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La crisi? Un piano diabolico PDF Stampa E-mail
15 dicembre 2008
 

 
La chiamano crisi, facendo credere che assomigli ad un evento naturale, seppur tragico, tipo il terremoto. E’ grave, porta con sé tragedie immani, ma con c’è un colpevole. Alcuni provano a motivare, sostenendo che le “meraviglie” del capitalismo devono pagarsi con periodici pedaggi. Falso, tutto falso. La tragedia alla quale assistiamo in realtà è un piano diabolico ed infame, ordito da banchieri e tecnocrati con la complicità della classe politica e degli “organi di garanzia” di quella favoletta per bambini chiamata democrazia: il parlamento, la magistratura, la “libera” stampa. Questo è un attentato alla serenità familiare ed individuale. E’ la crisi del popolo basso, della piccola e media borghesia, degli imprenditori e dei commercianti. Ci aspettano milioni di licenziamenti, fallimenti, protesti, pignoramenti, sequestri di danaro su conti correnti, ai danni di milioni di cittadini, quasi tutti con reddito fino a 30,000 euro o piccoli imprenditori. Una tragedia immane che già è in atto e che procede sotto silenzio, perché il Regime Bancario, che controlla tutti i Media (altro che Berlusconi), così vuole. L’enorme massa monetaria virtuale (le banconote oggi sono il 7 per cento del “danaro” circolante) che il sistema bancario ha creato, deve essere contratta e questo può avvenire solo con nuovi assetti sociali e finanziari. Le Banche Centrali e le altre istituzioni finanziarie internazionali hanno pianificato ormai da anni un’operazione di riforma degli scenari economici. Hanno acquisito risorse speculando sul petrolio e quindi sull’energia, sulle leve finanziarie, sui rialzi dei tassi, a danno di imprese che hanno avuto maggiori costi di materie prime e servizi finanziari, degli Stati che hanno avuto minori introiti fiscali per la contrazione dei consumi, dai soggetti privati che hanno visto aumentare in maniera abnorme i costi di energia  trasporti e soprattutto delle rate del mutuo aumentate dalle Banche Centrali senza motivo, ovvero con l’obbiettivo di rastrellare danaro a tutta forza. Queste categorie si trovano impoverite, inadatte a sostenere i precedenti consumi ed anche di far fronte ai pagamenti per sostenere la propria esistenza senza fare ulteriori debiti. Nel 2008 circa 120 mila famiglie hanno lasciato la casa che non riuscivano più a pagare perché la rata del mutuo non era più alla loro portata. A Milano nel 2008 le procedure per sfratto sono aumentate del 25% rispetto al 2007. L’aria di disperazione che oramai riguarda larghi strati della popolazione è causata da una spietata e pianificata operazione di usura e di esproprio di massa ordita dal sistema bancario, cioè le Banche Centrali possedute dalle Banche Private. La subalternità del sistema politico ha permesso che questo piano criminale, da perseguire quale associazione a delinquere finalizzata all’usura, oltre che per altre decine di reati, venisse operata con l’avallo di tutti gli schieramenti politici, che, ridicolo nel tragico, hanno parlato per settimane di aiuti da fornire alle banche, quelle stesse banche che nel 2007 hanno realizzato un attivo di oltre 26000 miliardi di euro. E c’è chi in questo momento di tragedia e disperazione, invece di informare la popolazione, sobillare, creare le condizioni per una ribellione, ci parla della Gelmini, della riforma costituzionale di Berlusconi, della commissione di vigilanza Rai ed altre “amenità” simili. Sono traditori, ignoranti, a libro paga del Sistema o pavidi. O forse semplicemente “non si occupano di economia”. Chiamala economia!    

Marco Francesco De Marco
 
Appello Fini-Travaglio PDF Stampa E-mail
12 dicembre 2008
 
 
 
Con l’annuncio di Silvio Berlusconi di voler cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza si è giunti al culmine di un’escalation, iniziata tre lustri fa, che porta dritto e di filato a una dittatura di un solo uomo che farebbe invidia a un generale birmano. Da un punto di vista formale la cosa è legittima. La nostra Carta prevede, all’articolo 138, i meccanismi per modificare le norme costituzionali. Ma farlo a colpi di maggioranza lede i fondamenti stessi della liberal-democrazia che è un sistema nato per tutelare innanzitutto le minoranze (la maggioranza si tutela già da sola) e che, come ricordava Stuart Mill, uno dei padri nobili di questo sistema, deve porre dei limiti al consenso popolare. Altrimenti col potere assoluto del consenso popolare si potrebbe decidere, legittimamente dal punto di vista formale, che tutti quelli che si chiamano Bianchi vanno fucilati. Ma la Costituzione non ha abolito la pena di morte? Che importa? Si cambia la Costituzione. Col consenso popolare. Elementare Watson. Senza contare che a noi la Costituzione del 1948 va bene così, e non si vede un solo motivo per stravolgerla (altra cosa è qualche ritocco sporadico per aggiornarla).Com’è possibile che in una democrazia si sia giunti a questo punto? Non fermando Berlusconi sul bagnasciuga, permettendogli, passo dopo passo, illiberalità e illegalità sempre più gravi. Prima il duopolio Rai-Fininvest (poi Mediaset) che è il contrario di un assetto liberal-liberista perché ammazza la concorrenza e in un settore, quello dei media televisivi, che è uno dei gangli vitali di ogni moderna liberaldemocrazia. Poi un colossale conflitto di interessi che si espande dal comparto televisivo a quello editoriale, immobiliare, finanziario, assicurativo e arriva fino al calcio. Quindi le leggi “ad personas”, per salvare gli amici dalle inchieste giudiziarie, “ad personam” per salvare se stesso, il “lodo Alfano”, che ledono un altro dei capisaldi della liberaldemocrazia: l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Infine una capillare, costante e devastante campagna di delegittimazione della Magistratura non solo per metterle la mordacchia (che è uno degli obbiettivi, ma non l’unico e nemmeno il principale della cosiddetta riforma costituzionale), ma per instaurare un regime a doppio diritto: impunità sostanziale per “lorsignori”, “tolleranza zero”, senza garanzia alcuna, per i reati di strada, che sono quelli commessi dai poveracci. Presidente del Consiglio, padrone assoluto del Parlamento e di quei fantocci che sono i presidenti delle due Camere, padrone assoluto del centro-destra, se si eccettua, forse, la Lega, padrone di tre quarti del sistema televisivo, con un Capo dello Stato che assomiglia molto a un Re travicello, Silvio Berlusconi è ormai il padrone assoluto del Paese e si sente, ed è, autorizzato a tutto. Recentemente ha avuto la protervia di accusare le reti televisive nazionali, che pur controlla nella stragrande maggioranza (oggi, in presenza del suo inquietante annuncio, si sono occupate soprattutto della neve), di “insultarlo”, di “denigrarlo”, di essere “disfattiste” (bruttissima parola di fascistica memoria), di parlare troppo della crisi economica e quasi quasi di esserne la causa (mentre lui, il genio dell’economia, non si era accorto, nemmeno dopo il crollo dei “subprime” americani, dell’enorme bolla speculativa in circolazione). Poi, non contento, ha intimidito i direttori della Stampa e del Corriere (che peraltro se lo meritano perché in questi anni i due giornali hanno avallato, con troppi silenzi e qualche adesione, tutte le illegalità del berlusconismo) affermando che devono “cambiare mestiere”.Questa escalation berlusconiana ci spiega la genesi del fascismo. Che si affermò non in forza dei fascisti ma per l’opportunismo, la viltà, la complicità (o semplicemente per non aver capito quanto stava succedendo) di tutti coloro che, senza essere fascisti, si adeguarono. Ma sarebbe ingeneroso paragonare il berlusconismo al fascismo. Ingeneroso per il fascismo. Che aveva perlomeno in testa un’idea, per quanto tragica, di Stato e di Nazione. Mentre nella testa di Berlusconi c’è solo il suo comico e tragico superego, frammisto ai suoi loschi interessi di bottega. Una democrazia che non rispetta i suoi presupposti non è più una democrazia. Una democrazia che non rispetta le sue regole fondamentali non può essere rispettata. E a questo punto perchè mai il cittadino comune dovrebbe rispettarla  invece di mettersi “alla pari” col Presidente del Consiglio? “A brigante, brigante e mezzo” diceva Sandro Pertini quando lottava contro il totalitarismo. O per finirla in modo più colto: “Se tutto è assurdo”, grida Ivan Karamazov “tutto è permesso”.

Massimo Fini
 
Marco Travaglio
 
Necrofilia catodica PDF Stampa E-mail
11 dicembre 2008
 

 
Per rendersi dell'abisso in cui è sprofondata la televisione italiana basta procedere a un'operazione di archeologia catodica.
Mi è capitato recentemente di rivedere alcuni sceneggiati della Rai dei primi anni Settanta: improvvisamente, mi si è materializzata la mia infanzia e la mia pubertà, il televisore a valvole con il pannello colorato posticcio e la sua copertina in pizzo.
Sceneggiati in un bianco e nero di vaga impronta espressionista, in realtà “di semplice necessità che diventa virtù”, tratti da romanzi di Rex Stout o Francis Durbridge come “Nero Wolfe”, “Un certo Harry Brent” o "Lungo il fiume e sull'acqua”, oppure quelli parapsicologici, “Il segno del comando” o “Ritratto di donna velata”.
Due aspetti degni di nota, di quel periodo irripetibile della televisione italiana. La recitazione di grandi attori come Luigi Vannucchi, Carlo Hintermann, Riccardo Cucciolla, Aroldo Tieri, Tino Buazzelli, Ugo Pagliai, che prestavano il loro talento per progetti televisivi di qualità. E, soprattutto, le sceneggiature raffinate e il conseguente uso di un lessico ricco, elaborato, condito di parole non usuali e non banali.
Considerando che in quel periodo vi erano a disposizione solo due canali e che gli sceneggiati venivano visti da milioni di persone, spesso poco istruite e malamente scolarizzate, emerge nitidamente il nobile intento didattico che permeava la televisione di quel periodo.
Una televisione, quella di Bernabei, austera, bacchettona, moralista, oscurantista per molti aspetti, che però offriva proposte pedagogiche e culturali elaborando un'ambiziosa proiezione futura del paese, per così dire "migliore”, più alta.
Ripiombando nel presente, possiamo osservare il sovvertimento dei termini. Totale. Il ribassismo comunicativo, il linguaggio scarnificato, reso grugnito, fratturato. L'immagine ideale proiettata della Tv che fu, inghiottita dall'interazione delle flatulenze corporali degli autori televisivi con quelle degli spettatori e viceversa.
In questo degradante scenario, come non inorridire guardando da esterni le vicende grottesche di questi giorni, la roboante battaglia a favore della pluralità  e dell'equità fiscale in difesa di un monopolista miliardario come Murdoch o quella tragicomica della saga di Villari, il vigilante abusivo della Rai. Una specie di necrofilo, che osserva compiaciuto le ultime fasi della decomposizione della Tv di stato, anzi di regime.

Mauro Maggiora
 
Arte moderna e pensiero antimoderno PDF Stampa E-mail
9 dicembre 2008
 

 
Il Corriere della Sera del 3 dicembre scorso informa sull’esistenza di fermenti antimodernisti in arte, non ancora organizzati in una vera e propria corrente ma rivelatori di un comune sentire che comincia  a diffondersi negli ambienti intellettuali. L’obiettivo polemico sono le avanguardie artistiche.
La notizia merita qualche considerazione. Le arti e la poesia in epoche di fioritura delle civiltà furono popolari nel senso pieno del termine. Le statue degli scultori ateniesi, le tragedie e le commedie dei grandi autori teatrali, la poesia di Omero, erano fruìte dal popolo, erano parte integrante della vita quotidiana. L’anelito al cielo delle grandiose cattedrali romaniche e gotiche, con le loro ardite soluzioni architettoniche e le stupende vetrate policrome, i romanzi cavallereschi e la poesia di Dante, erano patrimonio comune dell’uomo medievale. La grande pittura del Rinascimento era il prodotto di un sapere e di un’abilità diffusi nelle botteghe d’arte, la poesia di Ariosto ispirava il teatrino dei pupi, i versi di Shakespeare o di Goethe venivano citati anche dai popolani. Le forme artistiche non scaturivano dal genio di individui isolati in un’astratta libertà: se escludessimo le opere realizzate su commissione, taglieremmo via quasi tutta la storia dell’arte. Scaturivano dalle linfe vitali delle nazioni.
La progressiva decadenza che oggi chiamiamo modernità ha reso sterili anche arte e poesia, ridotte a sperimentazioni cerebrali e ad ermetismi comprensibili solo da pochi iniziati. Le avanguardie della prima metà del Novecento hanno avuto una loro funzione e una loro giustificazione. Nella seconda metà del Novecento la decadenza di tutto ciò che fu civiltà ha tolto credibilità anche alle avanguardie e alle loro pretese di dissacrare l’arte dei musei e delle accademie. Restano solo l’impostura di chi spaccia per originalità artistica la pura bizzarria, la provocazione dello scandalo per far parlare di sé, la sudditanza al mercato.
Un tempo era tenuta in grande pregio, non solo nell’arte ma nel lavoro quotidiano, l’abilità manuale, l’acquisizione di una tecnica che richiedeva un lungo apprendistato e che diventava un possesso saldo, un tesoro prezioso con cui l’artigiano si realizzava potendo andare fiero del proprio lavoro. Oggi perfino nelle arti la sapienza tecnica si è impoverita. Gli studenti livornesi che in pochi minuti, con un trapano, hanno riprodotto con assoluta fedeltà lo stile del Modigliani scultore, ingannando gli esperti d’arte, restano nella loro goliardia i più efficaci smascheratori dell’inconsistenza di tanta arte contemporanea.
Anche le arti, la poesia, la musica, sono diventate una carnevalata da vendere sul mercato dell’usa e getta. Sono ridotte a riflessioni moralistiche, ma senza una forte dose di moralismo vero, quello che nasce dall’indignazione per la perdita di tutto ciò che ha valore autentico.
Nell'articolo vengono citati fra gli antimoderni Robert Hughes, Mario Vargas Llosa e Paul Virilio. Solo l’ultimo sembra avere le carte in regola per polemizzare con la modernità, essendo un critico della società tecnologica. Hughes è il tipico intellettuale "di sinistra”, Vargas Llosa è un romanziere liberal-conservatore fieramente nemico di ogni sinistrismo. Questo ci dice che chi è mosso da una moralità autentica può pervenire a conclusioni simili nonostante la diversità dei punti di partenza. Si può maturare un ideale antimoderno non per adesione a una corrente di pensiero ma perché si sente sulla pelle e nelle viscere il disgusto per questa vita degradata; si può pervenire in linea diretta all’antimodernità attraverso la lettura di De Maistre, Carlyle, Nietzsche, Spengler, Evola, Junger, Pound, De Benoist; si può farlo seguendo le suggestioni junghiane ma anche quelle freudiane; si può essersi fatti guidare da Cioran, da Solgenitsin, da Ceronetti; vi si può pervenire attraverso Latouche e gli ecologisti; e ci si può riscattare dal progressismo anche essendosi formati culturalmente sulle pagine di Gramsci, Adorno, Marcuse, Pasolini. E’ ancora recente un libro di Bruno Arpaia dal titolo sorprendente nella sua eloquenza: “Per una sinistra reazionaria”. L’unico torto di quel libro è di aver svolto tesi simili a quelle di Massimo Fini senza citarlo mai. Chi avrebbe pensato qualche anno fa che il sostantivo Sinistra potesse essere accostato all’aggettivo Reazionaria? Qualcosa si muove sotto il cielo. Non è importante la riva da cui ci si stacca, ma l’approdo comune.

Luciano Fuschini

 
L'ipocrisia del Corriere della Sera PDF Stampa E-mail
6 dicembre 2008
 

 
Blandamente criticato da Stampa e Corriere della Sera per una misura in fondo marginale come l'aumento dell'Iva a Sky (che non è come dice Veltroni, una Tv per tifosi squattrinati - quelli vanno allo stadio, in curva - ma per gente benestante) Silvio Berlusconi ha affermato che i direttori di questi due giornali dovrebbero cambiare mestiere. Il presidente del Consiglio ha detto testualmente: "In tanti dovrebbero cambiare mestiere, direttori di giornali e politici, ho visto che la Stampa ha titolato "Berlusconi contro Sky", ho visto le vignette del Corriere della Sera , ma che vergogna... dovrebbero avere tutti più rispetto per se stessi e fare un altro mestiere".
Ha ragione: se non per la Stampa senz'altro per il Corriere della Sera. Ma in senso diametralmente opposto a quello che gli dà il premier. La responsabilità del Corriere della Sera  un giornale dalle grandi tradizioni liberali e che si presenta tutt'oggi come liberale, è di aver non solo avallato ma sostenuto in questi decenni, attraverso i suoi principali editorialisti, Ernesto Galli della Loggia e Angelo Panebianco (nelle cronache è stato invece più equilibrato) le posizioni e le azioni illiberali del Cavaliere. Il duopolio Rai-Fininvest (poi Mediaset) è il contrario di un assetto liberal-liberista perché, come insegnano al primo anno di Economia, e come scrivevano i padri di questo sistema, Adam Smith e David Ricardo, ammazza la concorrenza che è l'essenza stessa del liberal-liberismo e la cui mancanza è particolarmente grave nel settore dei media televisivi che sono il ganglio vitale di ogni moderna liberaldemocrazia. Un colossale conflitto di interessi che si espande dal comparto televisivo a quello editoriale, immobiliare, finanziario, assicurativo e arriva fino al calcio, e di cui ci si accorge solo quando tocca anche i propri interessi (che è il caso di Sky). Le leggi "ad personas", per salvare gli amici dalle inchieste giudiziarie, e "ad personam", per salvare se stesso, il "lodo Alfano", ledono un altro principio fondante di una liberaldemocrazia: l'uguaglianza di tutti i cittadini da vanti alla legge. Ma più gravi ancora sono state, a mio avviso, le continue e devastanti aggressioni alla Magistratura italiana, la sua delegittimazione. In terra di Spagna, davanti a tutta la stampa internazionale, allibita, Berlusconi dichiarò che "Mani pulite", cioè inchieste e sentenze della magistratura del suo Paese, di cui pur era premier, erano state una "guerra civile". Non c'è stata volta in cui Berlusconi o i suoi amici politici sono stati raggiunti da provvedimenti giudiziari che i Pm e i giudici non siano stati accusati di "uso politico della giustizia", un reato gravissimo peraltro mai dimostrato, fino ad affermazioni generiche ma non meno gravi: "i giudici sono antropologicamente dei pazzi", "la magistratura è il cancro della democrazia".
E così adesso anche Paolo Mieli si becca della "toga rossa". E ben gli sta. E anche all'inaudito volgare e violento attacco di Berlusconi, il Corriere ha reagito con un corsivetto tremebondo e una cronaca in cui la metteva sull'umorale.
Questo atteggiamento supino del Corriere, il più importante quotidiano italiano, non ha fatto il bene del Paese nè dello stesso Presidente del Consiglio. Lasciatagli passare, passo dopo passo, ogni cosa, il Cavaliere, che antropologicamente non conosce il senso del limite, si sente ormai autorizzato a tutto. Recentemente ha avuto la protervia di accusare le Reti televisive nazionali che pur controlla per i 3/4 di "denigrarlo", di "insultarlo", di essere "disfattiste" (bruttissima parola di fascistica memoria), di parlar troppo della crisi economica e quasi quasi di esserne la causa.
Presidente del Consiglio, padrone assoluto del Parlamento, padrone del centrodestra, se si eccettuano la Lega e l'Udc di Casini che ha avuto il coraggio morale di smarcarsi, padrone del sistema televisivo, ricco più di Creso, Silvio Berlusconi è ormai il padrone pressochè assoluto del Paese. E nessuno può più fermarlo. Una situazione che con la liberaldemocrazia non ha nulla a che vedere. E il Corriere della Sera ne è per la sua parte, che è una notevole parte, corresponsabile.

Massimo Fini

da www.ilgazzettino.it
 
Mar Nero, nuova sfida PDF Stampa E-mail
3 dicembre 2008
 

 
C’e ormai davvero poco da scherzare. Inutile attaccarsi ai luoghi comuni e gridare alla “nuova guerra fredda”. Che la storia si sia rimessa in moto eccome, e ormai innegabile: e se n’e accorto perfino quel Francis Fukuyama che qualche anno fa ci assicurava di esserne usciti (e qualcuno gli aveva creduto). Non toccare il can che giace, dice il proverbio. Figurarsi l’orso. S’illudeva chi, ai primi degli Anni Novanta dello scorso secolo, credeva-sperava di averlo ucciso per sempre, l’orso russo: e ne andava vendendo la pelle appunto prima di esser sicuro che fosse morto. La campagna a colpi di propaganda, di beni di consumo, di supermarkets, di “effetto Mac Donald’s” e – ohimè – di Chicago Boys, banda di criminali incompetenti teppisti travestiti da esperti in economia e finanza, pareva esser riuscita la dove avevano fallito le divisioni corazzate di Hitler.
Di conseguenza, abbiamo vissuto quasi un ventennio di regime mondiale caratterizzato da una mostruosa accelerazione degli aspetti deteriori (in politica internazionale, ma anche in economia e in finanza) della globalizzazione e dell’egemonia di una sola superpotenza: con gli esiti che ormai, dall’America latina all’Afghanistan alla stessa situazione interna statunitense, sono sotto gli occhi di tutti. Ma l’arroganza di chi ha gestito questo ventennio, e soprattutto degli sciagurati otto anni della presidenza Bush, forse il peggior leader che gli Stati Uniti abbiano mai avuto, ha prodotto i suoi frutti. Ed e davvero il caso di dire che chi semina vento raccoglie tempesta.
Tra i frutti avvelenati che stiamo raccogliendo, era ovvio che vi fosse anche questo: il risveglio e il riarmo della Russia, stanca di attacchi, di soprusi, di manovre d’accerchiamento nucleare, di provocazioni (basti pensare alla politica dell’allargamento della NATO verso l’est europeo, di cui l’Unione Europea e stata succube e corresponsabile). Ed ecco la situazione, in continuo preoccupante evolversi: al punto che viene da temere che il... presidente degli USA,... debba trovarsi da qui o poco ad affrontare, che Dio non voglia, un nuovo 1962. Il fatto e che il più recente bilancio statale russo registra un’impennata alla voce relativa alle spese militari; alla fine del settembre 2008 una squadra navale russa è salpata dal Mare del Nord verso il Venezuela, mentre si vanno preparando esercitazioni militari nel Mar dei Caraibi e Cuba, ferita e indignata per il fatto che nell’agosto-settembre scorso il suo appello alla sospensione per evidenti motivi umanitari dell’embargo finchè gli effetti degli uragani estivi non si fossero allontanati (un’ennesima bravata, questa, dell’ineffabile signora Rice), si va aprendo di nuovo alla collaborazione con la Russia come ormai da anni non faceva. Frattanto, l’Iran di Ahmedinejad si appresta a ricevere armamenti e sostegno da Mosca: e il “pericolo iraniano” finora chiamato artificiosamente in causa (come potesse essere una “minaccia nucleare” un paese che non ha ancora neppure il nucleare civile resta un mistero) rischia di diventar qualcosa di piu vicino alla sia pur ancor fortunatamente remota realta. Lo sappiamo tutti, il vecchio proverbio: a forza di gridar “Al lupo, al lupo!”...
Non e questa la sede per affrontare quello che pur rimane il nodo della questione. La Russia non ci sta più alle due tesi del diktat statunitense, che l’Europa sembra aver invece supinamente accettato: un mondo unipolare e il controllo planetario della superpotenza unica nel nome della cosiddetta “ingerenza umanitaria” (rivelatasi del resto ingerenza e basta). Mosca sta lavorando alla costruzione di uno “spazio egemonico russo” all’interno del quale non pare disposta ad accettare ingerenze di sorta: e per questo stringe i rapporti con i paesi della cosiddetta SCO (Shanghai Cooperation Organization) e disegna una mappa della sua area di controllo e di sicurezza che dall’area artica giunge all’Asia centrale e, in Europa, fin alla Moldavia; intanto, rifiuta il piano di cosiddetta “partnership strategica” con la NATO (quello, per intenderci, di Pratica di Mare), dal momento che esso si e tradotto in una politica di accerchiamento ai suoi danni; ed esige un nuovo trattato di sicurezza paneuropea. Si può onestamente darle torto?
Tale nuovo trattato appare in effetti tanto piu urgente visto un altro aspetto dell’irresponsabile arroganza della NATO e di chi la guida. Tra poco scadrà l’accordo russo-ucraino che regola la presenza della flotta militare russa nella base ucraina del porto di Sebastopoli in Crimea. I meno distratti fra noi (pochissimi) ricorderanno ch’esso era stato stabilito nel contesto del trattato d’amicizia e cooperazione russo-ucraino del 1997, che avrebbe dovuto durare fino al 2018. Ma allora i rapporti tra i due paesi erano ben diversi, e in particolare un’adesione dell’Ucraina alla NATO era impensabile. Dopo la “rivoluzione arancione” del 2004 le cose sono molto cambiate, per quanto ormai le forze che allora prevalsero appaiano ormai screditate e in crisi. La cosa è complicata dal fatto che in Crimea i russi sono circa il 50% della popolazione, cui va aggiunto un 20% tataro. A Sebastopoli, centro di circa 350.000 abitanti, i russi sono piu o meno 220.000 (vale a dire circa il 75%), cui vanno aggiunti piu meno 15.000 militari della base navale. Proviamo a immaginare i possibili effetti di un allargamento della NATO all’Ucraina su tutta la penisola di Crimea e in particolare su Sebastopoli. Dal momento che i tempi dell’idillio tra la Russia e la NATO appaiono almeno per ora irreversibilmente trascorsi e che una partnership navale tra i due e allo stato attuale improponibile, se le cose vanno avanti di questo passo c’è da attendersi davvero di tutto: compresa la secessione della Crimea dall’Ucraina.
Se l’Europa avesse una politica estera unitaria e indipendente, sarebbe forse il caso di accelerare i rapporti con l’Ucraina proponendole un ingresso nell’UE a patto che esso non sia accompagnato, com’è invece sciaguratamente accaduto per altri paesi dell’Europa orientale, da un’adesione alla NATO. Ma questi, nell’Europa invertebrata di oggi, sono sogni. Forse basterebbe comunque che le diplomazie europee facessero capire ai dirigenti di Kiev che, per noi e per loro, sarebbe molto utile che l’Ucraina facesse qualche passo per dimostrare a Mosca di non esser disposta a divenire cosi soggetta alla politica statunitense di quanto fino ad ora e sembrato sia avviata ad essere. Cio concorrerebbe a mantenere un qualche equilibrio in uno scacchiere che ormai sembra fondamentale all’interno del sistema strategico e geopolitico euromediterraneo. O è ormai troppo chiedere e sperare anche soltanto questo minimo di moderazione, di equilibrio, di prudenza?

Franco Cardini

da www.francocardini.net
 
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