più grandi e... ancora, ancora, ancora.
C'è chi dice che ci sono sempre stati, con la differenza che ora se ne parla di più. Sarà. Ho qualche dubbio.
Fra i tanti casi spiccano per frequenza e gravità quelli di uomini che infieriscono sulle donne, tanto da far pensare ad una guerra dei sessi. Ci sono i sostenitori dell'idea che gli uomini non possono sopportare l'emancipazione delle donne, il loro abbandono del ruolo tradizionale; le accusano di aver scardinato l'ordine sociale. Ci sono teorie, per lo più femministe, che suppongono sia in atto un processo di regressione, voluto coscientemente, per togliere alle donne quei diritti e quell'uguale dignità di persona propria degli uomini che disturba equilibri millenari. C'è la tesi molto interessante di Marcello Veneziani per la quale l'uomo uccide non per maschilismo ma per infantilismo tragico, delirio puerile, ferocia dei deboli. Come se dicesse: “Se tu te ne vai, la mia vita non ha più senso”. Allora meglio farla finita.
Senonché l'ennesimo fatto di cronaca di questa estate scombussola le carte: “Follia a Milano; mollato dalla ragazza uccide una passante, le sfonda il cranio a furia di pugni”. Mettiamo pure che che fosse molto arrabbiato, che avesse perso la testa. Perché uccidere una donna sconosciuta, una qualunque? Perché proprio una donna? Una madre di famiglia poi.
Mi viene il dubbio che ci sia altro, che questo non sia che il segno estremo di una tendenza ormai comune, quella che evidenzia un bisogno, nella nostra società, di dominio, di potenza su qualcuno, su qualcosa. La chiamerò “necessità di sopruso”, tendenza trasversale, presente in tutti gli strati della società, che si proietta ad esempio dall'imprenditore al dipendente, dal manager alla segretaria, dall'uomo all'animale, dal padre al figlio handicappato o alla figlia, desiderata e violata. Se il dominio può essere esercitato dal più forte nei confronti di un altro più debole, spesso sono gli uomini a commettere delitti sulle donne, perché non hanno altro su cui dominare. Hanno solo le loro donne su cui sfogare le proprie frustrazioni, esercitare la loro potenza, la rabbia, il dolore. Statisticamente può sembrare ci sia una guerra dei sessi in atto, ma in realtà non è così.
Chiedersi il perché di tutto questo bisogno di dominare è più che legittimo. La nostra società, formalmente egualitaria, in realtà è retta dalla prepotenza e dal sopruso: non è forse vero che chi ha successo fonda, in modo più o meno appariscente, la sua fortuna sul predominio? Non è forse vero che chi non ci riesce invidia, odia e si rivale su qualcun altro?
Chi non ha quasi nulla cosa fa? Proietta il male fuori di sé. Non si spiega così l'accanimento su di un barbone? Lo stupro di una suora? L'uccisione del proprio criceto in un microonde? (ebbene sì, anche questo è successo).
In questo quadro si spiegano allora anche i casi di donne che uccidono i compagni, quando questi si trovano in condizione di inferiorità, di donne che uccidono i loro bambini, e tanto altro. Recentemente mi ha fatto accapponare la pelle il racconto di un gruppo di donne molto giovani che, con un oggetto, hanno a lungo stuprato un'amica che aveva portato via il fidanzato ad una di loro, e l'altra, di un bambino che ha ammazzato il fratellino semplicemente perché aveva voglia di uccidere qualcuno.
La nostra società è malata. Tutti contro tutti. L'individualismo, la sopraffazione, ci vengono inculcati e ci appartengono. La cultura non costituisce più un freno. Spesso trionfa l'incultura si dice. Ma qui c'è una cultura immorale che trionfa. I bambini vengono educati alla violenza con tutti i mezzi, dai videogiochi ai film, con o senza 3D, da compagni, da cattivi maestri, dai media davanti ai quali sono soli, dal divertimentificio che ci specula sopra.
Troppo facile allora dare la colpa alle femministe che hanno voluto l'emancipazione delle donne e che adesso non vogliono rinchiudersi in casa. Troppo semplicistico dire che ci sono le uome e i gay che confondono le acque e che hanno distrutto i ruoli. Il pasticcio è molto più complesso, richiede a tutti di boicottare il pensiero dominante. E anche un ripiegamento su se stessi per l'assunzione di una parte di responsabilità. Il proprio quotidiano è costruzione che deve essere scandagliata, ripensata, rivisitata in maniera consapevole. Solo così ci si potrà sedere tranquilli sulla sponda del fiume aspettando che tutto un mondo, storto e perverso, crolli.

Daniela Salvini

 
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