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Culto del falso PDF Stampa E-mail

11 Febbraio 2024

 Da Comedonchisciotte del 20-1-2024 (N.d.d.)

Emmanuel Todd, storico, demografo, antropologo, sociologo e analista politico, fa parte di una razza in via di estinzione: è uno dei pochissimi esponenti rimasti dell’intellighenzia francese della vecchia scuola – un erede di quelli come Braudel, Sartre, Deleuze e Foucault che avevano affascinato i giovani nati dopo la Guerra Fredda, dall’Occidente all’Oriente. La prima chicca che riguarda il suo ultimo libro, La Défaite de L’Occident (“La sconfitta dell’Occidente”), è il piccolo miracolo di essere stato pubblicato la scorsa settimana in Francia, proprio in un Paese NATO. Più che di un libro si tratta di una vera e propria bomba a mano, scritto da un pensatore indipendente, basato su fatti e dati verificati, che fa saltare l’intero edificio della russofobia eretto intorno all'”aggressione” dello “zar” Putin. Alcuni settori dei media aziendali francesi, rigorosamente controllati dagli oligarchi, questa volta non hanno potuto ignorare Todd, per diversi motivi. Soprattutto perché era stato il primo intellettuale occidentale, già nel 1976, a prevedere la caduta dell’URSS nel suo libro La Chute Finale, basato  sull’analisi dei tassi di mortalità infantile dell’Unione Sovietica. Un altro motivo fondamentale era stato il suo libro del 2002 Apres L’Empire, una sorta di anteprima del declino e della caduta dell’Impero, pubblicato pochi mesi prima dello Shock & Awe in Iraq. Ora Todd, in quello che ha definito il suo ultimo libro (“Ho chiuso il cerchio”), può permettersi di rischiare il tutto per tutto e descrivere meticolosamente la sconfitta non solo degli Stati Uniti, ma dell’Occidente nel suo complesso, concentrando le sue ricerche sulla guerra in Ucraina.

Considerando l’ambiente tossico del NATOstan, dove la russofobia e la cultura dell’annullamento regnano sovrane e ogni deviazione è punibile, Todd è stato molto attento a non inquadrare l’attuale processo come una vittoria russa in Ucraina (anche se ciò è implicito in tutto ciò che descrive, dai diversi indicatori della pace sociale alla stabilità complessiva del “sistema Putin”, che è “un prodotto della storia della Russia, e non il lavoro di un solo uomo”). L’autore si concentra piuttosto sulle ragioni principali che hanno portato alla caduta dell’Occidente. Tra queste: la fine dello Stato-nazione, la deindustrializzazione (cosa che spiega il deficit della NATO nella produzione di armi per l’Ucraina), il “grado zero” della matrice religiosa dell’Occidente, il Protestantesimo, il forte aumento del tasso di mortalità negli Stati Uniti (molto più alto che in Russia), insieme ai suicidi e agli omicidi, e l’avvento di un nichilismo imperiale espresso dall’ossessione delle Guerre per Sempre. Todd analizza metodicamente, in sequenza, Russia, Ucraina, Europa dell’Est, Germania, Gran Bretagna, Scandinavia e infine l’Impero nel suo complesso. Concentriamoci su quelli che sono i 12 Greatest Hits del suo rimarchevole esercizio.

1. All’inizio dell’Operazione Militare Speciale (SMO) nel febbraio 2022, il PIL combinato di Russia e Bielorussia era solo il 3,3% dell’Occidente combinato (in questo caso la sfera NATO più Giappone e Corea del Sud). Todd si stupisce di come questo 3,3% , già in grado di produrre più armi dell’intero colosso occidentale, non solo stia vincendo la guerra, ma stia riducendo in frantumi le nozioni dominanti di “economia politica neoliberale” (i tassi del PIL). 2. La “solitudine ideologica” e il “narcisismo ideologico” dell’Occidente – incapace di comprendere, ad esempio, come “l’intero mondo musulmano sembri considerare la Russia un partner piuttosto che un avversario”. 3. Todd rifugge dalla nozione di “Stati weberiani”, richiama invece una deliziosa compatibilità di vedute tra Putin e l’esperto di realpolitik statunitense John Mearsheimer. Poiché sono costretti a sopravvivere in un ambiente in cui contano solo le relazioni di potere, gli Stati agiscono ora come “agenti hobbesiani”. E questo ci porta alla nozione russa di Stato-nazione, incentrata sulla “sovranità”: la capacità di uno Stato di definire autonomamente le proprie politiche interne ed esterne, senza alcuna interferenza straniera. 4. L’implosione, passo dopo passo, della cultura WASP [White Anglo-Saxon Protestant], che ha portato, “a partire dagli anni ’60”, ad “un impero privo di un centro e di un progetto, un organismo essenzialmente militare gestito da un gruppo senza cultura (in senso antropologico)”. Questa è la definizione di Todd dei neoconservatori statunitensi. 5. Gli Stati Uniti come entità “post-imperiale”: sono solo il guscio di una macchina militare priva di una cultura guidata dall’intelligence, cosa che ha portato a “un’accentuata espansione militare in una fase di massiccia contrazione della sua base industriale”. Come sottolinea Todd, “la guerra moderna senza industria è un ossimoro”. 6. La trappola demografica: Todd spiega che gli strateghi di Washington “hanno dimenticato che uno Stato la cui popolazione gode di un alto livello educativo e tecnologico, anche se in diminuzione, non perde la sua potenza militare”. Questo è esattamente il caso della Russia durante gli anni di Putin. 7. Qui arriviamo al punto cruciale dell’argomentazione di Todd: la sua reinterpretazione post-Max Weber de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, pubblicato poco più di un secolo fa, nel 1904/1905: “Se il protestantesimo era stato la matrice dell’ascesa dell’Occidente, la sua morte, oggi, è la causa della sua disintegrazione e della sua sconfitta”. Todd definisce chiaramente come la “Gloriosa Rivoluzione” inglese del 1688, la Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776 e la Rivoluzione francese del 1789 erano stati i veri pilastri dell’Occidente liberale. Di conseguenza, un “Occidente” espanso non è storicamente [e necessariamente] “liberale”, perché ha anche partorito “il fascismo italiano, il nazismo tedesco e il militarismo giapponese”. In poche parole, Todd ci dice che il Protestantesimo aveva imposto l’alfabetizzazione universale alle popolazioni che controllava, “perché tutti i fedeli dovevano poter accedere direttamente alle Sacre Scritture. Una popolazione alfabetizzata è capace di sviluppo economico e tecnologico. La religione protestante aveva dato vita, per caso, ad una forza lavoro superiore ed efficiente”. Ed è in questo senso che la Germania era stata “al centro dello sviluppo occidentale”, anche se la Rivoluzione industriale era nata in Inghilterra. La formulazione chiave di Todd è indiscutibile: “Il fattore cruciale dell’ascesa dell’Occidente è stato l’attaccamento del Protestantesimo all’alfabetizzazione”. Inoltre il Protestantesimo, sottolinea Todd, è due volte al centro della storia dell’Occidente: attraverso la spinta educativa ed economica – con la paura della dannazione e il bisogno di sentirsi scelti da Dio che generano un’etica del lavoro e una forte moralità collettiva – e attraverso l’idea che gli uomini sono diseguali (ricordate il Fardello dell’Uomo Bianco). Il crollo del Protestantesimo non poteva che distruggere l’etica del lavoro a vantaggio della rapacità generalizzata: ecco il neoliberismo. 8. L’acuta critica di Todd allo spirito del 1968 meriterebbe un intero libro. Egli fa riferimento ad “una delle grandi illusioni degli anni Sessanta, tra la rivoluzione sessuale anglo-americana e il maggio francese del ’68”: “credere che l’individuo sarebbe stato più grande se liberato dal collettivo”. Questo ha portato ad un’inevitabile debacle: “Ora che siamo liberi, in massa, dalle credenze metafisiche, fondative e derivate, comuniste, socialiste o nazionaliste, viviamo l’esperienza del vuoto”. Ed è così che siamo diventati “una moltitudine di nani imitatori, che non osano pensare da soli – ma si rivelano capaci di intolleranza come i credenti dei tempi antichi”. 9. La breve analisi di Todd sul significato più profondo del transgenderismo manda completamente in frantumi il Culto Woke – da New York alla sfera dell’UE, e provocherà attacchi di rabbia in serie. Egli mostra come il transgenderismo sia “una delle bandiere di questo nichilismo che ora caratterizza l’Occidente, questa spinta a distruggere, non solo le cose e gli esseri umani, ma la realtà”. E c’è un ulteriore bonus analitico: “L’ideologia transgender dice che un uomo può diventare una donna e una donna può diventare un uomo. Si tratta di una falsa affermazione e, in questo senso, è vicina al cuore teorico del nichilismo occidentale”. La situazione peggiora quando si parla di ramificazioni geopolitiche. Todd stabilisce una giocosa connessione mentale e sociale tra questo culto del falso e il comportamento traballante dell’egemone nelle relazioni internazionali. Esempio: l’accordo sul nucleare iraniano stipulato sotto Obama che si trasforma in un duro regime di sanzioni sotto Trump. Todd: “La politica estera americana è, a suo modo, gender fluid”. 10. Il “suicidio assistito” dell’Europa. Todd ci ricorda come, all’inizio, l’Europa fosse praticamente costituita dall’accoppiata franco-tedesca. Poi, dopo la crisi finanziaria del 2007/2008, si è trasformata in “un matrimonio patriarcale, con la Germania come coniuge dominante che non ascolta più la sua compagna”. L’UE ha abbandonato ogni pretesa di difendere gli interessi dell’Europa, rinunciando all’energia e al commercio con il suo partner russo e auto-sanzionandosi. Todd vede, correttamente, che l’asse Parigi-Berlino è stato sostituito dall’asse Londra-Varsavia-Kiev: quella è stata “la fine dell’Europa come attore geopolitico autonomo”. E ciò è avvenuto solo 20 anni dopo l’opposizione congiunta di Francia-Germania alla guerra dei neoconservatori all’Iraq. 11. Todd definisce correttamente la NATO immergendosi nel “loro inconscio”: “notiamo che il suo meccanismo militare, ideologico e psicologico non esiste per proteggere l’Europa occidentale, ma per controllarla”. 12. Insieme a diversi analisti in Russia, Cina, Iran e tra gli indipendenti in Europa, Todd è sicuro che l’ossessione degli Stati Uniti – fin dagli anni ’90 – di tagliare fuori la Germania dalla Russia porterà al fallimento: “prima o poi collaboreranno, perché le loro specializzazioni economiche le rendono complementari”. La sconfitta in Ucraina farà da apripista, perché una “forza gravitazionale” attrae reciprocamente Germania e Russia.

Prima di ciò, e a differenza di quasi tutti gli “analisti” occidentali della sfera mainstream del NATOstan, Todd si rende conto che Mosca è destinata a vincere contro l’intera NATO, non solo in Ucraina, approfittando di una finestra di opportunità individuata da Putin già all’inizio del 2022. Todd scommette su una finestra di 5 anni, cioè su un finale entro il 2027. È illuminante fare un confronto con il Ministro della Difesa Shoigu, che l’anno scorso aveva detto: “la SMO finirà entro il 2025”. Qualunque sia la scadenza, in tutto questo è insita una vittoria totale della Russia – con il vincitore che detta tutte le condizioni. Nessun negoziato, nessun cessate il fuoco, nessun conflitto congelato – come vorrebbe ora l’Egemone, in preda alla disperazione.

Il grande merito di Todd, così chiaro nel libro, è quello di usare la storia e l’antropologia per evidenziare la falsa coscienza della società occidentale. Ed è così che, concentrandosi ad esempio sullo studio delle strutture familiari tipiche dell’Europa, riesce a spiegare la realtà in un modo che sfugge totalmente alle masse collettive occidentali sottoposte al lavaggio del cervello e al turbo-neoliberismo. È ovvio che il libro di Todd, basato sulla realtà, non sarà un successo tra le élite di Davos. Ciò che sta accadendo a Davos è  immensamente illuminante. Ed è tutto alla luce del sole. Da parte di tutti i soliti sospetti – la Medusa tossica dell’UE von der Leyen; il guerrafondaio Stoltenberg della NATO; BlackRock, JP Morgan e gli altri pezzi da novanta che stringono la mano al loro giocattolo in felpa a Kiev – il messaggio del “Trionfo dell’Occidente” è monolitico. La guerra è pace. L’Ucraina non sta perdendo e la Russia non sta vincendo. Se non siete d’accordo con noi – su qualsiasi cosa – sarete censurati per “discorso d’odio”. Vogliamo il Nuovo Ordine Mondiale – qualunque cosa voi umili contadini pensiate – e lo vogliamo ora.

E, se tutto fallisce, una malattia X prefabbricata è già pronta.

Pepe Escobar (tradotto da Markus)

 
Anche il cibo in laboratorio PDF Stampa E-mail

9 Febbraio 2024

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 Da Comedonchisciotte del 6-2-2024 (N.d.d.)

Essere agricoltori nel quadro delle Politiche Agricole Comuni (PAC) e del Mercato Globale la ritengo una vera e propria follia. Eppure qualcuno, il contadino inserito in un mercato, deve pur farlo. Una follia a partire dalle “quote” che censiscono i bisogni del mercato senza contatto con la sua realtà, e spesso sbagliano; regole che cambiano e mandano al macero le etichette di vino già fatte e anche la frutta e la verdura che non rispecchia i canoni estetici della UE. Una follia decidere cosa coltivare e cosa no, solo per stare dietro i mutevoli parametri della UE e dei suoi sussidi, indebitandosi, fino al suicidio. […]

È urgente una rete di distribuzione che sia il più possibile locale e che parta dal basso dei veri bisogni sia dei contadini che degli acquirenti; come ad esempio i GAS (Gruppo di Acquisto Solidale) che esistono, ma ancora troppo poco, per riuscire a coprire tutta la realtà nazionale e in modo fitto. Un mercato locale dove i prodotti di un territorio non vengano risucchiati dalla Grande Distribuzione. Non accadrebbe mai, così, che una cima di rapa venga pagata al contadino 0,50 centesimi per finire al supermercato, magari anche tedesco, a 3 o 4 euro. Niente contro l’import-export di prodotti davvero locali, a prezzo giusto e nati dove dovevano e non altrove. Invece nella geopolitica del Mercato Globale avviene il contrario: un prodotto come il grano, che ha bisogno di sole per l’essiccazione, cresce in Paesi freddi che ovviano alla carenza di sole con il glifosato, erbicida seccatutto, per finire importato nei Paesi caldi, come l’Italia. […]

Ed ecco la Monsanto e i suoi OGM, che vorrebbero farci credere ‘più performanti’, mentre sono padri di un cibo sterile, senza vita, schiavizzato. La vera resistenza delle piante nasce dal loro essere autoctone; sono forti e resistenti quei semi che si passano, in un dato luogo, di generazione in generazione. Nessun laboratorio di modifica genetica. Ormai si fa tutto in laboratorio: virus, vaccini, e pure il cibo. Ed eccoci alla carne artificiale (che in Italia per ora non fa presa ma all’estero sì e considerato il fatto che viviamo in una cosiddetta Politica Agricola Comune, la cosa non fa ben sperare) e alla farina di insetti (quella sì, ce l’abbiamo di già anche noi). La natura è straricca di calcio e vitamina B12 e non solo. Non serve scomodare gli insetti, tanto meno cellule staminali di muscoli.

Sono evidenti le palesi contraddizioni di questo falso Green Deal, di questa ecologia senza una vera considerazione dell’òikos, ovvero della Casa, del contesto e degli abitanti, di questo Piano Agricolo Comune (PAC) che di comune non ha niente essendo etero-diretto da chi non ha nessuna delle due mani nella terra. Sostenibilità e biodiversità sono parole rubate a chi davvero ci ha creduto e ci crede. Il nuovo colonialismo europeo, con Italia a fare da capofila, vuole promuovere la sostenibilità in Africa (colonialismo conteso con l’entrata di Russia e Cina) e questa buffonata che non ha niente di sovrano la chiama pure Piano Mattei. Una Coldiretti che, in questa nuova agricoltura sostenibile, tra tutto ciò che ci sarebbe da difendere sceglie di difendere i fitofarmaci, e va bene, ognuno fa come vuole, ma nessuno difende i coltivatori, anche bio, dal Mercato Globale e dalla sua follia.

Prendere i soldi dal comparto agricolo e spostarli nel finanziamento della guerra in Ucraina. Levare gli OGM dalle mani degli agricoltori italiani ma farlo arrivare dall’estero tramite navi cariche di soia transgenica, da vendere agli allevamenti italiani. Finanziare gli agricoltori italiani per non produrre niente dalla loro terra. Contraddizioni a non finire smascherano la bugia di una finta sostenibilità tutta la nostra Europa. Espropriare le terre in modo forzato è una storia vecchia. In nome dell’urbanizzazione o dell’ecologia fa lo stesso. […]

Sarebbe altroché possibile una transizione ecologica che non abbandoni la terra ma per davvero la abbracci. Eppure sembra che dobbiamo toglierci dalla testa l’idea di poter coltivare semplicemente un pezzo di terra e senza bisogno di grandi risorse né di laboratori di bioingegneria per poter mangiare. L’agricoltura di sussistenza, come la si chiamava una volta, non può essere ben tollerata da un’economia globale che ci vuole dipendenti da un sistema corrotto che fa rotta verso il transumano. In tempi molto addietro la società si riuniva intorno alla figura del mugnaio, dal suo lavoro e dal suo mulino proveniva la farina per il pane. Certi mugnai han fatto la storia, raccontata anche nei film (Menocchio, un mugnaio finito nella rete dell’Inquisizione, oppure, I colori della passione, film ispirato a un quadro di Bosch) Oggi al posto del mugnaio abbiamo la UE, le sue lobby e le sue multinazionali. Eppure, mai come oggi, esiste qui e lì un vecchio mugnaio che resiste, e con lui tutto un paese […]

 Francesca Picone

 
Comportarsi ammodo PDF Stampa E-mail

7 Febbraio 2024

 Da Comedonchisciotte del 2-2-2024 (N.d.d.)

Pare che per essere assunti nelle università americane occorra fare una dichiarazione non di “sana e robusta costituzione fisica” come un tempo da noi, ma di “diversità, equità e inclusione”, come la chiamano, in sostanza un atto di fedeltà politica col quale si aderisce formalmente alla nuova ideologia obbligatoria che pretende di eliminare per legge la discriminazione intendendo con essa non solo i fatti, ma anche qualunque espressione di opinione che, ad avviso dei custodi dell’ ideologia, possa ricondurre, anche vagamente, alla discriminazione, razziale o di qualsiasi altro genere. È fin troppo facile notare che tale dichiarazione ricorda molto da vicino quella richiesta ai professori universitari italiani dopo le leggi razziali del 1938, che peraltro quasi tutti sottoscrissero tranquillamente, esattamente come ora fanno quelli americani. Del resto all’epoca la “scienza” riconosceva largamente l’inferiorità della “razza ebraica” come ora riconosce l’inesistenza delle razze umane. Pare inoltre che a differenza dei loro colleghi degli anni Trenta, i professori 2.0 siano anche tenuti a specificare quali comportamenti intendano adottare per tradurre in pratica questo loro impegno. Una sorta di business plan, tanto per ribadire l’aziendalizzazione di qualsiasi cosa nella nostra società.

Il clima politico all’interno degli atenei è tale che sia gli studenti che i professori temono di poter manifestare in qualche modo, soprattutto senza accorgersene, un atteggiamento razzista o omofobo o non inclusivo o negazionista di una qualunque delle verità assolute che il credo ufficiale impone correndo così il rischio di essere licenziati o espulsi o addirittura incorrere in guai giudiziari. Del resto il canone di comportamento è piuttosto incerto e suscettibile di diverse interpretazioni: sarebbe probabilmente d’aiuto la recitazione mattutina di un credo ufficiale prima di iniziare le lezioni, imitando chi ha esperienza bimillenaria in materia, ma penso sia una carenza voluta poiché l’incertezza del diritto crea paura ed è un’arma formidabile in mano al potere. Dove sia finita la libertà di parola costituzionalmente riconosciuta, nessuno lo sa. E la paura è ben comprensibile se si pensa che si può essere accusati anche solo per aver usato il pronome personale sbagliato verso qualcuno che magari sembra una donna, ma che quel giorno si sente un uomo, o per  aver ingenuamente domandato a qualcuno da dove provenga. Rimanere in una stanza chiusa con una studentessa è pericoloso, ne può uscire un’accusa di violenza sessuale. Francamente, più che alla situazione dei professori italiani del 1938, quella dei docenti americani ricorda l’epoca di Galileo Galilei  quando la Santa Inquisizione aveva mille orecchie e sostenere un concetto “sbagliato” poteva costare molto caro. I nuovi inquisitori non paiono essere meno zelanti degli antichi, né più restii a ricorrere alla delazione, come del resto si addice a chi lavora per una causa santa e giusta, per cui è prudente stare attenti a ciò che si dice anche con gli amici più intimi come al tempo delle purghe staliniste. Bisogna insomma, comportarsi ammodo, qualunque cosa ammodo voglia dire. Occorre forse dire che questo clima può essere anche usato per portare avanti rivalità e vendette personali che nulla hanno a che vedere con la discriminazione?

Evidentemente era molto più semplice tenersi lontano dalla “questione ebraica” che dover continuamente dimostrare di essere antirazzisti, pentiti di essere maschi, sostenibili, ecocompatibili, a emissioni zero e fluidi senza che ti scappi mai una risatina o una parola sbagliata. Lo so, a noi italiani (per il momento), tutto questo può apparire esagerato, paradossale e anche un poco umoristico: la stupidità intrinseca della faccenda è tale che tendiamo (per ora), a non prenderla seriamente, tuttavia gli americani la prendono molto, molto sul serio e conseguentemente si comportano nel modo più prudente possibile, in ciò aiutati, probabilmente, anche dalla proverbiale ipocrisia anglosassone e dall’altrettanto proverbiale bigottismo americano. Bisogna considerare che le università,  specie quelle più prestigiose dove più acuti si manifestano i sintomi di questo morbo, non sono un posto qualsiasi, ma sono il luogo eletto nel quale si dovrebbe produrre la cultura più alta di un paese ed anche la scienza più innovativa, il luogo dove pensatori intelligenti ed originali non hanno paura di rompere gli schemi e vedere i problemi da punti di vista nuovi e inaspettati. Sappiamo tutti che per la cultura e per la scienza la libertà di pensiero, di parola e di discussione è importante come l’aria, niente è più dannoso al progresso del conformismo, della censura, dell’auto censura e dell’impossibilità di mettere in discussione principi che si pretendono universali ed eterni. Abbiamo ben visto cosa è successo con la pandemia, quando il dibattito è stato stroncato sul nascere. Inoltre  le università sono anche il luogo nel quale si forma e viene cooptata la classe dirigente americana, quella che poi avrà la responsabilità di guidare il paese. Se il merito viene sostituito dal conformismo, dal bigottismo e dalla prudente obbedienza, oppure, come peraltro già succede da tempo, dalle “quote” obbligatorie di “minoranze un tempo svantaggiate” , ne va pesantemente di mezzo la qualità dell’intellighenzia che si andrà a selezionare: i risultati, a quanto sembra, si riescono già ampiamente a vedere osservando il livello della classe politica che esercita il potere nel paese in questo momento: una serie di personaggi che definire impreparati al compito e di scarso valore umano e culturale sembra essere uno sperticato complimento.

Il danno derivante da essersi formati in istituzioni dove regna il timore di passare per eretici è grave anche nelle scienze esatte come Galileo dimostra, ma lo è molto di più nelle scienze umanistiche dove non esiste una realtà oggettiva che bene o male quando si esagera ci riporta in riga, tanto che in materie come le scienze politiche e sociali l’insegnamento si presta a divenire con facilità quasi esclusivamente propaganda e gli studenti più che istruiti, finiscono per essere indottrinati. Manco a dirlo sono proprio questi i corsi che frequentano in grande maggioranza coloro che saranno i futuri amministratori del paese. In pratica, oltre che ignoranti, saranno anche incapaci di ragionare con la propria testa. Approfondendo solo un poco il merito dell’ideologia che ha così significativamente inciso nella cultura accademica americana, soprattutto in quella più alta,  ci si può facilmente rendere conto che la pretesa lotta a tutte le discriminazioni è del tutto fittizia e finisce semplicemente per ribaltare la situazione precedente introducendo norme, sempre razziste, ma questa volta a carico dei bianchi. Sembra proprio che nella cultura anglosassone il razzismo sia penetrato talmente in profondità che rispunta ovunque senza che nemmeno se ne rendano conto: se proprio non è più bon ton essere razzisti contro i negri, i latinos, i nativi, i musi gialli o magari gli italiani, si può sempre essere razzisti con se stessi, come bianchi, come maschi, come eterosessuali, o addirittura come componenti dell’umanità che per il mero fatto di essere in vita e respirare, consumano risorse, alterano ecosistemi ed infine “distruggono il pianeta”, come certi oligarchi filantropi ci ripetono di continuo.

A quanto pare, il complesso di superiorità dell’occidente, soprattutto dell’occidente a egemonia anglosassone, lungi dal diventare più ragionevole col tempo, si trasferisce semplicemente da un aspetto all’altro, dall’etnia alla cultura, dalla cultura ai “valori” di propria invenzione, ma che si vuole imporre come universali. In altre parole diventa autodistruttivo: ultimamente i “valori universali” più gettonati sono appunto concetti vagamente definiti come “democrazia”, ”inclusività”, “sostenibilità”, “non discriminazione”,  “fluidità”, ”eco compatibilità”, che da bravi dogmi parareligiosi, in mano ai più fanatici, tendono a distaccarsi sempre di più dalla realtà fisica e dal buon senso fino ad arrivare ad una sorta di suicidio per motivi ideologici. In religione succede piuttosto spesso, il martirio è molto apprezzato. In qualche modo pare che per tradurre in pratica questi costrutti mentali prodotti pur sempre dall’occidente bianco, può diventare giusta e necessaria perfino la soppressione dello stesso occidente bianco. La sovrastruttura diventa più importante della struttura che l’ha creata. Per esempio l’immigrazione di massa in Europa e in America deve essere sostenuta anche se implica la distruzione dell’Europa o dell’America e per “salvare il pianeta dall’umanità” si può giungere tranquillamente alla soppressione dell’umanità … da parte, e questo è il bello, della stessa umanità! Quasi non fosse anch’essa un’azione “artificiale”. Possibile che nessuno si renda conto che reintrodurre il lupo è altrettanto “artificiale” quanto sterminare il lupo? In realtà non dovrebbe essere una questione ideologica, ma di opportunità: cosa è meglio fare.

Se è così che funzionano le università americane, o meglio, se è così che hanno smesso di funzionare le università americane, non è che qui da noi si stia molto meglio, anche se siamo leggermente più distanti dal ridicolo conclamato. Tutto quello che siamo in grado di fare è scimmiottare i nostri padroni d’oltremare, magari con meno convinzione, perché siamo fatti così, ma credo che con la seria applicazione e il duro impegno ci possiamo arrivare anche noi. Già oggi si tengono corsi non più in italiano, ma nella lingua ieratica dei padroni. I nuovi Alberto Sordi, per non passare da provinciali, imitano anche l’accento padronale, per quanto ridicolo sia, e darebbero chissà cosa per essere indistinguibili da un membro della razza padrona, naturalmente non importa se bianco o nero, omosessuale o etero, anche perché non ci sono bianchi e neri, omosessuali o etero, maschi o femmine, siamo tutti fluidi, lo dice la scienza.

Devo dire che perfino il mio Comune (mio, si fa per dire, perché ogni volta che ne ho avuto bisogno per adempimenti burocratici da lui stesso creati, ha sempre fatto il possibile per rendermi la vita difficile), manda avvisi bilingui e nemmeno più nel burocratese di una volta, ma in un linguaggio molto più confidenziale, moderno e smart. Anche molto più buzzurro a dire il vero. Qualche giorno fa, ad esempio, mi hanno inviato per posta (modalità affatto smart), una specie di dépliant dal titolo rivelatore “COMPORTATI AMMODO” che suona molto come una minaccia di un padre incazzato al figlioletto discolo: attenzione, ti stiamo osservando, comportati ammodo! Ammodo, come bisognava comportarsi durante la grande pandemia? Chiusi in casa, punturati, mascherati e scodinzolanti sulle terrazze senza far domande inopportune? Un tempo, almeno formalmente, ti trattavano con una certa dignità, ti davano dell’egregio signore anche quando ti facevano la multa, non presumevano che tu ti comportassi male, ora si rivolgono a te come fossi un ragazzino che tira i sassi ai lampioni. I rapporti di subordinazione del suddito nei confronti del nuovo latrante padroncino non potrebbero essere più chiari. Né, a dire il vero, più buzzurri. E  pensare che gli eletti dal popolo, in teoria, stanno lì per servire il popolo: non siamo noi i loro datori di lavoro? Non che io l’abbia votata, beninteso, dico votata perché il nostro sindaco è donna e questo, ovviamente, aggiunge un valore in più alla carica, anche se i generi come dice la “scienza”, sono un costrutto sociale. Ma ai nuovi ideologi il principio di non contraddizione gli fa un baffo. Devo dire che anche i contenuti del foglietto sui quali l’autorità simpaticamente ci intrattiene sono perfettamente in linea con la sua forma e col suo valore: si tratta perlopiù di immondizia e merda di cane.

Nestor Halak

 
Campagna interventista PDF Stampa E-mail

5 Febbraio 2024

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 Da Rassegna di Arianna del 3-2-2024 (N.d.d.)

Per chi non ne avesse mai sentito parlare, è d’obbligo una spiegazione. «Formiche» è una rivista mensile che tratta di questioni politiche, economiche e sociali con articoli piuttosto brevi affidati a una larga rosa di specialisti e personalità pubbliche di varia nazionalità ed è collegata a un sito che ospita commenti alle notizie di attualità e interviste. Chi scrive è stato più volte fra gli interpellati. I nomi dei collaboratori illustri non mancano. L’impostazione è dichiaratamente occidentalista, con un occhio di riguardo per la Nato e l’Unione Europea, una vigorosa linea antirussa e anticinese, un interesse acuto per le innovazioni tecnologiche e le loro ricadute – soprattutto geopolitiche. Di solito, i toni di chi interviene sulle sue colonne sono pacati e improntati a un umanismo che, a seconda delle firme, oscilla fra un cattolicesimo alla Comunione e liberazione d’antan e un approccio laico-moderato. I suoi animatori vengono dalla scuola politica del centrismo e, quel che più conta, hanno rapporti eccellenti con gli esponenti più in vista della galassia dei “poteri forti”; un articolo ben informato di una dozzina di anni fa ne enumerava alcuni – Ettore Gotti Tedeschi, Luigi Abete, Francesco Profumo, Corrado Passera –, ma nel frattempo la cerchia si è certamente allargata, a giudicare dalla copiosa messe di sigle importanti (Eni, Enel, Simest, Mundys, Open fiber, Gentili, Conai, Isybank, Tim, Sace) che rende le pagine del periodico «scoppiettanti di pubblicità». Dovrebbero bastare questi dati per rendersi conto che stiamo parlando di un organo di stampa che non ha il semplice obiettivo di raccogliere un certo numero di abbonati, ma è fra quelli che sono destinati a scopi più ambiziosi, sono letti dalla “gente che conta” e servono a far circolare opinioni destinate ad entrare nel mainstream, a dar corpo ad ipotesi, linee di lettura, suggerimenti che altri, insediati a vario titolo in ambiti decisionali, potrebbero trasformare in atti. Insomma, più che una rivista, il canale di espressione di un think tank, e non di quelli secondari.

È per questo motivo che ci hanno destato un particolare interesse – e alcune preoccupazioni – il dossier che occupa la prima parte del numero di novembre 2023 del mensile in questione, dal significativo titolo L’orrore di Hamas oltre i confini di Israele, e soprattutto l’anonimo, e quindi redazionale, editoriale Si vis pacem para bellum. Due tasselli di un mosaico politico-ideologico-informativo che, con l’ausilio di molti altri soggetti rilevanti, comincia a disegnare con maggiore franchezza che in passato la direzione di rotta che la potenza planetaria egemone e i suoi alleati-vassalli hanno deciso di intraprendere in vista delle prossime puntate di quella “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” che ormai non è soltanto Papa Francesco a dare per iniziata. L’avvio della discussione affidato ad Antonio Tajani, a onor del vero, parrebbe dimostrare il contrario di quanto abbiamo appena asserito, con l’auspicio del ministro degli esteri che il G7 possa ispirare il proprio operato a «una ritessitura e verso migliori forme di dialogo e cooperazione tra contesti regionali diversi e plurali» e che l’Occidente abbia «capacità di ascolto verso i partner globali, rispettare le differenze e ricercare insieme soluzioni condivise, attraverso un dialogo strutturato e fattivo», perché «il metodo inclusivo del dialogo è l’unico che possa portare a risultati». Quando la messa è finita, però, il coro cambia musica, e i “partner globali” tornano ad essere semplici nemici. Se infatti in teoria l’attenzione dovrebbe concentrarsi su Hamas e il Medio Oriente, alla quasi totalità degli intervenienti interessa tutt’altro: proseguire nella demonizzazione della Russia e nella affabulazione della sua aggressività imperialista, nell’esaltazione della Nato (che, ci assicura un generale, «non deve gettare via il capitale di capacità e strutture faticosamente costruire in vent’anni di guerra globale contro il terrorismo [ah sì? Dove? In Iraq? In Libia? O…? n.d.r.] nel nome di un ritorno al convenzionale»), individuare il “pericolo giallo” cinese dietro ogni vicenda internazionale e di conseguenza allarmare sulla sua minaccia, esaltare la «marcia inarrestabile di avvicinamento strategico all’occidente» di un’India che accentui l’ostilità verso il Dragone Rosso (per fare il gioco dell’egemonia statunitense – ma questo l’ex sottosegretario Vernetti si guarda dal dichiararlo) e ribadire l’insidia di un “Sud globale” non allineato ai valori e agli interessi di Washington. Spicca, in questo quadro, il consueto oltranzismo mistificatore di Carlo Pelanda, capace di scrivere che «la Cina ha reagito sollecitando riservatamente l’Iran ad aizzare i suoi proxy Hamas e Hezbollah» [diamine! Che informatori formidabili deve avere l’«illuminista futurizzante» (autodefinizione) per essere al corrente di notizie a lui solo note] contro Israele affinché la reazione di questa impedisse all’Arabia di siglare un accordo con Israele stessa che definiva Haifa come terminale mediterraneo della via del cotone». Ma anche Carlo Jean ci mette del suo quando, prevedendo ciò che da settimane sta accadendo («un attacco terrestre che provocherà decine di migliaia di morti palestinesi» e sottoscrivendolo, scrive che «prioritario è il ripristino di un certo grado di dissuasione [ah, l’arte dell’eufemismo…, n.d.r.], anche ai fini del consenso di qualsiasi futuro governo israeliano. Israele, in particolare, non può essere limitato nella sua reazione dal ricatto degli ostaggi. […] Non può permettersi di perdere tempo anche perché il sostegno dell’opinione pubblica interna e internazionale è destinato inevitabilmente a diminuire. Non può cedere a ricatti».

Stanti premesse di questo tenore, non c’è da sorprendersi – anche se indignarsene è lecito – che l’editoriale di un foglio che si fa portavoce di un così aggressivo occidentalismo esprima, in modo sintetico e con un finale pirotecnico, quella che non è banalmente la linea di un gruppo editoriale ma la direttrice di marcia di un conglomerato politico-economico che si è ormai convinto di non poter perseguire fino infondo i suoi scopi senza ricorrere (di nuovo) allo strumento bellico.

Leggiamo quindi che «l’attacco terroristico di Hamas contro Israele non è stato e non è la riapertura del conflitto Israelo-palestinese. È, ahinoi, un altro pezzo della terza guerra mondiale denunciata da Papa Francesco. Vi è un blocco di potenze – Cina, Russia e Iran – che ha scelto di sfidare l’ordine globale determinato dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale [ sic: che dai tempi delle conferenze di Yalta e Potsdam ci sia stato qualche elemento di variazione di quell’«ordine mondiale» deve essere sfuggito all’attenzione dell’anonimo scrivano]. E di seguito, continuando nella mistificazione della realtà ad usum Occidentis: «La posta in gioco, ancora una volta, sono i valori della libertà e della democrazia. Per troppo tempo ci siamo illusi che la vittoria della Seconda guerra mondiale prima, e della Guerra fredda poi, avessero consegnato un mondo sostanzialmente stabile, dominato dall’interesse economico della globalizzazione. Non poteva essere commesso errore più grande. Adesso, si vede con chiarezza quel tragico filo rosso che lega i regimi totalitari e che li porta a destabilizzare aree geografiche peraltro tutte attorno all’Europa. I Balcani potrebbero essere la prossima regione a subire l’influenza di Putin. In Serbia il fuoco sembra covare sotto la cenere. Non è un caso. La coalizione dei cattivi [questa ci mancava, dai tempi dell’Asse del Male. Un aggiornamento lessicale ci voleva]» ha colto la debolezza dell’occidente e ne sta approfittando».

Sin qui, siamo alla solita retorica fondata su una falsa e vittimistica rappresentazione degli eventi che tutti i media mainstream ci stanno somministrando da decenni, e con un particolare vigore dal giorno dell’attacco russo all’Ucraina, spacciato per la prima mossa di un fantasmagorico piano putiniano di ricostruzione dell’Impero sovietico e/o zarista invece che come la reazione ad un accerchiamento militare che aveva negli Usa il mandante e nel governo di Kiev la testa di ponte più avanzata. Ma è la chiusa del pezzo a regalarci qualcosa di più. Dopo aver deplorato che gli Stati Uniti non siano già scesi in campo militarmente contro la Russia nel 2014 per la vicenda della Crimea, l’editorialista ci ricorda che «il concetto di deterrenza si basa sulle capacità militari disponibili e sulla volontà (e credibilità) di utilizzarle. È attraverso la deterrenza che l’occidente ha vinto la Guerra fredda ed è la sconfitta della deterrenza (per mancanza di volontà, non di mezzi) che ha favorito l’inizio della terza guerra mondiale a pezzi che oggi si dispiega sotto i nostri occhi. Siamo disposti a morire per difendere la nostra libertà, che è poi la stessa libertà degli ucraini e degli israeliani? Se la risposta sono le sanzioni economiche e l’invio di armi, c’è da temere che il fronte del male si allarghi ancora».

Avete capito bene. Siamo arrivati all’invocazione della guerra aperta. Non bastano più le infusioni di denaro e di armi, il sostegno satellitare e strategico, la condanna al massacro di popolazioni ed eserciti altrui usati come carne da cannone per conflitti sostenuti per procura. Non basta neanche il martellamento mediatico che a suon di propaganda, omissioni e falsificazioni sta sforzandosi di lavare i cervelli di centinaia di milioni di persone ormai, salvo casi rarissimi, assoggettati ad una macchina del consenso che non ha nulla da invidiare – ed anzi gode di una formidabile superiorità tecnologica al loro confronto – ai regimi totalitari. Non basta la cancellazione di ogni limite di indecenza etica che porta politici, intellettuali, giornalisti volontariamente asserviti alla potenza oggi egemone a giustificare lo sterminio (“impersonale”, è arrivato a sostenere qualcuno) di decine di migliaia di civili innocenti compiuto dall’esercito israeliano come una “legittima” reazione alla strage compiuta da Hamas, tacciando ipocritamente di antisemitismo chi lo condanna. No, non è sufficiente. Ora è alle viste una vera e propria campagna interventista. Morire per Kiev. Morire per Tel Aviv. Morire, soprattutto, per Washington. Si dirà che non bisogna dare troppo credito a questi Stranamore in sedicesimo. Che sono, appunto, formiche. Insetti, presenze trascurabili. Magari fosse così. Sarebbe invece errato sottovalutarli. Non sono altro che avanguardie mandate in avanscoperta per sondare il grado di reazione dell’opinione pubblica al progetto che in luoghi assai più temibili si sta coltivando, ma dietro di loro a prepararsi è il grosso delle truppe, non solo metaforiche. Da tempo, ormai – soprattutto da quando, nel 2017, l’ascesa della potenza del gigante asiatico ha portato l’amministrazione Usa, allora guidata da Trump, a dichiarare la Cina «nemico sistemico» – la Terza guerra mondiale, quella vera e intera, è in incubazione. E può contare, in Europa, sul sostegno di un fronte ampio e composito, che sul piano politico coinvolge governi e partiti di destra, di sinistra, di centro. Può dispiacere a qualche inguaribile romantico constatare che, su quel versante, si siano schierati persino i pronipoti di chi in un’altra epoca proclamava la «guerra del sangue contro l’oro», ma non c’è di che stupirsene. Occorre, invece, battersi contro questa follia. Cercare di infilare nell’ingranaggio belligeno dell’occidentalismo anche il fatidico minuscolo granello di sabbia. È l’unica via di uscita che ci rimane. Altre non ne esistono.

Marco Tarchi

 
La locomotiva tedesca è deragliata PDF Stampa E-mail

4 Febbraio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 21-1-2024 (N.d.d.)

[…] Il crollo della potenza tedesca è stato causato dal venir meno dei fattori che ne hanno consentito l’ascesa: la fine delle importazioni di gas russo a basso costo, il drastico ridimensionamento dell’export verso la Cina, il declino della sua leadership nella UE che, attraverso l’adozione dell’euro (rivelatosi un marco svalutato), ha reso l’economia tedesca competitiva nel mondo, la devoluzione della propria sicurezza alla Nato, che ha consentito alla Germania di essere esentata dalle spese relative alla difesa. Il modello Merkel, basato sulla potenza economica della Germania, non dotata però di soggettività nell’ambito geopolitico, si è dissolto. Kissinger definiva la Germania “un prodotto interno lordo in cerca di strategia”. Ed è proprio questa deriva post – storica della Germania, perpetuatasi dal ’45 in poi, la causa della sua stessa disfatta economica. Gli USA infatti non hanno mai tollerato l’emergere di una potenza concorrente nel contesto occidentale. Il modello Merkel concepiva la Germania come un paese artificiale, quale soggetto terminale delle catene di valore della produzione delocalizzata nell’est europeo e nel mondo, con la devoluzione alla manodopera immigrata a basso costo delle mansioni lavorative meno specializzate, con una leadership nella UE conseguita mediante il cambio fisso determinatosi con l’unificazione monetaria e con l’imposizione di politiche di austerity ai paesi europei più deboli, secondo quanto previsto dal patto di stabilità. La Germania ha trasformato l’Europa in un modello di ingegneria sociale e finanziaria privo di strategia e avulso dalla geopolitica mondiale. Il modello Merkel avrebbe reso i tedeschi un popolo di rentier finanziari, delegando la produzione (anche quella ad alto livello tecnologico), ai paesi subalterni: una grande Svizzera senza alcuna identità culturale, sradicata dalla sua storia e con la devoluzione della sua sovranità politica alla Nato nel contesto internazionale.

Assai rilevanti furono gli errori commessi dai governi della Grosse Koalition nel settore dell’approvvigionamento energetico. Dopo la rinuncia al nucleare, si è largamente accentuata la dipendenza della Germania dal gas naturale russo. Con la distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2, la Germania è ormai dipendente dalle forniture di gas liquefatto dagli USA, con costi di gran lunga superiori rispetto al gas russo. La Germania inoltre, così come tutta l’Europa, oltre ad essere afflitta da una grave crisi di competitività a causa dei rincari energetici, subisce l’aggressività della politica protezionista degli USA che, mediante gli incentivi e gli sconti fiscali previsti dall’Inflation Reduction Act del 2022 (IRA), hanno generato un processo di delocalizzazione industriale progressivo dalla UE agli USA. Colossi industriali quali la Basf, la Bayer, la Volkswagen, la BMV e la Mercedes – Benz, hanno programmato investimenti negli USA (oltre che in Cina), incentivati dai ridotti costi energetici, dai sussidi pubblici e dagli sconti fiscali. La subalternità tedesca ed europea agli USA è evidente. Afferma Giacomo Gabellini in un articolo dal titolo “Il crepuscolo economico della Germania (e dell’Europa)” pubblicato il 14/07/2023 su “l’Anti Diplomatico”: “Agli occhi degli studiosi dell’Iw, la situazione appare talmente critica da indurli a parlare di «inizio della deindustrializzazione» della Germania e dell’Unione Europea nel suo complesso. Per la quale il crollo dell’export si combina all’incremento delle spese per il pagamento degli onerosissimi approvvigionamenti energetici statunitensi, il sovvenzionamento dell’energia ad imprese e famiglie e la ricostituzione dei depositi di armi svuotati dalle consegne a fondo perduto all’Ucraina, da realizzare in larghissima parte mediante l’acquisto di sistemi d’arma fabbricati dal “complesso militar-industriale” Usa. I quali, come contropartita, sembrano orientati a concedere alla società tedesca Rheinmetall il placet per la produzione di componenti degli F-35 presso un nuovo stabilimento da oltre 400 dipendenti che dovrebbe sorgere nelle vicinanze dell’aeroporto di Weeze, nel distretto di Kleve. Un esempio lampante dei tanti “scambi ineguali” di respiro transatlantico a cui nel corso degli ultimi tempi l’Unione Europea va piegandosi sempre più spesso. Al punto da indurre un think-tank “insospettabile” come l’European Council on Foreign Relations a parlare di “arte (europea) del vassallaggio” e di “americanizzazione dell’Europa”, chiamata da Washington non sono a recidere la vitale arteria energetica con la Russia, ma anche a «sostenere la politica industriale degli Stati Uniti e contribuire a garantire il dominio tecnologico americano nei confronti della Cina […] circoscrivendo le relazioni economiche con la Repubblica Popolare Cinese in base alle limitazioni imposte dagli Usa»”.

La potenza tedesca, oltre che una nullità geopolitica, si è rivelata un bluff anche nell’economia. I governi tedeschi hanno occultato per oltre 20 anni il reale debito pubblico ed il deficit di bilancio federale. Come dichiarato dalla Corte dei conti, i governi hanno istituito ben 29 fondi speciali extra bilancio per un ammontare complessivo di 870 miliardi di euro. Al di là dello scalpore mediatico suscitato dalla istanza giudiziaria della Bundesrechnungshof, gli artifici contabili cui hanno fatto ricorso periodicamente i governi tedeschi erano ben noti. Si pensi alla erogazione di fondi stanziati fuori bilancio per oltre 400 miliardi per il salvataggio del settore bancario all’indomani della crisi del 2008, con la complicità servile della UE (che consentì l’adozione di tale misura, consistente in quegli aiuti di stato che sono stati puntualmente sanzionati dalla Germania nei confronti dell’Italia e altri paesi), all’azione svolta dalla Kreditanstalt für Wiederaufbau (KFW – l’equivalente della Cassa Depositi e Prestiti in Germania), per il sostegno delle imprese nella fase post pandemica per 200 miliardi (operazione di gigantesco dumping industriale e finanziario ai danni degli altri paesi membri della UE), e allo stesso programma di riarmo della Germania per 100 miliardi, imputato ad un fondo speciale extra bilancio. Lo stesso boom dell’export tedesco è stato realizzato in aperta violazione delle normative europee riguardanti i limiti prescritti per i surplus commerciali interni alla UE. Ma, come è noto, il modello economico – finanziario della UE, impostato sull’export e sul rigore finanziario, si è rivelato un gioco a somma zero: allo sviluppo di alcuni paesi ha corrisposto la recessione degli altri.

Il settore bancario tedesco versa in una crisi strutturale resasi nel tempo insolubile. Le banche tedesche (in particolare la Deutsche Bank), sin dalla crisi del 2008 detengono in portafoglio miliardi di titoli – spazzatura. Gli organismi di controllo europei preposti alla vigilanza della solidità patrimoniale del sistema bancario dei paesi della UE, hanno tuttavia assunto nei confronti delle banche tedesche un atteggiamento di colpevole ignavia, adottando invece un atteggiamento di rigore tutto teutonico nella revisione dei bilanci delle banche italiane. Riguardo alla Bundesbank le prospettive sono addirittura tragiche. La Bundesbank, che dispone in portafoglio di miliardi di titoli emessi a seguito del QE a rendimenti zero, deve oggi praticare elevati tassi di interesse per la raccolta dei mezzi finanziari, riportando rilevanti perdite nel conto economico. Le perdite dovute alle minusvalenze generate dalla svalutazione dei titoli in portafoglio tuttavia non figurano in bilancio. […]

E che dire del rigore morale sul debito degli stati vantato dalla Merkel e dal suo non compianto ministro dell’economia Schäubler , che hanno imposto nella UE una immagine virtuosa della Germania quale leader europeo dei “paesi frugali”, contrapposti a quelli mediterranei, esposti al pubblico dispregio quali paesi di genetici fancazzisti e irredimibili parassiti dediti alla prodigalità sfrenata? In realtà la Germania ha imposto in Europa un moralismo laico di stampo razzista – finanziario basato su di una doppia morale, consistente in pubbliche virtù di immagine e vizi privati inconfessabili. I governi tedeschi, oltre ad essere responsabili di falso in bilancio nei conti pubblici, si sono resi complici occulti di grandi scandali: 1) il caso Siemens, il colosso tedesco che avrebbe pagato tangenti milionarie ai politici ellenici, per l’acquisto di armi e carri armati. 2) lo scandalo delle emissioni della Volkswagen USA, una frode, volta a far approvare l’immissione sul mercato di auto le cui emissioni nocive erano di gran lunga superiori a quelle consentite per legge. 3) quelli della Deutsche Bank resasi responsabile di una serie di scandali negli USA, iniziata nel 2015 con il caso della manipolazione fraudolenta del Libor (il tasso di riferimento sui mutui immobiliari), proseguita poi con il riciclaggio di denaro sporco proveniente dalla Russia e la violazione degli embarghi degli Stati Uniti nei confronti di Iraq, Siria e altri “stati canaglia”.

È dunque giunta l’ora della finis Germania? È del tutto probabile. Per quanto riguarda la UE è invece insensato intonare il De Profundis. Non si possono infatti celebrare le esequie in suffragio di qualcuno che non è mai esistito. La locomotiva tedesca è deragliata trascinando con sé tutta l’Europa. La crisi economica tedesca è strutturale e le tensioni sociali non potranno che accentuarsi. Sono del tutto evidenti le conseguenze fallimentari sul piano sociale del modello economico – finanziario europeo, in termini di diseguaglianze, distruzione del welfare, denatalità in crescita esponenziale e mancanza di prospettive per il futuro delle giovani generazioni, con la progressiva scomparsa del ceto medio e della piccola e media impresa. Le istituzioni democratiche evidenziano un allarmante deficit di consenso e di rappresentatività popolare. La crisi tedesca potrebbe incidere, oltre che sulla tenuta degli equilibri sociali, anche sulla sussistenza della unità nazionale, già erosa dalla frattura mai sanata tra l’ovest (ex BDR) e l’est (ex DDR) e soprattutto dal regionalismo sempre più aggressivo degli egoismi locali a danno delle istituzioni federali. La stessa struttura gerarchica piramidale tra Nord e Sud consolidatasi nella UE, si è riprodotta all’interno della Germania, tra i länder economicamente opulenti dell’ovest e i länder più arretrati dell’est.

Tale crisi rappresenta l’esito conclusivo del ciclo di sviluppo del sistema neoliberista anglosassone (con la variante ordoliberista tedesca), che ha condotto fatalmente alla dissoluzione degli stati, dei popoli e delle culture identitarie. La post – modernità poi sta generando la scomparsa dell’individuo stesso, già archetipo dell’ideologia liberale, attraverso i suoi progetti transumanisti. La fine della post – modernità capitalista è ormai prossima, con la decomposizione progressiva del capitalismo stesso.

Luigi Tedeschi

 
L'arte incomprensibile della modernità terminale PDF Stampa E-mail

1 Febbraio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 28-1-2024 (N.d.d.)

Dopo anni di assenza, il vostro scrivano ha trascorso qualche ora nella città di Prato, culla della famiglia paterna. Abbiamo rivisto l’imponente scultura in marmo che caratterizza la piazza San Marco della città toscana, ricordando le battute, le prese in giro rivolte alla grande struttura, il cui nome è Forma squadrata con taglio, che la gente, con arguzia toscana, chiama “il Buco”. E un buco sembra, in effetti, realizzato dall’artista inglese Henry Moore. Si dice – parola di Wikipedia, il vangelo online – che i pratesi l’abbiano voluta ( è lì dal 1974) per simboleggiare, in contrasto con la vicina Firenze, l’identità cittadina, orientata alla modernità e al progresso. Da allora purtroppo la vocazione tessile di Prato si è alquanto affievolita, ma il Buco è ancora al suo posto. Stando alle interpretazioni correnti, esso potrebbe rappresentare la vertebra di un gigantesco animale preistorico, forata al centro, o la porta di accesso alla modernità, in sostituzione dell’antica Porta San Marco, abbattuta un secolo fa per fare posto alla tranvia. Fatto sta che nessuno è in grado di decifrare il vero significato dell’opera, se ne ha uno. Senza scomodare il David di Michelangelo di Firenze, detto il gigante nella città del giglio, il cui significato e incanto senza tempo sono chiarissimi a tutti, nella stessa Prato vi è un’altra scultura famosa, benché non solo per motivi artistici. È la statua di Francesco Datini, mercante del secolo XIV, considerato l’inventore della cambiale. Tiene in mano un cartiglio che secondo i concittadini è appunto una cambiale. L’opera, voluta dai maggiorenti della Prato di fine Ottocento, pionieri dell’industria laniera, mostra la vocazione innovativa della città, mercantile e produttiva. Insomma, si fa capire, a differenza del Buco del pur celebrato Moore .

L’episodio, al di là dell’ imperizia di chi scrive, è la prova dell’incomprensibilità di buona parte dell’arte contemporanea. La scultura ( o meglio, le “installazioni” che spesso ne prendono il nome) e la pittura, compresi veri e propri scarabocchi su tela, sono le arti più colpite da questa sorta di esoterico mistero, per quanto non ne siano esenti la musica e perfino la letteratura. Ne è prova la lirica di un altro toscano, Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire (1910), scritta per prendersi gioco della letteratura paludata del suo tempo. “Tri, tri tri. Fru fru fru,uhi uhi uhi, ihu ihu, ihu. Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente. Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto. Cucù rurù, rurù cucù, cuccuccurucù! Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? Licenze, licenze, licenze poetiche.” L’arte, secondo Benedetto Croce, è intuizione lirica compiutamente espressa. Dunque, un linguaggio in grado di arrivare immediatamente al pubblico e di essere compreso. Non è così per gran parte di ciò che i sapienti oggi chiamano arte.

Talvolta, si oltrepassa l’idiozia e l’inganno ai danni del pubblico. Nel bellissimo Gli schiavi felici della libertà ( Passaggio al Bosco, 2023) lo spagnolo Javier Rùiz Portella racconta di un comico episodio a margine di un’importante mostra di arte contemporanea tenuta a Madrid. Una giornalista riuscì ad esporre in mezzo gli altri un “dipinto” imbrattato per gioco da bambini di tre anni. Tra i commenti da lei raccolti, uno percepiva “angoscia e tristezza”, un altro sottolineava “le molteplici sottigliezze e correnti” del quadro. Un terzo lo ha descritto come “un dipinto complesso, con molta meditazione dietro, l’opera di un pittore con molta esperienza”. I commentatori più profondi apportarono la loro dotta opinione: chi percepiva “la disperazione di cercare una nuova strada”, chi affermava che si trattava di “un’opera di un uomo di una certa età con una grandissima carica erotica repressa”. Basta questa esperienza per dimostrare che l’arte astratta è molto spesso spazzatura utile solo a mostrare le altissime vette di idiozia a cui può ascendere l’Homo sapiens nonché quanto sia facile prendersi gioco di lui. Più egli si considera colto, più è facile. […] Nel 1910 lo scrittore Roland Dorgelès, nemico della nascente arte astratta, ebbe l’idea di legare un pennello alla coda di Lolo, un somarello, per vedere cosa poteva fare l’animale con una tela, stimolando la sua ispirazione con le carote, il tutto davanti a un notaio. Presentato il “dipinto”, Tramonto sull’Adriatico, firmato da un inesistente Boronali (anagramma di Aliboron, nome poetico dell’asino) insieme ad un “Manifesto dell’eccessivismo”, i critici scrissero pensosi articoli sull’opera del ciuchino, sulla sua filosofia trasgressiva, la tecnica raffinata, il suo messaggio nascosto, il suo brillante autore. Quando Dorgelès rivelò la burla, qualcuno ebbe il coraggio di mettere in dubbio la legittimità delle risate.

Il mondo artistico è una fonte inesauribile di saccenteria e sciocchezze. Le opere d’arte gettate nella spazzatura perché considerate tali dal malcapitato personale di servizio rallegrano di tanto in tanto i giornali. Un caso divertente è stato quello di Dove balliamo stasera? una raccolta di bottiglie, carte e altri rifiuti installate dalle artiste d’avanguardia Sara Goldschmied ed Eleonora Chiari in un museo milanese, deposti nell’immondizia dall’addetta alle pulizie. Quando le artiste si lamentarono scandalizzate, Vittorio Sgarbi difese la lavoratrice affermando che “se aveva pensato che fosse spazzatura, ciò dimostrava che lo era. L’arte dovrebbe essere compresa da chiunque, comprese le donne delle pulizie. Il fatto che il museo possa raccogliere i pezzi dalla spazzatura e rimetterli insieme significa che non si tratta di arte di alto livello.”

 Da segnalare l’opera Comedian di Maurizio Cattelan, una banana attaccata al muro con nastro adesivo. Un amante dell’”arte” pagò centoventimila dollari, comprensivi di un manuale di istruzioni per installare l’oggetto all’angolazione e all’altezza corrette: trentasette gradi, sessantotto pollici da terra. L’artista David Datuna, durante una mostra alla Galérie Perrotin di Parigi, ha mangiato la banana davanti ai presenti stupefatti. Lungi dall’essere un iconoclasta ( o un disvelatore di inganni), Datuna è un ammiratore di Cattelan e definisce il suo comportamento una “performance artistica” poiché “ciò che percepiamo come materialismo non è altro che un condizionamento sociale. Qualsiasi interazione significativa con un oggetto può diventare arte. Sono un artista affamato e ho fame di nuove interazioni. “ A ogni buon conto, la galleria Perrotin si è precipitata ad acquistare un’altra banana, chiarendo che il valore del pezzo non era il frutto, ma l’idea. […] Incredibile ( in tempi normali) il caso di Salvatore Garau, che è riuscito a vendere per diciottomila dollari una scultura invisibile. L’ acquirente di Io sono – così si chiama l’ opera virtuale – si è impegnato a ospitare la statua inesistente in una stanza ampia e priva di mobili. “Il buon risultato dell’asta attesta un fatto inconfutabile. Il vuoto non è altro che uno spazio pieno di energie. Anche se lo svuotiamo e non rimane nulla, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, il nulla ha peso”. Applausi al genio di Garau. Disse secoli fa il cardinal Carafa: il popolo vuole essere ingannato, quindi va ingannato.

Qualcosa di simile accadde a Ralph Vaughan Williams. Nel 1935 la sua Quarta Sinfonia dal tono cupo e violento venne interpretata come il riflesso della crescente tensione internazionale dovuta all’ascesa al potere di Hitler e Mussolini. L’ influente critico musicale Frank Howes la ribattezzò Sinfonia fascista nonostante il compositore avesse chiarito che si trattava di musica priva di qualsiasi riferimento politico. Allorché presentò la Sesta Sinfonia, nel 1948, all’inizio della Guerra Fredda, il “pianissimo” con cui si conclude la partitura fu interpretato come la descrizione della devastazione nucleare del mondo. La risposta del compositore fu: “a nessuno viene in mente che un uomo voglia semplicemente scrivere un pezzo musicale”. […]

Al di là dell’aneddotica, resta il merito, ovvero l’incomprensibilità dell’ arte contemporanea e prima ancora la confusione sul concetto e la categoria di arte. Un segno evidente della sterilità della nostra epoca, incapace di produrre pensiero, ridotta a considerare arte ogni bizzarria, stranezza o novità. Un clero secolare di aiutanti di campo – critici, intellettuali, mercanti – si incarica di completare l’inganno manipolando il pubblico, soprattutto le classi abbienti semicolte, le più sollecite ad abboccare all’amo per vanità, narcisismo, adesione ai luoghi comuni del momento. Manca al tempo nostro – non solo nel campo dell’arte – il bambino della fiaba di Andersen, l’unico a gridare con schiettezza che il tronfio re, ingannato da un sarto imbroglione che gli aveva venduto a caro prezzo un abito invisibile, era nudo. Nudo come la verità fuggita dall’arte e dal discorso pubblico.

Roberto Pecchioli

 
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