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Umanitarismo totalitario PDF Stampa E-mail
di Massimiliano Viviani

11 dicembre 2009

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In Scozia poche settimane fa ha suscitato scalpore la notizia secondo cui una coppia obesa -146 chili la madre e 115 il padre- si è vista sottrarre tutti i suoi sette figli perchè stavano seguendo la stessa china dei genitori, ossia stavano diventando tutti preoccupantemente grassi. Tale drastica decisione è stata giustificata dal fatto, secondo gli assistenti sociali, che lo stile di vita imposto dai genitori va a toccare l'ambito della salute dei figli. E' stato quindi con dolore, ma anche con profondo spirito "umano" ed umanitario, ossia per il bene dei bambini, che gli stessi assistenti hanno preso questa decisione.
In realtà, siamo di fronte all'ennesimo caso di violenza totalitaria espressa dal nostro modello di sviluppo, mascherata da intervento "umanitario". L'unico sentimento autenticamente umano che si può avere di fronte a notizie di questo tipo è un senso di sbigottimento. Si tratta infatti di una mostruosità da più punti di vista, e l'umanitarismo di facciata serve solo a mascherare l'arroganza e la pericolosità di tali comportamenti.
Come spesso accade anche per gli adulti, il sentimento umanitario viene mosso da considerazioni legate alla salute. Non è un caso, perchè l'aspetto che sembrerebbe più scontato, ossia quello dell'obesità come malattia, non lo è affatto: la malattia si definisce in ambito sociale, non in ambito scientifico, astratto, secondo criteri "oggettivi". Non esistono parametri oggettivi e universalmente validi che possano a priori definire cosa sia salute e cosa no. Molte anomalie che in certe condizioni sono malattie, in altre non lo sono. Per esempio, ancora in tempi recenti, quando le zone rurali del nostro paese non erano ancora invase dal dilagare dell'industrializzazione, chi viveva in molte zone di montagna e aveva un'alimentazione basata sui prodotti e sugli usi locali, sviluppava il gozzo come conseguenza del basso consumo di iodio (presente per esempio nel sale marino, che in montagna non veniva usato). Tale malformazione oggi viene considerata una malattia (definita "ipotiroidismo"), ma allora non lo era, perchè il loro metabolismo aveva imparato ad adattarsi bene a tale modifica, tanto che quando qualche montanaro scendeva in pianura, quanto tornava riferiva stupito ai suoi compaesani di avere visto in quei luoghi strana gente con il collo piatto!
E' evidente quindi che non tutto ciò che è anormale, costituisce malattia. Con molte anomalie si può convivere bene. Per questo definire a priori delle condizioni di malattia per il futuro è una mostruosità bella e buona. Solo se si crea in astratto un riferimento che deve valere per tutti, allora chi non lo rispetta deve essere ricondotto sulla retta via. Tale atteggiamento deriva dalla nostra convinzione secondo cui c'è un modello "normale" di riferimento, che non solo è il migliore fra tutti quelli possibili, ma è anche di fatto l'unico, ossia l'unico che permette un'esistenza e una vita degna di tale nome. La faccenda dell'obesità rientra in questo atteggiamento. La volontà di aiutare i figli in definitiva non è che un pretesto. Non è altro se non l'espressione più genuina di omologare tutto a un unico parametro. In questi casi poi, sarebbe da essere umani più che umanitari: io sinceramente dubito che i figli in questione preferiscano essere "normali" (o meglio, un po' meno grassi) con estranei, piuttosto che obesi con i loro genitori!

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La “cultura” moderna: ovvero come rendere la cultura un bene di consumo PDF Stampa E-mail

7 dicembre 2009

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L’ossessione, moderna ma molto recente temporalmente, dell’ “istruzione”, del “titolo” universitario, del “diventare qualcuno”, è diventata quasi un leit-motiv dei nostri giorni.
A parte l’incremento parossistico delle iscrizioni alle facoltà universitarie, che rivela nel contempo la fallacia della scuola post-sessantotto, divenuta più un “diplomificio” che una fucina di leader o quantomeno di “capitani” del mondo del lavoro del domani, ciò di cui parliamo lo si può vedere chiaramente dall’atteggiamento dei genitori, che farebbero ogni sacrificio per vedere il figlio con il prezioso titolo, senza il quale si suppone egli non ricoprirà mai, in società, una “posizione”, e non avrà mai una vita, non solo professionale, veramente appagante.
L’ironia del tutto è che, nella maggior parte dei casi, la tanto decantata “istruzione”, la tanto celebrata “cultura” universitaria, che già dal nome rimanda ad un complesso, ad una conoscenza complessiva del reale e del mondo, si riduce ad un vuoto e spurio nozionismo, ad una conoscenza di elementi slegati e disarticolati, autoreferenziali e inutili per una superiore conoscenza della realtà e della vita, che sola potrebbe garantire la formazione di veri leader.
A parte la disgustosa logica da “ipermercato” che si respira nelle strutture formative, dove la qualità non conta quasi nulla ma si osanna e si santifica la quantità; dove nessuno può delinearsi per predisposizioni o sensibilità particolari, perché il sistema è congeniato per mantenere un'ingiusta e livellatrice “uguaglianza”, figlia del delirante progetto social-egualitario del “mandare avanti tutti”; dove si preferisce insistere sui programmi “taglia unica” ministeriali, piuttosto che affrontare davvero tematiche apicali, capaci di orientare formativamente la formazione e la mentalità dell’allievo, quello che più colpisce è la volontà, non si sa quanto cosciente o quanto figlia dei tempi, di “formare” persone che padroneggino un “sapere” settoriale e meramente tecnico, slegato da una visione della realtà complessiva e unificatrice.
Mentre quello che servirebbe per creare degli “aristocratici” del sapere, sarebbe proprio quello di fornire una “universitas” del pensiero, dello scibile (e forse anche del meno scibile), del sapere e anche, perché no, dei valori caratterizzanti la nostra tradizione.
Ma quello che si preferisce fare è creare degli “specialisti”, leggesi anche degli inarticolati, che sappiano molte nozioni tecniche, ma che difficilmente sappiano articolarle e riunirle nelle varie facce della realtà, al fine di dominarla e padroneggiarla.
Del resto la “democrazia” ha paura di uomini simili, perché sono uomini che difficilmente hanno bisogno degli altri. Perché la “democrazia” conta che il numero assorba e annulli le qualità che rendono gli uomini diversi e diseguali tra loro. Perché la democrazia ha paura per antonomasia delle figure carismatiche, e gli preferisce di gran lunga il “governo dei mediocri”, degli “specialisti” non integrati, degli “esperti” del nulla.
Non a caso in una società che crea sempre nuovi bisogni e nuovi “saperi” che in realtà sono spesso falsi bisogni e falsi saperi, come sarebbe possibile per un solo uomo, se non eccezionalmente integrato e consapevole di sè e della propria natura ontologica, “stare al passo” di una conoscenza che, in tutti i campi, tende a modificarsi e cambiare continuamente?
La natura disarticolata del sapere e della “cultura” moderni e attuali è dunque figlia e portato necessario di un mondo che si basa sul mutamento e vorticoso aggiornamento di tutto, dalla tecnologia al sapere, dalle relazioni interpersonali agli “status symbol” e ai desideri.
Ma quindi la domanda è: che fare? E qui necessariamente la nostra risposta andrà contro corrente, andrà a ricercare un’idea di “istruzione” di ben altra caratura e tipologia. In un'epoca in cui le iscrizioni alle università decuplicano non sarebbe auspicabile ridurre il numero degli studenti, non in funzione di mere possibilità economiche delle famiglie, ma di potenzialità e meriti effettivi che vengano considerati già dall’inizio? In un'epoca in cui l’”istruzione” è considerata un diritto, si ribadisce che non esiste un diritto al sapere: esso va, come tutto guadagnato, meritato.
In un'epoca in cui tutti vogliono, e credono in una certa misura, di poter essere, qualsiasi cosa e di avere qualunque posizione, non è auspicabile la visione delle cose come è sempre stata, che nella società ognuno ha il suo posto? Questo lungi dall’essere una posizione data unicamente dal denaro e dalla “robba”, dovrebbe essere data da ciò che si fa, non meno da ciò che si rappresenta per la propria comunità: di conseguenza l’università non può e non deve essere quello che è ora, una “fabbrica” di inutili titoli e di inutili “saperi”, che illudono chiunque di poter divenire, con il semplice esercizio mnemonico di concetti, una guida e un essere realizzato.

Fabio Mazza

 
Fermenti di antimodernità PDF Stampa E-mail

3 dicembre 2009

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Quella che in termini gramsciani potremmo definire l’egemonia culturale del progressismo scientista e “sviluppista”, a ben vedere comincia a mostrare crepe vistose. Sono visibili fermenti che possono preludere a una svolta reazionaria. Chiariamo subito il significato dei termini, operazione sempre doverosa per evitare equivoci. Reazionario non è affatto sinonimo di conservatore. Conservatore è chi vuole mantenere lo stato di cose vigente; il reazionario vuole cambiarle appellandosi ai valori del passato, o meglio a ciò che deve restare costante pur nel divenire; il progressista vuole cambiarle in nome di un futuro immaginato diverso e più avanzato rispetto a tutto ciò che la storia ha precedentemente prodotto. La misura del cambiamento, qualora sia radicale, può far parlare di rivoluzione sia nella prospettiva reazionaria che in quella progressista.
Considerando che il crollo dell’Impero sovietico è stato più un’implosione, un’autodissoluzione, che una rivoluzione, l’ultima grande rivoluzione politica del Novecento è stata quella khomeinista in Iran, una rivoluzione reazionaria. Il progressismo, il laicismo, l’adesione ai modelli di vita occidentali, erano stati il segno distintivo del regime monarchico che fu rovesciato da un compatto moto popolare guidato dal clero tradizionalista, nel nome dei valori antichi dell’Islam. Una rivolta popolare che richiama alla mente quella dei vandeani durante la rivoluzione francese, quella dei sanfedisti nell’Italia e nella Spagna napoleoniche (in Spagna gli insorti gridavano “abbasso la libertà!”, visto che i francesi invasori si dicevano portatori della libertà contro clero e aristocrazia), quella dei “briganti” nel meridione d’Italia aggregato a viva forza alla liberal-progressista monarchia sabauda, quella del movimento mujahid nell’Afghanistan “liberato” dai sovietici (che dicevano di aver portato il progresso, il socialismo e l’emancipazione delle donne, come la NATO oggi, con la variante della democrazia al posto del socialismo) e quella dei talebani nell’Afghanistan odierno. Lotte su cui grava lo sprezzante giudizio degli storici accademici ma che, con tutte le loro ambiguità e strumentalizzazioni da parte di altre potenze straniere che cercavano di approfittare della situazione per indebolire la potenza rivale, avevano una carica di passioni vitali e di valori autentici. Fu una lunga serie di sconfitte, cui deve aggiungersi la tragedia della vana resistenza delle popolazioni indigene travolte dal colonialismo, perché la modernità industrialista era nella sua fase di piena espansione. Oggi è significativo il fatto che il vitalismo reazionario della rinascita islamica appaia tutt’altro che perdente.
Nel nostro Occidente da alcuni decenni si consolidano movimenti localistici la cui ispirazione ideale profonda è sanamente reazionaria: recupero delle radici culturali, ritorno alla terra e all’artigianato, senso della comunità solidale.
Sono ormai una realtà profondamente radicata i movimenti ecologisti, col loro sviluppo più recente in direzione della Decrescita. Anche in essi ribollono fermenti di antimodernità, di cui dovrebbero essere più coerentemente consapevoli.
Insomma, c’è un terreno fertile e già dissodato su cui innestare la pianta dell’antimodernità. Non dobbiamo sentirci isolati e incompresi.
Sia ben chiaro: abbiamo ben poco da spartire con il truce fanatismo islamista. Semmai potremmo interloquire col cattolicesimo tradizionalista, invitandolo a liberarsi del perbenismo quietista e conservatore, per recuperare lo spirito del Cristo che scacciava i mercanti dal tempio e del profetismo apocalittico scagliato contro ogni acquiescenza ipocrita.
Abbiamo ben poco da spartire col leghismo alleato di Berlusconi, becero e razzistoide. Però in quell’area ci sono fermenti di rivolta e confuse esigenze suscettibili di sviluppi in senso antimoderno, quando le attese sul federalismo fiscale e sulla carica innovativa dell’attuale governo si saranno dissolte.
Abbiamo poco da spartire con un ambientalismo e una decrescita tuttora egemonizzati da un sinistrismo progressista, illusi che pensano di affidarsi ancora alla Tecnica, quella “buona” capace di produrre energia pulita, senza rendersi conto che l’inquinamento più letale è quello che sta desertificando le menti. Tuttavia in quell’area c’è la possibilità di lavorare per far crescere la consapevolezza che una lotta coerente contro la devastazione ambientale comporta la messa in discussione di tutta una filosofia modernista dalle radici plurisecolari.
Ci sono le condizioni per la critica di tutte le fondamenta, economiche e ideali, del progressismo e dell’industrialismo. C’è da recuperare il grande filone culturale del pensiero reazionario, che va liberato dal pregiudizio in gran parte errato della sua compromissione col fascismo. Ci sono le condizioni perché i ribelli dell’antimodernità non disperino.

Luciano Fuschini

 
Modernità dell’animalismo moderno PDF Stampa E-mail

di Stefano Di Ludovico

30 novembre 2009

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Una delle istanze che da sempre connota i movimenti ambientalisti è il cosiddetto “animalismo”, ovvero la difesa e la protezione delle specie animali da quelle azioni dell’uomo ritenute, direttamente o indirettamente, lesive delle loro esigenze vitali, istanza che comporta, di conseguenza, la ferma condanna di pratiche quali ad esempio la caccia o il consumo di carne. E’ un’istanza che caratterizza trasversalmente un po’ tutto il variegato mondo ambientalista, facendo capolino sia all’interno dell’associazionismo di impronta tecnicista e più o meno istituzionalizzato, sia all’interno delle componenti più radicali a sfondo “antimodernista”, quali la cosiddetta “ecologia profonda”. Soprattutto in riferimento a quest’ultima, l’animalismo si presenta come parte di una critica radicale della mentalità e della stessa visione antropologica propria della modernità, imperniata sull’homo faber ed oeconomicus, a cui si contrappone una diversa immagine dell’uomo e dei suoi rapporti con gli altri esseri viventi e la natura in genere, non visti più come mere realtà da sfruttare ma come compartecipi unitamente all’uomo stesso di un medesimo orizzonte di vita. In tal senso, l’ecologia profonda arriva a mettere in discussione la stessa antropologia cristiana, considerata come progenitrice di quella moderna, a causa della centralità che in essa assume l’uomo quale “signore” di un mondo messo da Dio a sua completa disposizione, rivalutando per contro le culture pagane in quanto estranee all’antropocentrismo biblico e “cosmocentriche”, quindi esaltanti una concezione “panica” tra l’uomo e la natura quali appartenenti ad uno stesso “cosmo” visto come patria e destino comuni. E’ proprio all’interno di tale posizione che si inserisce, anche nell’ecologia profonda, l’istanza animalista: gli animali sarebbero parte di tale natura con cui l’uomo deve ritrovare l’armonia perduta con l’avvento della cultura cristiano-moderna e dunque pratiche quali la caccia o il consumo di carne si ritengono inammissibili.
Ma, ci chiediamo, è davvero questo l’atteggiamento che le culture pagane hanno tenuto verso gli animali e la natura in genere? Perché se è vero che ad esse risulta estraneo l’antropocentrismo cristiano così come il successivo tecnocraticismo proprio della civiltà moderna, non ci pare che ciò per quelle culture significasse eo ipso un rispetto ed una valorizzazione delle altre specie viventi quali l’attuale ecologia, del profondo o meno, va sostenendo spesso con un’intransigenza ed un fanatismo già di per sé poco “pagani”. Anzi, ad uno sguardo più attento, dietro il presunto animalismo “neopagano” sembrano emergere, neppure troppo velatamente, istanze e valori tipicamente “cristiani” e, se è vera la tesi del cristianesimo come preludio o in qualche modo antecedente imprescindibile della modernità, “moderni” addirittura. 

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Ma tu dov’eri, quando invasero il Tibet?! PDF Stampa E-mail

26 novembre 2009

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Esattamente sessant'anni fa, verso la fine del 1949,  con il discorso di Mao sui "territori separati dalla madrepatria", virtualmente la Cina comunista poneva fine all'indipendenza del Tibet, anticipando l'invasione vera e propria degli anni successivi, che portò a massacri, distruzioni, annientamenti di corpi e menti. Io sono nato nel 1950. Mai, nella mia infanzia e nella mia adolescenza, qualcuno mi ha parlato del Tibet. L’unico ricordo che ne ho si riferisce ad un’avventura di Topolino (probabilmente risalente alla seconda metà degli anni Cinquanta), in cui l’eroe disneyano si reca in quella terra lontana e fuori dal mondo non so più per quale motivo. Ho vaghissimi ricordi di quella storia. Strani abitanti, sempre sorridenti, forse un po’ tonti e piuttosto rozzi, con buffi cappelli, e strani animali pelosi, gli yak. In particolare mi colpì la curiosa abitudine di offrire agli ospiti il tè con burro di yak. Ricordo che mi affascinò talmente che tentai di riproporla ai miei familiari, ripiegando naturalmente su casereccio burro di vacca. A me piacque molto, ma a loro no, e l’esperimento finì subito. Mi piacerebbe moltissimo rileggerla.
Nel 1959, il Dalai Lama fuggì in India, e il destino di quella nazione si compì: ciò che accade oggi è solo l’ennesima tappa di una lunghissima agonia. Avevo nove anni, vivevo in una famiglia colta, informata, laica, ‘di sinistra’, avevo libri e giornali a disposizione, ma ancora non sentii nulla sul Tibet, nemmeno negli anni successivi. Dieci anni dopo, scesi in strada anch’io, assieme a decine di migliaia di miei coetanei in tutto il mondo, agitando il Libretto Rosso, e inneggiando al Presidente Mao. Nei nostri Larari, il suo ritratto stava accanto a quello di Stalin. Non sapevamo nulla, non capivamo niente, ma ci era stata data una promessa, ci era stato promesso un sogno, e noi lo inseguivamo ciecamente, e spietatamente. Continuai a non sentir parlare del Tibet. O forse qualche notizia sì, ci arrivò, che la Cina l’aveva invaso, cacciando i monaci dai loro monasteri polverosi e portando il sol dell’avvenire tra le nebbie del feudalesimo teocratico. ‘Ben gli sta – commentavamo – a quei primitivi, così finalmente scoprono la civiltà’. Del resto, Robespierre non ha forse scritto che “bisogna rendere gli uomini felici anche contro la loro volontà”? La mia beata ignoranza continuò, parallelamente alla mia militanza a sinistra, fiero combattente del Progresso contro i cascami della Storia.
Nel 1997 uscirono due film, Sette anni in Tibet, di J-J. Annaud e Kundun, di M. Scorsese. Il primo non andammo nemmeno a vederlo (‘le avventure di un nazista in Tibet: perversione su perversione!’), il secondo sì, ma solo perché ci si vedeva il Presidente Mao, e naturalmente facendo il tifo per lui. Alcuni anni prima, avevo cominciato a fare una scoperta: che, a voler essere sincero con me stesso, tutto quel parlare di materialismo storico e scientifico non mi interessava minimamente, che mi annoiava a morte, e che quel che sempre più intensamente mi tormentava era il problema della ‘salvezza’. Cominciai ad interessarmi di antropologia religiosa, trovando in quegli studi un senso di liberazione mai provato prima. Incontrai anche il buddhismo, naturalmente, ma ancora una volta non lo associai al Tibet. Fino – ebbene sì – fino alla preparazione delle Olimpiadi, alla rivolta ed alla repressione, fino a questo ultimo grido di dolore che da quelle montagne martoriate si è levato verso il mondo, svegliando anche le coscienze addormentate come la mia. Non cerco giustificazioni.
Tuttavia mi domando: perché? Io credo – lo credo ancora, nonostante tutto – che un’organizzazione sociale di tipo comunistico possa essere profondamente umana e giusta: dando ad ognuno secondo i suoi bisogni, chiedendo ad ognuno secondo le sue capacità, prendendo dalla Natura solo ciò che effettivamente serve, impedendo violenza e sopraffazione dell’individuo sull’individuo. E quanti siano i punti di contatto tra questo visione del mondo e quella buddhista, ognuno lo può vedere da solo. Perché allora, è andata così? Perché è accaduto che una magnifica utopia si sia trasformata in una macchina di antiumana violenza? Ma soprattutto: perché nessuno mai ce l’ha mai detto? Perché nessuno ci ha mai detto la verità? Perché nessuno ci ha mai raccontato che dietro ai volti sorridenti che sfavillavano dalle pagine de La Cina stavano migliaia di monaci assassinati, di monache stuprate, cataste di saggezza bruciate? Perché nessuno ci ha mai spiegato che con tali orrori quell’utopia si stava suicidando, e stava distruggendo per le generazioni a venire la possibilità che qualcuno potesse ancora avere fiducia in essa? Perché? Cattivi Maestri, abbiamo avuto, sì, ma dello Spirito, non solo e non tanto della politica. Dei loro insegnamenti disonesti oggi paghiamo tutti le conseguenze, compresi i giovani senza più speranze e senza più sogni che dilapidano le loro esistenze in mille follie.

Giuliano Corà

 
La fiaba dell’omofobia PDF Stampa E-mail

di Matteo Simonetti

19 novembre 2009

Il decreto-legge Concia-Di Pietro, quello contro la cosiddetta omofobia, è stato bocciato. Forse non ce ne siamo resi conto del tutto ma noi, sostenitori di una visione del mondo tradizionale e antiprogressista, l’abbiamo scampata bella.
Partiamo dall’analisi della vicenda politica: il decreto legge intendeva apportare una modifica all’articolo 61 del codice penale, quello che stabilisce le aggravanti, col seguente emendamento: « l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la personalità individuale, contro la libertà personale e contro la libertà morale, commesso il fatto per finalità inerenti all’orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa dal reato». La maggioranza aveva tentennato e aveva deciso di chiedere il rinvio della legge in commissione per alcune modifiche, risolvendo l’ambiguità della definizione “orientamento sessuale”, ma anche in ottemperanza al trattato di Lisbona, secondo il quale si sarebbe dovuta aggiungere alla discriminazione sessuale, anche quella per l’età e lo stato di salute (hanno dimenticato la purezza dello stile deambulatorio, peccato). L’opposizione ha però votato contro il rinvio (suicidio o tentativo di golpe?) e al quel punto l’Udc ha presentato la “pregiudiziale di costituzionalità” per la contraddizione all’articolo 3 della costituzione, che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E’ ovvio infatti che se fosse stata approvata la legge, le persone omosessuali sarebbero state più tutelate degli eterosessuali. La legge è stata allora bocciata dalla maggioranza che ha votato compatta, con la solita eccezione ormai ridicola di una decina di finiani (gianfranchesi, ovviamente).
Questo il fatto, ma cosa sarebbe successo se fosse stata approvata? Prima di tutto che una violenza qualsiasi verso un eterosessuale sarebbe stata meno grave che quella verso un omosessuale, stabilendo di fatto un privilegio assurdo. Perché mai se una persona che picchia un uomo perché è bello, e ciò gli dà fastidio, dovrebbe essere condannato in maniera più leggera di un altro che ne picchia uno che sta avendo un rapporto sessuale con una capra? L’esempio non è casuale, infatti l’orientamento sessuale non esclude la zoofilia, che in Italia non è reato, e impedire a qualcuno la violenza su un animale (si tratterebbe comunque di violenza visto che una capra difficilmente può esprimere consenso) sarebbe un reato soggetto all’aggravante di cui stiamo discutendo, invece che un saggio atto di difesa della capra. Ma soprattutto è la definizione “libertà morale” che avrebbe potuto avere gravi effetti. Lasciamo la parola all’avvocato Claudio Vitelli: “il concetto di libertà morale, collegato all’orientamento sessuale è quanto di più vago si possa immaginare (e di volta in volta può essere tirato in ballo, nei reati contro la libertà morale di cui agli artt. art.610-612 cp, ma anche ad esempio in quelli di ingiuria e diffamazione), con la conseguenza che tutte o quasi le condotte dei soggetti tutelati, ove impedite o rese più difficoltose, possono rientrare nell’applicazione dell’aggravante de quo ad insindacabile giudizio del Magistrato di turno”.

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