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L'inferno delle Cayman PDF Stampa E-mail

10 dicembre 2007

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Nel 2005 gli hedge fund hanno generato il 50% dei movimenti azionari alla borsa di New York e di Londra. Miliardi e miliardi di dollari.
Questa percentuale, mai smentita da alcuna autorità politica, bancaria o monetaria, è stata rivelata da quei bricconi canadesi del Global Research (www.globalresearch.ca). Un gruppo di studio sulla globalizzazione affollato di ricercatori universitari, giornalisti, analisti, sociologi ed esperti di geopolitica. Un think tank indipendente che dal 2001 dà filo da torcere, sulla base di dati e analisi rigorose, ai supporter del pensiero unico.
Ma andiamo per ordine. Anzitutto che cosa è un hedge fund (o fondo speculativo)? Si tratta di una compagnia con un numero limitato di soci, solitamente massimo un centinaio, autorizzata ad effettuare in borsa (ma non solo) compravendite ad alto rischio. Alto rischio, alta resa (quando le cose vanno bene). Tante perdite, se le cose vanno male. La questione però si complica dannatamente se si considera che i fondi speculativi possono acquistare altri fondi, banche, società, terreni, beni mobili e immobili, debito di terzi: insomma praticamente tutto.
Teoricamente le legislazioni dei singoli paesi pongono una serie di restrizioni abbastanza precise alle attività di questi soggetti economici, ma c'è un ma. Dal 1993 alle Isole Cayman, ex protettorato britannico, grazie ad una scelta del legislatore d'oltremanica si è creato, in quella che fu «una trappola caraibica per turisti», un vero e proprio paradiso fiscale. Un paradiso in cui per aprire un hedge fund bastano cinque-sei giorni e un capitale iniziale di una milionata di dollari. Poi arriva il turno delle banche.
Spesso tra i soci dei fondi speculativi ci sono uomini vicinissimi ai maggiori banchieri mondiali. L'anonimato delle strutture azionarie, unitamente alle relative difficoltà delle azioni legali, definisce l'habitat ideale di questi corsari della finanza. I signori degli hedge possono così garantirsi mega prestiti dalle banche per poi speculare in borsa, sulle valute, sul prezzo delle materie prime. Masse di danaro così consistenti possono condizionare la vita delle società quotate nelle borse mondiali, dove si sa, le azioni possono essere cedute o ricomprotate con un clic.
Snoccioliamo qualche dato che arriva da Global Research: «Gli hedge fund delle Isole Cayman rappresentano i quattro quinti del totale mondiale degli speculativi. Globalmente, gli hedge fund contengono 1.440 miliardi di dollari di risorse in gestione, ma attraverso un tasso di indebitamento che va da 5 a 20 ovunque, comandano fino a 30.000 miliardi di dollari in fondi impiegabili... l'oligarchia dei fondi speculativi (finanzieri inglesi, americani ed olandesi in primis) ha costruito una intera sovrastruttura finanziaria sulle Isole Cayman. Escludendo gli enormi patrimoni di beni da hedge fund, il sistema bancario delle Isole possiede risorse per 1.500 miliardi di dollari... Le deregolamentate e off-shore Isole Cayman possiedono il quarto sistema bancario al mondo per grandezza dopo quelli di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna. Paragoniamo: gli Stati Uniti contano 300 milioni di persone, le Isole Cayman circa 57.000...». E gli Usa le loro banche le usano principalmente come supporto all'economia domestica. Alle Cayman tutta quella massa di denaro mira alla sola speculazione finanziaria. In questo senso Global Research parla chiaro: «Raggruppati tutti assieme, gli hedge fund, con i soldi presi in prestito dalle banche commerciali e di investimento più grandi del mondo, hanno gonfiato la bolla mondiale dei derivati (i debiti impacchettati e rivenduti come prodotti finanziari ad ignari clienti, ndr) ben oltre i 600.000 miliardi di dollari in valore nominale... hanno messo il mondo sulla strada della disintegrazione finanziaria più grande nella storia moderna».
Perché il centro studi canadese usa queste parole? Semplice, perché quando i signori degli hedge fanno troppi profitti (mettendo in crisi magari intere banche o società) o, peggio, quando sbagliano gli investimenti, a rimetterci sono, in ultima analisi, i correntisti formica che sgobbano tutto l'anno per mettere qualcosa da parte da far investire alle banche, che con una mano ti prendono promettendo di rendere e con l'altra fanno marameo al piccolo investitore quando gli investimenti proposti (spesso occultati nella loro essenza) si rivelano delle colossali patacche. Ma c'è di più. Quando i fondi speculativi - ormai la quintessenza della globalizzazione - fanno scommesse che poi non riescono a pagare, finiscono per mettere in braghe di tela quelle banche che li hanno supportati. Queste ultime sono così chiedono soldi alle banche centrali, in una partita di giro in cui si crea debito su debito. Vedi il caso Northen Rock e mutui subprime.
Usando una metafora, le Cayman sono le isole dei pirati col tesoro immateriale di dollari telematici. Gli hedge fund sono le loro navi. I gestori dei fondi sono i pirati in carne ed ossa, mentre la legislazione inglese del 1993 ha fornito a questi signori le lettere di corsa, ovvero l'autorizzazione a depredare le imbarcazioni dei piccoli risparmiatori nel mare magnum della globalizzazione finanziaria e telematica. Le leggi inglesi impediscono rogatorie, perquisizioni ed altri polverosi controlli legati al peloso concetto di legalità.
Da anni la borsa è una banale e complicatissima catena di Sant'Antonio. Poiché le borse da sole non bastano ad alimentare questa cloaca perversa, ingorda ed impersonale, si sta cominciando a buttare nel gorgo anche il piccolo e grande risparmio. Poi succederà qualcosa di imprevedibile per il capitalismo. Magari Russi e Cinesi lo hanno già capito, e per questo non si fidano più molto degli Americani e dei loro arsenali di "pace preventiva"...

Marco Milioni

 
Spe Salvi: Ratzinger antimoderno? PDF Stampa E-mail

8 dicembre 2007

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Vi devo confessare che, sentendo alla radio e in tv le prime anticipazioni sull’ultima enciclica del Papa, mi era venuta la tentazione di correre ad iscriverlo ad honorem a Movimento Zero. Tutto, in quel che sentivo, pareva andare nella stessa direzione dell’antimodernismo di MZ: il monito sul fallimento dell’algido razionalismo illuminista e del plumbeo materialismo marxista; l’affermazione di come nessuno dei due sia riuscito a dare all’uomo la felicità né abbia mantenuto le sue promesse di rinnovamento, se non addirittura di rivoluzione; il richiamo, soprattutto, alla necessità di un recupero di radici antiche, spirituali e religiose, che sole possono dare un senso all’esistenza. Basta sfogliare un qualsiasi testo di antropologia religiosa, per sapere quanto sia vero, per scoprire un universo immenso di tradizioni e simboli che per millenni hanno sostanziato le attività umane, dalle società "primitive" a quella medievale, un patrimonio pervicacemente disperso prima dall’Illuminismo a colpi di ghigliottina, poi dal marxismo e dal capitalismo, apparentemente agli antipodi, in realtà facce della stessa medaglia, quella del Progresso. Ma le mie speranze sono state velocemente frustrate. Avrei dovuto dar retta a Cacciari: "Ma volete che il Papa non faccia il Papa?". Giusto: infatti, anche questa volta i salmi sono finiti in gloria, e quando i giornali hanno pubblicato le prime anticipazioni concrete ci si è subito potuti render conto di dove voleva andare a parare. Non alla religiosità, al Sacro, ma alla religione, anzi – naturalmente – "la" Religione, l’unica "vera", l’unica possibile: quella cristiana; anzi: quella cattolica. Tanto rumore per nulla, dunque. Quello che pareva dover essere un monito alle coscienze inaridite dell’Europa, si è rivelato non essere altro che l’ennesimo, arrogante ma anche noioso, pamphlet integralista; l’ennesimo arrocco intollerante attorno ad una "Verità" che in quanto rivelata si autogiustifica, e non ammette contraddittori. Insomma: “Extra Ecclesiam nulla salus”, fuori dalla Chiesa non v’è salvezza, come scrisse San Cipriano circa milleottocento anni fa. Non una gran novità, appunto. E vien dunque da concludere che di questo deludente testo non si sentisse affatto il bisogno.
Giuliano Corà

La seconda enciclica di Benedetto XVI, tolto il latino sacrale di un documento pontificio, è un chiaro atto di accusa ai fondamenti della Modernità.
L’Illuminismo ha inneggiato alla Razionalità come artefice di un mondo perfetto qui in terra. Col Positivismo, e per tutto il Ventesimo Secolo, con la realtà della Tecnica, si è giunti all’idea che la scienza (razionalità che produce scoperte e tecnica) fosse la nuova speranza per il mondo; il Progresso (bel progresso: da Bacone a Odifreddi, da Galileo a Severino Antinori...) ne sarebbe la prova provata: siamo allo Scientismo. Tutta la modernità ripiega sul materialismo. Ratzinger ne constata il fallimento: esso non è riuscito a rispondere ai bisogni dell’uomo,  cui ha fatto perdere la bussola.
Ma Benedetto XVI - e questa è musica per chi, come chi scrive, auspica un rinnovamento della Chiesa - ne ha anche per i destinatari propri dell’enciclica. Per i fedeli adagiatisi in un comodo cristianesimo borghese:  “...se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte”. E per gli ecclesiastici stessi, in maniera più velata: la Chiesa non ha avuto il coraggio, nell’ultimo secolo, di controbattere la fede illuminista e scientista, e l’ha piuttosto subita, riducendo il cristianesimo ad un’etica umanista dei buoni sentimenti. Il risultato, aggiungo io, è che la Chiesa, sulla difensiva e senza coraggio, abbandonando la disputa, ha scelto poi per le sue inevitabili battaglie la via più facile: imporre diktat.
Ora, siccome non si può chiedere al Papa di non fare il Papa, e visto che l’enciclica è rivolta a “tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana”, la soluzione che Ratzinger propone non può che essere un ritorno a Cristo (che è, per il credente, la verità rivelata, come dice giustamente qui sopra Corà). Ma credo che Movimento Zero non debba dispiacersi di una Chiesa che abbandoni il suo complesso d’inferiorità  verso la Modernità, dopo aver cercato pateticamente di inseguirla. Una Chiesa che pretenda da fedeli sempre più pigri che ridimensionino l’importanza del benessere materiale, e che lavori affinché l’uomo si ricordi di essere una creatura “sacra”. Quest’ultimo auspicio è centrale, secondo me, perché ci si rifiuti di continuare ad essere semplici ingranaggi di un sistema senza senso. Ogni religione, nel mondo tecnologico, ha questo compito.
Antonio Gentilucci

 
L'Iran, il lupo e l'agnello PDF Stampa E-mail

7 dicembre 2007

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Quando qualche giorno fa ho letto che il National Intelligence Estimate, cioè il rapporto che riassume i risultati delle ricerche delle sedici agenzie di spionaggio americane, Cia e Nasa in testa, quindi la crema delle creme dell'intelligence di Washington, affermava che l'Iran aveva bloccato il proprio programma di nucleare militare dal 2003, sono scoppiato a ridere.
Ma come? Sono due anni che George W. Bush grida che l'Iran sta preparando la Bomba, che è vicinissimo ad ottenerla, che in ragione di ciò ha imposto all'Onu due risoluzioni che infliggono pesanti sanzioni a Teheran, che quattro portaerei armate di 'atomiche tattiche' incrociano nel Golfo, che Stati Uniti e Israele approntano piani militari per distruggere, sempre con l'aiuto di qualche atomichetta 'tattica', i siti nucleari iraniani e tutto ciò che è loro vicino, e che infine, il presidente Usa allarma l'intero pianeta arrivando a dichiarare, non più di un mese fa, il 17 ottobre, che un Iran atomico "porterebbe dritto e di filato alla Terza Guerra Mondiale", e adesso apprendiamo dagli stessi servizi segreti degli Stati Uniti che questo nucleare iraniano non esiste, non è mai esistito o se è esistito è stato volontariamente interrotto dagli ayatollah cinque anni fa?
Ci si sarebbe aspettati che Bush si scusasse se non con Teheran almeno con la cosiddetta comunità internazionale e che annunciasse che le sue risoluzioni Onu, che gli iraniani hanno sempre considerate arbitrarie e ingiuste, sarebbero state ritirate perchè non hanno, e non hanno mai avuto, alcuna ragione d'essere. E invece no. Bush non è uomo da lasciarsi smuovere per così poco.
Il giorno dopo le sconcertanti, e si sarebbe tentati di dire esilaranti se non si trattasse di questioni così inquietanti e gravide di pericolo, rivelazioni del National Intelligence Estimate, ha dichiarato che "l'Iran era pericoloso, è pericoloso e sarebbe pericoloso se possedesse le conoscenze necessarie per costruire un ordigno atomico". E ha aggiunto: "Se gli iraniani avevano un programma nucleare chi ci dice che non possano riprenderlo?". Elementare Watson. Bush ha poi interpretato la relazione del National Intelligence Estimate così: "Nulla suggerisce che dobbiamo smettere di preoccuparci. Al contrario, sappiamo che l'Iran continua a cercare di arricchire l'uranio, passo importante per un Paese che voglia sviluppare una Bomba". Peccato che lo stesso National Intelligence Estimate abbia confermato che gli iraniani, come hanno sempre dichiarato, stanno arricchendo l'uranio a soli scopi civili e non è colpa loro se questo è un "passo importante" anche per arrivare alla Bomba, perchè allora bisognerebbe impedire anche la riapertura della centrale di Caorso se l'Italia ritenesse di ritornare all'emergenza nucleare.
Bush ha poi prospettato una terza risoluzione Onu che preveda sanzioni ancora più dure nei confronti di Teheran, perchè, secondo lui, sono state proprio queste risoluzioni a fermare gli ayatollah. Ma com'è possibile una cosa del genere se le risoluzioni Onu, con relative sanzioni, sono del luglio e del settembre del 2007, mentre Teheran ha fermato il suo programma nucleare atomico cinque anni prima?
Sembra di rivedere la storia della guerra all'Iraq dove i pretesti per attaccare quel Paese venivano di volta in volta cambiati man mano che venivano smentiti dai fatti o di rileggere la favola esopiana del lupo e dell'agnello, anche se capisco che sia ostico per il lettore vedere Ahmadinejad in questa parte. Il lupo, che beve a monte, dice all'agnello: "Tu stai intorbidando le mie acque". Non è possibile risponde quello, perchè io sono a valle. Il lupo rizza i peli, ci pensa un pò su, e poi dice: "Sei mesi fa mi hai fatto un torto". "Come potevo" replica l'altro "se sei mesi fa non ero ancora nato?". Allora il lupo, schiumante di rabbia, ringhia: "Beh, se non sei stato tu, saranno stati i tuoi genitori". E se lo mangia.

Massimo Fini Il Gazzettino 7 dicembre 2007

 
Viva l'assenteismo! PDF Stampa E-mail

6 dicembre 2007

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«L'assenteismo è l'emblema dell'inefficienza e del cattivo funzionamento della pubblica amministrazione, il fenomeno più evidente e clamoroso. Azzerare del tutto le assenze diverse dalle ferie porterebbe a un risparmio di quasi un punto di Pil, 14,1 miliardi: 8,3 negli enti centrali e 5,9 in quelli locali».
Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria

Noi stiamo con gli assenteisti. Anche quelli del settore privato. Siamo stufi di rovinarci la vita per un punto di Pil in più. (a.m.)

 
E' on line MZ n° 8 PDF Stampa E-mail

3 dicembre 2007

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E’ on line il settimo numero stampabile di MZ – Il giornale del Ribelle. Potete liberamente scaricarlo cliccando in alto a destra, dove vedete scritto MZ Download. Perché una versione cartacea del blog? Per diffonderne i contenuti col vecchio ma imbattibile sistema della distribuzione a mano, faccia a faccia, porta a porta, nelle biblioteche, nelle università, nel luogo di lavoro, col volantinaggio in strada. Fate quante più copie potete (attenzione a stampare in fronte/retro: pagg 1-2 e pagg 3-4), rilegate con una semplice graffettatrice, e distribuite.
In questo numero, in particolare, segnaliamo l'editoriale di Andrea Marcon sull'Afghanistan (che potete leggere anche qui sotto), in cui si ribadisce che Movimento Zero difende il diritto del popolo afghano di difendersi dall'occupazione straniera; e il bell'articolo di Ida Magli, antropologa fondatrice dell'associazione "Italiani Liberi", su veri e falsi problemi della politica italiana. Buona lettura.

Noi stiamo coi Talebani

Lo gridiamo ancora, anche dopo che la polizia ha sequestrato alla manifestazione di Roma del 9 giugno scorso il nostro striscione che riportava questa frase. Stiamo con i Talebani. Il che non significa che ne condividiamo le idee; a noi non piacciono gli integralisti, di qualunque tipo e colore: né i crociati neocon né i fanatici del Corano. Tantomeno ci piacciono coloro che, fosse anche per difendere il più nobile degli ideali, colpiscono deliberatamente la popolazione civile. Che è esattamente quanto fa la Nato, in Afghanistan come altrove (di colpire i civili, non di difendere nobili ideali) ma che avremmo voluto non facessero pure i Talebani, anche se è evidente che colpire un nemico che si rifiuta vigliaccamente di scendere sul campo di battaglia e uccide con le sue bombe da migliaia di chilometri di distanza finisce col rendere inevitabile il ricorso a strategie terroristiche.
Non ci piacciono insomma i Talebani in quanto tali, ma sappiamo ancora distinguere tra invasori e resistenti e crediamo fermamente al principio di autodeterminazione dei popoli. E tra gli invasori degli stessi afghani, ovviamente per il loro bene, c’è purtroppo anche il governo italiano: sì, il governo, perché è assodato che la stragrande maggioranza degli italiani è contraria a questa guerra, così come lo era a quella contro l’Iraq. Ma si sa, la volontà popolare non conta nulla in questa paradossale democrazia, per non parlare della Costituzione e del suo articolo 11 (“L’Italia ripudia la guerra etc. etc….”). Ci vengono a dire che noi non siamo lì per combattere ma per “aiutare la popolazione civile, per costruire scuole, ponti, ospedali…”. Le solite parole con le quali si è sempre cercato di giustificare secoli di colonizzazioni. Troviamo molto meno ipocrite quelle di Kari Yusuf Ahmadi, portavoce dei Talebani: “Non ci interessa se gli italiani distribuiscono elemosine o sparano. Sono alleati degli americani e quindi invasori. Se ne devono andare. Prima lo capiscono e meglio sarà per loro».
Minacce che suonano sinistre e da tenere in seria considerazione, visto che i Talebani controllano ormai la stragrande maggioranza dell’Afghanistan e stanno stringendo il loro cerchio intorno a Kabul. Noi aspettiamo, sicuri che se questa missione si rivelerà un’ecatombe per l’esercito italiano (ovviamente non ce lo auguriamo), coloro che adesso nascondono la testa nella sabbia e continuano a votare il rifinanziamento della missione medesima saranno i primi a strillare che questa guerra è stata un tragico errore e che “noi lo avevamo detto”. Miserabili, voi per i quali la permanenza in carica del governo Prodi e il compimento del periodo per la maturazione della vostra pensione da parlamentare valgono di più della vita di migliaia di afgani e di decine di soldati italiani. Noi stiamo con i Talebani, ma la morte di Paladini e quella di tanti altri innocenti ricadono e ricadranno tutte sulle vostre coscienze.

Andrea Marcon

 
Liberalizzare non è la soluzione PDF Stampa E-mail

3 dicembre 2007

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Scioperi, proteste, blocchi, marce. Le categorie di lavoro in Italia sono perennemente sul piede di guerra contro lo Stato e le scelte del governo. Di qualsiasi governo. Perché dovendo questa nostra Italietta ostaggio dei banchieri portare il peso asfissiante e del tutto artificiale dell’immenso debito pubblico, c’è una carenza strutturale di soldi per questo o quel gruppo sociale. Perciò un giorno sono gli operai, un’altro gli addetti ai trasporti, un altro ancora i poliziotti e via via tutti, sistematicamente tutti.
E qual è la formuletta magica che sia Destra che Sinistra fanno a gara per meglio recitare in omaggio all’ideologia unica cara alla finanza e alle grandi imprese (assistite)? Liberalizzazioni, of course!
Prendiamo un caso controverso come quello dei tassisti romani, che hanno, con arroganza proditoria, azzerato il servizio taxi nella capitale per due giorni (arrivando a tirar fuori a forza dalle auto i colleghi non “allineati”). A far scoppiare ancora una volta la rabbia tassinara è stata la decisione del sindaco Walter Nutella Veltroni, radioso futuro della Dc di sinistra altrimenti nota come Pd, di aumentare le licenze di 500 unità. Un gesto provocatorio: Veltroni sapeva benissimo quale sarebbe stata la reazione. Dai corridoi della politica giunge la voce che l’abbia fatta poco proprio dopo il colloquio con Gianfranco Fini, referente politico di buona parte della lobby dei taxi, per lanciare un segnale del tipo: attenzione, Gianfra’, se vuoi candidarti al Campidoglio come mio successore devi metterti d’accordo con me. E infatti, dopo la jacquerie giallo tassì, ha fatto retromarcia venendo a più miti consigli.
I tassisti, intendiamoci, hanno poche o punte ragioni. Sono una di quelle corporazioni ricattatorie che, giustamente dal loro punto di vista, infestano una società polverizzata in tanti interessi che non si parlano fra loro perché manca il collante politico di una visione sociale e ideale che superi le contraddizioni fra lobby, ceti e classi. Ma qui sta il punto: la soluzione dominante, trasversale, è quella di allargare le contraddizioni liberalizzando a più non posso. E’ il consumatore a trarne beneficio, dicono i benpensanti liberali, i vari Bersani di turno. Ma quando mai.
Se si fa terra bruciata di limiti e vincoli, come effetto si ottiene la formazione di cartelli, di oligopoli che alla lunga fanno alzare i prezzi del servizio e schiacciano i piccoli. E’ già avvenuto col commercio al dettaglio, dove ormai le grande catene la fanno da padrone.
Quindi: da una parte le consorterie corporative non possono mettere in ginocchio una città o un Paese intero, ma d’altro canto non è distruggendo le realtà locali di mercato che il cittadino ci guadagna.
La quadratura del cerchio sta in un rinnovato ruolo del pubblico, della politica come strumento di armonia e di controllo, nel commisurare i bisogni della popolazione con i legittimi interessi di categoria, usando il compasso dell’ambito locale. Ma dovremmo essere in un altro mondo. Il nostro mondo, quello che vogliamo.

Alessio Mannino

 
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