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I nuovi mostri PDF Stampa E-mail

5 settembre 2007

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La settimana scorsa in una fattoria del New England si sono dati convegno sei famosi scienziati, tra cui la star incontrastata della genica mondiale Craig Venter, quello che anni fa annunciò al mondo la prossima mappatura completa del genoma umano e che di recente si è vantato di aver per primo trapiantato il genoma di un batterio in un altro - praticamente la riprogrammazione artificiale di un essere vivente. Dall'amena fattoria americana il guru della manipolazione genetica afferma ora che tale riprogrammazione “non solo è possibile anche per l'uomo, ma addirittura desiderabile”. Tale espressione, a guardar bene, contiene la quintessenza della mentalità tecnocratica che domina l’Occidente: ciò che è tecnicamente possibile, è anche desiderabile. La tecnica, da semplice mezzo com’era sempre stata nelle società del passato, è diventata fine. Ed essendo diventata fine, il suo sviluppo non conosce appunto fine. E il dominio della tecnica altro non significa – come ben esemplificano le parole di Venter - che dominio della “programmazione”. Nella nostra società, infatti, che si vanta essere fondata sulla libertà, tutto è in realtà programmato: la megamacchina tecno-industriale programma i nostri bisogni, i nostri desideri, la nostra istruzione, la nostra salute e financo il nostro tempo cosiddetto libero: tutto viene programmato, pianificato, tanto che l’individuo è stato espropriato ormai di qualsiasi possibilità di filarsi la propria vita come meglio gli aggrada. Ora, come se ciò non bastasse, per Venter e i suoi amici sarebbe venuto il momento di programmare addirittura il suo stesso genoma, le sue stesse caratteristiche genetiche. Pensate che bello: tutti al supermercato ad acquistare la nuova identità genetica che una sapiente campagna di informazione scientifica e di pubblicità-progresso avrà ritenuto opportuna per ciascuno! E tutto ciò sarebbe “desiderabile”! La paranoia programmatrice di cui anche Venter ci sembra inconsapevole vittima non conosce limiti. “Chi potrebbe – afferma infatti lo scienziato – avere qualcosa contro persone con un’intelligenza geneticamente aumentata?” Già, chi? Ebbene, caro Venter, noi. Noi che non siamo ancora coglioni a tal punto da ritenere desiderabile una mostruosità del genere. Noi per cui ciò che rende affascinante la vita è proprio la sua non-programmabilità, ovvero la sua indeterminatezza, la sua imprevedibilità, il suo mistero. Il suo essere aperta, indefinita. Il suo essere enigmatica come il mondo che la circonda. Caro Venter, ciò che noi desideriamo sono il nostro mistero e il nostro enigma. Ovvero la nostra libertà.

Stefano Di Ludovico

 
Lavavetri, specchio del problema immigrati PDF Stampa E-mail

3 settembre 2007

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Il problema di Palermo è… il traffico”. Così, con amara ironia, si diceva nel Johnny Stecchino di Roberto Benigni. Paradossalmente qualche giorno fa, un’ordinanza del Comune di Firenze sembra riproporre lo sketch benignesco: vieta la presenza di lavavetri ai semafori. I lavavetri, che sono per la gran parte stranieri, sono ora banditi nella signoria fiorentina, rischiando addirittura il carcere. Ordinanza sicuramente smodata e eccessiva: come uccidere una mosca con un bazooka. La parte politica promotrice del bizzarro editto (il centrosinistra) ha tirato in ballo lo smantellamento del racket dei lavavetri, mentre le città del nostro Paese, come molte altre in Europa, pullulano di disperati,  che con la speranza di una vita migliore vengono spediti in quartieri ghetto senza avere, molto spesso,  un permesso di soggiorno, una sistemazione e di che vivere. Nelle ombre dove si muovono questi fantasmi urbani, senza alcun diritto e dovere, e in mano alla lusinghe della malavita italiana, di cui sono diventati una delle riserve maggiori. Vogliono soldi facili e subito, a dispetto di un sistema che li ha ingannati ed illusi. Parliamo di Paesi, i nostri dell’Occidente opulento, in cui anche curarsi in cliniche di modesto valore è diventato un lusso per una eletta minoranza. Questo sistema ideologico ed etico non riesce più a tornare sui suoi passi ed ammettere i propri errori, ragion per cui adotta misure-tampone. Non si vede la benché minima volontà di ammettere che il nostro Paese sta soffrendo un carico insostenibile: si lavora troppo, si guadagna pochissimo, si deve consumare molto e a tutti i costi, pena la rovina collettiva.
Trovate come quella di Firenze non fanno altro che esasperare gli animi senza dare il segno politico di una consapevolezza reale delle problematiche legate a questi schiavi. Schiavi utili a molte cause, perché per pochi spiccioli fanno quello che per lo snobismo professionale degli Italiani sia considerato umiliante. Scompaiono lentamente mestieri come i  meccanici, falegnami e muratori, perché si preferisce spendere anni di studio, lavorare per cifre ridicole e contratti imbarazzanti. Ecco dove ci servono questi nuovi schiavi, li utilizziamo per tutto ciò che noi riteniamo imbarazzante, e che vanno a comporre il sogno di una società multietnica sì, ma non paritaria
Provocatoriamente, mi viene da affermare che la “piaga” dei lavavetri, per essere combattuta, andrebbe regolarizzata e contrattualizzata: solo così nessuno la vorrebbe più praticare. Stesso discorso, ad esempio,  varrebbe per un mestiere come la prostituta, che per moralismo rimane nell’illegalità. Chiunque possa avere accesso nel nostro Paese, come in altri, dovrebbe avere la reale opportunità di poter lavorare, pagare le tasse, comporre una famiglia e votare. Questo non accade, e si preferisce una sana miscela di pietas primomondista e un po’ di velata intolleranza: ti aiuto ma stammi lontano. Troppo comodo.

Antonello Molella

Ps: in questo articolo Molella propone l'integrazione lavorativa, fiscale, sociale e politica degli immigrati ("la reale opportunità di poter lavorare, pagare le tasse, comporre una famiglia e votare"). E' un argomento caldo che va affrontato: come sempre, vi invito a dire la vostra. A mio avviso, l'obbiettivo finale - e ideale, ne sono ben conscio - è quello che ogni popolo risieda nel proprio luogo d'origine, senza per questo vietare gli scambi di qualsiasi genere, anzi. Ma nel frattempo, con milioni di aspiranti schiavi - come noi siamo invece a tutti gli effetti - alle nostre porte quando già nella porta accanto, che si fa? La bussola è senz'altro quella del rispetto dell'identità altrui (e della nostra). Differenzialismo, si chiama in gergo: difendere e preservare le differenze socioculturali anche all'interno dello Stato ospite. Come hanno sempre fatto in Inghilterra. I critici di questo modello dicono che però gli inglesi, come risultato, si sono ritrovati i terroristi in erba (ma operativi) in casa. Personalmente, tuttavia, resto convinto che rimanga la strada da seguire. E voi? (a.m.)

 
Disobbediamo alla Grande Truffa PDF Stampa E-mail

1 settembre 2007

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In agosto, mese in cui dovrebbero acquietarsi le preoccupazioni e le ossessioni quotidiane, non si è parlato d’altro che di tasse. Le tasse, questa croce che affligge l’italiano medio e lo accomuna ai Montezemolo, ai Calearo, ai Bossi, ai Berlusconi, ai Veltroni e al proprio vicino di casa. Una condanna che rassicura perché trasversale, unanime, ecumenica. Una paranoia nazionale, come se noi Italiani non avessimo altro pensiero che il dolore di metter mano ai cordoni della borsa e pagare lo Stato. L’autobiografia della Nazione? Il vittimismo fiscale.
Intendiamoci: la percentuale dei sudati guadagni che giriamo all’erario è alta, non c’è dubbio. E lo Stato moderno, come non mancano di puntualizzare dalle loro saccenti cattedre i liberaloni nostrani (Ostellino & company), da strumento dell’economia capitalistica qual è, si fonda sul contratto fiscale. Di qui il tic che scatta ogni tot anni: “sciopero fiscale!”. Bossi, tribuno sulla via del tramonto, ha per la centesima volta sparato l’idea (un colpo a salve, figuriamoci). Il rampante Calearo gli ha fatto eco, facendosi portavoce del malcontento del ceto imprenditoriale (che nel suo Nordest come nel Mezzogiorno, non è certo estraneo all’evasione di massa, come si sa). Montezemolo ha posto la pressione fiscale come priorità nazionale, dando un facile assist a Veltroni che ci ha ricamato sopra il suo compitino, un manifesto in dieci punti servito a caldo alla Confindustria e alla borghesia produttiva. Berlusconi è rimasto in disparte. Strano? Non più di tanto. A lui non piace mettersi in fila e fare coro, lui vuole la parte di protagonista.
Questa ben orchestrata campagna contro il fisco rapace, come prima quella contro sprechi e privilegi della politica, è una truffa. L’ennesima. Sottile e ben congegnata, di sicuro successo perché fa leva sull’atavico istinto italiota a fregarsene del pubblico e a interessarsi solo del privato, del proprio privato. Più soldi mi restano in tasca, tanto meglio per me e tanto peggio per gli altri. Qui è il vero scandalo: il mancato ritorno in termini di servizi pubblici, che sborsando il 45% del nostro reddito dovrebbero essere di un’efficienza svedese.
Ma è una truffa per un motivo ancora più profondo e determinante. Noi sudditi, prima che dello Stato oppressore, siamo ostaggi del mercato che ne è l’indiscusso padrone. Siamo ingabbiati nel nostro posto di lavoro, che ci ruba il tempo e la vita, impoverendoci sempre di più sia in termini monetari sia, soprattutto, esistenziali. E siamo dipendenti da quella banda di sequestratori organizzati che è il sistema bancario, che ricatta noi e lo Stato in combutta con le Borse e le agenzie di rating (che Dio le stramaledica!). Noi, chiaramente, ci lasciamo sodomizzare volentieri, rimbambiti come siamo dal miraggio dei soldi facili, degli investimenti, degli alti tassi e delle speculazioni comodamente fatte dal pc di casa.
Gridare alla disobbedienza fiscale è cavalcare la solita tigre di carta, proclamando sfracelli per poi lasciare tutto com’è. Togliamo il nostro denaro dalla banche. Abbandoniamo i sindacati che non pongono come loro primo punto la riduzione dell’orario di lavoro (cioè tutti). Lasciamo perdere titoli, azioni, obbligazioni, fondi e tutto il barnum di espedienti ideati per rapinare i poveri diavoli e finanziare i capitalisti con le pezze al culo. Denunciamo la gigantesca montagna di balle su cui si regge l’economia. Scioperiamo contro la Grande Truffa: questa è vera rivolta che fa male. Non i fucili scarichi di Bossi e tanto meno i pelosi ammonimenti di Montezemolo.

Alessio Mannino

 
La schiavitł di noi uomini "liberi" PDF Stampa E-mail

31 agosto 2007

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Questo articolo di qualche giorno fa di Massimo Fini - fatto passare, come al solito, come "provocazione" dal diabolico Feltri - merita di essere pubblicato per intero qui. Fa venire i brividi per quanto è lucidamente tagliente e veritiero. (a.m.)

Noi non siamo solo stufi di pagare le tasse. Siamo stufi di lavorare. Di essere, nella stragrande maggioranza, degli “schiavi salariati”, per dirla con Nietzsche, costretti a produrre per consumare. Stufi di essere dei tubi digerenti, dei lavandini, dei water attraverso i quali deve passare il più velocemente possibile ciò che altrettanto velocemente produciamo. Adesso siamo arrivati addirittura all’estremo paradosso per cui non produciamo più nemmeno per consumare, ma dobbiamo consumare per produrre («Bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione», vero?). Dobbiamo cacare in continuazione, come scimmie, ingoiare la nostra merda e dire anche che ne siamo felici. Siamo la “variabile dipendente” del meccanismo economico, il “terminale uomo”. Anzi non siamo più nemmeno uomini, siamo stati degradati, appunto, a “consumatori”. Non c’è cosa più beffarda, concretamente e linguisticamente, del cosiddetto “tempo libero”. È anch’esso un tempo obbligato, da consumare per nutrire l’onnipotente meccanismo che ci sovrasta. Se un gruppo consistente di italiani, poniamo, decidesse di botto di non far più le vacanze crollerebbe il sistema e arriverebbero gli sbirri ad arrestare i renitenti per boicottaggio.
Non è che a noi umani non piaccia lavorare in assoluto. Qualche volta ci piace anche. Certamente l’artigiano e il contadino dell’ancien régime traevano soddisfazione dal proprio mestiere (che, per altro, è un concetto diverso da quello di lavoro), perché era creativo, personale (oggi si direbbe “personalizzato”, ed è già tutto un programma) e dalla loro abilità dipendeva la loro sopravvivenza, soddisfazioni che dubito riguardino l’operaio industriale, l’operatore del terziario, i ragazzi del “call center” e infinite altre categorie di lavoratori. Noi siamo stufi di lavorare come muli, come bestie da soma, per un modello insensato e di essere tosati come pecore della cui lana non si sa poi che fare. Siamo stufi di lavorare per permettere a Bill Gates (o chi per lui) di accumulare enormi ricchezze delle quali, arrivato a cinquant’anni, comprende che potrà utilizzarne solo una minima parte e che mette in una qualche Fondazione pur di liberarsene. O perché Silvio Berlusconi possa comprarsi sempre nuove ville che nemmeno se vivesse cent’anni (cosa a cui costui aspira, povero vecchio, illuso “puer aeternus”) potrebbe mai abitare. O perché individui totalmente decerebrati facciano finta di divertirsi al “Billionaire”. I ricchi depressi fra alcol e droga. Poveri ricchi. Fan pena. È fra di loro che si riscontrano le più alte percentuali di nevrosi, di depressione, di consumo di psicofarmaci, di alcol, di droga. Per trarre dal loro membro sempre più floscio una goccia di godimento, per provare un’emozione, devono farsi inchiappettare da un travesta e farsi ficcare il Rolex nel culo (che è un atto altamente simbolico: è come dire che i ricchi gadget che bramiamo e di cui ossessivamente ci circondiamo, per avere i quali lavoriamo, produciamo e ci consumiamo, non valgono nulla e devono far la fine che si meritano). Questo modello di sviluppo è riuscito nell’impresa, veramente miracolosa, di far star male anche chi sta bene.
E poveri politici, mosche cocchiere che si illudono di governare una macchina che non risponde più a nessun comando, tantomeno ai loro, e che da tempo va per conto suo, autopotenziandosi e aumentando costantemente, a causa della propria e ineludibile dinamica interna, la sua velocità. Finché andrà trionfalmente a sbattere da qualche parte. Costoro o sono dei truffatori - perché sono consapevoli di essere impotenti - o sono dei coglioni. Ma, forse, sono truffatori e coglioni insieme.
Liberté, egalité, fraternité era il motto della Rivoluzione francese nata da quell’evento epocale, decisivo, che è stata la rivoluzione industriale, da cui inizia la Modernità, e che ha partorito le ideologie e i modelli conseguenti: l’industrial-capitalismo e l’industrial-marxismo che non è che una variante, inefficiente, del primo. È stato un fallimento su tutta la linea. Completo. Clamoroso.
A parte il fatto che appena inalberata quella bandiera egualitaria e libertaria le democrazie occidentali si sono messe a schiavizzare gli altri popoli (il colonialismo sistematico è dell’Ottocento), da allora le disuguaglianze nei paesi industrializzati non han fatto che aumentare, così come è aumentata enormemente la disuguaglianza fra Primo e Terzo mondo, non solo in senso relativo, cioè rispetto a noi, ma assoluto: quei popoli sono più poveri, e più miserabili, di quanto lo siano mai stati in passato. Fraternité, vale a dire solidarietà, può esistere solo fra vicini, perché, come spiega Esiodo ne “Le opere e i giorni”, nasce dalla necessità di una mutua assistenza. Noi non conosciamo nemmeno chi abita nel nostro stesso palazzo e se, incontrandolo, lo saluti, risponde, sorpreso, con un grugnito.
Del resto, anche se non se n’è accorto, è già stato trasformato in un maiale da quella Circe moderna che è il meccanismo produzione-consumo- produzione, come per i porci di lui si sfrutta tutto, anche il codino. La solidarietà non è una cosa astratta, che può essere imposta per diktat, religioso o politico. Non è solidarietà quella delle “due Simone”, delle Cantoni e altri simili protagonisti del volontariato esotico, è solo la pruriginosa ricerca di ritagliarsi qualche emozione fuori ordinanza sulle disgrazie, vere o presunte, altrui - sgozzatele pure - che, oltretutto, sono state quasi sempre causate proprio dagli Stati cui appartengono queste “anime belle”, queste cugine delle cugine di Garlasco.
Né è solidarietà la bontà sanguinaria di Madre Teresa di Calcutta che si pasceva, da vera necrofora, del dolore («La sofferenza degli altri ci appaga, questa è la dura sentenza» scrive Nietzsche) e che per decenni ha rotto i santissimi con l’amor di Dio e non ci credeva e lo bestemmiava.
Liberté. Le libertà sono state abolite. Da quelle di dettaglio (non si può più fumare, non si può più bere, non si può nemmeno pisciare di notte sui copertoni della propria macchina - cosa che dà, ammettiamolo, una certa soddisfazione - a 50 metri da una puttana senza che un vigile solerte fotografi il tutto e lo spedisca alla tua “compagna” - ma chi te lo dice, stronzo, che quella è la mia compagna? - non si può dare una pedata a un cane senza essere inseguiti da orde di animalisti, eccetera) a quella decisiva: disporre come ci pare del tempo che, come diceva Benjamin Franklin, è «il tessuto della vita» e di cui siamo stati espropriati.
L’unica libertà che resta, sempre più illimitata, globale e oppressiva, è quella economica, cioè proprio quell’infernale meccanismo («Produci, consuma,crepa» per dirla con i Cccp) che ci sta strangolando tutti, poveri e ricchi. Questo è il Progresso, bellezza.

Massimo Fini (da Libero, 28 agosto 2007)

 
Garlasco Horror Show PDF Stampa E-mail

30 agosto 2007

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Garlasco, si ripete il clichè inaugurato con il delitto di Cogne: l’omicidio di una ragazza di “buona famiglia” stuzzica l’interesse morboso del Paese. Attori delle scena, volenti e nolenti, sono: il fedele innamorato della vittima, i vicini esterrefatti (e le rituali dichiarazioni a caldo) e le due cugine amorose e zelanti. Queste ultime così zelanti da produrre una foto fasulla e posticcia, che ritrae le due cugine in compagnia della vittima; fu un «gesto di amore», come sostengono loro. In qualche giorno lo spettacolo è pronto. L’attenzione si sposta dalla notizia in sé ai personaggi in cerca di autore del teatrino di una piccola cittadina del pavese.
La morte, che in antichità era vissuta con equilibrato rispetto, ora è motivo di spettacolo e gaudio. E’ ormai vero che da qualche tempo si usa applaudire di fronte al feretro di un defunto, a dispetto di un riservato silenzio e privato dolore, primo sottile segno della spettacolarizzazione della fine. La dipartita di qualcuno, meglio se in maniera tragica e truculenta, è un momento in cui mettersi in mostra, e tanto fanno le ormai note Gemelle K, scheletriche prefiche della vittima in questione, per trasformarsi in nuovo anoressico prodotto mediatico da spolpare e digerire nel minor tempo possibile. Per qualche giorno, grazie alla loro marachella fotografica, ottengono ciò che avidamente cercano: i riflettori dei media. Sono in prima fila ovunque, a dispetto della figura stressata e slavata del protagonista, probabilmente meno felice, della scena: il ragazzo della defunta (attualmente, per onor di cronaca, non ancora scagionato dai sospetti di omicidio). Ma ad affacciarsi a questo “horror show” di paese non può mancare l’irriverente “giornalista” - come lui stesso ora ama definirsi -  Fabrizio Corona, che, appena giunto nella piccola Garlasco, battezza le Gemelle K come sue pari. Il morto è sotto terra e sopra di esso si muove un circo di sciacalli e spettri, in cerca di un catodico afflato vitale. Non ha più importanza sapere chi sia l’assassino, come in un vecchio giallo della Christie: quasi tutte le esigenze dello show biz sono state soddisfatte, dallo sgomento iniziale allo stupore fino a un pò di sano cabaret. Certe notizie, ormai prodotti da consumo, scadono a breve termine e questa già comincia puzzare un pochino. Pochi ricordano i particolari dei precedenti mediatici assimilabili, come Cogne, Erba o peggio l’omicidio del piccolo  Tommy. Questa tipologia di notizie non ha più funzione di stimolare una atto critico, ma sono solo accadimenti che passano e vanno ricacciati nel dimenticatoio prima possibile, senza colpo ferire.
Le mutazioni dei costumi sociali in atto sottolineano come, in una vicenda del genere, passi in secondo piano l'omicidio in sé, per fare posto a personaggi pronti tutto pur di rubare qualche secondo di telecamera. Neanche la popolare indignazione, nei confronti di atteggiamenti “amorali”, ha più una funzione catartica. Si è instaurato una sorta di successo a consumo, per la quale ogni colpo basso è ammesso e qualsiasi nefandezza potrebbe aprire le porte e creare opportunità danarose. In un sistema sociale in cui il lavoro può assicurare solo stenti e difficoltà, tutto diventa lecito, perché in fondo siamo tutti decisamente disperati e qualcuno ha ben compreso come trarne guadagno.

Antonello Molella

 
Un calcio alla modernitą PDF Stampa E-mail

29 agosto 2007

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E’ ripartito il campionato di calcio. I più snob diranno: “Ecchissenefrega”. I nostalgici invece aggiungeranno: “Questo calcio non mi appassiona più: partite dal sabato al lunedì, calciatori divenute star televisive di programmi dove impazzano nani e ballerine, interessi economici e politici che soffocano la componente sportiva…”. Tutto giusto, ed è per questo che del calcio deve fregarci: è una perfetta metafora della società che avversiamo. Non mitizziamo il calcio del passato, ma è certo che quello attuale è tutto ormai fuorché uno sport. E lo è da quando, anche lui, si è piegato alle logiche totalizzanti dell’economia e del mercato: promettevano più ricchezza, più spettacolo, più divertimento, e hanno finito invece per ucciderlo trasformandolo in una kermesse televisiva. La bellezza del calcio erano la tradizione, il rispetto di regole fisse ed immutabili (almeno così si credeva, prima che comparissero le partite alle 20.30 e gli arbitri con le maglie gialle), la passione, persino i suoi eccessi e le sue derive maniacali. Adesso è il carrozzone che permette ai Mughini di intascare migliaia di euro e ai Berlusconi milioni di voti.
Come tutti i riti aveva il suo tempio: lo stadio. Anche questo hanno violato. In Italia il tifo per la propria squadra è sempre stato indissolubilmente legato al campanilismo, a rivalità di vecchia data sublimate in un tifo verbalmente violento che permetteva di scaricare le tensioni in modo simbolico e sostanzialmente innocuo, fatta eccezione per sporadici atti di violenza intorno ai quali si è generata l’ipocrita indignazione di chi pretende che lo stadio sia un modello di virtù e non l’inevitabile specchio di ciò che sta fuori di esso. Quale migliore pretesto per rafforzare la dimensione televisiva del calcio e, con la scusa di combattere la violenza, far diventare le gradinate gremite di tifosi salottieri dove ospitare pochi intimi che possono permettersi di pagare il biglietto 500 euro? Quale miglior palcoscenico per sperimentare tecniche di imposizione del pensiero unico proibendo striscioni e addirittura cori (!!!) demonizzati come espressioni di inciviltà da eliminare anche attraverso leggi penali degne di regimi totalitari? 
Il tutto, ovviamente, per dar vita ad un prodotto il più possibile standardizzato, politicamente corretto e accattivante per il mercato televisivo mondiale. Presto la finale di Coppa Campioni si disputerà magari a Pechino (quella dell’Intercontinentale già si gioca a Tokio) e forse l’Inter diventerà la squadra di Seul ed il Milan di Los Angeles: il tutto nel nome di un calcio globalizzato dove è il mercato a dettare le regole.
Peccato che, esattamente come il resto della nostra società, anche questo sia un treno impazzito destinato a terminare la sua corsa nel baratro. E non parlo di tracolli economici stile Lazio di Cagnotti o Fiorentina di Cecchi Gori: da questi eventi il capitalismo, a tutti i livelli, esce solo rafforzato. Parlo del crollo delle fondamenta, del declino della passione genuina ed autentica che ha reso questo sport un grande fenomeno popolare e sociale: uno spettacolo televisivo può fare audience, al limite anche generare schiere di aficionados, ma alla lunga stanca.
Dittatura del dio denaro, assoggettamento alle logiche economiche e di mercato, abbandono della tradizione, dominio della televisione, imposizione del pensiero unico, perbenismo ipocrita e conformista, soffocamento della libertà in nome della sicurezza, ricerca del profitto immediato a scapito del proprio futuro: i nuovi imperativi del pallone non sono forse anche i connotati della società moderna?

Andrea Marcon

 
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