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Difficoltà del terzo polo PDF Stampa E-mail

24 Giugno 2022

 Da Rassegna di Arianna del 22-6-2022 (N.d.d.)

L'abbandono del M5S da parte di Di Maio è un'ottima notizia, come sono sempre ottime notizie quelle che fanno chiarezza. Oggi parlare del percorso del M5S come di un TRADIMENTO non è più un giudizio morale, ma una pura e semplice descrizione dei fatti, ufficialmente verificabile. Questi momenti di chiarezza sono sempre utili perché sgombrano il campo dalle illusioni di chi, spesso in perfetta buona fede, vuole immaginarsi coerente con una linea originaria (ci si dice, sì, magari una linea che ha accettato compromessi, magari una linea tortuosa, ma tuttavia ancora una linea, la stessa linea.) Invece no, qui siamo di fronte al più squallido e manifesto cadreghinismo senza principi, a fronte di chi voleva rifare la politica da zero e "aprire il parlamento come una scatola di sardine". Questo è il tipo di showdown dove diviene chiaro a tutti, anche agli 'interni", di essere stati presi selvaggiamente per il culo. Curiosamente, altri partiti, come il PD, sono sempre riusciti ad evitare questo tipo di appalesamento e continuano a spacciarsi per le cose più diverse e opposte, contando sull'inerzia e sulla distrazione dei propri elettori. (C'è infatti ancora una parte dell'elettorato del PD - lo so, è difficile crederlo - che fantastica di essere l'erede del PCI o di essere "di sinistra", e roba simile.)

Ma non ci sono solo lati positivi in questa vicenda. Il lato tragico - lato però chiaro da tempo - è che questo spettacolare tradimento renderà ancora più difficile dare credito a qualunque tentativo di innovazione politica, innovazione di cui c'è bisogno come l'aria. Il tragico capolavoro della vicenda pentastellata è che la cosa di cui c'era e c'è più bisogno - un terzo polo che spezzi il giochino finto oppositivo tra liberalismo di destra e liberalismo di sinistra - esce screditato dal primo vero tentativo di venire ad esistenza. Il bisogno che un tale realtà politica venga alla luce è più urgente che mai, e tuttavia riuscire a vincere lo sconforto del fallimento pentastellato sarà estremamente complicato per chiunque voglia cimentarsi nell'impresa.

Andrea Zhok

 
Finanza come sanità PDF Stampa E-mail

23 Giugno 2022

 Da Comedonchisciotte del 25-5-2022 (N.d.d.)

Chi è il vero responsabile delle crisi finanziarie che, di tempo in tempo, prostrano l’economia e gettano sul lastrico milioni di famiglie? Per capire che aria tira nella nostra società, è interessante vedere che tipo di risposta viene data ai giovani riguardo a questa domanda, per esempio attraverso l’insegnamento che ricevono sui banchi di scuola. Citiamo da un testo scolastico molto diffuso un paio di decenni fa, La storia e l’ambiente, di Giulio Mezzetti (Firenze, La Nuova Italia, 1999, vol. 2, p. 7): Su questo drammatico scenario [quello delle carestie dell’inizio del 1300] è sopraggiunta una crisi economica di vaste proporzioni. 1. Ricordiamo che nella prima metà del Trecento a Firenze c’erano delle grandi compagnie di mercanti-banchieri che facevano capo a potenti famiglie, come quelle dei Peruzzi, dei Bardi e degli Acciaiuoli. Le compagnie avevano o filiali in tutta Europa – da Bruges a Costantinopoli, da Londra a Siviglia e a Gerusalemme – e provvedevano non solo a una vasta rete di commerci, ma giungevano a prestare ingenti somme di danaro anche ai re di Francia o di Inghilterra. 2. Ebbene, a partire dal 1341, e nell’arco di soli sei anni, quasi tutte le compagnie fiorentine fallirono una dopo l’altra. Ad innescare la crisi fu il diffondersi della sfiducia, forse dovuta alla Guerra dei Cent’anni iniziata nel 1337 tra Francia e Inghilterra. Fatto sta che coloro che avevano investito i soldi nelle compagnie fiorentine si presentarono sempre più numerosi agli sportelli a ritirarli; ma le compagnie non riuscivano a coprire le richieste, perché a loro volta non riuscivano a farsi restituire il denaro dai creditori, oppure perché avevano investito il denaro in alcune operazioni rischiose, dalle quali non potevano recuperarlo. La ripercussione del fallimento delle banche fiorentine si trasmise a catena tra i banchieri e i mercanti di tutta Europa. 3. La crisi era finanziaria, non economica, ossia non dipendeva dall’insufficienza di fattori produttivi ma dal funzionamento dei prestiti, e soprattutto dalla capacità di suscitare fiducia. I sistemi messi in atto nelle città italiane e fiamminghe erano infatti molto avanzati per l’epoca e richiedevano un atteggiamento molto più aperto e moderno della mentalità che invece, a quei tempi, era normalmente diffusa in Europa. In definitiva, la crisi finanziaria era dovuta al fatto che le città italiane e fiamminghe erano troppo all’avanguardia rispetto a un’Europa che era rimasta in larga parte feudale. La crisi finanziaria, quindi, non dipendeva dalle carestie, ma ne ha aggravato drammaticamente gli effetti.

Ora, un ragazzo di scuola media che legge questa pagina è portato a ricavarne l’impressione che la crisi finanziaria del 1341, così come, in genere, un po’ tutte le successive crisi finanziarie che hanno caratterizzato la storia moderna, sia stata favorita da un quadro politico ed economico sfavorevole e preoccupante – la guerra dei Cento Anni, le carestie dei primi decenni del XIV secolo – ma che in definitiva il fattore decisivo sia stato l’impreparazione culturale e psicologica del pubblico, vale a dire dei produttori e dei risparmiatori, i quali non avevano sviluppato una mentalità sufficientemente “aperta” e “ moderna” capace di supportare in maniera adeguata il modus operandi audace e spregiudicato, cioè aperto e moderno, dei grandi finanzieri. Se tutti quei piccoli e medi risparmiatori non si fossero affollati agli sportelli delle banche per recuperare i loro capitali, mostrando sfiducia in quello che oggi si chiama il mercato azionario – questo almeno è quanto si ricava in maniera non troppo velata dal brano -, la crisi non ci sarebbe stata perché, osserva l’autore, i fondamentali dell’economia erano sani e quindi non c’era una vera ragione per cui una crisi di panico al livello degli investimento finanziari si trasformasse in una catastrofe economica. Dunque, se ciò accadde, fu in buona sostanza perché i risparmiatori non mantennero i nervi saldi ma mostrarono una deplorevole tendenza a voler rivedere il colore del proprio denaro, dopo averlo depositato presso le grandi banche. Indirettamente, perciò, la morale di questa storia, che si può applicare anche alla crisi del 1929 o a quella del 2007-2009, è che non c’è nulla di male se i grandi banchieri prestano ai potenti della terra denari che non hanno, né se investono i capitali in operazioni finanziarie piuttosto rischiose, perché, se poi le cose si mettono male, le banche falliscono ed i risparmiatori perdono tutti i loro risparmi, ciò è dovuto essenzialmente al comportamento irrazionale di questi ultimi, i quali dovrebbero ben sapere che non è possibile esigere la riscossione dei capitali tutti nello stesso tempo, perché le banche si reggono su un giro d’affari che presuppone la “fiducia nei mercati”, ossia il fatto che i risparmiatori se ne stiano buoni e tranquilli e lascino fare tutto alle banche, le quali sanno come investire i loro capitali. Ossia in operazioni delle quali i comuni mortali non capiscono nulla, per cui è meglio che non ne sappiamo nulla.

Se ci è lecito fare un paragone, diremmo che nelle operazioni dei grandi banchieri vige la stessa regola che si è instaurata fra il primario di un ospedale e il paziente che deve essere operato: quest’ultimo non sa nulla ed è bene che non sappia nulla, deve solo fidarsi e rimettersi docilmente nelle mani dei medici: loro soltanto sanno quel che va fatto e come va fatto. Se per caso il paziente si agita e si mette in testa di essere adeguatamente informato, o addirittura avanza l’incredibile pretesa di decidere lui se e come sottoporsi a un certo intervento, magari dopo aver sentito il parere di altri medici, un simile atteggiamento viene letto come un segno di sfiducia e c’è il caso che le cose non si mettano bene per quel paziente, perché i medici, infastiditi dalla sua diffidenza, potrebbero anche non saper fare del loro meglio per conservare la sua salute. E se questa immagine dovesse parere eccessiva a qualcuno, vorremmo invitare costui a riandare con la memoria a quando si è trovato con un congiunto in procinto di essere operato, e ha provato a domandare spiegazioni su quel che il primario intendeva fare: a molte persone è capitato di andare a sbattere contro un muro di presunzione, irritazione e insofferenza, come se il primario avesse considerato quelle domande una forma di sfiducia e quasi d’insubordinazione. Come osa, un semplice profano, interpellare in una questione di merito il solo titolato a capire e a decidere quel che va fatto? Anzi basta anche meno, basta domandare notizie del paziente, chiedere qualcosa sul decorso del male, per trovare un viso accigliato, un’espressione superba che fa cadere dall’alto, come fosse una grazia concessa dagli dèi, ogni singola parola, sempre col sottinteso: «e non chiedere altro, perché ti è già stato concesso fin troppo del mio prezioso tempo». Non vogliamo dire che sia sempre così, ma questa che abbiamo descritto è una situazione frequente, per non dire normale. E chi lo nega, forse non ha mai avuto a che fare con un congiunto ricoverato in serie condizioni in una struttura ospedaliera, specie se pubblica. Ad ogni modo, non vorremmo essere fraintesi: qui non si fa questione di cortesia personale o di modestia del singolo individuo. L’analogia fra il sistema sanitario e quello finanziario e creditizio non consiste nella psicologia degli operatori, ma nella forma anonima del sistema stesso, e nella standardizzazione di operazioni che passano sopra la conoscenza e la condivisione del singolo, sia egli un ricoverato ospedaliero, sia un risparmiatore che affida i suoi denari a un istituto bancario. In entrambi i casi, il sistema è fatto in modo da riservare esclusivamente ai tecnici, agli specialisti, la decisione riguardante un bene primario del singolo cittadino: la salute individuale nel primo caso, i risparmi personali nel secondo. Così come vengono scoraggiate le domande del paziente, del pari non si ritiene necessario informare il risparmiatore dell’uso che verrà fatto del suo denaro: ed è un bene che sia così, naturalmente, dal punto di vista delle banche. Se queste ultime dovessero giustificare dettagliatamente le operazioni che si accingono a fare con il denaro dei risparmiatori, diverrebbe impossibile costruire quel castello di carte che è la speculazione finanziaria, e in particolare quel gioco delle matrioske che sono i cosiddetti derivati, ossia azioni-spazzatura che perpetuano una grande finzione, ossia che si possa fare denaro dal nulla, semplicemente acquistando certi prodotti  “rischiosi” e fingendo d’ignorare che dal nulla non nasce nulla, e che quanto più potrebbero essere grandi i vantaggi, ossia i profitti, tanto maggiori saranno i rischi, vale a dire il ricorso a operazioni d’investimento altamente spregiudicate, per non dire irresponsabili. Tanto, se poi le cose vanno male, chi si addosserà le perdite? Naturalmente i risparmiatori, non certo le banche, le quali, grazie al sistema di complicità e connivenze di cui godono nel sistema statale, potranno sempre ricevere una ciambella di salvataggio e rimanere a galla, nonostante le gravissime perdite subite. Si tratta solo di addossare tali perdite sui più ignari e indifesi, cioè i singoli risparmiatori: cosa che è divenuta facilissima da quando le banche centrali sono di fatto divenute private e continuano ad avvantaggiarsi del sostegno statale, anche se lavorano per conto di interessi che non sono affatto pubblici, né funzionano come casse di risparmio, ma sono istituti privati specializzati nella speculazione di borsa.

Inoltre, il fatto che in questa fase storica il grande potere finanziario sia riuscito a piazzare i suoi uomini di fiducia nei settori vitali dei principali stati, compresi i capi di stato e di governo e i principali ministri e membri dei parlamenti, fa sì che i cittadini non abbiano praticamente alcuna speranza di ottenere trasparenza sull’uso dei loro risparmi da parte delle banche, e che non possano sperare in alcun risarcimento in caso di fallimento nominale di queste. In questo senso, il sistema finanziario della metà del XIV secolo era ancora molto arretrato e approssimativo rispetto a quello odierno. I banchieri-mercanti correvano effettivamente qualche rischio, e non solo i loro clienti; il fatto stesso che fossero mercanti, oltre che banchieri, li teneva almeno parzialmente ancorati all’economia reale, cioè alla produzione effettiva di beni e servizi, alla circolazione virtuosa dei capitali, ossia agli investimenti produttivi e alla creazione di posti di lavoro. Oggi le cose sono molto diverse perché i grandi finanzieri giocano in regime di monopolio, non corrono il più piccolo rischio ed è stabilito, anche legalmente, che eventuali cadute sono a carico del risparmiatore, non delle banche. Proprio come, nel sistema sanitario, il paziente è obbligato ad assumersi la responsabilità di un farmaco sperimentale, la cui somministrazione è stata decisa dai tecnici e imposta, di fatto, dalle autorità dello stato, anche se si sa benissimo che vi sono effetti collaterali avversi che peseranno sulla salute delle persone, così nel sistema finanziario le grandi banche si cautelano in via di principio ottenendo dal risparmiatore tutta una serie di firme che autorizzano in anticipo, e praticamente a scatola chiusa, una serie d’investimenti dei quali egli non sa praticamente nulla e che deve fingere di conoscere per poter ottenere che il suo denaro venga accettato dalla banca. Insomma, nessun rischio per i padroni del sistema, e tutti i rischi a carico del singolo cittadino. C’è poi un altro fattore che contraddistingue la raffinatezza del sistema finanziario odierno: la colpevolizzazione preventiva del risparmiatore rispetto a possibili esiti negativi. Ciò che nella pagina sopra citata viene adombrato, in questi ultimi venti anni è divenuto parte della cultura ufficiale: la nozione, cioè, che responsabile delle crisi finanziarie è la scarsa “apertura” e la scarsa “modernità” dei cittadini rispetto al livello avanzato e sofisticato delle operazioni condotte dalle grandi banche. Insomma: chi è causa del suo male, pianga sé stesso. E nella “responsabilità” del pubblico rientra anche quel fattore di rischio costituito dal debito pubblico, anche se questo si è creato grazie ad un’alleanza perversa fra politica e affari, con i governi infeudati alla finanza o addirittura creati direttamente dalla finanza, i quali addossano ai cittadini un debito in realtà inesistente, costruito sugli interessi progressivi dei prestiti ottenuti dai governi per la spesa pubblica, e ripianati a carico dei contribuenti, i quali però non riescono a rompere la spirale del debito stesso e finiscono per trasmetterlo alle generazioni successive. In questa prospettiva viene costruita la leggenda di una popolazione poco virtuosa, che vive al di sopra dei propri mezzi e spende più di quanto riesce a produrre e a guadagnare: leggenda del tutto funzionale agli interessi delle grandi banche, che serve a far sentire i cittadini colpevoli; proprio come, nell’ambito sanitario, si è diffusa un’altra leggenda nefanda, quella della pandemia causata, o ingigantita, dal comportamento poco virtuoso di una parte della popolazione, rea di non volersi sottoporre alle inoculazioni di massa “per il bene comune”.

Il concetto è sempre lo stesso: privatizzare i profitti e scaricare sul pubblico i rischi e i passivi, aggiungendo, per buona misura, l’idea che il pubblico è responsabile dei propri mali e pertanto che i cittadini devono abituarsi all’idea di rinunciare a una parte dei loro diritti e delle loro libertà, visto che non sanno farne buon uso. Ecco perché i nostri dirigenti attuali prendono a modello la Cina e vorrebbero ottenere dai cittadini lo stesso grado di sottomissione della popolazione, facendole scordare un “pericoloso” passato nel quale essi erano soggetti di diritti e lo stato doveva rispettare, a norma della costituzione, le loro libertà. Ora questo bagaglio è visto come un’eredità negativa della quale occorre sbarazzarsi, perché i fini e la natura della globalizzazione hanno reso diritti e libertà individuali una moneta fuori corso. In altre parole, il cittadino che vuol essere tenuto presente dai suoi governanti, il paziente che vuol ricevere risposte dai suoi medici e il risparmiatore che vuole trasparenza dalla sua banca rappresentano un modello negativo, un intralcio e un fastidio dal punto di vista della globalizzazione. Devono essere sostituiti da una mentalità nuova, per l’appunto più “aperta” e più “moderna”, nella quale i gruppi dirigenti (vedi il Forum di Davos) hanno il controllo totale della popolazione, della salute pubblica e del mercato azionario; quindi, considerano l’economia come cosa di loro esclusiva pertinenza, rispetto alla quale il lavoratore-produttore è un elemento di disturbo. Meglio fare in modo che questo relitto del passato venga eliminato; che la gente perda il lavoro e sia costretta a sopravvivere col reddito di cittadinanza elargito graziosamente dal governo. Ovviamente, solo ai cittadini “virtuosi”. Il modello dell’Emilia-Romagna, nel sistema italiano, farà ben presto scuola: il cittadino gode solo di quei diritti che gli vengono riconosciuti in base alla sua docilità e obbedienza.

Francesco Lamendola

 
Tornare a votare? PDF Stampa E-mail

22 Giugno 2022

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 Da Rassegna di Arianna del 20-6-2022 (N.d.d.)

Pezzo dopo pezzo l'ordine neoliberale sta crollando. Non poteva non crollare: era mal costruito, basato sulla menzogna, sulla creazione del disagio, sul blocco della mobilità sociale, sull'impoverimento delle persone. Serviva, tra le altre cose, a mantenere al potere alcune vecchie dinastie nobiliari (e basta dare un'occhiata ai commissari UE per rendersi conto di quanto fosse un'istituzione ancien regime, sino a Ursula e al Conte Gentiloni). Le commissioni UE sembrano dei circoli delle vecchie famiglie nobiliari europee, abilmente aggiornate come agenti del sistema bancario internazionale.

La sconfitta di Macron in Francia può essere lo scivolone che genera una slavina. Ma il dissesto era già in atto da anni, e il dissesto si chiama "astensione". In Francia, paese iperpoliticizzato da secoli, ha raggiunto il 54%. Sull'astensionismo hanno puntato i partiti elitario-neoliberali (da noi il PD): se le periferie non votano, votano però le ZTL, e quelle votano PD. Il sogno del PD era la democrazia delle ZTL, un mondo in cui il popolo, scoraggiato e umiliato, rinunciava volontariamente all'uso del voto. Nonostante l'astensionismo, tuttavia, in Francia la sinistra popolare toglie la maggioranza a Macron, raggiunge risultati eccellenti, forse 180 deputati (ma su questo staremo a vedere). Macron resta molto al di sotto della maggioranza necessaria per governare da solo. Nonostante l'astensione la sinistra cresce, diviene decisiva per fare un governo.

Ma che cosa ci dicono queste elezioni? 1) La manfrina "fermiamo le destre" non se la fila più nessuno. È chiaro a tutti che serve a immunizzare politiche antipopolari, elitarie. E poi, le manganellate di Macron somigliano troppo a quelle della destra che si intende fermare. I Francesi hanno detto a Macron: "Peggio di te non c'è nessuno". È ora che gli italiani dicano: peggio del PD non c'è neanche l'inferno. Questa sarà la sfida per la vita del paese. Sin quando il PD esiste il paese è destinato alla morte lenta, alla colonizzazione, alla deindustrializzazione. 2) L'astensione è stata, per una certa fase, espressione di dissenso. Ora non lo è più: ora serve solo a mantenere il dominio di élite che avrebbero bisogno di dosi massicce di prozac o, alternativamente, di antidepressivi. Bisogna smettere con l’astensione, bisogna tornare a votare. Se in Francia una parte degli astenuti avessero votato, Mélenchon avrebbe avuto la maggioranza dei seggi, i francesi avrebbero avuto un governo di sinistra, oggi Assange sarebbe stato naturalizzato: si sarebbe riaperto un orizzonte. In Italia bisognerà votare, perché solo votando si potrà arrestare il totalitarismo del PD (e del campo largo, che include quella perla di Renzi e di Calenda). 3) Il M5s non so se avrà un futuro. Ma se immagina un futuro con il PD sarà solo un fantoccio per drenare qualche voto, sempre meno voti, per sostenere le politiche neoliberali. Morirà da solo, ancora qualche giorno e neanche se ne parlerà più. Il poco di futuro il M5s se lo gioca in questi giorni. O sfiducia Draghi, Di Maio, chiede che sia il parlamento a decidere dell'invio di armi, che il parlamento sia informato sul tipo di armi che si inviano, oppure sarà ancora una volta evidente che Conte sta solo cercando di prendere per il culo gli elettori. E quel tempo è passato.

La destra la si ferma solo costruendo una sinistra che non dialoga con il PD. Chi dialoga col PD, con questo PD, è di destra, come di destra è il PD. Ricordo agli asini che Zanone fece la sua ultima legislatura come deputato del PD, e che tutto il partito liberale (che era un partito di destra nella prima repubblica) confluì nel PD.

Dalla Francia arriva un messaggio a Letta: Enrico, stai sereno! Sta a tutti noi ricordarglielo.

Vincenzo Costa

 
Cause dell'astensionismo PDF Stampa E-mail

21 Giugno 2022

 Da Appelloalpopolo del 17-6-2022 (N.d.d.)

L’Italia è passata da una media di partecipazione al voto del 93% tra il 1953 e il 1976 al 73% delle politiche del 2018. Tenendo conto delle tornate elettorali locali degli ultimi anni, si tratta di una percentuale destinata a calare ulteriormente. Certo, si tratta di un trend comune in molti Paesi sviluppati. Ci sono quindi alcune cause comuni e altre che dipendono da specificità italiane. Cos’è successo a metà anni ’70 in Italia che potrebbe spiegare l’inizio del crollo? Alcune cause, come si diceva, sono specifiche italiane. Il ’68, lo stragismo, il compromesso storico, l’omicidio di Moro, la P2. Tanto per citare alcuni avvenimenti che hanno sicuramente contribuito ad allontanare i cittadini dalla politica e, quindi, dalle urne. Altre cause sono intervenute poi nel corso degli anni, aggravando un processo iniziato verso la metà degli anni 70. Le varie riforme elettorali (maggioritario, abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, le liste bloccate), Gladio, Tangentopoli, la trattativa Stato-mafia.

Ma, tornando agli anni in cui è iniziato l’inesorabile crollo della partecipazione alla vita politica del Paese, non si può non notare una perfetta coincidenza di tempi con la fine del paradigma politico ed economico che ci aveva regalato il cosiddetto trentennio glorioso (1945/75) e l’inizio della controrivoluzione neoliberista. Siamo passati da un sistema in cui la lotta di classe era mediata all’interno delle Istituzioni grazie a un Parlamento funzionante, con uno Stato che puntava sul lavoro e sui salari, con una Banca Centrale al servizio dello Stato, con un grande potere contrattuale dei lavoratori rispetto al capitale, con un’economia fortemente incentrata sul mercato interno, con una sana inflazione da domanda, con una finanza fortemente regolamentata, a un sistema antitetico. Un sistema cioè in cui il Parlamento è stato fortemente indebolito, in cui la Banca Centrale dipende dai mercati e non dall’azione di Governo, in cui i lavoratori hanno perso sempre più potere a causa di una lunga serie di riforme regressive, in cui la finanza è fortemente deregolamentata, in cui vige la libera circolazione di merci, capitali e lavoro, in cui la rendita da capitale e la quota profitti sono tornate a crescere a danno dei salari.

Per riavvicinare i cittadini alla politica e alle urne è fondamentale proporre un modello diverso, antitetico, a quello degli ultimi quarant’anni. Un modello che rimetta finalmente al centro la dignità della persona. Iniziando ovviamente dal lavoro e dal salario. Un modello meno dipendente dall’esterno e più centrato sull’indipendenza nazionale. Un modello che rimetta al centro non tanto la Costituzione in quanto tale, ma i diritti da essa sanciti. «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Per riuscirci, la prima condizione, necessaria ma non sufficiente, è quella del recupero della sovranità. Politica (cioè smettere di essere una colonia), economica (riappropriarsi della nostra moneta) e popolare (riappropriarci delle Istituzioni che sono state occupate da un manipolo di ciarlatani e di traditori). Non ci salverà nessuno. Dipende tutto da noi.

Gilberto Trombetta

 
Il nostro Piave PDF Stampa E-mail

20 Giugno 2022

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Ogni generazione ha il suo Piave. Spogliare la Grecia è stato uno scherzo. Aeroporti, qualche isola, industrie zero, terre poche, risparmi privati ridicoli, demanio interessante. Comunque la Grecia aveva un Pil inferiore al Triveneto. È bastato un sol boccone.

Per l’Italia è diverso. Un capitale assolutamente enorme. Secondo al mondo in quanto a risparmio privato, primo come abitazioni di proprietà, terre di valore assoluto e coste meravigliose. Quinta potenza industriale al mondo prima dell’euro, ottava oggi. Il Made in Italy è ancora oggi il marchio numero uno al mondo, davanti a Coca Cola. Biodiversità superiore alla somma di tutti gli altri paesi europei. Come capitale artistico monumentale, non ne parliamo neanche: è superiore a quello di tutto il resto del mondo.

Francia e Germania, più qualche fondo americano, cinese o arabo hanno fatto la spesa da noi a “paghi uno e prendi quattro”. Tutto il lusso e la grande distribuzione sono passati ai francesi insieme ai pozzi libici passati da Eni e Total. Poi anche Eni è diventata a maggioranza americana. Anche il sistema bancario è passato ai francesi insieme all’alimentare. I tedeschi si sono presi la meccanica, e il cemento. Gli indiani tutto l’acciaio. I Cinesi si son presi quote di Terna, e tutto Pirelli agricoltura. Se ne sono andate Tim, Telecom, Giugiaro, Pinin Farina, Pernigotti, Buitoni, Algida, Gucci, Valentino, Loro Piana, Agnesi, Ducati, Magneti Marelli, Italcementi, Parmalat, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Ferretti Yacht, Krizia, Bulgari, Pomellato, Brioni, Valentino, Ferrè, la Rinascente, Poltrona Frau, Edison, Saras, Wind, Ansaldo, Fiat ferroviaria, Tibb, Alitalia, Merloni, Cartiere di Fabriano…

Ma…non hanno finito. Ci sono rimaste ancora le case e le cose degli italiani. E i loro risparmi. Circa 4300 miliardi di euro. Ora vogliono quelli. I fondi di investimento, i mercati, che, come ricordavo, raccolgono i soldi delle mafie, tutte, grandi e piccole, dei traffici di droga, di umani, di truffe internazionali, di salvataggi bancari, del “nero” delle grandi multinazionali, siano esse del commercio, dei telefonini, della cocaina o delle armi, questi fondi di investimenti dicevo, non hanno finito. Ora tocca alle poche industrie rimaste, ai fondi pensioni, ai conti privati, agli immobili. Ora tocca a noi. Ecco perché non serve a nulla mediare, arretrare un po’. Non si placheranno, l’abbiamo già visto. Bisogna fermarli ora. Il 24 maggio non vi è venuto in mente nulla? Ogni generazione ha il suo Piave. Questo è il nostro.

Francesco Neri

 
Il Vertice delle Americhe PDF Stampa E-mail

18 Giugno 2022

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 Da Comedonchisciotte del 15-6-2022 (N.d.d.)

Il IX Vertice delle Americhe è terminato pochi giorni fa a Los Angeles (USA) con una coda infinita di polemiche. Polemiche, a dire il vero, iniziate ben prima dell’apertura ufficiale dell’incontro e dovute alla scelta unilaterale di Biden di escludere dagli invitati tre Paesi: Cuba, Nicaragua e Venezuela. I tre “Paesi del Male” secondo Washington, antidemocratici e pericolosi anche per la stessa sicurezza nazionale statunitense. Tre Paesi che minano ormai da molti anni la leadership statunitense nel Continente, in quanto intrattengono stretti legami con i “nemici globali” degli USA nel mondo: Russia e Cina.

A tal proposito, alcuni fatti che mostrano proprio questo legame che allarma Washington e il suo mondo unipolare, avvantaggiando invece la creazione di un mondo multipolare ricercato alacremente da Mosca e Pechino: poco prima dell’intervento russo in Ucraina e in mezzo alle tensioni geopolitiche già partite da mesi, il Vice Primo Ministro Russo Yuri Borisov ha intrapreso un viaggio in America Latina e nei Caraibi per ribadire e rafforzare (mostrandolo anche all’intera comunità internazionale) le relazioni fra il suo Paese e i tre più stretti alleati del Continente. Visita che ha fatto seguito a due viaggi di poco tempo prima dei Presidenti di Argentina e Brasile a Mosca, mostrando l’attivismo russo nel Continente e la sua attrattività per molti Paesi della regione. “[…] I- rapporti tra Mosca e Caracas iniziano con Hugo Chavez, che ridisegna il profilo strategico del Paese sul piano sia politico che militare: la Repubblica bolivariana diventa una potenza regionale. La cooperazione tecnico-militare ha riguardato soprattutto la modernizzazione dell’aeronautica con il programma Sukhoi […]”.2- Rapporti e relazioni che hanno portato, ad esempio, all’arrivo in Venezuela a fine 2018 di bombardieri strategici russi TU-160.  Il Decreto 10 – 2022 approvato in Nicaragua rafforza la cooperazione militare fra Managua e Mosca, permettendo a quest’ultima di schierare grandi quantità di forze armate ed equipaggiamenti militari nel Paese guidato da Ortega. Come enfatizzato dalla TASS e da SPUTNIK: “È tempo che la Russia mostri i muscoli vicino ad alcune città degli Stati Uniti”. “Nicaragua: la cooperazione militare con la Russia rafforzerà la sicurezza nazionale”.  La Russia ha cancellato il 90% del credito che aveva con Cuba nel 2014, circa 30 miliardi di dollari, mantenendo il resto ma con la promessa di reinvestirlo tutto nell’isola. Cuba, da parte sua, ha da sempre condannato l’espansione della NATO verso EST e si sta schierando con Mosca anche in questo turbolento periodo, ad esempio senza partecipare alle sanzioni decise dall’occidente. Pechino ha firmato una serie di accordi fondamentali nel 2014 con Cuba e sta rafforzando la relazione con L’Avana di anno in anno, soprattutto tramite investimenti cospicui. Il Venezuela è uno dei partner strategici per la Nuova Via della Seta fortemente voluta da Xi Jinping con ramificazioni anche nelle Americhe. Investimenti miliardari nel Paese che garantiscono un legame profondo fra Caracas e Pechino. Nel 2021 il Nicaragua ha aderito al principio di “una sola Cina”, garantendosi la possibilità di rafforzamento dei legami con Pechino. In precedenza, Managua era uno dei pochi Paesi al mondo a mantenere relazioni diplomatiche di “rango statale” con Taipei.

Tre Paesi diversi per storia e posizione geografica (Venezuela, Cuba e Nicaragua) ma accomunati da un profondo legame e decisi a rompere l’egemonia USA nel continente, certamente sostenuti in questa battaglia da Mosca e Pechino. Oltre che da vari altri Paesi dell’area che, nonostante non vogliano incrinare oltre la soglia critica le loro relazioni con Washington, non disdegnano assolutamente di intrattenere relazioni amichevoli con i loro vicini “ribelli”. Un’egemonia di Washington che dunque mostra crepe molto significative rispetto al ‘900, quando gli USA non si facevano particolari problemi ad intervenire con la forza ogniqualvolta i loro interessi nel continente venivano in qualche modo messi in discussione. Un mondo allora diviso in due, con sfere d’influenza delineate e che non lasciavano spazio a interferenze troppo marcate da un’area all’altra, a parte per quell’isoletta incredibilmente ribelle chiamata Cuba, a 90 miglia dalle coste USA e non più doma dal 1959.

Un mondo cambiato nel profondo dal 1991, anno della dissoluzione dell’URSS e inizio di quell’unipolarismo caratterizzato dalla fase di “Washington gendarme del mondo”. Unipolarismo che, come ho accennato sopra, inizia a mostrare importanti crepe in tutto il globo e anche nelle Americhe, con il “pensiero e l’azione multipolare” che sta cercando di farsi largo fin “nelle viscere” dell’Occidente. Il Vertice delle Americhe di Los Angeles è stato la dimostrazione plastica di tale “momento di lotta” e dalle dichiarazioni e notizie sottostanti si capisce molto bene che anche il continente americano è diviso al proprio interno ed è capace di giocare un ruolo fondamentale in questa possibile transizione.

Joe Biden prima del Vertice: “I dittatori non devono essere invitati e non devono partecipare”.  Dei 35 Paesi del Continente, hanno partecipato a livello di Capi di Stato e di Governo in meno di 30. La scelta dell’Amministrazione USA di non invitare i “dittatori”, infatti, ha comportato la protesta di altri Paesi che non vogliono sottostare a “patenti di legittimità” imposte dall’esterno: Messico, Guatemala, Honduras, El Salvador.

Il Presidente del Messico Obrador ha parlato così poco tempo prima del Vertice: “è tempo di un nuovo rapporto tra i paesi delle Americhe. Una relazione senza discriminazioni; uno che metta al primo posto la comprensione e il dialogo, dove nessun Paese vuole imporsi sull’altro”.  L’Argentina ha partecipato al massimo livello ma ha fortemente criticato la scelta di Washington a livello pubblico e con parole decise. Il Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, si è “permesso” di garantire la sua partecipazione solamente con la certezza di avere un bilaterale con Biden condito da elogi di quest’ultimo al governo di Brasilia e senza toccare argomenti troppo spinosi. Richiesta accettata da Washington pur di vedere la partecipazione al Vertice del Presidente del Brasile. Nella sostanza un diktat dal sud del Continente al nord: una cosa impensabile solamente qualche decennio fa e che mostra chiaramente il momento di transizione che stiamo vivendo.

Dalle parole su Granma è possibile leggere una certa soddisfazione di Cuba per come i vari Paesi dell’area si siano ribellati alla decisione USA. Parole e dichiarazioni che mostrano una certa vicinanza alla causa de L’Avana anche di vari Paesi dell’area, rispetto alla “solitudine” sofferta da Cuba per quasi tutta la seconda metà del ‘900: “Vari leader della regione si sono annunciati, come nel caso del presidente dell’Argentina, Alberto Fernández, il cui intervento avrà un forte protagonismo politico di fronte alla decisione di Biden d’escludere Cuba, Nicaragua e Venezuela. Parlando alla radio argentina LED.FM., Fernández ha assicurato: «La mia intenzione è portare la voce dell’America Latina e dei Caraibi al Vertice ed ha aggiunto: «Io vengo a reclamare una vera integrazione senza esclusioni». Ugualmente, il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, ha sfidato i legislatori statunitensi Ted Cruz e Marco Rubio a presentare prove delle accuse con cui cercano di screditare AMLO per la sua condanna dell’esclusione di Cuba, Nicaragua e Venezuela da Vertice. Il cancelliere della nazione azteca, Marcelo Ebrard, da Los Angeles ha affermato che «È un errore strategico escludere da questo Vertice paesi membri del nostro continente. Consideriamo che nessuno ha il diritto d’escludere altri. Non accettiamo il principio d’intervento per definire unilateralmente chi viene e chi no», ha sostenuto. Poi ha assicurato che richiama l’attenzione che a queste altezze si continuino a vedere sanzioni, blocchi ed embarghi contraddicendo il diritto internazionale. Parlando dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), ha detto che per la sua forma d’operare è evidente che è esaurita ed ha posto come esempio il vergognoso ruolo che ha svolto l’organizzazione durante il colpo di Stato in Bolivia. L’ex presidente della Bolivia, Evo Morales Ayma, ha scritto nel suo account in Twitter: «Per far sì che il Vertice delle Americhe abbia qualche utilità nel suo obiettivo di rinforzare la democrazia sarebbe positivo che i pochi presidenti presenti esigano dagli USA di firmare i trattati dei diritti umani, smettendo d’invadere popoli sovrani, finanziare guerre e colpi di Stato». In conclusione, dunque, è possibile affermare che anche il Vertice delle Americhe appena conclusosi ha mostrato la fase transitoria che stiamo vivendo: quella da un mondo unipolare ad uno multipolare. Una fase che non ha un finale scontato, in quanto le forze in campo sono poderose da entrambe le parti e nessuna delle due ha idea di abdicare dal proprio ideale. Una lotta per mondi opposti sotto tutti i punti di vista.

Alessandro Fanetti 

 
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