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Bobby Sands PDF Stampa E-mail
5 maggio 2009
 
 
Il 5 Maggio 1981 moriva, dopo 66 giorni di digiuno dimostrativo, il patriota irlandese Bobby Sands, membro dell’IRA, l’esercito repubblicano d’Irlanda, organizzazione indipendentista combattente e cattolica. Insieme a suoi nove compagni aveva giurato di non nutrirsi fino a che il governo britannico non li avesse riconosciuti, insieme a tutti i combattenti imprigionati, quali prigionieri politici, mentre trascorrevano la detenzione nei famigerati “H Block” della prigione di Long Kesh.
La tradizionale protervia inglese, incarnata dalla spietata intransigenza del premier Margaret Thatcher, impose la linea dura. Nessuna sollecitazione politica ed umanitaria fu sufficiente a rimuovere lo status dei prigionieri: per lo Stato dovevano rimanere dei semplici criminali. Questa protesta fu il tentativo estremo di ottenere un riconoscimento che, implicitamente, conteneva  l’ammissione dell’esistenza di una “questione irlandese”, che il governo conservatore inglese non voleva in nessun modo riconoscere. Fin dal 1976 l'IRA aveva organizzato delle proteste clamorose nelle carceri. La prima fu quella “delle coperte": i prigionieri si tolsero le divise e rimasero per anni completamente nudi, coprendosi soltanto con una coperta a testa. Successivamente proseguirono con "la protesta sporca". Spalmarono le feci nelle celle e fecero scorrere le urine sotto le cancellate. Questo perchè, con sempre maggior violenza, i prigionieri venivano picchiati dalle guardie carcerarie durante il tragitto da percorrere per recarsi ai bagni. La terza protesta fu l’astensione dal cibo, che incominciò nel 1980 e fu interrotta poco dopo su invito del governo britannico, che promise cambiamenti nel regime carcerario; cambiamenti che ovviamente non ci furono. Riprese quindi la seconda astensione da cibo, con Bobby Sands responsabile dell’IRA nella prigione di Long Cash, che rifiutò di alimentarsi a partire dal primo di Marzo del 1981. Durante lo sciopero, un deputato membro del parlamento britannico, un repubblicano irlandese indipendente, morì e così si tennero delle elezioni per sostituirlo. Bobby Sands venne candidato con intenti propagandistici e vinse le elezioni del 9 aprile. A questo punto, sommando la slealtà alla violenza, il governo Tatcher si inventò una legge con effetto retroattivo che impediva a dei detenuti di presentarsi alle elezioni, disponendo che fossero necessari almeno cinque anni dalla fine della pena prima che un cittadino potesse essere eletto. Questo indegno arbitrio significò la condanna a morte di Bobby Sands, seguita nei mesi successivi da quella dei suoi nove compagni.
La morte di Sands, frutto della spietata politica inglese, giovò alla causa irlandese per il clamore della vicenda. Ricordo le proteste sotto il consolato britannico, le assemblee al liceo, ed i manifesti che portavano la foto del suo viso gentile e sorridente, avvolto nei lunghi capelli ramati. Nulla poté il disonore inglese contro l’invincibilità del sacrificio, sancito dalle sue parole: “Io difendo il diritto divino della nazione irlandese all'indipendenza sovrana, e credo in essa, così come credo nel diritto di ogni uomo e donna irlandese a difendere questo diritto con la rivoluzione armata”. Riposa in pace nel tuo paradiso di eroi irlandesi, comandante Bobby Sands, con al fianco i tuoi compagni di sacrificio. Noi oggi commemoriamo ed onoriamo il tuo nobile gesto di uomo indomito, ricordandoti come esempio di fede e coraggio estremo: vincitori in terra o vincitori in Cielo.

Marco Francesco De Marco
 
Iran, una diversa civiltà giuridica PDF Stampa E-mail
5 maggio 2009
 
 
La notizia dell’impiccagione di una ragazza di 23 anni non può che suscitare una reazione di dolore e indignazione. Tuttavia bisogna sempre evitare che l'emotività offuschi la ragione.
I fatti sono questi: una ragazza iraniana che all’epoca del delitto aveva 17 anni, età nella quale per le leggi di quel Paese una donna è già maggiorenne, è stata giudicata colpevole di omicidio e condannata a morte. L’insistenza con cui i nostri media sottolineano che era pittrice è irrilevante sia sul piano umano sia su quello giuridico. Se fosse stata una sguattera i termini della questione sarebbero invariati. Qui si discute non il dolore per l’esecuzione della sentenza ma le accuse di inciviltà e di barbarie che vengono rivolte all’Iran.
Nell’esercizio della giustizia la barbarie è la vendetta privata. I parenti e gli amici della vittima provvedono a vendicarsi sui colpevoli innescando una spirale potenzialmente infinita di ritorsioni. Per uscire da questa prassi primitiva e selvaggia, si è affermato il principio secondo cui la vendetta viene esercitata non dai privati ma dalla comunità, attraverso la legge. Questa è la forma basilare di civiltà giuridica, che non esclude dunque il concetto di vendetta (la legge del taglione codificata anche dalla Bibbia) ma ne attribuisce l’esecuzione alla comunità, allo Stato.
Il cristianesimo ha raccomandato il perdono ma non ha proposto alternative di diritto positivo. Invece con l’Illuminismo si è affermata in Occidente una concezione del diritto per cui la pena è finalizzata alla rieducazione del colpevole. Si tratta di un’altra forma di civiltà giuridica, che a nessun titolo può accusare di barbarie chi segue l’altra logica. Questo sarebbe colonialismo culturale.
Nell’Iran islamista vige la legge coranica, che ha saldi fondamenti giuridici e non è affatto barbara. Secondo questo diritto la pena deve essere proporzionata al danno subìto, quindi l’omicidio deve essere punito con la morte. Gli unici che possono concedere la grazia sono i parenti della vittima, con una semplice dichiarazione in cui affermano di perdonare il colpevole, accogliendo così una raccomandazione divina (“Allah preferisce il perdono”). Nel caso specifico i parenti della vittima hanno rifiutato il denaro come risarcimento e hanno negato il perdono. Il tribunale ha confermato il giudizio di colpevolezza e la legge è stata applicata. Dura, spietata, ma non barbara né incivile, non peggiore del nostro orientamento permissivo ma semplicemente diversa.
Non sarà che queste campagne sono alimentate ad arte per preparare il terreno a una resa dei conti con l’Iran?  Proprio in questi giorni la Clinton, ministro degli esteri di Messia Obama, ha lamentato che Cina e Iran stanno instaurando buoni rapporti con molti Paesi dell’America latina. Non basta accusare l’Iran di terrorismo, ora diventa una colpa anche avere buoni  rapporti economici e politici con alcuni governi. Allora la sorte di una povera giovane può servire alla campagna di demonizzazione del nemico.

Luciano Fuschini

 
La rivoluzione prossima ventura PDF Stampa E-mail
30 aprile 2009
 
 
Fra i venti capi di Stato o premier che hanno partecipato al summit di Londra mi pare che solo Silvio Berlusconi, battute e gaffe a parte, abbia dimostrato di aver percepito, col suo intuitaccio che oserei definire animale, il pericolo. A rischio non è solo il sistema economico mondiale, a rischio sono anche le leadership che lo guidano. E poco importa che alcuni leader, come Obama che è appena arrivato all’onor del mondo, non siano personalmente responsabili della crisi. Anche Luigi XVI pagò gli errori di Luigi XIV, il Re Sole.
La gravissima responsabilità delle leadership dei Paesi industrializzati è aver continuato a puntare su un modello di sviluppo basato sulle crescite esponenziali che non poteva durare all’infinito. Di aver puntato, illudendo le proprie popolazioni, su un futuro orgiastico che non si è mai realizzato, che anzi si è man mano allontanato. Ora questo sistema è arrivato al suo limite e questo futuro non esiste più. L’errore dei leader oggi è di perseverare sulla vecchia strada. Cosa sono questi trilioni di dollari che si stanno immettendo nel sistema? Sono il tentativo disperato di drogare ulteriormente il cavallo sfinito sperando che riesca a fare ancora qualche passo. È denaro inesistente. Altrimenti non si capisce perché non lo abbiano usato prima. È denaro tossico non diversamente dai «titoli tossici», gli hedge fund, perché come questi scommette su un futuro iperbolico, su un futuro che non c’è. L’inevitabile che ci aspetta è la decrescita. Ma sarebbe bene che fossimo noi a governarla, guardandola, invece di aspettare supinamente il collasso finale, che sarà quasi istantaneo. Sono due secoli e mezzo, dall’inizio della Rivoluzione industriale, che avviò l’attuale modello di sviluppo, che noi stiamo accumulando denaro, cioè futuro, ma adesso la pellicola è quasi alla fine.
E proprio come la pellicola di un film ci mette un certo tempo a svolgersi ma arrivata alla conclusione si riavvolge quasi fulmineamente, così accadrà al nostro modello di sviluppo se le leadership non cominceranno a riavvolgere loro la pellicola prima che arrivi alla fine, ma si affideranno agli automatismi del meccanismo o, peggio, faran di tutto, come stan facendo, per accelerarlo, accelerandone così la fine. Se ciò dovesse accadere queste leadership e le stesse democrazie verrebbero spazzate via. Le democrazie sono nate su bagni di sangue perché le aristrocrazie che per diversi secoli avevano garantito alle proprie popolazioni certi equilibri non erano più in grado di farlo. Quando centinaia di milioni di persone inurbate si accorgeranno che non possono mangiare l’asfalto della città faranno fare alle leadership democratiche la stessa fine che queste riservarono a quelle aristocratiche.

Massimo Fini

da Il Giorno
 
La bandiera di Montanelli PDF Stampa E-mail
30 aprile 2009
 
 
Nel centenario della nascita di Indro Montanelli, con giusta ragione, tanti sono stati i ricordi e le celebrazioni dedicate all’illustre giornalista. La destra italiana, liberale e conservatrice, deve molto a Montanelli, che a lungo fu il suo più qualificato baluardo intellettuale e giornalistico, contrapposto per decenni alle debordanti sinistre degli anni di piombo con coraggio ed ostinazione. Complice lo sprezzante e polemico distacco avvenuto da Berlusconi e la concomitanza con l’attuale questione “censura”, anche la sinistra che Montanelli tanto avversò, oggi lo celebra, con comprensibile opportunismo ma poca coerenza, come un componente del proprio Pantheon. Tanta ecumenica celebrazione non credo lo avrebbe trovato contento, visto che in vita preferì sempre il confronto serrato, fino allo scontro, alle facili condivisioni. Montanelli ebbe tante qualità, e molti insopportabili difetti, come tutte le grandissime personalità. Non sarò io a ricordare le une e gli altri, peraltro noti a tutti, non avendo alcun titolo al riguardo. Mi soffermerò sulla definizione di “uomo libero” per eccellenza, evocata in questo periodo, che non condivido, e spiegherò perchè. Montanelli fu fascista fin dalla adolescenza, in maniera totale e viscerale. Fu un fascista ideologico, culturale, non un cittadino sostenitore del Governo o del Regime. Il suo distacco con l’idea fascista non avvenne per l’articolo sulla Guerra di Spagna o per quello “disfattista” su Panorama. E’ vero che fu espulso dal Partito, ma è anche vero che fu protetto fino al 1943 da Bottai, ministro fascista. Come molti italiani non ebbe il coraggio di presentarsi alla resa dei conti bellica con l’orgoglio dell’appartenenza ed il coraggio della scelta difficile e soccombente. Questa non è la mia opinione, ma è quanto lui stesso scrisse di quel periodo della sua vita. Nel 1955, in un articolo intitolato “Proibito ai minori di anni 40”, pubblicato su “il Borghese” edito da Leo Longanesi, Montanelli scrive: "Credevo di essere diventato antifascista, ma non era vero, ero soltanto un fascista strano e stanco, anticipavo di qualche anno l'Italia di oggi, smaliziata e utilitaria, degli italiani che non credono più. Entrai nella compagnia dei grandi scettici. Mai più mi sentirò come mi sentii allora, accanto a Berto (Ricci, n.d.r.), parte di qualcosa e compagno di qualcuno, voglio dire che mai mi ero sentito e mai mi sentirò giovane come in quegli anni e non solo perché ne avessi venti. Io sono fra i rassegnati, so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l'unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai prima che cadesse. Ora che le commissioni di epurazioni non ci sono più, e quindi più non siamo obbligati a mentire per le solite ragioni di famiglia, forse è venuto il momento di rendere giustizia ai nostri venti anni e di riconoscere che essi furono migliori dei quaranta, e di dare ragione a chi morendo l’ebbe. Fummo giovani soltanto allora, amici miei". Commuove la cosciente ed impietosa autocritica e lo struggente ricordo della gioventù, ideale oltre che anagrafica, ed il pensiero di Berto Ricci, che Montanelli stimò come pochi e che ricambiò sempre il suo affetto, senza però apprezzare le sue scelte: “Indro Montanelli avrebbe dovuto essere con noi. Non c'è perché gli piacciono i luccichii, gli piace vivere nella culla di quella grassa borghesia lombarda che gli dice “quanto sei bravo”. Farne l’uomo libero per eccellenza, anche alla luce del suo giudizio su sé stesso, appare una forzatura che sminuisce i suoi reali meriti e le sue indubbie qualità. Altri furono, in quel fratricida e tragico contesto, gli uomini liberi e gli eroi, dell’una e dell’altra parte, che “morendo ebbero ragione”, ma tra questi non vi fu certo il Grande, per altri meriti, Indro Montanelli. La realtà, alcune volte, è più bella, delicata e commovente della retorica.               

Marco Francesco De Marco
 
25 aprile/3 PDF Stampa E-mail
di Luciano Fuschini

25 aprile 2009
 

 
Una mitologia da rivedere

Ormai la tiritera sulla Resistenza e i suoi prodotti, la Repubblica Democratica e la Costituzione, è sempre più stanca e rituale. Questa ricorrenza potrebbe essere utilizzata più proficuamente riflettendo sui miti fondanti.
Un mito è un racconto di eventi straordinari, con un fondamento di verità storica ma amplificato e distorto, a differenza della leggenda che è solo costruzione fantastica. Il mito è fondante quando in esso si concentrano ideali in cui si riconosce una comunità. I miti fondanti nascono da forti emozioni collettive che segnano nel profondo il sentire comune. Quando un mito fondante perde il suo vigore, ne consegue un vuoto che deve essere colmato al più presto, pena la decadenza.
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25 aprile/2 PDF Stampa E-mail
di Alessio Mannino
 
25 aprile 2009
 

 
Basta con l'archeologia dei morti

Diciamolo subito a scanso di equivoci: chi vomita l’accusa di “fascista” addosso al mal capitato che osi mettere in dubbio la santificazione del 25 aprile è lui, un fascista. Perché è vero, c’è ancora qualche reduce di Salò che a ottant’anni suonati difende la memoria sua e dei suoi camerati che volevano darci in pasto ai nazisti. C’è sì la spocchia degli ex missini La Russa, Gasparri e colonnelli vari, pervasi dalla voglia di rivincita sugli anni di segregazione imposta loro dal ghetto dell’arco costituzionale. Esiste pure un revival del Duce buonanima, delle opere del Regime e della minimizzazione di errori e orrori del Ventennio (basta andare in edicola e fra allegati ai giornali di destra e calendari col Capoccione a volte pare di essere a Predappio). E il revisionismo storico, per altro sacrosanto e foriero di polemiche grottesche (la storiografia in quanto tale deve essere revisionista), è certo diventato una moda editoriale su cui i Pansa e i Battista fanno fior di quattrini. Ma detto questo, l’intoccabilità talmudica con cui questa ricorrenza viene ammantata è fuori dalla Storia.
Non tanto, o non solo, perché la Resistenza si macchiò di episodi più delinquenziali che resistenziali: in guerra, e a maggior ragione in una guerra civile come fu quella combattuta nel ’43-45, il sangue innocente viene versato da entrambi i lati. E fatto salvo l’onore di quei fascisti che combatterono in buona fede per un’idea distorta di Patria, non c’è dubbio che il lato giusto era quello di chi si rifugiava sulle montagne contro l’invasore tedesco - monarchici, cattolici, comunisti o azionisti che fossero. Il vero difetto della necrofilia venticinqueaprilesca è un altro, e attiene alle conseguenze di quella fatidica data. Questo: perpetuare il mito fondante di una Repubblica che andrebbe smitizzata per intero e, ridotta com’è ad una gigantesca presa in giro degli stessi valori sui quali proclama di fondarsi, scardinata. A partire dalle fondamenta.
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