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Indignazione a comando PDF Stampa E-mail

8 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte del 7-3-2024 (N.d.d.)

Un bel gruppo di cittadini, dunque, è sceso in piazza a Pisa nei giorni scorsi per sostenere gli studenti malmenati e per esprimere contrarietà nei confronti delle posizioni del governo riguardo la tragedia palestinese, bellissimo gesto che rinfranca il cuore e che viene voglia di emulare. Tuttavia, è necessario elaborare ulteriori considerazioni per cercare di contestualizzare l’evento ed analizzarlo, seppur brevemente, nella sua complessità.

I deprecabili episodi repressivi contro i giovani manifestanti sono stati spesso ricondotti all’attuale governo e identificati dunque come espressione della destra violenta che in questi casi mostra il suo vero volto. Tuttavia, è possibile anche osservare che in questa epoca storica, tali azioni inaccettabili sono il frutto di una tendenza tecnocratica dominante (espressione di un neoliberismo senza scrupoli) che transita dal nazionale e si espande nel globale (e viceversa) e che nelle questioni fondamentali (a parte alcuni aspetti meno rilevanti) fa le stesse cose sia quando si manifesta attraverso governi di destra sia quando si manifesta attraverso governi di sinistra. In effetti, mi sembra ormai che la frattura politica non sia più individuabile su una linea verticale come quando era pertinente dividere la destra dalla sinistra, due diversi ambiti politici e culturali. La frattura è ora osservabile su un piano orizzontale, al di sopra di essa troviamo un’élite di potere sorretta da una maggioranza (con motivazioni diverse: dal fanatismo al calcolo, dalla necessità di aggregarsi all’indifferenza) in cui la vecchia destra e la vecchia sinistra si confondono. Mentre al di sotto della frattura troviamo la minoranza, un residuato o, se vogliamo essere ottimisti, un distillato eterogeneo che cerca di organizzarsi tra tante difficoltà, impedimenti e comprensibili disorientamenti e che proviene anch’esso sia dalla destra sia dalla sinistra che furono: sono “gli scarti” di ciò che un tempo costituiva la principale dialettica politica del nostro Paese, ma che non hanno ancora perso lo spirito critico, la consapevolezza e la forza di protestare.

Se oggi le violenze sono imputate al governo di destra, bisogna ricordare che durante il governo Draghi, fu proprio la sinistra (che formava parte del governo) a tacere, a sostenere o a giustificare gli idranti e le cariche delle forze dell’ordine contro i portuali di Trieste che manifestavano contro il green pass; le manganellate che si sono visti piovere in testa i disoccupati (con diversi ricoveri gravi) che manifestavano contro Draghi in visita a Napoli; i manganelli contro gli studenti contrari al green pass a Torino; e ancora le manganellate e gli allontanamenti subiti dai pescatori siciliani come risposta al loro desiderio di incontrare Draghi a Roma; i contenimenti delle proteste pacifiche e la criminalizzazione continua dei manifestanti, ecc. Questi avvenimenti, a differenza di quello pisano, non hanno avuto copertura mediatica adeguata e significativa e sono stati condannati come espressione di disordine, di impedimento della ripresa del Paese, relegati a questioni di ordine pubblico o derisi e giudicati come manifestazioni di incoscienza e di irresponsabilità. La partecipazione e lo sdegno diffuso rispetto ai fatti pisani si è potuta concretizzare anche perché i mezzi di informazione hanno mostrato esplicitamente la violenza e le conseguenze su chi le ha subite, e vi è stata una condanna a livello istituzionale.

Pertanto, non possiamo fare a meno di osservare che le televisioni e i principali mezzi di informazione, nel mostrare in questa occasione un evento drammatico (e censurandolo o manipolandolo in altre occasioni), hanno confermato di avere un ruolo decisivo nel coinvolgere e nell’orientare le idee e i comportamenti; ciò non toglie che i pisani non siano scesi in piazza con convinzione e spirito di solidarietà. Con tutto ciò, dunque, dobbiamo constatare per l’ennesima volta che chi ha in mano i mezzi d’informazione ha in mano il potere, il potere che conta, e troviamo l’ennesima conferma che le nostre società sono sempre più vulnerabili collettivamente e individualmente nei confronti del potere dei media ormai sempre più invasivo, subdolo e decisivo e rispetto al quale c’è sempre meno consapevolezza specialmente sul fatto che, come l’aria che respiriamo, riesce ad agire senza che noi ce ne rendiamo conto.

Se è vero che la copertura mediatica è stata determinante, è vero anche che nei fatti menzionati è stato altrettanto importante il contenuto della protesta, come se ci fossero motivazioni che esigono rispetto e altre, invece, per le quali è consentito l’uso dei manganelli. Se non si condividono le motivazioni di un certo dissenso non si può comunque approvare o rimanere indifferenti di fronte ad una repressione violenta. Non si può, viceversa, condannare la violenza solo quando si condividono le motivazioni di chi sta protestando. Se si è contro la violenza lo si è sempre e non selettivamente. Invece, sempre più spesso, l’indignazione si diffonde per due principali motivi: in primo luogo, quando la violenza viene mostrata in maniera chiara ed esplicita dai media e viene messa in risalto la sofferenza delle vittime; in secondo luogo, se sono condivise le motivazioni politiche che animano tale protesta. Queste prese di posizione, però, funzionali solo ad una soddisfazione momentanea, ad una polarizzazione dogmatica o a un calcolo effimero, ci allontanano sempre più dalle autentiche pratiche democratiche. E così, come in una corsa senza freni, perdiamo velocemente persino il ricordo delle nostre prerogative e responsabilità di cittadini che dovremmo difendere con forza e consapevolezza.

Luigi Contadini

 
La fase del nichilismo reale PDF Stampa E-mail

7 Marzo 2024

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 Da Rassegna di Arianna del 5-3-2024 (N.d.d.)

Come si spiega il fatto che i leader delle nazioni europee vogliono far precipitare l'intero continente in una guerra devastante? Secondo il sociologo Emmanuel Todd, si tratterebbe di una sorta di automatismo mentale generato dal nichilismo. Il totale fallimento dell'ibrido istituzionale chiamato Unione Europea, secondo Todd, spinge oggi la classe dirigente del continente verso il suicidio: simul stabant, simul cadent.

Questa tesi finisce per innescare, però, interrogativi specifici per le diverse nazioni. Perché, per esempio, i leader della Gran Bretagna - più di tutti gli altri - sembrano disposti a farsi nuclearizzare fino a mettere in scena lo spettacolo dell'ex-premier Liv Struss che, in televisione, evoca il lancio di testate nucleari fra lo scrosciare degli applausi? Perché i paesi scandinavi hanno abbandonato la loro tradizione di politica estera neutrale, per avventurarsi in una prospettiva guerrafondaia che ne mette a rischio la stessa esistenza? Fino a quando la Germania potrà continuare a mentire a se stessa facendo finta che la scelta angloamericana di scatenare la guerra non sia stata prima di tutto anti-tedesca e di non aver subito, da parte degli "alleati", uno dei più gravi attacchi terroristici della storia (North Stream 2)?

Sia come sia, siamo nella fase del nichilismo reale, nella quale è stato cancellato Dio e il cristianesimo, cancellate le ideologie universaliste che avevano temporaneamente sostituito quest'ultimo, cancellata l'idea della centralità dell'essere umano. Se nella coscienza si crea il vuoto, le scelte che gli uomini di potere possono compiere a livello pratico non sono prevedibili nei termini della razionalità o del bene comune. La presenza del Nulla nella coscienza può cioè generare la nullificazione nel mondo materiale; può far sì che l l'autodistruzione completa, in altre parole, venga perseguita inconsciamente oppure attraverso eventuali giustificazioni di efficienza tecnica.

Riguardo a quest'ultimo aspetto, infatti, sarebbe un errore madornale pensare che, dal momento che la Tecnica è divenuta l'epicentro dell'Essere, allora la razionalità strumentale e il calcolo economico possano evitare che il Nulla si materializzi concretamente. Il Nulla materiale, infatti, è già oggi palpabile nel momento in cui la digitalizzazione sussume le relazioni sociali nonché la sessualità, nel momento in cui essa cancella la memoria storica nonché ogni idea di trascendenza.

I tanti che, come se avessero conversato al telefono con Putin e Biden, si dichiarano categoricamente certi del fatto che la guerra nucleare non scoppierà, dovrebbero riflettere su queste problematiche e comprendere che non è il momento di confondere i propri desideri con l'analisi dei processi storici.

Riccardo Paccosi

 
Un'intervista ipocrita PDF Stampa E-mail

6 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte del 4-3-2024 (N.d.d.)

Mercoledì 28 febbraio il presidente del Consiglio, nel corso di un’intervista condotta dal direttore del TG2, ha dichiarato di non essere disposto a prendere lezioni da quelli che, precedentemente al governo, facevano inseguire gli italiani dai droni o “sparavano con gli idranti sui lavoratori seduti a terra”. Questa è stata la sferzata che la premier Meloni ha rivolto alle opposizioni parlamentari impegnate strumentalmente nell’incalzarla sulle cariche pisane della Celere.

Il tema della carica degli uomini del Reparto Mobile sugli studenti di Pisa è diventato infatti oggetto di interessate strumentalizzazioni sia da parte dei partiti d’opposizione, PD e 5 Stelle in primis, che naturalmente dei molti figuri, partitini e movimenti sinistri dal manto più radicale e “antagonista”, avvezzi a gridare come papere all’onnipresente “pericolo fascista” e alla democrazia sotto attacco. Realtà, queste, tanto pronte a stringere il pugno contro il “fantafascismo” quanto a sostenere i più grandi scempi (come il fanatismo LGBTQIA+) e ad avallare le più plateali privazioni di libertà, queste sì veramente di stampo fascista, della nostra storia recente e le correlate politiche discriminatorie, manifestatesi con l’introduzione delle tessere verdi e degli obblighi vaccinali. In merito ai fatti di Pisa è intervenuto persino Mattarella, che avrebbe sentenziato “l’autorevolezza non si misura sui manganelli”, dando ulteriore linfa istituzionale ad una polemica mediatizzata che ha fatto di qualche brutto colpo di sfollagente un immane e immotivato pestaggio, narratoci da taluni come sintomo di una linea illiberale e intollerante dell’attuale Consiglio dei ministri di destra. Ciò sul quale voglio soffermarmi non è tuttavia né lo spiacevole fatto di Pisa, sul quale sono state spese già tante parole, né quest’ennesima puntata dell’endemico giochino sinistra vs. destra. Vorrei piuttosto porre la lente d’ingrandimento proprio sulla sopra indicata dichiarazione, relativa alla vicenda, che Giorgia Meloni ha rilasciato al TG2.

Il riferimento fatto dalla premier è chiaramente rivolto ai controlli psicotici applicati durante il regime di confinamento domiciliare collettivo chiamato lockdown, che toccarono come ben sappiamo inauditi apici di parossismo securitario (tra cui i controlli aerei sulla popolazione), e al violento sgombero poliziesco del presidio anti green pass al porto di Trieste. Tra gli autori di queste politiche e nefandezze spiccano proprio quei partiti che ora, con una grande dose di ipocrisia, abbaiano contro il governo accusandolo di autoritarismo o di fascismo. Governo Conte II (espressione proprio di PD e 5 Stelle) prima e Governo Draghi d’unità nazionale poi (sostenuto da tutti fuorché, almeno formalmente, Fratelli D’Italia) sono stati infatti gli esecutivi responsabili dell’infame gestione pandemica, che ha visto l’instaurazione nientemeno che di una forma di apartheid e che non ha certamente lesinato repressione nei confronti di ogni forma di dissenso. A riprova di ciò si vadano a vedere, oltre alle manganellate inferte a Roma piuttosto che a Trieste, le modalità dei fermi nei cortei anti Green Pass milanesi (documentati dalla piattaforma video “Local Team”) e la marea di procedimenti penali avviati contro una moltitudine di manifestanti No Green Pass in tutta Italia. Tuttavia, sebbene la Meloni possa apparentemente permettersi tali invettive, essendo stato il suo partito escluso dalle precedenti compagini governative, bisogna ricordare come l’opposizione di Fratelli D’Italia sia stata farsesca e assai accondiscendente verso le politiche dei suoi (ed in particolare del suo) predecessori. Ella stette fuori dal governo Draghi proprio come, nel 2011, la Lega di Salvini si tenne fuori dal precedente governo d’unità nazionale di Monti, in maniera, cioè, funzionale al sistema, essendo questo sempre bisognoso di una finta opposizione che raccolga e incanali i malumori della popolazione. La signora Meloni è stata bene alla larga dalle “maleodoranti” piazze no Pass e ha avuto un approccio alquanto timido persino nel ridicolo teatrino della contestazione parlamentare. Mai nulla di concreto fece il suo partito contro misure come il Green Pass e mai si è percepita una reale presa di posizione in solidarietà delle vittime della precedente (e perdurante) repressione. Tuttora le famigerate multe comminate agli over 50 non vaccinati non sono state cancellate dall’attuale governo, bensì solamente sospese e, quindi, potenzialmente riproponibili in futuro. Se la fiamma tricolore avesse fatto concreta opposizione ai governi Conte e Draghi e avesse sostenuto in maniera tangibile il dissenso, la premier potrebbe oggi dire con autentica coerenza frasi come quelle rilasciate a Rai 2. Tuttavia FDI non ha fatto altro, come ci si poteva aspettare, che giocare il suo ruolo nella ingannevole messa in scena politico-istituzionale e, annusandone l’opportunità, prepararsi per succedere a Draghi conquistandosi la fiducia e l’endorsement degli ambienti che contano, garantendo ad essi asservimento, fedeltà e continuità alle principali linee dettate dal predecessore. Si prenda ad esempio il fervore atlantista e filo-ucraino del governo Meloni, perfettamente in sintonia con i diktat dei padroni d’oltreoceano e con il posizionamento internazionale dell’Italia imposto dal falco Draghi, e dal governo d’unità nazionale tutto, a seguito dell’intervento russo in Ucraina nel febbraio 2022.

Nonostante questo alle ultime elezioni Giorgia Meloni ha sicuramente beneficiato del voto di molti contrari alla gestione pandemica che, in ogni modo, hanno trovato nell’apparente e formale non coinvolgimento di FDI al governo Draghi un segnale di fiducia e speranza. Ora, all’avvicinarsi delle elezioni europee, ecco che astutamente il Presidente del consiglio, replicando argutamente a PD e pentastellati, ha colto l’opportunità per ravvivare le simpatie nei suoi confronti di una quota (spero piccola) di “anti lockdown” e “no green pass”. Sarebbe stato abbastanza sorprendente, in assenza di appuntamenti elettorali, sentire un riferimento come quello di mercoledì 28. La tendenza generale, nella politica istituzionale quanto nella comune quotidianità, è infatti quella di evitare il più possibile di ricordare i traumatici nodi spinosi del periodo pandemico, imponendo una sorta di rimozione di essi dalla memoria collettiva (nei limiti del possibile). Invero è come se ci fosse un’inclinazione di tutta la società ad allontanare i ricordi della pandemia e, ancor di più, delle misure liberticide e discriminatorie introdotte, aggirandoli e facendo finta di nulla. La fame di voti ha però prevalso e, nonostante tutto, la premier ha giocato questa scomoda carta in suo favore. È bene però che i c.d. no pass, così come tutti quelli che avvertono la morsa sempre più stretta sulla gola dell’umanità, comprendano quale sia stato il ruolo di Meloni & Co. nella questione Covid, ossia quello di complice e di finta opposizione (peraltro assai blanda anche nella forma) utile al sistema di potere in essere. Nei palazzi romani piuttosto che nei grattacieli di Bruxelles, chiunque vi trovi alloggio, non si possono che servire le volontà dei potentati del grande capitale nazionale (grandi società e gruppi industriali), della potenza imperiale statunitense e del più ampio “occidente collettivo”.

Chiunque sia stato infinocchiato dal solito teatrino alle precedenti elezioni non torni ad esserlo ora, bensì si rinfreschi la memoria e non si lasci ammaliare da uscite come quelle pronunciate al TG2, così come da tutta la pantomima offertaci dai vari schieramenti democratico-borghesi, di destra come di sinistra, ai quali spesso e volentieri finiscono per accodarsi pure molte realtà extraparlamentari, magari sotto una veste di parvente radicalità, come ad esempio la gran parte della galassia degli “antagonisti”. Non c’è stato alcun paladino a difenderci dalle politiche criminali imposte durante la c.d. pandemia e non ce ne sarà nessuno nelle presenti e future offensive liberticide e antiumane. Solo noi possiamo, maturando, accumulando consapevolezza e organizzandoci, salvare noi stessi dalle innumerevoli offensive rivolteci contro. Solo un nostro risveglio, una nostra mobilitazione, solo prendendo i nostri destini nelle nostre mani. Rifiutiamo, denunciamo e stacchiamoci quindi dalle retoriche di questi politicanti, maestri nel lisciare il pelo per ottenere il nostro miserabile voto e intortarci nei loro giochi. Sì, PD e 5 Stelle sono degli sporchi ipocriti, probabilmente anche più degli altri, ma ricordiamoci che al varco IV, molo VII, la Meloni non c’era. Di fronte agli idranti e agli scudi c’eravamo noi, gente comune, e i portuali, da soli.

 Konrad Nobile 

 
Pensare l'impensabile PDF Stampa E-mail

5 Marzo 2024

 Da Comedonchisciotte dell’1-3-2024 (N.d.d.)

Siamo nel 1788, è estate, due contadini stanno zappando in un campo nella campagna francese. Sulla strada che corre vicino al campo, spunta dalla polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli una bella carrozza, che si ferma poco lontano da loro. Da essa scende un signorotto, di buone maniere e ben vestito che li chiama a sé. I due si avvicinano con fare riverente, come si deve a chi è di ceto superiore, inchinandosi e scappellandosi. Il signore a quel punto chiede loro: “ma sapete voi che a partire dall’anno prossimo e per i secoli a venire, voi sarete liberi, io e voi saremo uguali, noi avremo gli stessi diritti e gli stessi doveri e potremo chiamarci tra noi, fratelli?” I due lo guardano con fare dubbioso, chiedendosi, ma senza esprimerlo, che sorta di trucco possa essere quello del signore. “Come Voi più gradite mio signore“, risponde uno dei due inchinandosi con una riverenza. Il giovin signore gira loro le spalle e senza dire altro risale in carrozza e si allontana. I due tornano a lavorare, come sempre hanno fatto nella loro vita e così i loro avi, per generazioni, hanno fatto da sempre. Ma una volta che il signore è giunto a distanza di sicurezza, scoppiano in una risata fragorosa: “sono pazzi questi ricchi, anzi più sono ricchi e più sono pazzi!! l’avesse sentita mio nonno una baggianata simile!!” Nel 1789 scoppia la Rivoluzione Francese, il Re più Re di tutti, Luigi XVI viene decapitato, la monarchia crolla, “Liberté Fraternité, Égalité” è il nuovo motto della Nazione. Di lì a venti anni lo sarà di tutta l’Europa.

Questa immaginifica scenetta non si è mai, chiaramente, verificata ma serve a introdurre il tema di questo articolo con una domanda: quanto siamo disposti a “pensare l’impensabile“? L’epoca in cui viviamo ci sta abituando a continui cambiamenti, in particolare in termini tecnologici. Dopo un’iniziale inerzia all’inizio del millennio, internet si è diffusa in tutto il mondo, trasformandolo, creando le basi di successive evoluzioni tecnologiche sempre più profonde. Interi settori economici sono stati sconvolti dall’avvento del World Wide Web prima e dagli smartphone poi: l’industria del turismo, con la quasi sparizione delle agenzie di viaggio grazie ai siti per il turismo “fai da te”, il mondo della comunicazione, con le agenzie di stampa sostituite da Twitter, l’industria bancaria, con il trading online e la possibilità del remote banking che ha decimato gli sportelli fisici. E cosa dire del commercio tradizionale, minacciato prima e surclassato poi da quello elettronico, tanto che la sua azienda più nota, Amazon, ne è oggi un sinonimo e ha fatto del suo proprietario uno degli uomini più ricchi al mondo in meno di dieci anni? Oggi pensiamo ad ogni nuova evoluzione tecnologica (l’Intelligenza artificiale, su tutte), come qualcosa di ineluttabile, grazie anche all’enorme pressione mediatica che accompagna ogni novità. Cosa dire però della politica internazionale? Abbiamo la stessa capacità di accettare che qualcosa possa cambiare in maniera sconvolgente rispetto agli equilibri esistenti? In particolare parliamo dei BRICS e della possibilità che non solo aumentino di numero ma che in un futuro non troppo lontano possano emettere una loro moneta, alternativa al Dollaro e all’Euro, minacciando lo status internazionale di queste valute e con esso quello di USA ed Europa, leader mondiali da secoli. Il dominio occidentale sul mondo ha il suo inizio con le scoperte geografiche avvenute dal XV secolo in poi, scoperte che si sono tramutate in dominio prima e colonizzazione poi. Da quel momento gli europei sono usciti dalla loro area geografica originaria e si sono stanziati in altre aree del mondo (senza considerare qui le modalità con cui ciò è avvenuto), gettando le basi per la seguente affermazione come cultura dominante del mondo.

In un incontro tra Xi Jinping e Putin di qualche mese fa, il primo pare abbia ripetuto una frase, secondo la quale “ci sono decenni in cui non accade nulla: e ci sono settimane in cui accadono decenni”. Subito derubricata a mera propaganda, la frase lascia però intuire come i due leader abbiano rotto gli argini e si stiano liberando dalla briglia che la superpotenza globale americana, e la pluricentenaria espansione europea, avevano imposto loro nell’ultimo mezzo secolo (nel caso della Cina per quasi un secolo, ma altrettanto per la Russia se consideriamo il Marxismo un “prodotto” della cultura europea). Il termine BRICS è ormai vecchio di 20 anni, coniato da un economista di Goldman Sachs per usarlo in un “paper” sulla crescita di quelli che sino ad allora erano “paesi in via di sviluppo“. Negli anni è salito alla ribalta ed oggi se ne parla come di un possibile blocco alternativo a quello occidentale, in competizione con esso e con la possibilità di divenire il principale attore mondiale in termini politici ed economici. Il meeting di Johannesburg del gruppo dello scorso Agosto è stato preceduto dalle voci circa l’imminenza della nascita di una “moneta dei BRICS“, la cui realizzazione è oggettivamente difficile se la si intende simile all’euro, ovvero creata eliminando le monete nazionali, forse un po’ meno se invece la si creasse per affiancare le monete dei singoli paesi. Le analisi apparse sui principali quotidiani occidentali, economici e non, tendono a sminuire la possibilità che questa operazione riesca o che addirittura il blocco BRICS possa arrivare a vedere la luce come un’entità reale (e non solo come alleanza temporanea in ottica revisionista rispetto al modello occidentale). Ciononostante, durante l’incontro in Sudafrica, il gruppo ha proposto un suo futuro allargamento invitando altre sei Nazioni: Egitto, Argentina, Arabia Saudita, Iran, Etiopia e Emirati Arabi Uniti, a partire dal 1 Gennaio 2024, nell’anno in cui a presiedere il gruppo è la Russia.

Tralasciando gli aspetti sopra descritti, soffermiamoci invece sulle implicazioni più ampie, primariamente di ordine culturale, che la riuscita di questo progetto porterebbe con sé. In quanto europei o loro discendenti (tale è la maggioranza degli abitanti di USA, Canada e Australia), siamo portati a pensare il mondo nei termini dell’Occidente Cristiano e ciò si manifesta in parecchi aspetti che diamo per scontati e fanno parte del nostro “senso comune“: le mappe geografiche a cui siamo abituati vedono sempre l’Europa o gli USA al centro, gli abiti utilizzati dai diplomatici e quelli che consideriamo eleganti (giacca e cravatta, per intenderci) sono derivati dalla sartoria inglese, la religione che consideriamo universale è il cristianesimo, i canoni di bellezza maschile e femminile derivano dall’immaginario greco classico e romano in prima istanza e dalle rappresentazioni nei quadri degli autori occidentali. Potremmo continuare dicendo che anche l’alfabeto che utilizziamo è prettamente occidentale (Latino, per essere precisi), la Storia e la sua interpretazione (così come la revisione storiografica) considerano l’Occidente come il suo motore, l’urbanistica e l’architettura che consideriamo bella e funzionale, i rapporti familiari (monogamici, più o meno patriarcali e patrilineari), la concezione del ruolo femminile nella società e quello della sessualità, la relazione con il passato ed i propri antenati o l’idea progressiva della Storia. Potremmo continuare ad elencare queste “banalità” per pagine e pagine, dandole per oggettive, ma così non è nel profondo delle culture che appartengono al “rest” (opposto al west, per Huntington), al mondo non occidentale.

L’occidente ha creato la maggior parte del senso che il mondo considera (o che noi pensiamo debba essere) comune e la sua “egemonia culturale” (per dirla con Gramsci) lo mantiene in voga: le istituzioni che lo regolano (l’ONU e le sue agenzie, il FMI, la Banca Mondiale, la Corte Penale Internazionale, tra le altre), il sistema finanziario, i diritti umani che attualmente consideriamo “universali”, l’industria dei Media. Un mondo governato da una maggioranza politica ed economica (e per estensione, militare) non occidentale non avrebbe le stesse caratteristiche e la condizione degli occidentali potrebbe tramutarsi, in un secolo o forse anche meno, radicalmente. Un mondo in cui la concezione induista o musulmana della società, dei rapporti tra i suoi componenti, del concetto religioso e dell’escatologia, della sessualità, della Storia o della finanza, sarebbe un mondo a noi sconosciuto che ci trasformerebbe concettualmente (se non praticamente) da oppressori ed egemoni ad oppressi e marginalizzati. Lo stesso senso religioso, attualmente fondato sul monoteismo di stampo giudeo-cristiano-musulmano, potrebbe dover essere rivisto, alla luce della presenza di paesi politeisti (come l’India), atei e materialisti (come la Cina) o eventualmente buddisti (come una buona parte dei paesi asiatici).

Facciamo alcuni esempi: l’India, sebbene venga definita la più grande democrazia del mondo, ha introdotto questo sistema di governo solo dopo la fine della colonizzazione inglese, ma il suo sostrato culturale è ancora dominato dal sistema delle caste che di democratico non ha nulla. Nel pensiero etico musulmano (ovvero conforme alla Sharia) il prestito ad interesse non è contemplato e gli investimenti devono essere socialmente responsabili , prevedere la compartecipazione al rischio ed essere Halal (ovvero leciti, quindi non interessare pratiche contrarie alla morale islamica come pornografia, droghe, alcool, armi e così via). Nella cultura tradizionale cinese, invero spazzata via dalla rivoluzione culturale di Mao, ma che rimane forte nella pratica del popolo non urbanizzato ( ma Pechino sta cercando di reintrodurre gradualmente il confucianesimo), il rispetto per gli anziani e gli antenati è molto sentito, così come la riprovazione sociale per chi non si sposa e non ha figli. Il senso comunitario russo è ancora forte nella cultura popolare, così come il senso di appartenenza alla patria. Il tribalismo resta una componente fondamentale nelle società africane, diverse delle quali hanno strutture sociali matrilineari e matriarcali.

Non è oggetto di questo articolo elencare in dettaglio le differenze culturali, sociali, religiose e semiologiche tra l’occidente e il resto del mondo e come conciliarle tra loro. Il punto è sottolineare come si potrebbe arrivare, un giorno, a dover “pensare l’impensabile” almeno secondo tre accezioni: immaginare qualcosa che non avevamo neanche immaginato che sarebbe potuto succedere (non tanto perché incapaci di pensarlo, quanto per negazione della possibilità stessa di poterlo pensare), abbandonare l’idea di essere il “primo mondo”, con tutto ciò che questo status comporta e rapportarsi pariteticamente con altre culture e civilizzazioni. Adottare concetti, pensieri, astrazioni e simboli che non sono propri della nostra cultura di base e quindi doverli includere nel “nostro” modo di pensare. La prima eventualità potrebbe presentarsi con l’affermazione di un gruppo BRICS++,ovvero non più di soli 5 paesi ma di 30 o più, nell’arco di un decennio o addirittura prima. La seconda ne sarebbe la conseguenza, che sia essa di relegarci al ruolo di “primus inter pares“, di “pari grado” o addirittura “sottomessi“. La terza potrebbe essere la scelta obbligata in un mondo non più plasmato a nostra immagine e somiglianza.

Che si auspichi tutto ciò o lo si tema vale la pena di iniziare ad abituare la mente a “pensare l’impensabile”, iniziando ad ascoltare chi questo “impensabile” lo sta già descrivendo, in barba alla definizione stigmatizzante che si vede affibbiare, sia essa quella di “complottista“, “visionario“, “anti-occidentale” o semplicemente “pazzo“. In definitiva, “Stay foolish” non vale solo per inventare un nuovo tipo di telefono.

 Fabrizio Bertolami 

 
Brodo per bolle PDF Stampa E-mail

2 Marzo 2024

 Da Rassegna di Arianna del 28-2-2024 (N.d.d.)

Gli Stati Uniti d'America o più esattamente l'impero del Dollaro di cui essi sono la piattaforma tecnologico militare, in quanto impero con forti costi di gestione, hanno bisogno di continuamente espandere il loro dominio, cioè l'area in cui e da cui possono finanziarsi imponendo il loro signoraggio monetario internazionale, ossia l'accettazione del dollaro e dei T.bonds, che essi generano a costo zero. La storia del dopoguerra è la storia dell’imposizione, dell’espansione, della difesa e dello sfruttamento del signoraggio del dollaro. Per questa ragione, l’impero del Dollaro si è espanso in vari modi e ambiti, in particolare attraverso la NATO, dapprima facilitando la disgregazione dell’URSS, indi avanzando in territorio europeo verso Est, annettendo molti stati, fino a premere direttamente sulla Russia e la Bielorussia piazzando i suoi missili a ridosso dei loro confini e accerchiandole anche da sud attraverso l'Afghanistan e gli stati dell'Asia centrale, dove va collocando le sue basi militari. L'invasione dell'Ucraina è stata una operazione di arresto di questa espansione, che tendeva dapprima a piegare la Federazione Russa, poi a frammentarla per ricavarne repubbliche piccole e facilmente dominabili col metterle l'una contro l'altra, al fine di sfruttare le loro risorse naturali. Già questo è stato fatto con l'Ucraina e attraverso anche l'emissione di bonds sullo sfruttamento delle sue terre agricole e delle sue aree minerarie nel Donbass, nonché sulla sua futuribile ricostruzione – perché nell’impero del Dollaro l’economia finanziarizzata va avanti creando bolle dopo bolle, che vanno alimentate mediante una continua e massiccia creazione monetaria da offrire alle banche di investimento (Quantitative Easing etc.), e ciò necessita il mantener viva la domanda di credito con qualsiasi mezzo.

La seconda necessità strutturale dell'impero del Dollaro è prevenire una integrazione economica, se non anche politica o strategica, tra l'industria e la tecnologia europee e le risorse minerarie e scientifiche della Russia, integrazione che porterebbe a un blocco continentale dominante nel mondo e sul mondo. E in questo i suoi strateghi sono stati abilissimi. Mediante il conflitto suscitato tra Ucraina e Russia (suscitato fomentando il regime change a Kiev, la persecuzione delle minoranze russe e proibendo prima il rispetto degli accordi di Minsk, indi la firma di quelli di Istanbul) e il coinvolgimento dell’Europa nell’attuale guerra accompagnato dalle massicce sanzioni economiche, ci sono riusciti alla grande. Non solo: costringendo l'Europa ad approvvigionarsi di gas non più dalla Russia a basso costo ma dagli Stati Uniti e da altre fonti ad altissimo costo, hanno fatto salire i costi di produzione in Europa rispetto ai loro, onde ora molti capitali, molte aziende e molti ‘cervelli’ stanno trasferendosi dall'Europa agli Stati Uniti, i quali in tal modo risolvono il problema della reindustrializzazione americana a spese della serva Europa. La condizione di vassallaggio dell'Europa verso gli USA si manifesta in come l'Europa e i suoi governanti entusiasticamente e zelantemente assecondano tale operazione che lascia l'Europa unica zona al mondo a pagare l'energia moltissimo e quindi condannata a un declino economico, alla perdita di quota di mercato internazionale e, in prospettiva, a subire il take over di capitali esterni.

 Ora però che la prospettiva di una pronta e tranquilla fruizione economico-finanziaria della neo-annessa Ucraina e del Donbass è sfumata, dato il fallimento della controffensiva di Zelensky, per mantenere viva la creazione di nuova ricchezza finanziaria attraverso l'emissione di nuove covate di bonds, si è dovuto trovare un rimpiazzo, un investimento alternativo – sempre a nostre spese. Così, attraverso la NATO, è stata comandata la preparazione generale dell'Occidente alla guerra con la Russia e magari anche con la Cina e con l'Iran, con tutti i necessari, titanici investimenti, per la gioia dell’industria degli armamenti americana, la quale rimuove il banale timore che tale preparazione aumenti il rischio di uno scontro nucleare. Tutto fa brodo per le bolle, anche i funghi atomici! Però il Cremlino e tutti i Russi hanno visto quali sono e dove sono i centri di potere responsabili delle prefate scelte, quindi sanno dove è giusto puntare i loro missili, per il worst case scenario. Amen.

Marco Della Luna

 
Una nuova cortina di ferro PDF Stampa E-mail

1 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte del 29-2-2024 (N.d.d.)

Mentre si chiude il secondo anno di guerra in Ucraina, l’apparente stallo che caratterizza questo sfibrante conflitto di logoramento nasconde cambiamenti decisivi sul campo di battaglia e nel panorama internazionale. Mosca ha riorganizzato le proprie forze, mobilitato nuovi uomini e mezzi, e preme su diversi punti del fronte. Dopo un estenuante assedio, la cittadina di Avdeevka, nell’oblast di Donetsk, è caduta in mani russe. Gli ucraini, fiaccati dalla carenza di soldati e munizioni, sono ormai nettamente sulla difensiva. Nel frattempo, il fardello del sostegno economico e militare all’Ucraina è passato dagli Stati Uniti all’Europa. Tra aiuti finanziari e fornitura di armi, il contributo europeo è ormai il doppio di quello americano. Complessivamente, però, l’appoggio occidentale mostra evidenti crepe. Chiare divisioni sono emerse nell’establishment statunitense, ma anche fra i diversi stati europei, e nel governo di Kiev. Dopo mesi, il Congresso USA non ha ancora approvato il promesso pacchetto di 60 miliardi di dollari in aiuti militari. E in ogni caso l’industria occidentale della difesa non è in grado di tenere il passo con l’intensità dello scontro bellico in Ucraina. Da Washington giungono chiaramente pressioni, dirette e indirette, verso l’Europa affinché si assuma responsabilità ancora maggiori nella guerra, dando ossigeno finanziario a Kiev e aumentando le spese militari. La zavorra del conflitto, e della riconfigurazione degli scambi commerciali e delle fonti di approvvigionamento energetico, dovuta alla rottura dei rapporti con Mosca, ha tuttavia inciso pesantemente sulle economie europee, in evidente difficoltà. Ma negli ambienti transatlantici regna tuttora la convinzione che lo scontro con Mosca possa e debba essere vinto. Alcuni considerano il 2024 come un anno interlocutorio, in vista di una nuova controffensiva ucraina l’anno successivo. Soprattutto oltreoceano, domina la persuasione che si possa ancora rovesciare il tavolo, che le sanzioni prima o poi avranno effetto sull’economia russa, che Mosca cederà se l’Occidente mobiliterà le risorse necessarie.

Né Washington né Kiev sono intenzionate ad aprire un negoziato che comporterebbe concessioni dolorose. I paesi europei, uniformatisi a questa linea politica, dal canto loro continuano a consolidare la nuova cortina di ferro destinata a mantenere il continente diviso, dal Mar Nero al Baltico, fino alla regione artica. L’Europa si avvia così ad essere, per molti anni a venire, un nuovo teatro dello scontro per la ridefinizione degli equilibri mondiali, a detrimento di una prosperità europea che appare sempre più un ricordo del passato. Assieme ad essa, ad andare perduto è anche il bene inestimabile della pace continentale. La Conferenza di Monaco sulla Sicurezza (Munich Security Conference), che si è conclusa domenica scorsa in Germania, ha offerto uno sconfortante compendio della scena attuale. Svoltasi all’insegna dell’allarmismo e della drammatizzazione, essa è stata una caricaturale quanto inquietante chiamata europea alle armi contro la Russia. La rovinosa ritirata ucraina da Avdeevka, i timori europei suscitati dall’ennesima dichiarazione di Trump contro la NATO, l’allarmante  quanto probabilmente infondata “soffiata” dell’intelligence americana sull’imminente lancio in orbita di un’arma nucleare antisatellite da parte della Russia, l’improvvisa quanto misteriosa morte in carcere di Alexei Navalny, oppositore russo osannato in Occidente ma poco amato in patria, hanno fatto da sfondo alla conferenza. Il preludio dell’evento è stato invece caratterizzato dalle sinistre previsioni di diversi leader politici e militari europei su uno scontro armato con la Russia nei prossimi anni che, a loro dire, sarebbe quasi inevitabile. Il ministro della difesa danese, Troels Lund Poulsen, ha affermato che la Russia potrebbe mettere alla prova l’articolo 5 della NATO entro 3-5 anni. La presidente della Commissione difesa del Bundestag tedesco, Marie-Agnes Strack-Zimmermann, ha parlato di un probabile attacco russo a un paese NATO fra 5-8 anni. A gennaio, il capo di stato maggiore dell’esercito svedese aveva dichiarato che la popolazione avrebbe dovuto prepararsi a un’eventuale guerra. Gli aveva fatto eco il comandante dell’esercito britannico, il quale aveva ammonito i cittadini ad essere pronti a una guerra paragonabile ai grandi conflitti del XX secolo. Dal canto suo, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha detto che l’Occidente deve prepararsi a uno scontro con la Russia “che potrebbe durare decenni”. A Monaco, il ministro della difesa tedesco Boris Pistorius ha ripetuto lo stesso mantra: “Non so predire se e quando avverrà un attacco al territorio NATO, ma potrebbe accadere fra 5-8 anni”.

La frustrazione dei leader europei sarà verosimilmente profonda di fronte alla constatazione di quello che probabilmente essi considerano lo stato di “incoscienza” in cui vivono i loro popoli, delle cui aspirazioni peraltro tali leader non si curano affatto. Secondo il rapporto della conferenza, la Russia figura solo al 7° posto tra le principali preoccupazioni dei tedeschi, e addirittura al 12° fra quelle degli italiani. Allora, per spiegare l’allarmismo dei politici occidentali, il noto politologo statunitense John Mearsheimer ricorre al concetto di “inflazione della minaccia”: ingigantire il “pericolo russo” è necessario per serrare i ranghi dello sfilacciato fronte atlantico a sostegno dell’Ucraina, ma anche per mobilitare popolazioni svogliate.

Ecco allora decifrate le affermazioni di Stoltenberg secondo cui “se Putin vince in Ucraina, non vi è garanzia che l’aggressione russa non si estenda ad altri paesi”. Sotto questo profilo, il clima era certamente più ottimistico alla Conferenza di Monaco dello scorso anno, allorché diplomatici, strateghi e analisti dell’intelligence (davvero poco lungimiranti) ritenevano che Mosca si stesse avviando verso una cocente sconfitta in Ucraina, e contavano i mesi che separavano Kiev dalla riconquista di tutti i suoi territori. Ma l’attuale allarmismo è anche imprescindibile se deve concretizzarsi l’obiettivo americano di consolidare un’artificiale cortina di ferro nel cuore dell’Europa, che mantenga il continente diviso nei decenni a venire.

Per comprendere il progetto statunitense, è sufficiente leggere Graham Allison, decano dei politologi USA, professore ad Harvard, grande esperto di Russia e Cina. In un articolo eloquentemente intitolato “Ciò che gli americani devono all’Ucraina”, egli scrive: Immaginate che due anni fa – prima che Putin invadesse l’Ucraina – qualcuno fosse venuto negli Stati Uniti con una proposta credibile per impantanare la minaccia militare russa all’Europa per il decennio a venire, senza perdere un solo soldato statunitense. Quanto sarebbero stati disposti a investire in quell’iniziativa gli americani? Allison prosegue esponendo in dettaglio i vantaggi che l’ipotetica “proposta” avrebbe offerto agli USA:

– Risvegliare i nostri partner europei della NATO alla realtà di combattimenti sanguinosi e su vasta scala nel XXI secolo, motivandoli a investire centinaia di miliardi di dollari nella produzione delle loro capacità di difesa. – Convincere due delle nazioni europee militarmente più capaci – Finlandia e Svezia – ad aderire alla NATO aumentando quindi significativamente la forza deterrente dell’Alleanza. – Infliggere a Putin un’imponente sconfitta strategica, sventando in modo decisivo il suo tentativo di prendere Kiev e sostanzialmente di cancellare l’Ucraina dalle mappe. – Persuadere […] l’economia più importante d’Europa – la Germania – ad eliminare la sua dipendenza dall’energia a basso costo della Russia, e a cominciare a creare una propria forza militare. – Rivitalizzare l’alleanza transatlantica con una campagna coordinata e protratta per sconfiggere l’aggressione russa, armando e finanziando l’Ucraina e indebolendo la Russia attraverso l’imposizione del sistema di sanzioni economiche più completo della storia.

Allison conclude dicendo che “se ci avessero fatto una proposta del genere, ci sarebbe sembrata incredibile e l’avremmo probabilmente respinta perché troppo bella per essere vera”. Ma – chiude il politologo americano – “grazie al notevole coraggio e alla determinazione” degli ucraini, essa si è tradotta in realtà.

Il progetto esposto da Allison è abbastanza cristallino, e non necessita di particolari chiarimenti, al di là di un paio di precisazioni. Se le finalità del progetto sono evidenti – mobilitare gli alleati europei contro la Russia, risvegliandoli “alla realtà di combattimenti sanguinosi e su vasta scala”, come dice Allison, allo scopo di fare del continente l’immensa retrovia di un conflitto combattuto sulla terra e sulla pelle degli ucraini – la narrazione su cui esso poggia è tuttavia imperniata su un punto debole: l’ossessiva reiterazione di una menzogna, quella della cosiddetta “aggressione non provocata” da parte della Russia. Tale reiterazione è necessaria per mantenere in piedi la finzione secondo cui il conflitto non sarebbe stato causato dall’espansione della NATO, né dal golpe di Maidan del 2014, condotto con la complicità americana, né dal rifiuto di implementare gli accordi di Minsk. Bensì, esso è il risultato del revanscismo del presidente russo Putin, il cui obiettivo – come dice Strobe Talbott, ex vicesegretario di Stato e presidente della Brookings Institution – sarebbe quello di ricreare “l’impero russo con lui come zar”. Per consolidare la nuova cortina di ferro e scongiurare qualsiasi spiraglio negoziale, è poi necessario reiterare un’altra menzogna, quella secondo cui, quando Putin decise di invadere l’Ucraina, intendeva conquistarla interamente e cancellarla dalle mappe, come ha scritto Allison, o “annientarla”, come ha ripetuto più volte il presidente americano Joe Biden. Tale falsità è stata smascherata da diversi esperti militari, i quali hanno puntualizzato che la Russia non intendeva conquistare l’intera Ucraina, per il semplice fatto che non l’aveva invasa con forze sufficienti. Mosca puntava invece a “forzare” l’avvio di un processo negoziale che stava avendo successo nel marzo 2022, allorché fu boicottato dall’intervento di inglesi e americani, proprio allo scopo di realizzare il progetto candidamente esposto da Allison.

Per tenere in piedi la narrazione americana è poi necessario esprimere ottimismo sul futuro dell’Ucraina – come ha fatto il sottosegretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, James O’Brien, affermando che “l’Ucraina sarà più forte alla fine del 2024” – malgrado la grave situazione economica in cui versa il paese, e le enormi perdite subite che, secondo l’ex procuratore generale ucraino Yuriy Lutsenko, ammontano ad almeno 500.000 morti. Allo stesso tempo, è necessario tenere viva la paura in Europa, riesumando la “Teoria del Domino” utilizzata dal presidente Lyndon Johnson in Vietnam, esemplificata dalla dichiarazione di Biden dello scorso 6 dicembre, secondo cui “se Putin prende l’Ucraina, non si fermerà […] Continuerà ad andare avanti”. E questo sebbene il leader del Cremlino abbia recentemente rinnovato i segnali di una disponibilità russa al negoziato.

Ecco dunque che gli strateghi americani continuano ad elaborare scenari di una guerra a lungo termine per Kiev, prevedendo la creazione di linee fortificate, la ricostituzione del decimato esercito ucraino, e la pianificazione di attacchi oltre la linea del fronte, per colpire obiettivi in profondità nel territorio russo. L’obiettivo è giungere a una situazione in cui l’Ucraina sia in grado di assorbire le offensive russe minimizzando le perdite, per eventualmente riguadagnare l’iniziativa in futuro, o comunque continuare a “dissanguare” la Russia. Ma la nuova “strategia difensiva” prospettata da Washington prende anche in considerazione la possibilità che l’Ucraina diventi uno Stato fallito. Fino a quando essa rimarrà un calderone di nazionalismo nel quale impantanare la Russia (eventualmente anche attraverso una resistenza armata), imprigionandola in una contrapposizione permanente con l’Occidente, l’obiettivo americano è raggiunto comunque. Nel frattempo, l’altro focus di Washington è quello di consolidare la nuova cortina di ferro europea dal Mar Nero al Baltico, attraverso il ritrovato ruolo di fedele e docile alleato da parte della Germania, per “persuadere” la quale a rinunciare all’energia russa a basso costo – come ha scritto Allison – giunse il provvidenziale sabotaggio dei gasdotti Nord Stream nel settembre 2022. Il ristabilito asse di Berlino con la Polonia, il rilancio del cosiddetto Triangolo di Weimar (Parigi-Berlino-Varsavia), la nuova “linea di difesa del Baltico” (promossa da Estonia, Lituania e Lettonia), e l’avanzamento di una “Schengen militare” per facilitare la movimentazione di materiale bellico entro i confini dell’Unione in direzione della Russia, forniranno la struttura portante della nuova cortina di ferro.

Il nuovo slancio impresso al processo di allargamento dell’UE, e di espansione della NATO, che potrà coinvolgere a vari livelli i Balcani occidentali, e paesi come Ucraina, Georgia e Moldova, completa il progetto di Washington. In particolare, l’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza Atlantica servirà a estendere il conflitto all’estremo Nord del continente, e alla regione artica. E con gli alleati europei così mobilitati contro la Russia, gli Stati Uniti potranno dedicare le proprie attenzioni al Pacifico. Naturalmente, le incognite di questo progetto sono numerose. Il processo di allargamento di organismi mastodontici come NATO e UE, che già presentano seri problemi al loro interno, è destinato a incontrare numerosi ostacoli. La creazione di un’industria bellica europea è un’impresa che richiederà anni, mentre quella russa è a pieno regime. Tale impresa è poi tutt’altro che scontata, soprattutto alla luce delle difficoltà economiche e di approvvigionamento delle materie prime a cui stanno andando incontro i principali paesi dell’Unione. Gli eserciti di Gran Bretagna e Germania versano in condizioni disastrose, mentre entrambi i paesi sono entrati in recessione. L’economia tedesca, in particolare, sta andando incontro a un vero e proprio processo di deindustrializzazione. Washington ha le sue gatte da pelare in patria, con la sua grave paralisi politica interna, e un anno elettorale che si preannuncia pieno di tensioni e incertezze. Ma oltreoceano, la prospettiva di un’Europa teatro di una nuova guerra fredda con la Russia, sebbene al prezzo di diventare più insicura e impoverita, è quanto di meglio l’America si possa augurare – almeno secondo strateghi come Allison.

Roberto Iannuzzi

 

 
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