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I rischi del "legalitarismo" PDF Stampa E-mail

29 giugno 2009

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Da diversi anni in Italia si sente molto spesso denunciare i misfatti di chi -politico o rappresentante delle istituzioni- infrange le leggi e non tiene un comportamento politico dignitoso. Da qui, una sempre maggiore insistenza da parte di certe persone per l'adozione di una "cultura della legalità" per scongiurare il rischio dell'emergere prepotente della corruzione o peggio ancora del crimine organizzato. A prima vista una tale denuncia non è criticabile: un comportamento probo e corretto si adatta ad ogni orientamento ed ideologia, ed anche noi -in linea di principio- non abbiamo nulla da dire su chi porta a galla certi comportamenti che richiedono solo una condanna totale e senza appello.
Ma nel caso delle tendenze emerse negli ultimi anni le cose stanno un po' diversamente. Innanzitutto le parole tradiscono le intenzioni. Il termine "cultura della legalità" tanto per cominciare è estremamente ambiguo. Entrambe le parole -"cultura" e "legalità"- sono pericolose in questo contesto. Innanzitutto non sarebbe da menzionare la legalità, e neppure la correttezza -che suona formale ma superficiale- quanto semmai l'onestà e l'integrità. Queste parole invece, inspiegabilmente non vengono mai menzionate dai cavalieri della legalità, della democrazia e della libertà.
Legalità significa obbedire alla legge. Ma obbedire alla legge non significa necessariamente essere onesto, probo o integro. Si può seguire la legge ed essere dei criminali. Le leggi spesso sono lì per questo, per costituire l'autostrada a chi vuole delinquere in tutta sicurezza. I politici sono molto spesso laureati in Legge e quindi conoscono la materia molto bene.
Seguire la legge è un fatto empirico. E' il punto di partenza, non il punto di arrivo. Lo si deve fare tutti per vivere, spesso solo perchè non si ha altra scelta. La cosa dovrebbe finire lì. E invece quando la legalità addirittura si richiede diventi una "cultura", un comportamento quasi sacrale, che ispira reverenza e timore, allora o c'è puzza di bruciato o c'è odore di imbecillità. Perchè è troppo evidente che il legalitario, chi si appoggia alle leggi non solo per vivere ma per moralizzare, per condannare e per reprimere, spesso ha la coscienza sporca.
La legalità la si fa rispettare dall'esterno, non dall'interno: la coscienza umana deve rispondere a ben altre leggi che non a quelle della semplice condiscendenza verso i legislatori! O forse c'è qualcuno che avrebbe tutto l'interesse a fare diventare gli uomini dei perfetti legalitari, ossia degli obbedienti, dei passivi. E' evidente che l'uomo onesto e integro darebbe molto più fastidio del passivo e sorridente legalitario che se lo fa mettere in quel posto consenziente, con tanto di ringraziamento. Perchè l'uomo integro, consapevolmente tale, si può ribellare al potere. Il legalitario no.
Spesso la legalità viene addirittura confusa con il concetto di "giustizia". Ma mentre la giustizia appartiene a una dimensione che prescinde dal mero rispetto della legge per elevarsi a una visione etica dell'uomo in rapporto alla società -dal concetto di giustizia deriva la giurisprudenza, che è la base ideale o ideologica approntata dai giuristi, da cui scaturiscono le leggi- la legalità riguarda l'esecuzione e il rispetto della legge: rappresenta quindi la fase finale, l'atto non ideale ma pratico. Come per l'onestà, è significativo osservare come il termine "giustizia" oggi sia stato dimenticato: la giustizia, come l'onestà, è un concetto elevato e -soprattutto- che può essere interpretato da diversi punti di vista. In effetti, uomini educati a un concetto di giustizia potrebbero anche dare fastidio, invece educati alla legalità no. Diventano docili come pecore.
Questa tanto osannata "cultura della legalità" molti intellettuali conformisti e falsi contro-informatori vorrebbero insegnarla persino a scuola, inculcandola nelle menti fresche dei bambini perchè da adulti possano diventare dei perfetti consumatori ed elettori globalizzati con tanto di certificazione a norma dell'unione europea. Perchè i legalitari sono quelli che se non metti la cintura di sicurezza alla guida della tua auto per la tua personale sicurezza, ti tacciano di inciviltà. Se invece rispetti le regole, ma sei un rischio per la vita di altre persone (per continuare l'esempio, chi compie sorpassi azzardati entro i limiti di velocità, rischiando di fare una strage) sei a posto. L'etica e l'integrità sono ben altra cosa, ma queste si guardano bene dall'insegnarle.
Ma c'è un altro aspetto della moda legalitaria che sta impazzando nel Belpaese da Tangentopoli in poi. E' quello di utilizzare la correttezza formale verso la legge o una facile morale come schermo, come paravento per nefandezze ben peggiori, al cui confronto il pagamento di una tangente è un furto di caramelle.
La legalità è spesso il modo per screditare gli avversari. Lo sanno bene i media americani che per una storia di corna fanno cadere un Presidente scomodo. Per questo quando magnati della finanza e dell'informazione d'oltreoceano, tramite i loro giornali, fanno la morale alla politica di una nazione europea per quattro tangenti (come l'Italia per esempio), c'è da drizzare le antenne. Il sistema mediatico americano protegge e nasconde ben altro.
Il Fondo Monetario Internazionale per esempio ha fatto fallire l'Argentina, ha portato sull'orlo del tracollo il Messico, il Brasile, la Russia, la Malaysia ecc, è coinvolto nella rovina di milioni di famiglie, nella povertà mondiale e nella fame, è implicato pesantemente nella crisi economica globale, eppure questo non costituisce scandalo per nessun giornale. E -cosa assai più grave- neppure per molti sostenitori della legalità. Se invece una carica istituzionale è implicata in affari di piccole tangenti sì.
E' quindi chiaro che il presupposto affinchè un discorso sul rispetto della legge sia accettabile, è che sia inquadrato dentro valori tali da portare ad affrontare temi ben più ampi e scomodi della legalità e della corruzione. Ma se una persona riduce la sua critica al mero rispetto della legge e alle tangenti, allora questo è ciò che vuole veramente il Sistema e i suoi aguzzini per trionfare. Tale specie di legalitari sono i veri difensori del Sistema.

Massimiliano Viviani

 
Modernità del paganesimo PDF Stampa E-mail

26 giugno 2009

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L’edificio monocratico impastato dalle due sovversioni storiche, il Cristianesimo e il Giacobinismo, si sta sgretolando davanti agli occhi del mondo in un caos senza nome. Quello che doveva essere il suo capolavoro, cioè la globalizzazione e l’imposizione universale dell’obitorio egualitarista, anziché il finale trionfo della dissoluzione cosmopolita, come nei sogni di tutti i traditori del genere umano, potrebbe impercettibilmente trasformarsi nel suo contrario: la rinascita delle tradizioni di stirpe. Lenta ma inesorabile. C’è da giurarci che ci sarà, prima o poi, un momento in cui i sovvertitori verranno a loro volta sovvertiti dai veri rivoluzionari, cioè da coloro che intendono ricostruire l’Origine con mezzi attuali e armi moderne: i neo-pagani.
Essi sono i politeisti, i pluralisti, gli anti-globalisti, i relativisti, i comunitaristi e i sostenitori delle nuove patrie nazionali. Sono quelli che alla monocrazia liberale, progressista, neo-giacobina e neo-cristiana oppongono il differenzialismo dei popoli, il particolarismo delle culture etniche (tra cui, ovviamente e in primis, quelle europee) e la tradizione popolare come unico e potente antidoto al dominio dell’internazionale degli usurai e dei “moralizzatori”.
Ciò che è pensiero debole, pacifismo, buonismo, orrore eunuco per lo spirito di lotta, diffidenza per il conflitto, paura della gioia del sacrifico e odio per tutti i momenti più adrenalitici della vita, ciò che è rinuncia, colpa, espiazione, e al tempo stesso, rapina di anime e di ricchezze, può essere abbattuto soltanto da una forza maggiore e contraria: l’istinto pagano di potenza individuale e comunitaria.
La guerra giacobino-vaticana alla nobiltà dell’uomo differenziato è una guerra al multiforme nel nome dell’omologato. E’ la guerra dello schiavista all’uomo libero, all’uomo di rango. La costante insidia di demolizione portata ai popoli dai catto-liberal-progressisti è un odio inconfessato per l’uomo qual è, nel desiderio di trasformarlo in un animale supino e impotente, belante buoni sentimenti ma avido di sfruttamento e corroso dalla voglia d’usura.
E più il cristianesimo si sfalda, più il suo codice moralistico chandalico si rafforza; più il disegno post-comunista si nega identificandosi nel liberismo, più il sogno messianico puritano-bolscevico si realizza. La globalizzazione è davvero la realizzazione di tutte le notti insonni dei cosmopoliti e dei malati di universalismo, gli intolleranti e i violenti con la vocina pretesca tipica dell’ingannatore.
La globalizzazione mercantile e finanziaria è la realizzazione della bolscevizzazione universale promessa agli uomini, come una maledizione biblica, da tutti i riformatori del genere umano, da tutti quei criminali febbricitanti di un amore che, a occhi rivoluzionari e quindi tradizionalisti, è sempre somigliato sinistramente a un odio dilagante e a una smania etnocida di “guarire” e “rieducare” il genere umano con le buone o con le cattive.
Ma la globalizzazione neo-cristiana e vetero-bolscevica vuole sempre e ancora di più e di più, fino a svellere i popoli e le etnìe dalla faccia della Terra. Massacri programmati, pulizie etniche guidate dai finanzieri, stermini tribali eterodiretti: ancora un passo e saremo alla finale resa dei conti fra snazionalizzati apatridi che hanno il potere e comunità popolari, che con gli istinti difendono la vita.
Dove finisce l’individualismo libertario, lì inizia davvero la volontà di vita. L’asfissiante predica sui “diritti” è il miglior argomento a favore dei totalitarismi dell’Utopia gestiti dal prete universale: puritano, cristiano, ebraico, giacobino o liberale che sia. In realtà, non di diritti “umani” e “universali” si sente il bisogno, ma di saperci vedere da vicino.

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L’equivoco “migliorista” PDF Stampa E-mail

24 giugno 2009

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“La Storia era stata piena di uomini ‘col sole in fronte’ che avevano chiesto e sparso lacrime e sangue. E il risultato quale era stato, alla fine? Quello che aveva davanti agli occhi: un mondo più desolato di tutti quelli che lo avevano preceduto. I grandi profeti, filantropi dell’umanità, non avevano provocato che catastrofi. Tutte le volte che l’uomo si era mosso alla ricerca della felicità aveva finito per perderne anche quel poco che aveva”. Così medita Matteo, il protagonista dell’ultimo libro – e primo romanzo – di Massimo Fini, Il Dio Thoth. E così meditiamo noi, gli antimoderni. Anche lui, come noi, vorrebbe cambiare il mondo, suonare di nuovo la sveglia della rivolta, perché “era, forse, un ribelle, un insofferente, ma non si sentiva affatto un rivoluzionario”. Ma cambiare il mondo per che cosa? Quale sarebbe stata la sua “rivolta”? Perché quando si vuol cambiare il mondo, suonare la sveglia della rivolta, gli equivoci sono sempre dietro l’angolo. E oggi che le vecchie casacche, i vecchi slogan, le vecchie contrapposizioni sembrano svanire, dissolversi, e un nuovo trasversalismo, nuove convergenze sembrano incrociare i destini dei ribelli, degli insofferenti, dei rivoluzionari d’ogni parte ed arte, gli equivoci appaiono ancor più incombenti.
Matteo guarda avanti, vorrebbe lasciarsi alle spalle questo mondo dove gli uomini, nell’assurdo intento di eliminare la sofferenza, hanno finito per diventare “automi, atoni, soggetti passivi, indifferenti e acquietati” ad una realtà sempre più contraffatta, artificiale, virtuale. Ma allora il superamento vuole essere altresì un “ritorno”, ritorno a ciò che l’uomo è sempre stato, in ogni epoca e civiltà, prima che “la razionalità della tecnica ne aveva snervato, indebolito, annullato il carattere, gli istinti, la vitalità, mentre la ricerca della conoscenza aveva, alla fine, ucciso la conoscenza”. Si tratta di riaffermare l’uomo, appunto col suo carattere, i suoi istinti, la sua vitalità, e quindi col suo corpo, la sua anima, il suo spirito, contro l’automa anestetizzato che è diventato, mero ingranaggio dell’orrida megamacchina tecnocratica da lui stesso edificata. La rivolta del ribelle è un andare avanti per recuperare ciò che è andato perduto, e di cui la New Era, quella in cui Matteo vive, pretende di cancellare anche il ricordo. E di fronte alle grida di rivolta che da più parti si levano contro un mondo sempre più insensato, l’equivoco è quello di essere confusi con chi quel mondo vuole sì cambiarlo, ma, in fin dei conti, per farlo funzionare meglio, per renderlo più efficiente, per realizzarne appieno quelle premesse e quegli ideali che, per molti aspetti, giacciono ancora allo stato latente. Per portare a compimento quel disegno che il mondo moderno, il mondo della New Era, dice di aver realizzato ma che ai loro occhi risulta ancora privilegio di pochi. Essere confusi con chi utopista, moralista, umanitarista, ambientalista, per ciò stesso vuole ancora più progresso, ancora più benessere, ancora più diritti, felicità e sviluppo per tutti. Con chi, in poche parole, vuole “migliorare” ancora il mondo.
Ma noi ribelli, noi antimoderni, come Matteo, non vogliamo migliorare il mondo. Noi vogliamo “peggiorarlo”. Perché noi siamo quelli che si stava meglio quando si stava peggio. Perché il progetto di migliorare il mondo è stato il progetto della modernità.

“Il mondo è stato rovinato da quelli che hanno voluto cambiarlo” (Alain De Benoist).

Stefano Di Ludovico

 
La sindrome da "Truman Show" PDF Stampa E-mail

22 giugno 2009

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Il modello di vita occidentale -che nella visione dell'uomo comune moderno rappresenta il punto di arrivo di tutti gli stili di vita possibili- ha dentro di sè una componente onirica perversa. Questo mondo "da favola" che ne viene fuori contribuisce a rafforzare quella "prigione" senza pareti che l'uomo moderno si è costruito e nella quale si trova rinchiuso senza saperlo. E dalla quale evidentemente non può uscire, in condizioni normali.
Una recente notizia di cronaca è molto eloquente. Secondo un'inchiesta del sito di notizie hollywoodiano The Wrap, infatti, almeno undici persone convolte nei reality in varie parti del mondo si sono già suicidate. Altre due ci hanno provato, ma forse ce ne sono altre. Sono persone di varia estrazione sociale, uomini e donne che in qualche modo sono rimaste deluse dalle enormi aspettative dei reality.
Le motivazioni sono le più varie: chi è stato escluso, chi sperava di ottenere un successo che invece non è arrivato ed è ricascato nell'anonimato, chi viene colpito dai direttori col pelo sullo stomaco dei giornali spazzatura....Queste le più note, le più ovvie.
Ma ce ne sono anche altre di più insolite, che incutono tristezza e anche rabbia: chi partecipando a un format di nome "Cambio moglie" -non sappiamo esattamente di cosa si tratti ma non facciamo fatica ad intuirlo- aveva perso la donna e il lavoro, e si è lasciato morire tra alcol e farmaci. Oppure casi di pentimento, tra l'aberrante e il patetico, di gente convinta a fare e a dire cose che in condizioni normali non si sarebbe mai sognata, magari anche in buona fede. Una donna brutta infatti aveva deciso di partecipare a "Extreme Makeover", programma americano che promette bellezza ai brutti tramite la chirurgia plastica: la sorella di costei era stata convinta dai produttori a dire cose orrende sull'aspetto della partecipante: quando questa è stata esclusa -a quel punto non c'erano più nemmeno i presunti consolanti vantaggi della fama o dei soldi, rimaneva solo il rimorso terribile di avere umiliato la sorella in televisione- ha preso una dose fatale di pillole e alcol e si è uccisa.
Sono morti squallide, tristi, penose, che non hanno niente di nobile, di vero, di vivo. Solo la voglia di uscire da un tetro anonimato abbagliati da un mondo scintillante che è solo il riflesso della nostra angoscia. Nessun valore, nessuna rinuncia, nessun nobile ideale. Nemmeno in chi muore nella foresta, colpito da infarto nelle Filippine cercando di sopravvivere da solo nell'edizione bulgara di Survivor. E' il caso più recente, tre settimane fa. Ma anche qui niente di vero, di vivo. C'è sempre lo squallore e il fetore dell'ipermercato e del parco dei divertimenti, anche se si è migliaia di chilomentri lontano.
Questi sono i casi estremi, i più evidenti. Eppure di loro si preferisce tacere, o si parla distrattamente. Ma altri casi ancora più nascosti gemono di disperazione, anche se non sono giunti fino al gesto estremo. Recente e popolare è il caso della crisi emotiva di Susan Boyle, la quarantottenne "cantante fenomeno" scozzese arrivata seconda a Britain's Got Talent ma diventata "instant celebrity" mondiale e crollata psicologicamente all'apice del suo breve ed effimero successo. Altri, disillusi, faticheranno a riprendersi, altri forse non si riprenderanno mai più.
In ogni caso possiamo anche solo limitarci ai casi estremi di suicidio: sono tanti, tantissimi se paragonati alla popolazione di riferimento, cioè di coloro che hanno partecipato ai reality show in tutto il mondo. Enormemente superiori alla media statistica mondiale: all'incirca 10 suicidi su 100.000 nei Paesi ricchi, 10 su 500.000 in quelli più poveri. I partecipanti ai reality in tutto il mondo sono tanti, ma certamente molto meno di 100.000. La tendenza al suicidio che ne viene fuori è altissima. E segue la vertiginosa tendenza all'aumento che hanno avuto i suicidi negli ultimi secoli (per es. la stima di Massimo Fini è che essa sia decuplicata dal 1600 ad oggi!).
Il problema quindi non sono tanto i reality show in sè: i decerebrati che vogliono affogarsi nell'illusione perpetua e a buon mercato possono anche buttare via la propria vita. Entro certi limiti però. Perchè costoro -per quanto in minoranza- rappresentano il "nocciolo duro" della società moderna e "democratica". Tali fenomeni dilagano per la forza e la coesione di chi li sostiene, anche se sono relativamente pochi. Poi si diffondono a macchia d'olio presso coloro che non hanno la sensibilità per capire e la forza di opporvisi. Così condizionano l'intera società, fino a colpire gli innocenti e coloro che non hanno chiesto nulla.
La "sindrome da Truman Show", come la chiamano gli "esperti" che si occupano in ritardo di cose ovvie e facilmente intuibili, non è oramai limitata al solo mondo dei reality nè a quello dello spettacolo. Dilaga ovunque, da Youtube a Secondlife, dalla pubblicità ai prodotti finiti, dalle riviste all'arte, dalla musica alla letteratura. E' tutto il mondo che sta diventando un colossale reality.
Ora infatti non si può parlare più di "reale", nel senso di vero, vivo, umano. Il mediato, il controllato, l'indiretto, il fasullo è entrato nelle nostre teste a partire dai nostri stessi desideri, da quello che vogliamo fare e vogliamo essere, sicchè uscire da soli da questi circoli viziosi suona come chi volesse uscire da una palude tirandosi da solo su per un braccio.
Il piacere, il lucchichìo, la perfezione, il possesso...nel lavoro, nel sesso, nell'amore, nel divertimento, in ogni atto della nostra vita quotidiana, hanno raggiunto dimensioni tali che rinunciare alle loro lusinghe sembra impresa colossale, mentre per un uomo di altra epoca sarebbe bastata un'alzata di spalle. Oggi per noi uomini moderni, civili, evoluti -appartenenti alla civiltà che consideriamo modello e fine ultimo di ogni civiltà umana- è impresa che occupa un'intera vita.

Massimiliano Viviani

 

 
Elezioni iraniane: dall’Occidente il solito déjà vu PDF Stampa E-mail

19 giugno 2009

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Di fronte alle elezioni iraniane, assistiamo al solito déjà vù da parte dell’Occidente: poiché ha vinto Ahmadinejad, ovvero la nostra novella bestia nera, reo soltanto, come già Milosevic e Saddam, di voler portare avanti per il suo paese una politica estera sganciata dagli interessi occidentali, si dà per scontato che le elezioni siano state truccate e che in realtà il vero vincitore sia Moussavi, che ha l’unico merito di essere fautore, evidentemente, di una politica più allineata ed accomodante nei nostri confronti.
Ovviamente nessuno – i nostri politici come i nostri media, ché basta dare un’occhiata ai circuiti d’informazione mediorentali per una lettura del tutto diversa degli eventi – si è ancora degnato di spiegarci per davvero in cosa sono consistiti questi presunti trucchi, dove e come sarebbero avvenuti gli eventuali brogli e che consistenza hanno avuto, senza contare il fatto che secondo i dati ufficiali Ahmadinejad avrebbe conseguito un vantaggio su Moussavi di oltre il 30%, quindi non si capisce come la scoperta di eventuali brogli potrebbe ribaltare l’esito della consultazione.
E così, se Ahmadinejad, denunciando le evidenti interferenze occidentali in ciò che sta avvenendo nel suo paese, per le nostre cancellerie - e circo mediatico al seguito - delira e rivela il suo vero volto di dittatore sprezzante dei valori democratici, Moussavi, lamentando le presunte interferenze nello svolgimento delle elezioni di forze ostili alla democrazia, è invece un sant’uomo e la verità non può che stare dalla sua parte. E se centinaia di migliaia di manifestanti scendono in piazza a Teheran in favore di Moussavi, è segno della maturità democratica del popolo iraniano; se altrettanti ne scendono in piazza per Ahmadinejad, è segno che la presa del potere da parte dei mullah è ancora forte: i primi sono il fior fiore della gioventù iraniana con la voglia di Occidente; i secondi vecchi rottami khomeinisti manovrati e prezzolati dal regime.
E a raccontarci il tutto, qui da noi, sono soprattutto schiere di sedicenti “esuli” che, mobilitati come spesso in queste occasioni dal circo di cui sopra, dai loro esili dorati in Occidente si abbandonano a fantasmagoriche ricostruzioni di ciò che sta accadendo in queste ore in un paese nel quale non mettono piede da decenni.
Dunque, nulla di nuovo sul fronte occidentale. Sappiamo, del resto, come l’Occidente intende la democrazia, soprattutto quella di “esportazione”: se vincono quelli che la pensano come noi, i nostri amici, in poche parole i nostri lacchè, evviva la democrazia; se vincono quelli che la pensano diversamente, quelli che se ne vogliono andare per la propria strada, quelli che dei nostri “valori” non gliene importa un accidente perché stanno bene coi loro, allora ci sono stati brogli, allora il popolo non è ancora maturo per la democrazia; allora forse è meglio rinviare tutto e mandare un po’ di truppe e cooperanti vari ad educarli e portarli a più miti consigli.
In Algeria, nel 1991, di fronte alla clamorosa vittoria del Fronte Islamico di Salvezza nelle elezioni parlamentari, l’esercito, spalleggiato dall’Occidente, pensò bene di attuare un colpo di stato a cui seguì una sanguinosissima guerra civile che in sette anni ha fatto circa 150.000 morti. In Egitto, dopo l’inaspettato successo dei Fratelli Musulmani nelle elezioni del 2005, il nostro amico Mubarak ha deciso di sospendere il processo di “democratizzazione” in atto nel paese, annullando le tornate elettorali successive e mettendo fuori legge i movimenti islamisti. Gaza, da quando Hamas ha assunto il controllo della situazione dopo la vittoria elettorale del 2006, è strangolata da un durissimo embargo economico messo in atto dall’Occidente; Occidente che di Hamas non riconosce il legittimo governo riconoscendo invece quello parallelo creato in Cisgiordania da Al Fatah che quelle elezioni aveva perso. E in Turchia, da quarant’anni a questa parte, non si contano i colpi di stato dell’esercito – il custode dei valori “laici” e “occidentali” – ogni qualvolta un partito di ispirazione islamica vince le elezioni e sale del tutto legittimamente al governo. Insomma, visti i precedenti, Ahmadinejad sembra essere solo il prossimo malcapitato di turno: come si è permesso di vincere lui? Come si è permesso di disattendere il verdetto del popolo… pardon, volevamo dire dell’Occidente?

Auguri, Presidente Ahmadinejad: ne avrà bisogno. E congratulazioni per la vittoria.

Stefano Di Ludovico

 
 
Congedo PDF Stampa E-mail
17 giugno 2009
 
 
"Fare informazione per creare un nuovo pensiero, adatto a tempi in cui la Ribellione al teatrino Destra/Sinistra e ai suoi pupari, la finta democrazia e il Dio Mercato, è diventato un imperativo morale ancora prima che politico. La bellezza e il valore di questa piccola voce corsara è identica a quella del Movimento di cui sarà il libero organo di dibattito: contribuire ciascuno in prima persona a svegliare il subconscio collettivo dall’ipnosi “lavora, consuma, crepa”. Ricominciamo dalle idee e dai fatti che nessun altro vi dà. A questo serve MZ, il Giornale del Ribelle".
Così scrivevamo ai primi vagiti di questo blog, nell'estate di due anni fa. Sono stati due anni intellettualmente molto intensi, per chi scrive e, sono sicuro, anche per chi legge - i nostri venticinque lettori. Un arco di tempo nel quale, per stare sulle generali, si è parlato di politica come facciata imbonitrice dell'industrialismo finanziario, dell'economia come moderna schiavitù, dell'informazione come meccanismo di controllo mentale di massa. Sì è gettata luce sulla grande truffa del signoraggio bancario internazionale, ultima battaglia, in ordine di tempo, di Movimento Zero. Si è prospettata la decrescita come esigenza esistenziale e politica in alternativa al modello di sviluppo che ha generato la crisi di cui siamo tutti vittime (sottoscritto compreso, che non ha difficoltà a dire pubblicamente che si dibatte fra gli assilli della sopravvivenza economica, come tanti, come troppi). Si è data voce all'arcipelago, vastissimo e disperso, di individui, associazioni, movimenti giunti alla consapevolezza che non ce la facciamo più a reggere la frustrazione, le umilianti sottomissioni e la nevrosi di massa a cui l'attuale sistema di vita ci ha costretto e assuefatto.
Ho cercato, coi limiti della giovane età e del bagaglio culturale in fieri, di dare spazio alle idee, anche molto diverse quando non contrastanti fra loro, che circolano dentro il movimento fondato nel 2005 da Massimo Fini. I confronti, le discussioni, gli scontri, spesso aspri e a fil di spada, hanno fatto crescere il bambino, che oggi è un po' più adulto e conscio delle proprie eccellenze (l'assoluta unicità ed elevatezza di pensiero nel panorama anticonformista italiano, in gran parte povero di ampi orizzonti ideali - un pensiero forte basato sul Manifesto dell'Antimodernità) e delle proprie debolezze (riassumibili in una: essere troppo avanti nella critica, troppo radicali per un presente immaturo, non ancora pronto a scavare e sovvertire i valori della modernità, che poi sono i non-valori del denaro, del lavoro, della globalizzazione, della disumanizzazione mediatica).
Da parte mia, ho cercato di fare, di questo organo on-line di Movimento Zero, il podio, aperto a tutti coloro che ne condividono la sensibilità, per fare informazione. Profonda, non di superficie. Contraria alla disinformatjia di regime, perciò sana controinformazione. Ancorata saldamente ai principi dell'antimodernismo, da me interpretato in chiave attuale, combattente, di rivolta.
Ci sono in parte riuscito e in parte no. Ecco perchè oggi lascio l'incarico (e con me l'amico e collega Marco Milioni): perchè l'indirizzo che d'ora in poi avrà questo blog punterà maggiormente ad approfondire gli aspetti di fondo di questa modernità che noi, stragiustamente, odiamo. Io sono solo un giornalista, e come tale è corretto che ad una impostazione non più - non più soltanto - giornalistica sovrintenda chi coltiva un'inclinazione più adatta. Massimiliano Viviani, zerista della prima ora che mi succederà affiancato da Stefano Di Ludovico (bentornato!), è l'uomo giusto al posto giusto. Gli faccio i miei migliori auguri. Tanto sa, come lo sapete voi, che non si libererà facilmente dei miei articoli.

Alessio Mannino
 
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