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Repubblica berlusconiana PDF Stampa E-mail

23 giugno 2008

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In Italia "tutto è grave ma nulla è serio". A pensare così spesso ci si azzecca, anche se in questo motto si nasconde una arcinota tendenza nostrana all'autoassoluzione. Detto questo, nessuno può negare che il Paese viva un momento oggettivo di difficoltà, etico-culturale prima che economica. E se in un contesto sempre tragicomico si mette da parte per un attimo il lato ridicolo della situazione, la tragedia emerge in tutta la sua sinistra eloquenza. Tant'è che ci sono dieci elementi oggettivi che vanno presi in considerazione se si vuole capire quale sia la direzione, o la deriva, che si prospetta per il Paese.
Uno, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi gode di ampia maggioranza parlamentare fornitagli dal voto popolare. Questo gli dà una aggressività alla quale ci eravamo disabituati, forse. Lo stesso Berlusconi ha in cima alla sua agenda politica il mantenimento dei suoi asset economici. In questo senso ogni azione (si parla sempre di interventi rispettosi della legge, come le inchieste giudiziarie) che potrebbe configurare una perdita del suo monopolio televisivo, viene vista come il massimo pericolo. In modo così forte da piegare a questa finalità anche il lavoro del governo e quello del parlamento.
Due, Berlusconi sa che per combattere questa battaglia occorrono alleati forti, senza i quali nemmeno una ampia maggioranza parlamentare gli consentirebbe la benché minima tranquillità. Da questo punto di vista risultano evidenti le aperture verso Confindustria e verso certi settori del mondo bancario, come non va dimenticata la completa genuflessione verso la Cei. Alcuni esempi? Niente intercettazioni per i reati finanziari; nessun impegno per aumentare i controlli (e le pene) per la tutela del lavoro. Finanziamenti diretti o indiretti alle imprese e alla Chiesa cattolica nell'ordine di una ventina di miliardi annui. Proposta di legge affinché ci sia l'obbligo per l'autorità giudiziaria di informare le autorità ecclesiastiche qualora si intercetti un ministro della chiesa.
Tre, la magistratura, che legittimamente lamenta una forzatura senza precedenti di pezzi dell'ordinamento giudiziario, deve a sua volta fare i conti con un sistema della giustizia moribondo: processi farraginosi e interminabili; un miliardo di euro all'anno lasciato per strada per sanzioni pecuniarie non riscosse; casi urlanti e diffusi di corporativismo. Difficoltà oggettiva nel colpire i magistrati inoperosi o che addirittura vìolano la legge. In questo quadro la magistratura si difende con molta difficoltà dagli attacchi del premier, proprio perché da decenni la sua casa non è mai stata il simbolo della efficienza e della trasparenza.
Quattro, la cosiddetta "luna di miele" tra Berlusconi e Walter Veltroni, leader del Pd, si è interrotta dopo un repentino cambiamento della linea editoriale del quotidiano Repubblica. Cambiamento successivo alla proposta dei pacchetti governativi per tagliare le intercettazioni e per rinviare i processi del premier. Si tratta di un passaggio delicato, quasi un segnale (è la mia personalissima ma radicata opinione) che qualche accordo segreto tra i maggior enti del Pd e la truppe del premier sia saltato. Ricordo che il finanziere Carlo De Benedetti, patron del gruppo Repubblica-Espresso, è tra i primi tesserati del Pd. Al contrario il Corriere della Sera, che al tempo dei furbetti del quartierino che lo volevano scalare inneggiava alle cimici, oggi è molto più filo berlusconiano, soprattutto per quanto concerne le intercettazioni. Come mai? Va peraltro detto che durante gli ultimi giorni la cronaca e un editoriale di Sergio Romano, che torna a scrivere in prima pagina, hanno in parte controbilanciato i corsivi dei berluscones Pigi Battista e Angelo Panebianco. Quali manovre in seno all'azionariato del Corsera sono in atto?
Cinque, la situazione economica del Paese è difficilissima. Servono provvedimenti draconiani, che per essere accettati da tutti dovrebbero colpire anzitutto quelle gigantesche rendite di posizione garantite per anni a industriali, finanzieri, banchieri, aficionados della politica, burocrazia pubblica, clientele, crimine organizzato. Pura fantascienza anche per la maggior parte degli analisti politici dei mainstream media, non certo dei Massimo Fini o dei Beppe Grillo di turno. I dati però preoccupano. Cala l'occupazione, cala il reddito delle famiglie che comprano sempre più a rate. L'emergenza rifiuti in Campania non è risolta e l'assurdità dei cicli industriali rischia di "campanizzare" altre regioni. Il prezzo dell'energia, carburante in primis, cresce. L'inflazione è una tassa occulta che sta silenziosamente cannibalizzando il potere d'acquisto e il tempo di vita degli italiani. I disastri della finanza swap e subprime hanno obbligato il sistema bancario europeo (e italiano) a bruciare decine di miliardi di euro nella fornace americana per evitare il tracollo del sistema bancario a stelle e strisce. E quelle risorse non potranno essere re-impiegate in Italia. I grossi nomi dell'imprenditoria italiana ormai fanno business solo con le concessioni di Stato o pubbliche (autostrade, inceneritori, frequenze tv, urbanistica, trasporti, multiutility; domani forse il nucleare?).

Marco Milioni

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Leggi ad personam, solita vergogna PDF Stampa E-mail

21 giugno 2008

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E siamo alle solite. Il governo si è insediato da nemmeno due mesi che già Berlusconi propone e impone la consueta legge "ad personam", fatta su misura per salvarlo da quelli che vengono pudicamente chiamati i suoi "guai giudiziari". È un dejavù. Ma questa volta la legge è talmente scombicchierata, sconclusionata, assurda, irragionevole, irrazionale, spudorata e, soprattutto, devastante per l'intero ordinamento giudiziario e per il convivere civile che si stenta a credere che due senatori abbiano osato proporla, un governo e un ministro della Giustizia l'abbiano fatta propria, una maggioranza l'abbia sostenuta e un Parlamento l'abbia approvata. Perché è una legge che non si è mai vista nè nel Primo nè nel Terzo Mondo e nemmeno all'altro mondo. Perché non sta nè in cielo nè in terra.
Dunque, un emendamento inserito in un decreto che prende il nome, divenuto quanto mai beffardo, di "decreto sicurezza", statuisce la sospensione dei processi in corso che riguardano reati commessi prima del 30 giugno 2002 e che prevedono una pena non superiore ai dieci anni di carcere. Un ulteriore emendamento intima ai magistrati di dare priorità, anche per il presente e il futuro, ai reati che hanno una pena edittale superiore ai dieci anni. La "ratio" di questi emendamenti è di "dare priorità ai reati che destano maggior allarme sociale". Perché non destano "allarme sociale" le rapine, i sequestri di persona, le estorsioni, gli stupri, le violenze sessuali, la bancarotta fraudolenta, la concussione, la corruzione, la corruzione di magistrati che non sono che una parte di quelli che rientrano nella norma che prevede la sospensione dei rispettivi processi e per alcuni dei quali la stessa maggioranza non fa che invocare la "tolleranza zero"? E non desta "allarme sociale" che un presidente del Consiglio abbia potuto corrompere un testimone, in due distinti processi, pagandogli 600 mila dollari perché mentisse, è esattamente il reato per cui l'onorevole Berlusconi è sotto processo davanti al Tribunale di Milano, e che rientra naturalmente fra quelli che verranno sospesi (reato attribuito al premier è, guarda caso, del febbraio 2001), e per il quale è stato organizzato tutto questo incredibile baradan? Senza contare che tutto ciò dilata ulteriormente i già lunghissimi tempi della giustizia italiana di cui tutti, a parole, lamentano, e che ne sono il vero cancro. E senza nemmeno mettere in conto che queste norme inaudite violano almeno tre principi fondamentali del nostro ordinamento, costituzionalmente garantiti: l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, l'indipendenza della Magistratura, l'obbligatorietà dell'azione penale. E che indicazioni ne trarranno, per il presente e per il futuro, i rapinatori, gli stupratori, gli scippatori, i topi d'appartamento, i bancarottieri, i concussori, i corruttori?
Un intero ordinamento giuridico viene scardinato a pro di una singola persona. Norme del genere avrebbero innescato una rivoluzione non dico in un qualsiasi Paese liberaldemocratico e occidentale, ma nel Burundi, nel Burkina Faso, nel Benin. E invece da noi stanno per passare tranquillamente salvo qualche ammoina dell'opposizione il cui leader, Walter Veltroni, ha affermato che "è stata strappata la tela del dialogo". Qui ciò che è stato strappato, anzi stracciato, è il diritto che riguarda tutta la comunità e non il rapporto con l'opposizione di cui potremmo anche fregarcene. Così come la questione non riguarda lo scontro fra Esecutivo e Magistratura. Riguarda noi tutti.
Che fare? Forse sarebbe stato meglio dar retta a un modesto suggerimento che mi permettevo di dare sul Tempo di Roma (che non è esattamente un quotidiano di sinistra) a metà degli anni '90, quando Berlusconi cominciò la sua devastante campagna contro la Magistratura italiana. E cioè, varare una norma del tutto speciale, sulla falsariga delle "Disposizioni transitorie e finali" che stanno in coda alla nostra Costituzione, e che recitasse, più o meno, così: "Silvio Berlusconi, i suoi discendenti, le sue consorti, i suoi consanguinei e tutti i membri, a qualsiasi titolo, della Casa di Arcore sono dispensati, per il passato, il presente e il futuro, dall'obbligo del rispetto delle leggi penali". Ci saremmo perlomeno risparmiati lo scempio di questi giorni.

Massimo Fini da ll Gazzettino 20 giugno 2008

 
Tremonti Robin Hood? No, sceriffo di Nottingham PDF Stampa E-mail

20 giugno 2008

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La nuova manovra economica costituita da un disegno di legge, un decreto legge ed il documento di programmazione economica finanziaria (Dpef) per il triennio 2009-2011, ieri sera ha ricevuto il via libera del Consiglio dei ministri, dopo un dibattito durato, secondo le parole di Giulio Tremonti, solamente 9 minuti e mezzo, il che lascia sottendere una completa identità di vedute da parte dei membri dell’esecutivo.
Ci sarà sicuramente modo di analizzare nel dettaglio i provvedimenti nel corso dei prossimi mesi, mentre ora ritengo importante tentare d’interpretare il vero spirito di una manovra che il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi riconduce a tre parole chiave: tagli, semplificazione e sviluppo.
In realtà dopo avere steso un velo pietoso sul concetto di sviluppo che altro non è se non un guscio vuoto privo di contenuti, ed accantonato le semplificazioni alle quali già si sta dedicando il ministro Brunetta con l’ausilio dell’ufficio complicazioni affari semplici, sono senza dubbio proprio i tagli a costituire la spina dorsale di una manovra dai contorni abbastanza confusi che nell’intento di non dare uno “schiaffo” ai cittadini aumentando la tassazione, rischierà di rompere loro tutte e due le gambe privandoli dei servizi sociali e delle prospettive occupazionali.
Il taglio sicuramente più consistente è quello che colpirà la sanità, quantificato in 6 miliardi di euro in tre anni e compensato solo in parte dalla ventilata reintroduzione dei ticket sanitari che graveranno sulle spalle dei cittadini bisognosi di cure. Ciascuno di noi potrà sbizzarrirsi a piacere immaginando le conseguenze di questa emorragia di finanziamenti che andrà ad innescarsi all’interno di un sistema sanitario già oggi drammaticamente inefficiente, come la cronaca giornaliera degli episodi di malsanità sta tristemente a dimostrare. Più in generale verrà comunque tagliata la spesa pubblica con l’ausilio di svariate misure volte a “raschiare il fondo del barile” diminuendo la quantità e la qualità dei servizi al cittadino e ridimensionando notevolmente il numero dei dipendenti pubblici, basti pensare che i tagli ventilati risultano essere 100.000 solamente nella scuola. Per favorire tale ridimensionamento sarà introdotta una nuova norma in virtù della quale potranno essere licenziati i dipendenti pubblici che rifiutano (2 volte in 5 anni) il trasferimento.
In termini di occupazione la nuova manovra, oltre a costruire i presupposti per un corposo taglio del pubblico impiego, tende a rafforzare la precarietà e la flessibilità a tutto detrimento dei diritti dei lavoratori e delle loro prospettive di riuscire ad ottenere un lavoro a tempo indeterminato. Viene riproposto il lavoro a chiamata e sarà possibile prorogare più di una volta i contratti a tempo determinato oltre i 36 mesi, mentre più in generale le imprese vengono incentivate ad assumere attraverso la de-regolazione della gestione dei rapporti di lavoro.
La manovra presenta anche una sua veste “virtuosa” permeata di populismo e riconducibile alla cosiddetta Robin tax che innalzerà dal 27% al 33% l’imponibile Ires per banche, assicurazioni e compagnie petrolifere. Nello stesso alveo viene proposto un tentativo di sterilizzazione degli aumenti dei carburanti costruito attraverso complesse calcolazioni ma difficilmente in grado d’incidere realmente sul problema. Viene prorogata fino al 31 dicembre l’aliquota agevolata sul gasolio per agricoltura e pesca nel tentativo di tenere calme le categorie in agitazione. Si ventilano agevolazioni per l’acquisto della prima casa, aventi per oggetto giovani coppie a basso reddito. Verrà introdotta una carta di credito prepagata volta a garantire sconti sui beni di prima necessità, destinata agli anziani che percepiscono la pensione minima. Si tenterà di diffondere gli E-book nell’ambito dei testi scolastici al fine di ridurre il peso economico che grava sulle famiglie che mantengono i figli agli studi.
Anche in questo caso, come avvenne nell’ultima finanziaria “redistributiva” del governo Prodi, i provvedimenti sembrano mirare più a costruire nell’immaginario collettivo la sensazione di un governo che si preoccupa di sorreggere le famiglie in difficoltà, piuttosto che non ad incidere realmente nel merito delle difficoltà (precarietà e disoccupazione su tutte) che stanno attanagliando le famiglie, quasi si provvedesse a ricoprire qualche buca nelle strade dissestate del centro, mentre in periferia si continua a scavare voragini senza fine.
Particolarmente interessanti risultano le novità in tema di liberalizzazioni dei servizi pubblici, infrastrutture ed energia.
I servizi pubblici locali di primaria importanza quali acqua, gas e trasporti verranno liberalizzati e la loro gestione sarà affidata a società private o pubblico/private all’interno delle quali il socio privato non detenga una quota inferiore al 30%. Le ricadute determinate da una gestione privatistica di beni e servizi indispensabili per il cittadino sono facilmente immaginabili, come l’esperienza dei cittadini di Latina trovatisi con le bollette dell’acqua aumentate anche del 300% sta tristemente a dimostrare.
Notevoli preoccupazioni sono legate anche alla norma che consentirà alle Università pubbliche ed a quelle legalmente riconosciute di trasformarsi in fondazioni di diritto privato, contribuendo in questo modo ad aumentare il numero dei “professori” compiacenti soggiogati al volere dei grandi poteri industriali ed economici che incrementeranno il loro controllo in un ambito di primaria importanza come quello dell’istruzione.
In attesa del varo di una nuova Legge Obiettivo che consenta di costruire le grandi opere sempre più velocemente in spregio dell’ambiente e del volere delle popolazioni interessate, verrà abrogata la revoca delle concessioni per quanto riguarda le tratte TAV non ancora in costruzione e ripristinati i general contractor precedenti, per la gioia degli azionisti di Impregilo il cui titolo in borsa ha già iniziato a salire.
In tema di energia la nuova manovra attribuisce una delega al governo per l’emanazione entro il 2008 di uno o più decreti legislativi concernenti l’individuazione dei criteri per localizzare le nuove centrali nucleari e stabilire le misure compensative minime da corrispondere alle popolazioni interessate. A questo riguardo ogni commento credo sia superfluo alla luce dell’arroganza con la quale l’esecutivo intende perseguire il progetto nucleare ignorando completamente il pronunciamento popolare che ha bocciato le centrali nel 1987.
Nonostante giornali e TV stiano tentando di presentare questa manovra sotto le mentite spoglie di chi ruba ai ricchi per dare ai poveri, credo ci sia davvero poco Robin Hood nei provvedimenti che la costituiscono, dove appena al di sotto del velo populista si legge con chiarezza la volontà di compiacere tutti i grandi poteri, comprese banche, assicurazioni e petrolieri che in questi giorni, sostenuti dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, piangono finte lacrime come il copione impone loro. Non potrebbero fare altrimenti perché se si mostrassero soddisfatti, come in realtà sono, qualcuno potrebbe iniziare a pensare male, insinuando che non si tratta di Robin Hood ma dello Sceriffo di Nottingham.

Marco Cedolin

 
La hybris di Pistorius PDF Stampa E-mail

19 giugno 2008

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Definita nella Poetica di Aristotele, il termine hybris si può tradurre con tracotanza, superbia, orgoglio. Era, per gli antichi Greci, quell’atteggiamento per cui un individuo compie azioni che violano leggi divine immutabili, volendo così farsi pari agli Dèi.
Pur se gli Dèi sono morti, assassinati dal nostro orgoglio, tuttavia l’uomo non ha mai cessato di commettere questo peccato, aizzato da sempre nuovi dèmoni. Oggi tocca al Progresso, novello Mefistofele che par promettere di esaudire ogni nostro sogno, pur che gli vendiamo non tanto l’anima – ché quella ce la siamo persa da un pezzo – ma noi stessi, la nostra sopravvivenza, la nostra vita.
Noi, nuovi piccoli e miseri Faust, alla Scienza abbiamo chiesto tutto: sostanze "magiche" e meravigliose che stravolgano la Natura, macchine eccezionali che ci trasportino velocissimi, che ci mostrino ciò che è lontano e nascosto, che ci svelino ogni mistero. Abbiamo chiesto il Potere, ed abbiamo avuto il mostruoso vaso atomico di Pandora.
Ad una sua branca, la medicina, abbiamo chiesto addirittura l’impossibile (tanto siamo arrivati ad odiare noi stessi, tanto a fondo abbiamo reciso le nostre radici): di non essere più noi stessi, come gli Dèi ci hanno fatto, di non essere più mortali. Così, laboratori infernali hanno cominciato a scavare nel nostro fondo più intimo, sventrando e ricomponendo cellule e Dna, creando mostruose chimere, ‘clonando’, in una blasfema caricatura della Creazione. 
Non accettiamo di essere ciò che siamo, ecco il punto. Non accettiamo di morire, e quando è stato tentato tutto ciò che la pietà e l’affetto possono agire, nonostante ciò deleghiamo il nostro corpo a macchine disumane, di cui diveniamo parte, trasformandoci in mostruosi fantocci non-umani. Prima ancora di quel passaggio, ad un certo punto comunque inevitabile, non accettiamo di invecchiare. La chirurgia plastica è forse la più ridicola bestemmia contro l’Umano che la nostra cosiddetta civiltà abbia partorito. Dal suo utero malato escono le donne "perfette" che si propongono come modello all’Umanità intera: e vien da chiedersi quale trasporto erotico, quale scambio di sensi e di umori sia possibile avere con quelle bambole di frangibile porcellana, da guardare ma da non toccare.
Non è diverso da loro un nostro celeberrimo politico ultrasettantenne, da tempo ridotto ad un grottesco mascherone di cera e peli finti, fantoccio senza tempo, come pure senz’anima.
Non accettiamo i nostri limiti, insomma. E di questa "cultura", la massima espressione è oggi la vicenda di Pistorius, l’atleta che, avendo perduto le gambe, vuole tornare a correre con due protesi artificiali. Non è nuovo, nel mondo della disabilità, questo ricorso ad una tecnologia estrema al fine di superare dei limiti che, imposti dalla fatalità, pur tuttavia esistono, dei quali bisogna perciò prender pure atto e coi quali è necessario fare i conti: celebre l’esempio dei ciechi che sciano con l’ausilio di un radar.
Ma quel che colpisce nel caso di Pistorius è appunto la hybris, l’ostinato e tracotante rifiuto della Natura in nome di un diritto ad avere ciò che non si ha più, e che non si potrà mai più avere. Invece, appunto, di accettare i propri limiti, invece di pensare a costruire, all’interno di questi limiti, un’esistenza comunque possibile.
Sempre ci sono stati i disabili, e sempre, soprattutto nelle culture primitive e contadine, hanno trovato un loro "posto", senza che nessuno pensasse mai a rifarli diversi – Pistorius e quelli come lui vogliono dare l’assalto al cielo, tirar giù gli Dèi dai loro scanni, obbligarli ad obbedire loro.
Blasfema, e, oltretutto, triste metafora della nostra condizione di déracinés. Dopo la morte di Dio, credevamo di non aver più niente da desiderare, nessun altro trofeo da abbattere. Non ci è bastato, e siamo ancora insoddisfatti e rancorosi, condannati dalle nostre stesse mani all’infelicità perpetua.

Giuliano Corà

 
L'Irlanda ha fatto la cosa giusta PDF Stampa E-mail

15 giugno 2008

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Gli irlandesi hanno respinto con un referendum il Trattato europeo di Lisbona e messo così a rischio l'entrata in vigore del piano di riforma dell'Unione. I no hanno conquistato il 53,4% dei consensi contro il 46,6% dei sì, su un totale di circa il 42% degli aventi diritto.
L'Irlanda è stato l'unico Paese a discutere il Trattato mediante referendum. Gli altri Paesi l'hanno ratificato o lo ratificheranno per via parlamentare. Tutto questo è eloquente: rimettere una decisione di questo tipo al popolo rischia di essere un boomerang, perchè si sa che la popolazione di molti Paesi europei non ha un buon feeling con l'Unione: un paio di anni fa già Francia e Olanda avevano bocciato il trattato nello stesso modo. Meglio ratificarlo in parlamento, è più sicuro onde evitare il responso popolare.
Non solo, ma nel caso di una votazione di questa delicatezza, trattandosi di una modifica costituzionale una maggioranza del 50% più 1 in linea di principio non sarebbe neppure adeguata, come semplicemente ridicola è la partecipazione al voto di meno della metà degli elettori: insomma, per una decisione di questa portata ci vorrebbero cifre da plebiscito!
E invece gli europei puntualmente o disertano, o votano no. Ogni volta i sì arrivano con il contagocce. Ha voglia a dire Napolitano che chi vota in senso negativo dovrebbe uscire dal trattato e non invece bloccarlo: è vero politicamente, ma l'opinione della gente va in considerazione, non ignorato o tacciato sempre di essere retrogrado ed egoista. Altrimenti significa che viviamo in democrazia solo a parole (e difatti...).
Non stupisce infatti l'esito della votazione, oltretutto di uno dei Paesi più europeisti: qualcuno potrà chiamarlo un atto di paura di un'apertura a un'immigrazione indiscriminata dai Paesi dell'Est, di perdita di peso verso paesi più importanti, di venire in contatto con legislazioni più arretrate. Sarà pure tutto vero, ma viene da chiedersi in ogni caso a chi possa interessare un'Europa così se non ad affaristi e politici: è stata fatta da loro a propria  immagine, e tutto ciò che non fosse interesse e affare è stato ripetutamente escluso. Altro che citare il sogno europeo! Neppure le radici cristiane sono state inserite nel trattato... E qui non si tratta di una concessione al Vaticano: le radici culturali del cristianesimo, piacciano o meno, sono state -e in buona parte sono ancora - un denominatore comune per tutti, credenti e atei, progressisti e conservatori. Fanno parte della nostra identità, sono un fattore spirituale che ci unisce, un qualcosa che ci accomuna al di là e forse più della bramosia di denaro.
Un'Europa che mira solo all'incremento del Pil, che agisce come una succursale degli Stati Uniti, che punta a un indiscriminato allargamento verso Paesi che con la Storia europea non c'entrano nulla (vedi la Turchia), un'Europa così che senso ha per noi? Cosa ce ne facciamo di una politica estera comune se poi agiamo da perfetti leccapiedi dell'America e tacciamo chi la critica di essere fascista e retrogrado? A questo punto, forse sono meglio i vecchi nazionalismi.
Se il referendum lo avessero fatto nel Medioevo all'epoca dei crociati, avremmo forse ottenuto risultati migliori. Abbiamo perso un'occasione d'oro: potevamo avere l'Europa degli europei e invece saremo costretti a mandar giù quella degli affaristi. Un bel progresso.

Massimiliano Viviani

 
Emergenza di "lorsignori" PDF Stampa E-mail

13 giugno 2008

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Dopo il durissimo intervento di Silvio Berlusconi a Santa Margherita davanti alla platea dei giovani industriali è nata una nuova emergenza: "l'emergenza intercettazioni" (in Italia si vive sempre in clima di "emergenza", non siamo capaci di affrontare qualsiasi problema con un minimo di serenità e di prospettiva).
Da una parte del centrodestra (Forza Italia) si fa una voluta confusione fra le intercettazioni telefoniche ordinate dall'autorità giudiziaria e la loro diffusione al pubblico attraverso i media. Sono due questioni collegate ma ben distinte. Le intercettazioni riguardano l'interesse della collettività a punire, attraverso la magistratura, gli autori di reati, la loro diffusione incide invece sul contrapposto interesse del singolo cittadino alla tutela della propria privacy e onorabilità. In una società complessa come l'attuale, le intercettazioni sono diventate un indispensabile strumento di indagine. Si illude, o fa finta, chi crede che si possa indagare ancora solo con i metodi del commissario Maigret o della signora Fletcher. Ha detto l'onorevole Di Pietro: «Proibire ai magistrati di usare le intercettazioni sarebbe come proibire ai chirurghi di usare il bisturi».
Come si fa, allora, a conciliare gli interessi contrapposti della giustizia e della privacy? Nonostante il confuso e ignorante canaio di questi giorni, la soluzione è abbastanza lineare: ripristinando, come abbiamo scritto tante volte, il segreto istruttorio previsto dal vecchio codice di Alfredo Rocco. Tutti i documenti istruttori (e non solo le intercettazioni) devono rimanere segreti fino al dibattimento. Perché in istruttoria sì e al dibattimento no?
Perché al dibattimento arrivano solo quegli atti che sono realmente indispensabili allo svolgimento del processo (e quindi l'interesse alla privacy del cittadino deve essere sacrificato a quello superiore della giustizia), mentre in istruttoria si raccolgono, per definizione, un mucchio di elementi una parte dei quali risulterà ininfluente ai fini del processo (e quindi, in questo caso, l'interesse alla privacy verrebbe sacrificato in nome del nulla o, peggio, di una morbosa curiosità). La tutela del segreto istruttorio è resa difficile dal fatto che sono numerosi i soggetti autorizzati ad essere a conoscenza degli atti: oltre, naturalmente, ai Pubblici ministeri, ci sono i cancellieri, gli organi di polizia giudiziaria e gli avvocati (in genere sono proprio questi ultimi a passare i documenti ai giornali). Bisogna quindi colpire con pene severe i succitati che contribuiscono a diffondere i contenuti delle intercettazioni (con aggravanti se si tratti di pubblici ufficiali) e con pene solo un po' meno severe ma comunque incisive (e quindi non sanzioni pecuniarie, ma la reclusione) i giornalisti, i direttori e gli editori che si prestino a pubblicarle.
Detto questo, mi ha sgradevolmente colpito il tono violento usato da Berlusconi a Santa Margherita («Esclusi i reati di mafia, di criminalità organizzata e di terrorismo», ha detto testualmente, «cinque anni di reclusione per chi ordina le intercettazioni, cinque anni per chi le esegue, cinque anni per chi le propaga») e l'applauso di parte della platea. Entrambi, tono e applausi, hanno un significato preciso. Perché con la proposta di Berlusconi rimarrebbero fuori dalle intercettazioni i reati finanziari, la concussione, la corruzione, quelli contro non i magistrati che ordinano le intercettazioni e i poliziotti che le eseguono, come vorrebbe Berlusconi, ma tutti i soggetti della Pubblica amministrazione (che, non dimentichiamolo, rappresenta gli interessi di tutti i cittadini, i nostri interessi); cioè i reati tipici della collusione criminale fra imprenditori e politici, i reati di "lorsignori". E che questo sia il vero intendimento lo dimostra il fatto che il premier di fronte alle proteste per la sua proposta ne ha avanzata un'altra che limita le intercettazioni ai reati che prevedono una pena superiore ai dieci anni, ipotesi che lascerebbe fuori, ancora una volta, la concussione e la corruzione.
Risibile è poi l'obiezione avanzata dai giornali berlusconiani (Il Giornale, Libero) che le intercettazioni ci costano 200 milioni di euro l'anno. Che vuol dire? Anche la polizia ci costa, dovremmo, per questo, rinunciare a difenderci? L'economia non è tutto per una società. E se non garantisce giustizia e sicurezza uno Stato non ha nemmeno ragione di esistere.

Massimo Fini da Il Gazzettino 13 giugno 2008

 
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