25 Gennaio 2022 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/apocalisse senza profeti.jpg)
Da Rassegna di Arianna del 17-1-2022 (N.d.d.) È finito il tempo della storia ma non è più tempo nemmeno per la profezia, che di solito accompagna i collassi storici e apre le porte alle visioni apocalittiche. Viviamo senza saperlo nella Dopostoria. Cessata la storia, e con lei la memoria storica, la passione per la storia, la rilevanza storica degli eventi, sostituita con la rilevanza globale, viviamo in quell’indefinibile spazio postumo. La Dopostoria è una definizione che trovai tanti anni fa in una poesia di Pierpaolo Pasolini. Fu come una folgorazione leggere i versi di Un solo rudere, recitati da Orson Welles ne La Ricotta e raccolti in Poesie in forma di rosa. Ne parlai in un mio libro del millennio scorso e l’ho spesso citata negli anni, ritenendola il manifesto dolente per la tradizione che si spegne. “Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati…dove sono vissuti i fratelli”. Anch’io come lui mi aggiravo “per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone” e mi sentivo superstite, “feto adulto” “nato dalle viscere di una donna morta”, “sull’orlo estremo di qualche età sepolta”. Guardavo anch’io i crepuscoli romani “come i primi atti della Dopostoria”. Eccola, la Dopostoria. A lei ha dedicato ora il titolo pasoliniano di un libro uno storico di professione, Roberto Pertici (Dall’Ottocento alla Dopostoria, ed. Studium) che si addentra su alcuni temi e personaggi degli ultimi due secoli. Compito dello storico, dice, è quello di “cercare i fratelli che non ci sono più”, come poetava Pasolini; e questo colloca lo storico fra le forze del Passato, al sopraggiungere della Dopostoria. Ma cos’è poi la Dopostoria? Non è la fine degli accadimenti, delle tragedie collettive, dei grandi rivolgimenti epocali, che continuano ancora. Non è la fine della storia in senso hegeliano o marxiano. È la percezione di essere entrati in uno stadio che non conosce più legami vivi col passato e dunque col futuro. Un tempo sospeso e permanente, che non entra in alcuna sequenza, non ha eredità da trasmettere, procede per forza d’inerzia. Non distingue tra cronaca e storia, tra realtà e rappresentazione virtuale, tra il vero e la pubblicità. Viviamo la storia in Dad, da remoto, per dirla in gergo scolastico pandemico. La Dopostoria è l’avvento dell’infinito presente globale. Quest’anno è il centenario della nascita di Pasolini, ma l’occasione è superflua per ricordarlo giacché Pasolini non se n’è mai andato, è continuamente citato, chiamato in causa. Quel che invece è scomparso di Pasolini è il suo sguardo apocalittico; non ha lasciato eredi né continuatori quel pensiero profetico con le sue denunce accorate. Dopo Pasolini vi furono però altri scrittori apocalittici ma inoltrati in territori preclusi a Pasolini, più vicini allo spirito religioso. Solo per limitarci al nostro paese ne cito almeno altri tre, scomparsi molti anni dopo Pasolini. Autori che furono definiti dai critici cattolici come “la banda degli gnostici” di casa Adelphi. Apocalittico fu Guido Ceronetti, anche se la sua apocalissi non aveva un preminente connotato storico-civile come quella di Pasolini, ma biblico-letterario. Antimoderno come Pasolini, la sua visione apocalittica a volte si faceva grottesca e perfino divertente, un po’ come la prosa di Cioran. Mentre Pasolini descriveva le rovine dell’Italia, Ceronetti dedicava un libro a Italoshima, la penisola distrutta come dopo una bomba atomica, al pari di Hiroshima. Apocalittico, ma in una versione più legata al cristianesimo e alla tragedia del suo ritrarsi dal mondo, fu Sergio Quinzio, teologo e biblista, che dedicò il suo sguardo alla religione della Croce nel tempo della morte di Dio, nella storia e nella vita contemporanea. Nella sua visione profetica Quinzio raccontò la debolezza di Dio, il suo silenzio e la sua sconfitta nel mondo, prefigurò la scomparsa della Chiesa. Commentando l’Apocalisse, Quinzio ritenne disperata la salvezza per gli uomini. Apocalittico fu pure Elémire Zolla, scrittore e studioso di religioni, tradizioni iniziatiche e mistici; egli fu l’apocalittico per antonomasia, perché citato nel famoso saggio di Umberto Eco, Apocalittici e integrati, insieme a Theodor Adorno e alla Scuola di Francoforte. Zolla fu capofila degli apocalittici nostrani davanti alla società profana di massa. Tradizionalista, tenne tuttavia a distinguersi dagli autori tradizionalisti, come René Guénon e soprattutto Julius Evola, oltre che dai tradizionalisti cattolici. Pasolini, Ceronetti, Quinzio e Zolla furono i quattro Cavalieri nostrani dell’apocalisse. Scomparsi loro, si è persa traccia del pensiero poststorico, profetico e apocalittico. È rimasto forse Massimo Cacciari, e in parte Giorgio Agamben, con la loro lettura del Katechon, di Dio, del Sacro, della Cristianità. Affrontano entrambi, fuori dalla fede, il doppio tema della Chiesa di Cristo, del potere temporale che seduce e del potere che frena, ritarda o trattiene la rovina, ossia il Katechon. Si pongono davanti alla fine dei tempi, al mysterium iniquitatis e all’avvento dell’Anticristo che verrà a sedurre chi è morto nell’Anima. Ma senza rivelazioni salvifiche. In Cacciari la parola chiave del suo pensiero tragico più che Apocalisse è Catastrofe. E comunque Cacciari e Agamben più che apocalittici vengono oggi ridotti a critici del regime sanitario. Il pensiero apocalittico non sembra avere eredi. Nel versante pasoliniano e in quello neognostico e cristiano. Non è solo scomparsa la storia ma anche l’elaborazione spirituale del suo lutto, la visione profetica di trovarsi al cospetto della fine dei tempi, l’escatologia e la rivelazione. Alla fine della storia è stato tolto pure il Gran Finale. La storia finisce e la gente si fa i selfie. Marcello Veneziani
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24 Gennaio 2022 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/decrescita e buddismo.jpg)
Da Rassegna di Arianna del 22-1-2022 (N.d.d.) Com’è noto, il termine Decrescita nasce intorno al 2003 come slogan per criticare radicalmente l’idea di crescita economica, insieme a quella dello “sviluppo sostenibile”. Non c’è dubbio che tali mantra irresistibili si sono propagati per tutto il pianeta (con la globalizzazione) anche perché sono legati a doppio filo all’immagine di progresso, di evoluzione, di futuro che punta al miglioramento, ancorché di paesi sviluppati (l’Occidente) e di paesi “in via di sviluppo”. Fu solo negli anni ’50, infatti, che fu inaugurata la narrazione dello sviluppo, per opera del presidente americano Truman (Hickel, 2017). I paesi ricchi dell’Europa e del Nordamerica erano sviluppati. Erano la punta avanzata della grande Freccia del Progresso a cui tutti gli altri paesi dovevano tendere. Prima di allora, viceversa, la maggior parte del pianeta aveva conosciuto economie della permanenza e non della crescita. Possiamo capire perché ciò avveniva se accantoniamo per un momento l’alternativa tra sviluppo/ sottosviluppo oppure quella tra popolazioni evolute/ popolazioni primitive. Ci soffermeremo invece su una visione del mondo - il Buddismo - che ha permeato per oltre 2 millenni e mezzo vaste aree del pianeta come l’India, Ceylon, la Birmania, la Thailandia, il Tibet, il Vietnam, la Corea, il Giappone e gran parte della Cina, plasmandone l’educazione, la letteratura, l’arte e l’architettura ed ovviamente anche l’economia. Al centro del Buddismo stanno le realizzazioni ottenute dal Siddharta Gautama, figlio di una nobile famiglia, nato intorno al 566 a.C. nella parte nordorientale dell’India, che abbandonò il benessere e il lusso della casa paterna, per trovare la vera gioia e la pace. Egli sapeva bene che quello che aveva raggiunto non era comunicabile a parole, ma attraverso un’esperienza più profonda del piano logico-linguistico. Egli, infatti, aveva compreso pienamente l’essenza del reale, ovvero “l’origine condizionata” di tutte le cose (pratitya samutpada). Ciò significa che né le cose che consideriamo esterne, né il nostro io, hanno un’esistenza separata, autonoma, indipendente. Ogni cosa non è permanente, non è costante, ma un aggregato di energia che prende innumerevoli forme, che passa e va. Gli aggregati (khanda) si formano e si dissolvono in continuazione, interagendo tra loro e con tutto il resto, ma non permangono mai. Per i filosofi del buddismo Mahayana l’intera sfera della fenomenalità - sia fisica che mentale, sia percepita che dedotta - è considerata priva di sostanza. È questa ragione - ontologica e profonda -per cui le parole non possono avere grande valore come noi in occidente ci ostiniamo a credere. Nonostante ciò Il Buddha, che chiamava se stesso Thatagata: ”ciò che è passato di qui”, decise di elargire ciò a cui era pervenuto facendo quattro dichiarazioni: le cosiddette Quattro Nobili Verità. La Prima Verità parte dalla constatazione che la condizione umana è essenzialmente caratterizzata dal dolore della morte, vecchiaia e malattia: «la vita è sofferenza, dukkha». La Seconda Verità afferma però, come uno squarcio di luce: «la causa della sofferenza è la brama, trisna». Attaccarci alle cose, desiderare questo e quello come se le potessimo fermare è la causa fondamentale del dolore. Non solo le cose non hanno sostanza, ma soprattutto ciò a cui ci attacchiamo di più: il mio Io, il mio Ego, e dunque il mio desiderio di sopravvivenza, di possesso materiale, la brama di avere sono la causa prima del dolore. A questo punto, la Terza Nobile Verità chiarisce: «È possibile eliminare la sofferenza». La Quarta Verità indica con chiarezza il modo in cui è possibile eliminare la sofferenza: «La via è il Nobile ottuplice sentiero», cioè le otto maniere di vivere attraverso cui è possibile estinguere quello stato mentale che è la brama, il desiderio e raggiungere la pace. È notevole che la verità della pratitya samutpada ha oggi trovato conferma dalla fisica quantistica, dal famoso principio di indeterminazione di Heisenberg, e trovano continue conferme nelle scoperte recenti delle neuroscienze, l’Entanglement, l’ecopsicologia e la psicoimmunoendocrinologia. Ma già da duemilacinquecento anni, il Buddismo era riuscito a smontare l’idea che là fuori ci sia un mondo materiale oggettivo, materiale, da conoscere e da conquistare da parte di un soggetto separato. Le cose nella loro fondamentale natura non possono essere nominate né spiegate, sono al di là dell’ambito della percezione, non hanno caratteristiche distintive. L’universo viene spesso paragonato ad uno spettacolo magico, ad un lampo o alle onde del mare. Il mare stesso, la realtà oltre ed entro le onde mutevoli non può essere misurato in termini di onde. Il buddismo soprattutto Mahayana distrugge alla radice il meccanismo psicologico del desiderio su cui si fonda tutta l’economia moderna e il marketing. Infatti dobbiamo renderci conto di un fatto importante: per vendere dei prodotti, bisogna prima vendere dei desideri. E questa imposizione dei desideri – oltretutto sempre più superficiali e artificiali – è la struttura principale dell’economia moderna. Civiltà antiche avevano vissuto nell’abbondanza di beni e di relazioni affettive sane che sono la base del benessere esistenziale, senza seguire i fuochi fatui della pubblicità e degli status simbol. L’imposizione dei desideri attraverso la pubblicità, la televisione e la società dello spettacolo rappresenta una parte importante di quella colonizzazione dell’immaginario attraverso cui la società industriale finisce per predominare su culture diverse e più connesse alla natura. Come altre filosofie tradizionali, ma con maggior forza, il buddismo invece ci insegna che le attitudini mentali generate dal desiderio e poi dal possesso e dall’acquisizione, vanno indebolite e superate perché, non possono condurre alla pace e alla felicità. La vera pace e felicità vanno ricercate, al contrario, nell’allargamento dei confini dell’ego fino alla sua dissoluzione, per aprirsi ad un livello di empatia con tutti gli esseri viventi sia umani che non umani. La compassione è l’attitudine più giusta anche nei confronti di un Ecosistema di cui facciamo parte e di cui non siamo i dominatori. Da questo sapere discendono pratiche di vita ben specifiche: “l’Ottuplice sentiero” ovverosia Otto maniere di vivere che sono nell’ordine: Retta Visione, Retta Intenzione, Retta Parola, Retta Azione, Retti Mezzi di sussistenza, Retto Sforzo, Retta Consapevolezza, Retta Meditazione. È essenziale intendere la “Retta Visione” senza sotterfugi o smussamenti: non esistono sostanze, tutto scorre come diceva Eraclito, tutto è impermanente ed interconnesso con il resto, compresa la nostra mente. Dunque l’Intenzione è “retta” solo se si è afferrata la visione della non permanenza e di conseguenza quando l’intenzione consiste nel non-attaccamento, nella non violenza, nel non nuocere agli altri. Parallelamente bramosia, competizione e violenza – così diffuse e perfino caldeggiate nelle teorie economiche (mors tua, vita mea) - impediranno lo sviluppo della “Retta intenzione”. “Retta parola” inoltre consiste nell’astensione da parola falsa, da calunnia. Quindi esiste una precisa “Retta azione”, un giusto modo di agire che è il non nuocere agli altri, il non prendere ciò che non è dato, ma soprattutto nella cosmovisione buddista viene caldeggiata l’astensione dal possesso bramoso. Ma ciò che per noi oggi è più interessante è il Quinto Sentiero. Esso insegna quali sono i “Retti mezzi di sussistenza”, cioè che esiste una giusta maniera per guadagnare e assicurarsi un certo benessere economico. Innanzitutto ci viene insegnato che vanno evitati tutti i mezzi che possono implicare danno o sofferenza negli altri. Tra questi sono esplicitamente condannati dal Buddha: 1. Il commercio di armi; 2. Commercio di esseri umani e di prostitute; 3. Commercio di animali da uccidere; 4. Commercio di veleni, alcol, droghe e sostanze intossicanti. Molti stati orientali non permettevano il commercio di alcolici e lo Stato Buddista del Bhutan, nel 2005, ha messo al bando la vendita del tabacco. Vietare il commercio di animali da uccidere avrebbe effetti enormi sull’industria della carne oggi largamente incoraggiato e promosso in ogni parte del globo. Vietare inoltre la fabbricazione di armi avrebbe conseguenze immense sul piano pratico e in questa ottica pensiamo all’atteggiamento avuto dal Dalai Lama, capo politico del Tibet - all’indomani dell’occupazione militare del Tibet avvenuta nel 1950 da parte della Cina. L’economista F.E. Schumacher che aveva studiato a lungo queste norme buddiste soggiornando in Birmania, rese famosa l’espressione “economia buddista” attraverso lo slogan e il libro Piccolo è bello. Per essa attività che implicano un grande spreco di risorse non sarebbero ammesse perché questa è una forma di violenza verso la natura e quindi – per “Retta visione” – anche verso noi stessi. Da questa prospettiva, l’industria della moda occidentale che impone vestiti nuovi ogni sei mesi – per fare un esempio - con enorme spreco di materie prime, sarebbe completamente condannata; altrettanto lo sarebbero i commerci globali, la delocalizzazione delle imprese oppure l’industria dei trasporti (Schumacher, 1973; Illich 1974). Secondo l’Ottuplice sentiero, solo dopo aver praticato “Retta parola”, “Retta azione” e “Retti mezzi di sussistenza” che costituiscono la via Etica, l’uomo può giungere all’educazione mentale vera e propria. Solo così si può giungere finalmente all’ultimo e ottavo sentiero: la “Retta unione”, uno stato di beatitudine e di pace che è il vero scopo della vita, fatto di assorbimento, concentrazione e immersione totale in quella dimensione di non mente, al di là delle parole.” Non può essere chiamato né vuoto, né non vuoto, né entrambi, né nessuno dei due, ma per indicarlo lo chiamiamo il Vuoto “-scrive Nagarjuna. Ed è interessante che un famoso fisico contemporaneo, Carlo Rovelli, citi spesso questo filosofo buddista nato circa 18 secoli fa, per cercare di descrivere la “non dicibile” realtà quantistica. E si badi bene, le ricerche più avanzate ci stanno dicendo che non esistono due mondi: il nostro mondo della realtà quotidiana accanto a quello dei quanti: ma esiste un solo mondo ed è quello quantistico. I BIT classici sono solo dei BIT quantistici collassati (Silvestrini 2021) Questo significa che 1.la realtà ultima non è misurabile ed è collegata senza relazione di causa-effetto; 2 la realtà non è separabile; 3.la misura locale non definisce completamente la realtà; 4. La fisica classica non permette di conoscere la realtà. In base a queste scoperte, il metodo scientifico andrebbe completamente rivoluzionato: il concetto di misura e di calcolo andrebbe rivisto anche nelle sue implicazioni sul denaro – che viceversa è il grande dio dei nostri tempi. Stessa cosa sul versante dell’io, oggetto oggi di una venerazione acritica ed esagerata. Testi classici buddisti all’opposto ribadiscono: “Tutte le calamità, tutti i dolori, tutti i pericoli derivano da una cosa soltanto, cioè all’attaccamento all’ego” (Guida al sentiero buddista del risveglio,2,134). Il problema della crescita, il problema della dittatura dell’economia su tutti gli aspetti della vita, non si risolve andando a convincere i presunti “cattivi”, ma cambiando paradigma, ribaltando la visione della realtà, di ciò che è, di ciò che è vero. Solo in questa maniera l’economia potrà ritornare al suo posto, dietro l’etica (Terzani 2002) e le ragioni ecologiche discenderanno semplicemente dall’ontologia, invertendo quella strada sbagliata che ci sta portando a distruggere il mondo e noi stessi (Porciello, Filosofia dell’Ambiente, 2022). Ancor oggi, è molto importante ispirarsi all’immagine buddista dei tre veleni che stanno al centro della Ruota dell’Esistenza ( bhavacacka) e che sono rappresentati in infinite immagini pittoriche in Tibet, Giappone, Cina Corea e generalmente nel Sudest asiatico. Sono rappresentati come un gallo, un serpente e un cinghiale. Ciascuno morde la coda dell'altro perché essi sono, di fatto, indisgiungibili. Il gallo rappresenta la brama, il desiderio, il serpente esprime l’avversione, l’odio. Essi sono sempre uniti al cinghiale che simboleggia l’ignoranza, ovvero – come abbiamo visto sopra - la dimenticanza e la negazione dell’impermanenza e la transitorietà profonda di tutte le cose nel mondo, compreso ovviamente ciò a cui siamo più attaccati: il nostro io e la nostra sopravvivenza. Gloria Germani
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23 Gennaio 2022 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/altro che filantropi.jpg)
Da Rassegna di Arianna del 22-1-2022 (N.d.d.) Va bene essere ingenui, ma senza approfittarsene. Di miliardari buoni che donano parte del loro patrimonio per il bene dell’umanità non ce ne sono. Ma lasciamo parlare i numeri. L'82% delle donazioni di questi “filantropi” finisce in fondazioni private, spesso controllate da loro stessi. Fondazioni che ovviamente possono essere trasmesse agli eredi. Fondazioni che godono di clamorosi vantaggi fiscali. Per ogni dollaro messo nelle casse della fondazione, il miliardario recupera fino a 74 centesimi grazie alle agevolazioni fiscali. In cambio di queste agevolazioni, le fondazioni hanno un solo obbligo: investire ogni anno in beneficenza almeno il 5% del loro bilancio. Peccato che in quel 5% si possano far rientrare le spese amministrative, gli stipendi dei dipendenti e contributi ad altri fondi. Ovviamente le detrazioni fiscali però si applicano al totale delle donazioni. Bill Gates è il più grande “filantropo” che ci sia. Da quando ha deciso di impegnarsi per il bene dell’umanità, il suo patrimonio personale è passato da 54 miliardi di dollari a 120. Visto che la filantropia paga – e molto – altri miliardari hanno seguito l’esempio di Gates. Unendosi al movimento lanciato nel 2010 proprio da Bill Gates e da Warren Buffett, “The Giving Pledge”. Un gruppo di miliardari che si sono impegnati a donare parte del proprio patrimonio per scopi benefici. Un’attività talmente redditizia che i membri sono passati dai 62 iniziali ai 216 del 2020. Nel mentre, i 62 miliardari pionieri di The Giving Pledge hanno visto crescere del 95% le loro ricchezze, passate da 376 a 734 miliardi di dollari. Questo perché quella che alcuni vorrebbero far passare per filantropia non è altro che una strategia per ripulire l’immagine predatoria che i miliardari si portano dietro e per orientare pesantemente la politica di molti Paesi. Come ha spiegato bene Anand Giridharadas nel suo “Winners Take All”, «molti miliardari sostengono di voler cambiare il mondo. In realtà stanno solo proteggendo il sistema alla radice dei problemi che pretendono di risolvere». Altro che filantropi... Gilberto Trombetta
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Una biforcazione è in corso |
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22 Gennaio 2022 Gravissimo è il comportamento di chi, pur usando il green pass, pur vaccinato con doppia o tripla dose- per necessità, lavoro, famiglia…-non esprime comunque, in qualche modo, un minimo di dissenso per quello che sta succedendo, avendone le capacità materiali e intellettive… Chi continua a vivere come se fosse tutto normale…per me comincia ad appartenere effettivamente a una specie post-umana. C’è una cernita globale in corso, non tra no-vax e vaccinati, ma tra chi intuisce, comprende che c’è qualcosa “nell’aria” (magari pur adeguandosi e subendo, ma conscio di ciò), e chi invece continua a “vivere”. È in corso una biforcazione, con uno iato che sarà presto incolmabile. Giuseppe Aiello
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21 Gennaio 2022 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/egregora della paura.jpg)
Da creativo, vitale e sereno a inerme e sottomesso dato sociale. Il vecchio Gregory (1) la chiamava mente. Una mente è il corpo sottile di intento. Un intento ha tanta più potenzialità quanto più il punto di attenzione è posato su esso. Tale forza tende a crescere in modo direttamente proporzionale alla quantità di individui che portano l’attenzione sul medesimo intento. È quanto, in campo fisico, viene detto concentrazione. Come la concentrazione è una forza fisica e anche – nel suo limitato campo – creativa, la mente è forza metafisica. Quando il vecchio Gregory ha scritto Verso un’ecologia della mente, alludeva anche alla spazzatura di superstizioni che ci impediscono di vedere come e perché agiamo. Il punto di attenzione è un chiodo che ci blocca lì, sulle nostre convinzioni, dentro le nostre ossessioni, divorati dalle nostre patologie. Tutti i credo, scientifici inclusi, non sono che campi autoreferenziali. Significa che ognuno è dettato da leggi, norme e regolamenti autopoietici, fatti da noi. L’inconsapevolezza di tanta sfacciataggine ci permette, ci impone, di affermare la verità emersa dal nostro campo come superiore a quella altrui. Da qui i malintesi, i conflitti, le guerre. Alla medesima conclusione, e osservando le medesime dinamiche tra le forze in campo, era giunto il vecchio Michel (2) quando, nel suo L’ordine del discorso, affermava che la verità è nel discorso. Prima di loro, le sapienze delle Tradizioni di tutto il mondo avevano osservato le forze sottili, la loro azione, i comportamenti che ne derivano. Tutta quella conoscenza è stata gettata al macero proprio dalla mente inquinata e dal discorso prodotto dalla modernità. Tra le diverse definizioni di tale periodo, compare quella caratterizzata dal dominio del materialismo e dei suoi derivati: il positivismo, l’economicismo, l’ateismo, l’ideologismo. E dei suoi succedanei: l’individualismo, il consumismo, l’edonismo, lo scientismo. Si tratta di fiumi in piena, che conducono le loro brune acque nel grande lago endoreico dell’importanza personale, dell’egoismo come culto primario, irrinunciabile e fondante della verità del discorso in essere oggi. In cui, le dimensioni profonde dell’uomo non solo non sono coltivate, ma sono censurate dalla cultura che ci avviluppa. Ciarlatani sono divenuti i maghi, fandonie sono divenute le sapienze. Ciò che fa testo è solo ciò che si occupa della “realtà concreta”, come ebbe a dire un noto economista italiano al cospetto di ciarlatani e fandonie. Nelle pesanti e maleodoranti acque senza sbocco al mare della bellezza, inconsapevole, l’uomo organizza se stesso al meglio delle verità offerte dalla mente che lo domina. Il vecchio Gregory la sapeva lunga. Genera valori e morali, giustizia e benessere. Ma si tratta di sottocampi, ontologicamente pronti a inseminare conflitti e a essere traditi. Nel grande lago c’è spesso burrasca. Il si salvi chi può diviene quindi la sola verità. Anche il vecchio Michel la sapeva lunga. Come in un uomo degradato al malessere esistenziale – psichico, fisico e sociale – ogni sirena di aiuto è sufficiente per ammaliarlo, così, in una moltitudine sociale, dimentica delle sue profondità, identificata sulle sue facciate, imbambolata dall’opulenza, prostrata alla salvifica tecnologia, intenta ai diritti che crede di avere e alla salvezza che crede di meritare, è esercizio elementare orientare la sua attenzione. Come l’imbonitore e il commerciante trattengono quella del derubato e del cliente, la comunicazione non ha difficoltà a generare una nuova burrasca, un nuovo si salvi chi può. Diffondere la paura e il suo rimedio, nonché, di conseguenza, osservare come l’ago della bussola personale si orienti identicamente a quello di ogni componente della moltitudine, è pari elementare esercizio per chi detiene la comunicazione. Per chi ha educato quelle moltitudini allo scientismo e al diritto di salvezza. Il magnete della paura fa convergere gli aghi su essa. Fa correre al riparo affermato dagli esperti. Nella ressa non c’è spazio, né comprensione per coloro che ad altre dimensioni e ad altri valori orientano gli aghi delle loro bussole interiori. Se i vecchi Gregory e Michel ci avevano informati sul potere della mente e del discorso, le antiche sapienze occidentali, che prima di loro avevano osservato il potere delle forze sottili che dominano gli uomini e ne regolano i conti, quel potere lo chiamavano egregora. Un concetto meglio comprensibile se inteso come incantesimo. Un campo di dominio entro il quale, soltanto chi ha preso coscienza che non siamo l’io che crediamo di essere, che oltre al nome, cognome, professione e stato civile, c’è un universo, ha potuto non sottomettere l’ago della sua bussola. Come qualunque altra, l’egregora della paura è come un vento di burrasca che spinge tutti gli umiliati in una sola direzione che, ordinati come limatura di ferro al cospetto del magnete, li condurrà ad approdi brutalisti dove vanteranno la loro probivirità. Ma, una volta di più, saranno diventati solo dati da catalogare nel registro di chi amministra il vento. Lorenzo Merlo 1) Gregory Bateson. 2) Michel Foucault.
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