Avviso Registrazioni

Scusandoci per l'inconveniente, informiamo i nuovi utenti i quali desiderino commentare gli articoli che la registrazione deve essere fatta tramite Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Login Form






Password dimenticata?
Nessun account? Registrati

Cerca


 
  SiteGround web hostingCredits
L’importante è funzionare PDF Stampa E-mail

12 ottobre 2009

Image

Uno dei tratti caratterizzanti il nostro tempo è il pullulare di movimenti, gruppi e associazioni che si lamentano e si indignano per lo scarso “funzionamento” di questo o quel settore della società. Le associazioni per il commercio equo e solidale si lamentano e si indignano che l’economia non funziona e che la ricchezza non è ben ridistribuita; le associazioni per i diritti umani che la giustizia non funziona, i malviventi restano impuniti e i diritti non vengono garantiti; le associazioni ambientaliste che il modello di sviluppo non funziona e che non se ne trova uno più ecocompatibile; le associazioni dei consumatori che il mercato non funziona e che i prezzi non sono controllati a dovere; le associazioni dei cittadini “attivi” che la sanità non funziona e i malati non vengono curati come si conviene; i comitati di zona che i trasporti non funzionano, le metropolitane sono sempre guaste e i treni sempre in ritardo; i comitati delle mamme di quartiere che le scuole non funzionano e rischiano di crollare in testa ai loro figli da un momento all’altro. Insomma, non funziona niente, non va bene niente.
Migliorare il funzionamento di questo e quello è così l’obiettivo di questo variegato mondo associazionista, la sua ragion d’essere, la sua missione. E si tratta proprio di una missione, visto che per questi gruppi pare non ci siano altri problemi, altri guai, al mondo d’oggi, che tale scarso funzionamento che investe la società nel suo complesso. Il nostro resta certamente “il migliore dei mondi possibili”, il mondo più “civile” che la storia abbia conosciuto, solo che non funziona bene; per molti aspetti, anzi, funziona malissimo; bisogna quindi farlo funzionare meglio. Loro ci sono per questo, ed è per questo che per tali gruppi stare all’opposizione, rappresentare un’alternativa, avere un pensiero non conforme si identificano con la loro opera, si riducono alla loro azione volta al miglior funzionamento, alla missione di cui si sentono, con grande orgoglio, i profeti.
A guardar bene, dietro ad un simile fenomeno, ad una simile ansia e fervore di miglioramento universale, si celano null’altro che l’esasperazione, l’estremizzazione della mentalità tecnomorfa, dell’ottica e della visione del mondo proprie dell’epoca della Tecnica, per cui l’unico problema che l’uomo e la società dovrebbero porsi sarebbe il continuo ed indefinito perfezionamento della “megamacchina”, la riproduzione fine a se stessa dell’ “organizzazione” perché divenga davvero “totale” e nessun ingranaggio risulti più fuori posto, funzioni male o approssimativamente. La presunta alternativa che tali gruppi rappresenterebbero rispetto alla realtà in cui si opera maschera in verità il costituire di tale realtà proprio l’avanguardia estrema, l’espressione massima e definitiva, quel “dominio” assoluto della Tecnica che di questa società, ovvero della società moderna, è il fondamento stesso. In essi vediamo in azione quegli “ultimi uomini” delineati dallo Zarathustra nietzscheiano, ultimi inconsapevoli apologeti di un mondo ormai al tramonto che essi si illudono di salvare portandone alle estreme conseguenze i presupposti, aggrappandosi alle sue manifestazioni terminali, quasi in un ultimo sussulto prima dell’implosione finale.
La Modernità non funziona? Ci pensiamo noi a farla funzionare meglio! – ecco il motto, ecco il vero volto della critica “funzionalista”. E perché la Modernità non funziona? Ma è chiaro: in giro ci sono ancora troppi mascalzoni, ancora troppi lestofanti, ancora troppi ignoranti, inesperti, oziosi, perdigiorno e fannulloni che di rigare dritto, di mettersi a lavorare sodo, di dare anima e corpo affinché la macchina funzioni a dovere, sia efficiente come dio comanda, proprio non ne vogliono sapere. Alla fine, ci sono ancora troppi residui di mentalità arcaica, retriva, “antimoderna”. In Italia poi… Il paese dei chiari di luna e dei mandolini, delle serenate e dell’arte di arrangiarsi… I modelli da imitare per i “funzionalisti” sono ben altri, sono la Svizzera , l’Olanda, i paesi scandinavi: là tutto funziona, la ricchezza è ben ridistribuita, i diritti sono garantiti, le case ecocompatibili, gli ospedali superattrezzati, le scuole sicure e i treni sempre in orario (che poi ci sia la più alta percentuale di suicidi per loro è un dettaglio: che ci vuoi fare, è il prezzo della modernità!). Per non parlare del Terzo Mondo: là la macchina in molte zone manco l’hanno ancora avviata! E allora vai con la costruzione di scuole, strade, ospedali: da far funzionare al più presto come e meglio che da noi! Anche questi negri, poi… Pensano solo a ballare e cantare…! Che si “civilizzino”! Perché il sogno dei “funzionalisti” è un mondo dove tutto sia al suo posto, tutto sia organizzato, pianificato, programmato: la macchina perfetta. Un mondo dove non ci sia più spazio per il caso, per l’imprevisto, quel caso e quell’imprevisto che soli rendono veramente affascinante ed intrigante la vita; dove siano messi al bando l’indefinito, l’indeterminato, quell’indefinito ed indeterminato che sono il presupposto stesso della libertà, della possibilità che ci sia ancora Storia; dove non ci sia più posto per la meraviglia ed il mistero, meraviglia e mistero che per Aristotele sono la condizione stessa del filosofare e per tutte le Tradizioni dell’aprirsi dell’uomo al Sacro.
Ma cosa vuoi che gliene importi ai “funzionalisti” di simili discorsi, di simili sogni di visionari e metafisici sempre con la testa tra le nuvole? Loro hanno ben altri problemi, problemi concreti, pratici, di sopravvivenza quotidiana a cui pensare! E per risolverli, a loro dire tutta la società, tutti i cittadini dovrebbero dedicare più tempo, anzi, tutto il loro tempo, tutta la loro vita a preoccuparsi, ad impegnarsi, ad ingegnarsi; tutto il mondo dovrebbe essere mobilitato in modo permanente per la “ricerca”, al fine di studiare e trovare le soluzioni migliori, i meccanismi più efficienti, perché tutto funzioni al meglio e, dopo, ancora meglio di prima e, dopo ancora, ancora meglio di prima ancora! Perché, per caso qualcuno vuole fermarsi, stravaccarsi al sole e godersi in santa pace quel poco che ci è dato da vivere? Ma non c’è limite al perfezionamento! Non c’è limite ai progressi della “ricerca”! La megamacchina esige il migliore dei funzionamenti possibili… E allora basta con questo dolce far niente! Non vogliamo mica tornare al Medioevo, ai tempi antichi, quando nessuno si preoccupava di far funzionare meglio le cose, quando nessuno si preoccupava di costruire ospedali, scuole, strade, quando nessuno si era accorto di stare male, di essere un becero ignorante, di metterci una settimana per andare da un posto all’altro… Nessuno si era accorto di avere i “diritti umani”! Ma dove stavano con la testa? Meno male che ora ci siamo svegliati, che ora, bene o male, tutto funziona. “Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre un ulteriore funzionare”… (Martin Heidegger)

Stefano Di Ludovico

 
Il mito del week end: lo sfogo degli schiavi PDF Stampa E-mail

8 ottobre 2009

Image

C’è una parola che, con anglofila e intrigante “verve”, si è insinuata nella coscienza comune del nostro paese, e che è diventata un pò una nuova religione: il weekend. Il fine settimana, per dirla alla casereccia, ha assurto, negli anni, a vero e proprio status symbol, con tutti i suoi derivati e connessi: happy hour, serate all’insegna del “divertimento” (leggesi sballo), frenesia anticipatoria da grande evento.
Al di la delle differenze prettamente “sociali” del fenomeno, che, in luogo di un “giorno di riposo” che era altresì un momento di socializzazione, in cui si cementavano i rapporti che già si intrattenevano durante la settimana (nel lavoro, nell’osteria o bar di paese, nelle scuole e via dicendo), è diventato ora un “esodo” in una delle mecche del divertimento, luoghi spersonalizzanti in cui l’individuo, solo tra soli, è riconfermato più che mai nel suo anonimato collettivo, nel suo essere numero, quello che ci interessa è la sensazione diffusa di una “febbre da weekend”.
La sensazione cioè che ci siano migliaia di persone che “vivono” per inebetirsi di aperitivi, di serate in discoteca, con gli annessi di alcool e droghe, e via dicendo. Questo fa pensare che, nella realtà, a pochissime persone piaccia la propria vita.
Se il weekend diviene un momento di “sballo”, di fuga dalla realtà collettiva, di “finzione collettiva”, in cui molte volte si simula una personalità e una persona (nel senso di maschera), che non si è durante il resto della settimana, se ci sono persone che “vivono” letteralmente per questi due giorni, ci rendiamo conto facilmente che vi è un “disagio del quotidiano”, che prima non era avvertito.
Strano, perché ci avevano sempre fatto credere, prima della paradisiaca epoca moderna, che ha eliminato i frustranti lavori nei campi e a contatto con la natura e di artigianato manuale, per sostituirli con la più razionale catena di montaggio, che la gente si ammazzasse di lavoro, che fossero tutti degli epigoni di schiavi, che non avevano altra ragion d’essere.
La realtà è che nell’epoca in cui il lavoro è divenuto il valore assoluto dell’esistenza, con i suoi corollari della carriera, dello stipendio e della “posizione”, non si è prodotto in realtà una libertà dal bisogno e una serenità, visto che molti lavori faticosi sono stati sostituiti dalle macchine, ma al contrario si è creato un senso più sottile, più penetrante, e strisciante di schiavitù: schiavitù non solo dei bisogni, che ora sono moltiplicati rispetto alle epoche precedenti (e totalmente inutili), ma anche una forma di alienazione e di insoddisfazione dello stile di vita che si è costretti a fare per “soddisfare” questa molteplicità di bisogni indotti.
E cosi la valvola di sfogo dell’operaio, dell’elettricista, della commessa, ma anche dell’impiegato, del laureato e del professionista, è divenuto il famigerato “weekend”, di cui vengono cantate le lodi in canzoni e programmi televisivi, come di un nuovo “giorno sacro”.
Ma in tutto questo agitarsi e delirare per un fine settimana che compensi delle squallide esistenze che la gente è costretta a vivere, in questo desiderio di fuga continua, di “non pensare”, di cercarsi e di cercare un senso all’interno dei “templi del divertimento”, noi vediamo l’evasione onirica di schiavi, che, nel buio delle loro celle, sognano una vita diversa.
L’ironia è che nemmeno nei loro “sogni”, propiziati dall’etilismo o dallo sballo chimico, essi si immaginano qualcosa di più che appartenenti ad una indefinita e convulsa moltitudine, che ama, desidera, ambisce e invidia, le stesse situazioni, gli stessi oggetti, gli stessi luoghi e le stesse persone.
Allo schiavo moderno manca anche in sogno, la capacità di elevarsi a singolo, ad unico, ad individuo in luogo di “massa”, di “popolo della notte”, di consumatore di divertimento, prefabbricato e standardizzato, che dovrebbe regalare le stesse sensazioni di euforia a buon mercato, a chi vive anestetizzato nell’illusione di essere “libero” perché lavora.

Fabio Mazza

 
Lotta al signoraggio: correggere la rotta PDF Stampa E-mail

5 ottobre 2009

Image

Ormai è chiaro, la battaglia per la sovranità monetaria è la causa più importante tra tutte le lotte politiche che ci è dato sostenere. Il meccanismo del signoraggio bancario, primario e secondario, affama i popoli più poveri e schiavizza quelli più ricchi, sia in senso letterale che metaforico.
Senza risolvere questo dramma, è perfettamente inutile spendersi in distinguo politici e partitici, in dibattiti su questa o quella legge particolare. Così come è oggi inutile votare o candidarsi, in questa plutocrazia mascherata che si finge democrazia e fa del voto l’alibi del proprio eternarsi.
La portata del fenomeno è tale che, risolto questo, ogni piano della nostra vita di cittadini e individui verrebbe innalzato su livelli che è difficile anche solo immaginare. Avremmo benefici non solo economici, conosceremmo cioè un benessere diverso da quello promulgato dal consumismo materialista; fatto di più tempo per noi e più spazio per la vita associata, senza l’assillo dell’insolvenza; i meccanismi finanziari che fomentano le guerre verrebbero ridimensionati, così come l’economia speculativa ridiverrebbe produttiva. Può darsi che il torbido dell’animo umano troverebbe presto un altro strumento per manifestarsi, è certo però che difficilmente sarebbe così ben congegnato come quello dell’appropriazione indebita della moneta.
Non starò qui a ricordare cosa sia il signoraggio. Vorrei invece riflettere sulla situazione odierna della lotta per sconfiggerlo, sui pericoli che incombono su di essa, così che sia possibile correre ai ripari e correggere la rotta.
A questo proposito viviamo un momento di stallo: il tema non riesce a raggiungere il grosso della popolazione. Della questione si parla già da diversi anni. Sono usciti autorevoli libri, se ne occupano vari siti internet e si tengono già da tempo delle conferenze. Ma, se da anni c’è gente che ci lavora, come mai non  si è raccolto ancora nulla? Il coinvolgimento emotivo, lo sdegno viscerale che la questione suscita in chi la conosce a fondo per la prima volta, può scomparire, affievolirsi ed annacquarsi con tanta facilità? No. Sta semplicemente succedendo quello che spesso succede con il pensiero: da scoperta, da forza esterna alla coscienza, capace di scuoterla e colpirla, si è trasformato in parte di essa. E’ stato hegelianamente introiettato e ora fa parte del tranquillo bagaglio culturale dell’individuo che lo possiede. Girando per l’Italia, ho constatato che si interessano del tema, i gruppi più eterogenei: fascisti nostalgici, naziskin inacculturati, comunisti no global, ipertradizionalisti cattolici, grillini virtuali e con loro pochi cani sciolti dai più svariati interessi e orientamenti, Al di là della validità e della preparazione sul tema dei singoli individui, nella maggior parte dei casi si tende a ricreare una appartenenza ad un’elite. Negli incontri infatti i “veterani” fanno a gara con quelli che reputano nuovi arrivati, per dimostrare che loro ne sanno di più di tutti sull’ultimo bilancio della Banca d’Italia, su Gesell, sullo Scec o sul Simec, sull’omicidio Kennedy o sulle lobby massoniche.
Per l’individuo, tutto si trasforma in pezzi di identità da mantenere, da sbandierare, con cui distinguersi. Ciò impedisce il dialogo costruttivo e, intrappolando la questione signoraggio ora in un’aura miracolistica e misticheggiante, ora in un semplice fatto di appartenenza partitica, ora in un’esperienza qualsiasi ma diversificante, si allontanano quelli che in tali vesti non si riconoscono.
Solo per fare un esempio, in occasione del terzo anniversario della morte di Giacinto Auriti, mi è capitato di partecipare ad una riunione di “Auritiani”, come loro si sono definiti, e di fare con loro il giro delle chiese e delle chiesette di un’intera provincia abruzzese, nonché di sentir raccontare un’infinità di aneddoti religiosi su “Don Giacinto” e di sentir dire che non può capire a fondo il tema del signoraggio chi non comprende “la realtà delle due eucaristie, quella divina e quella demonica”.
Quello che mi chiedo è se un motivo di lotta può essere frustrato tanto da diventare solo un irrinunciabile segno di identità o in rari casi piccola fonte di sostentamento.
Insomma, ritengo che bisogna sgomberare il campo da personalismi, appartenenze a conventicole e gruppuscoli, abbandonare, per lo meno all’inizio, approcci dogmatici e parziali. Non perché in essi non vi sia verità, anzi. Ad esempio nell’approccio cristiano-tradizionale c’è molto di vero e di sano e la lotta cattolica all’usura, come ho scritto in articoli precedenti parlando di San Bernardino, è un esempio importante da seguire. E’ solo che si rischia di allontanare chi in essa non si riconosce pur condividendo la sostanza della critica al signoraggio, che può avvenire per mille motivi: da quello puramente economico (maggior benessere per sé) a quello morale, da quello estetico (bruttezza  di ogni mascheramento del potere) a quello storico-politico (revanscismo post-bellico) e via dicendo.
Non è il momento di fare a gara sulla paternità della lotta, piuttosto occorre concentrarsi su pochi concetti da diffondere, la cui comprensibilità è sì ostica ma non così tanto come si crede.
Ci si deve chiedere piuttosto come mai, pur avendo raggiunto partiti politici, il signoraggio non abbia fatto breccia nel cuore e nel cervello della gente. Ne hanno parlato Storace, Buontempo, Tremonti, Ferrando, ne ha accennato Di Pietro e alcuni suoi uomini, e persino la Lega lo ha fatto proprio ma, è un dato di fatto, l’argomento non è “passato”.
E’ un problema strategico: impossibile raccogliere consensi intorno ad un partito del due per cento, solo perché questo propugna la lotta al signoraggio. Esso rimane un partito con una sua identità e la gente che le è estranea, pur essendo contro l’usura delle banche centrali, non andrà nemmeno ad informarsi su che cosa pensa quel partito in tema monetario. Occorre creare un partito apposito, con un unico punto programmatico: rinunciamo all’euro e lo Stato (non Bankitalia) stampi una sua moneta con su scritto “proprietà del portatore”, senza alcuna creazione di debito.
In realtà tale progetto lodevole sembrava essere partito ma sono passati già alcuni mesi dalla sua comparsa senza che ne sia sortito alcun fatto concreto.
Certo, si tratta di una battaglia difficilissima, disperata quasi, ma è l’unica soluzione. Lancio un’idea, senza preoccuparmi troppo delle strategie di realizzazione pratica: si faccia un’associazione con un rappresentante per provincia e si organizzino conferenze nei comuni, appoggiandosi alle altre associazioni culturali. Una volta conclusa l’opera d’informazione nei paesi si tirino le fila e si trasformi l’associazione in un movimento politico. Raccogliendo il sei-sette per cento si sarebbe forse in grado di entrare in una coalizione e di “forzare la mano” imponendo dal primo giorno la realizzazione dell’unico punto di programma.

Matteo Simonetti

 
Il genocidio degli Armeni PDF Stampa E-mail

di Giuliano Corà

3 ottobre 2009

Image

Uscirà in inverno l’ultimo romanzo di Gilbert Sinoué, Erevan, che sto traducendo in questi giorni: un’interessante e commossa ricostruzione del genocidio del popolo armeno perpetrato in Turchia negli anni 1915/1916 (Sullo stesso argomento consiglio di leggere anche il bellissimo romanzo di Franz Werfel “I quaranta giorni del Mussa Dagh”.). Di quell’evento mostruoso – non certo il primo, nella storia europea, ma di particolare interesse, perché per la prima volta si teorizzò in modo ‘moderno’ e scientifico la distruzione di un intero popolo e della sua cultura – oggi in Turchia è proibito parlare. Sepolto sotto una montagna di menzogne e falsificazioni storiche, il solo nominarlo viene considerato un attentato all’onore nazionale, e chiunque si azzardi a farlo viene, se gli va bene, esiliato o ridotto al silenzio, se gli va male, ‘rieducato’ con metodi molto più drastici.
Lascio alla penna di Sinoué raccontare di quei giorni atroci, ma, prima di dare appuntamento ai lettori in libreria, permettetemi una breve nota, le cui considerazioni di fondo troveranno anch’esse sviluppo nel romanzo. Sarebbe facile, di fronte a tanto orrore, attaccare incondizionatamente la Turchia, tacciandola di ‘barbarie’ ed ‘inciviltà’: quella stessa Turchia di cui gran parte dell’Europa ‘civile’ chiede con curiosa insistenza l’ingresso nella UE. Si può anche fare, per carità, è un punto di vista, ma forse è meglio lasciare questa xenofobia da marciapiede ai Borghezio e Calderoli che sono usi praticarla (anche se – questo sì, almeno! – l’ingresso della Turchia nella UE dovrebbe assolutamente essere subordinato al suo pubblico riconoscimento del genocidio). Così facendo, infatti, si rischia di dimenticare che quel genocidio fu – ovviamente! – responsabilità dei Turchi che lo commisero, ma solo, diciamo così, al 51%; per il 49% per cento esso pesò, e pesa tutt’ora, sulla coscienza delle potenze occidentali, che voltarono il capo dall’altra parte per non vedere, bramose, come scrive Sinoué, delle “succose concessioni e ricchi affari” che già avevano nell’Impero Ottomano e che speravano di aumentare ulteriormente. Oggi non è cambiato quasi niente, e dovremmo chiederci le ragioni di quell’insistenza, che ho definito curiosa ma che meglio sarebbe chiamare pelosa, con cui l’Europa ‘civile’ propugna la causa di quel Paese: forse il progetto di una Turchia come sicuro oleodotto del petrolio irakeno, e magari anche di quello iraniano, quando le bombe israeliane avranno compiuto il loro lavoro, senza dimenticare la sua funzione di bunker antirusso.
Nel frattempo, gli Armeni attendono ancora, non dico giustizia – sarebbe pretendere troppo, a questo punto! – ma almeno che si faccia il nome dell’assassino. Così, per la cronaca. Ad impedirlo, c’è una delle più vergognose ‘istituzioni’ delle ‘democrazie’ moderne: la ‘Ragion di Stato’, e tra le molte e disgustose ragioni che inducono gli esseri umani a commettere infamie, forse questa è proprio la più rivoltante. Innumerevoli sono gli esempi nella Storia, e ci vorrebbe ben altro che un articolino come questo per ricordarli. Tanto per dir qualcosa, così, a volo d’uccello, negli anni Trenta America ed Europa trescarono a lungo col Nazismo, prima di prender posizione: l’una pensando che potesse essere utile in funzione antisovietica, l’altra per autentica ‘sintonia’. A parte, infatti, il Fascismo italiano, forti furono le simpatie filonaziste in Francia e in Inghilterra, anche in alcuni membri della casa regnante (che del resto, non dimentichiamolo, era Hannover, e che già durante la Prima Guerra Mondiale aveva assunto il nome di Windsor proprio per non parer troppo imparentata col nemico). Riguardo all’America, quando si decise ad intervenire in Europa non fu tanto perché commossa dalle sofferenze degli Europei sotto il giogo della croce uncinata, quanto, molto più ‘banalmente’ e ‘realisticamente’, perché i suoi analisti militari avevano ormai capito che il Reich avrebbe perso la guerra, e che non intervenire avrebbe significato ritrovarsi, alla fine del confitto, con un’Unione Sovietica in posizione di strapotere, immensamente più forte di quella che comunque riuscì a conquistarsi. E perché – una domanda questa cui non si è mai data risposta – gli Americani, subito dopo l’inizio dell’intervento, non mandarono le fortezze volanti a bombardare i Lager, di cui conoscevano perfettamente l’esistenza? Avrebbero fatto qualche migliaio di morti tra gli Ebrei, ma ne avrebbero salvato milioni. C’è chi attribuisce la spiegazione ad un latente antisemitismo americano, ma – a proposito appunto di ragion di stato – che chi dice che quei bombardamenti avrebbero fornito un grosso vantaggio militare ai Sovietici, il cui fronte era relativamente vicino alla Germania, mentre quello americano era ancora molto lontano, e con una montagna di ostacoli frammezzo.

 

Leggi tutto...
 
L'alternativa della democrazia diretta PDF Stampa E-mail

1 ottobre 2009

Image

La democrazia rappresentativa basata su elezioni tenute a scadenze periodiche e sulla competizione fra partiti mostra tutti i suoi limiti. L’esigenza di compiacere l’elettorato impedisce di adottare, o procrastina, misure necessarie ma impopolari. Gli elettori sono chiamati a scegliere candidati che non conoscono, nominati dai partiti e presentati nei vari collegi e circoscrizioni solo per i calcoli e le convenienze degli apparati, persone su cui i cittadini non avranno più alcun controllo una volta che siano state elette.
Il suffragio universale deprime la qualità del voto esaltando la quantità: il voto di una persona colta che segue le vicende politiche ed è ben informata sul funzionamento delle istituzioni vale esattamente quanto quello di un semianalfabeta ignorante di tutto ciò che non sia il suo interesse immediato: pura assurdità e somma ingiustizia.
Per queste e altre motivazioni il Manifesto di MZ avanza la richiesta di una democrazia diretta che sostituisca quella rappresentativa. Un Manifesto di princìpi generali però non è ancora un programma politico. Quando si esce dalla petizione di principio ci si scontra con le difficoltà di definire modalità e procedure di una democrazia diretta.
Parlando di democrazia diretta, viene spontaneo pensare a processi decisionali espressi dall’Assemblea dei cittadini. Chi ha abbastanza anni da ricordare l’assemblearismo sessantottino sa come funzionino in concreto le cose. L’Assemblea non fa altro che ratificare ciò che una minoranza ben organizzata aveva già deciso prima della sua convocazione. I capetti si alternano al microfono e vince il demagogo che spara gli slogan di più sicuro effetto. L’assemblearismo è una parodia della democrazia. Anche se l’Assemblea dei cittadini fosse la soluzione, ci si imbatterebbe nella difficoltà insormontabile di far funzionare i processi decisionali di tipo assembleare in realtà politiche ben più complesse di una comunità di paese o di villaggio. A questo proposito non è di aiuto rifarsi alle polis greche o ai Comuni medievali. In quelle realtà, comunque molto più ristrette delle nostre società, erano esclusi dal diritto di parola e di voto le donne, i servi e i salariati, cioè più dell’80% della popolazione. Quanto detto sopra sulle contraddizioni del suffragio universale infatti non può giustificare oggi l’esclusione aprioristica di gran parte della popolazione con una discriminazione classista o sessista.
Più pertinente appare il modello della Svizzera. In quella Repubblica l’istituto del referendum è largamente e sistematicamente praticato. Si può andare oltre quel modello, ipotizzando un sistema in cui il referendum, ben più incisivo di quello previsto dalla Costituzione italiana perché propositivo e non solo abrogativo, nonché senza lo sbarramento del quorum, sia la pratica normale con cui si prendono tutte le decisioni che interessano la comunità. Dovrebbe essere consuetudine e legge far decidere al popolo con consultazioni frequentissime. Sarebbe una pratica che implica costi e una macchina organizzativa complessa, ma diventando prassi della vita quotidiana sarebbe presto assimilabile nel costume della comunità.
Questa pratica renderebbe obsoleti i partiti intesi come organismi permanenti e strutturati. Ogni quesito referendario vedrebbe coagularsi interessi e orientamenti ideali, che si scioglierebbero immediatamente in un’occasione successiva, nella quale si configurerebbero altri schieramenti. Gli elettori sarebbero informati attraverso la rete elettronica, le emittenti radio-televisive, la stampa, i manifesti e i giornali murali. Le leggi e il costume, sempre decisivo e più importante dei regolamenti scritti, dovrebbero instillare nelle menti l’idea che il voto è un diritto ma non un dovere: chi non è interessato e si sa disinformato deve sentire come suo dovere civico di non votare. Il certificato elettorale non dovrebbe essere spedito in tutte le case ma dovrebbe essere ritirato negli appositi uffici dai cittadini interessati alla consultazione. Così si limiterebbe drasticamente il numero dei votanti solo zavorra, non per preclusioni imposte ma per autoriduzione: si potrebbe almeno in parte ovviare all’inconveniente gravissimo dell’uguale peso dato al voto consapevole e a quello dettato dall’ignoranza o dall’impulso momentaneo.
Come in tutte le cose umane, nemmeno un sistema come quello qui sommariamente abbozzato darebbe garanzie assolute. Resterebbero rischi di manipolazioni demagogiche e di degenerazione burocratica. Al vertice della piramide di questo Stato nuovo articolato sulle comunità locali e sulla democrazia diretta dovrebbe esserci pur sempre la figura del Garante del corretto funzionamento istituzionale: Presidente della Repubblica, Monarca, o Consiglio dei Custodi, secondo quanto decideranno le circostanze storiche e la volontà dei popoli.

Luciano Fuschini

 
I fatti e gli ideali PDF Stampa E-mail


28 settembre 2009

I fatti, prima di tutto. Un fatto è che in Italia il mercato editoriale non è un mercato libero: è un oligopolio di potentati economici e finanziari intrecciati fra di loro, che se si fanno la guerra se la fanno lasciandone fuori chiunque non sia del loro comune giro. Sulla Voce del Ribelle ho dato conto di chi sono i padroni dell'informazione italiana: sette grandi gruppi (Rcs Mediagroup, Mediaset-Mondadori, Gruppo L’Espresso, Gruppo Il Sole 24 Ore, Gruppo Riffeser, Gruppo Caltagirone, Telecom Italia Media) fra i quali sta tentanto di infilarsi anche il magnate internazionale Murdoch con Sky, e in mezzo ai quali, negli interstizi, restano le briciole per i media locali. Di questa compagnia di industriali, palazzinari, banchieri e finanzieri, Silvio Berlusconi è il primus inter pares. La sola differenza, ma rilevante, è che ha unito nella sua persona potere invisibile (economico) e potere visibile (politico). Ha scoperto le carte sbattendo in faccia il conflitto d'interessi al popolo italiano, che non se ne cura e lo vota lo stesso.
Un fatto è che se il giornalismo è asservito agli interessi di questi editori tutt'altro che puri perchè immischiati in mille settori dell'economia e della finanza, il problema di essere messi a conoscenza di tutte le notizie utili per non farsi infinocchiare è una questione strutturale. Attiene alla proprietà dei mezzi di comunicazione in quanto tale, che dovrebbe non tanto assoggettarsi al criterio liberale della concorrenza e della pluralità, quanto alla prassi dell'editoria pura. Cioè: chi possiede un giornale, una tv, una radio, non deve poter occuparsi di nient'altro. Deve fare l'editore e basta. Il suo solo cliente e referente dev'essere il lettore.
Un fatto è che ci propinano il non fatto di una stampa divisa fra nobili ideali di destra e nobili ideali di sinistra. Di nobile c'è poco. Quel che davvero c'è lo vediamo ogni giorno coi ciclici "casi" fatti scoppiare da una banda contro l'altra. I repubblichini di Repubblica che montano una campagna su due querele del premier, invitando tutti i firmaioli del mondo a sottoscrivere un appello per la libertà d'informazione (che secondo loro s'indentifica nelle sue pagine e nelle sue domande), contro i giornalai del Giornale che usano lo stessa sistema di pescare nel torbido per far fuori giornalisti per niente scomodi - Boffo, una mezza figura - e magari ridurre a più miti consigli una Chiesa felicissima di ricontrattare i patti coi palazzi d'oltretevere.
Un fatto è che se dovessi immaginare una testata giornalistica che possa dirsi "libera", la descriverei come un'orchestra di voci dissonanti in cui più stecche si fanno sul coro e meglio è. E il coro esegue lo spartito sempre uguale dei totem e dei tabù del sistema. Un totem, per esempio, è dare per buono e intoccabile che esista un signore, tal Mario Draghi a capo della privata Banca d'Italia, che tiene in ostaggio la vita del nostro paese facendo la guardia al signoraggio monetario, oggi in formato euro. Un tabù è non parlare mai, dico mai, dei simpatici ritrovi di multimiliardari, generaloni e speculatori noti come Bildenberg Group e Commissione Trilaterale, ai cui preziosi consigli (leggi: ordini) si abbevera quel sant'uomo di Barack Obama.
Un altro fatto è che, per un giornalista (quale il sottoscritto prova ad essere), scrivere in totale liberà di coscienza è impossibile. Ci si deve adattare al meglio delle possibilità date. Ciò che va tenuto fermo, sempre e comunque, è il proprio diritto-dovere di mandare in stampa solo ciò che si vede e si pensa, e per il resto, umanamente, si fa quel che si può. Anche se si è zeristi.
Pochi giorni fa è nato un giornale, il Fatto Quotidiano, in cui si sono accasati quei revenants di sinistra che non trovano più spazio nell'editoria legata al Pd (La Repubblica, L'Unità) o abbarbicata sul comunismo di strada (Il Manifesto). Ma anche qui, ci sono fatti che non possono essere ignorati. E' un fatto che il Fatto abbia alle spalle una casa libraria (Chiarelettere), il suo direttore Antonio Padellaro e il vero dominus  dell'iniziativa, Marco Travaglio (che di sinistra per la verità non è, e che ha il pregio-difetto di imbastire tutto il suo modo di raccontare la realtà attorno alla discriminante giudiziaria). Nessun costruttore, titolare di cliniche, casa automobilistica, banca d'affari o raider di borsa - e nessun presidente del consiglio o aspirante tale. Tra l'altro, esistono penne indipendenti la cui firma campeggia su organi posseduti da costoro: un Franco Cardini, ad esempio, sulla Nazione e sul Tempo. Montanelli aveva come editore del suo Giornale lo stesso Berlusconi. Giulietto Chiesa, che pure ha un passato di ben sistemato inviato-apparatchick del Partito Comunista, si è dovuto creare un piccolo circuito (sito internet, rivista e web-tv) per non dover elemosinare un pezzo ogni tanto sulla Stampa o sui quotidiani EPolis. Ma, tornando alla novità del Fatto, un ultimo fatto è che, pur essendo la linea quella del mondo girotondino e radical-chic (Colombo, Flores d'Arcais, etc), c'è una salutare apertura a punti di vista che a quel mondo non appartengono (il nostro Fini, Telese, Beha). Secondo quel principio di coesistenza dei diversi che, come dicevo, è già garanzia di una sufficiente libertà. Sufficiente, non completa. Non ideale. Ma i fatti, purtroppo o no, non sono mai come li vorremmo.

Alessio Mannino 

 
<< Inizio < Prec. 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 Pross. > Fine >>

Risultati 3281 - 3296 di 3744