Avviso Registrazioni

Scusandoci per l'inconveniente, informiamo i nuovi utenti i quali desiderino commentare gli articoli che la registrazione deve essere fatta tramite Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Login Form






Password dimenticata?
Nessun account? Registrati

Cerca


 
  SiteGround web hostingCredits
Un'altra occasione persa PDF Stampa E-mail

16 Giugno 2021

Secondo il codice evolutivo, che nulla ha a che vedere con quello di procedura penale e senza mancare di riguardo nei confronti del dolore delle persone coinvolte, c’è un Mottarone utile forse a tutti.

Giornalisti, specialisti, esperti non hanno detto nulla in merito. Passato il lungo fatto di cronaca, dai media, nessuno (?) spunto che prendesse in esame la natura e il comportamento di noi tutti. Solo qualche fuggevole accenno relativo all’avidità, alla superficialità, all’improvvisazione. Cronaca, sdegno, demonizzazione e presa di distanza hanno comprensibilmente preso la scena di quei giorni.  Tutto legittimo. Ma anche bastante a mantenere inalterato l’humus necessario affinché pari eventi certamente si ripetano. E non mi riferisco al forchettone risparmiatore di denaro prima e sperperatore di vite poi. Piuttosto alla consolidata ignavia che alberga in noi, mai sufficientemente combattuta dalle consapevolezze che, quantomeno, ne ridurrebbero l’invasiva portata. Ed è su queste che vorrei portare l’attenzione.

Dopo la cabina precipitata, come in una fiera della competizione, non abbiamo perso l’occasione per superare chi è inciampato in uno dei buchi neri della sorte. (Voragini oscure che non rispettano le leggi umane per scegliere dove e come nascondersi davanti al nostro passo). Quale occasione migliore per espiare o anche solo dimenticare i nostri peccati? La cartuccera della nostra buona e giusta immagine di noi stessi si è svuotata. Con le pistole fumanti ci siamo sentiti nel giusto. Ci siamo pienamente ritenuti in diritto di sparare sul sacro – nessuno sarebbe riuscito a sottrarre le vittime al loro destino – capro espiatorio. Ci siamo ritenuti in diritto di uccidere, seppur solo simbolicamente, perché circostanze culturali e occasionali ci hanno impedito il linciaggio sanguinante e truculento, dal quale, altrimenti, niente e nessuno ce lo avrebbe impedito. Tutti noi, sull’altare di una falsa immunità dal commettere tanto orrore, ci siamo comportati da forcaioli, abbiamo pensato e agito come se mai e poi mai avremmo commesso tanto. Il punto è se qualcuno si sia dato premura di riconoscere nella propria biografia pari comportamenti e scelte, altrettanta leggerezza e sottovalutazione del rischio? Se “nessuno di noi lo ha fatto”, ergendoci a inquisitori e boia, abbiamo dato il peggior esempio ai nostri figli, la peggiore educazione. Ma, indicando il colpevole, non ci salveremo dall’orrore che nascondiamo a noi stessi, pronto a librarsi alla prima circostanza opportuna. Scagli la prima pietra non è solo un bel modo di dire che siamo identici davanti a equipollente contesto, ma è l’indicazione di una via evolutiva che ha come fine l’equilibrio, l’invulnerabilità, la forza, il benessere, la felicità individuale e quindi sociale.

Identificarsi con il mattatore che attribuisce colpa e definitiva sentenza comporta l’impossibilità di vedere l’altro in noi. Implica l’impossibilità di riconoscere il comportamento identico tra individui dominati, identificati nel proprio io. Implica l’arroganza di essere altro da altri. È una superbia di cui non vediamo l’infernale costo: quello di mantenere noi stessi entro l’ottuso e cupo involucro dell’ego, maestro di vizi capitali in qualunque forma ci capiti di esserne devoti dipendenti. Ma, anche in questa vicenda alpina, solidarietà ed educazione erano possibili. Anche in questa forchettonica e tragica circostanza non era improprio né offensivo osservare che, come loro, i responsabili dei fatti, facciamo noi; che ogni volta che ci capita, fosse anche per un sorpasso senza freccia, ci sentiamo dire – quando non fare – di tutto e che, di tutto diciamo all’altro per una sua infrazione, morale, legale, formale, sostanziale. Dalle strette feritoie dell’ego l’altro è sempre un nemico. E come tale, è sempre giusto dargli contro. Nonostante il segreto che gli altri sono dei noi in altro tempo-spazio e modo, banalmente si sveli in corrispondenza dell’opportuna consapevolezza, prima di raggiungerla i nostri simili sono altro, tutt’altro da noi, che noi.  Sarebbe interessante, in quanto rivelatore, conoscere quante persone nel loro intimo si siano confrontate con l’identicità con l’altro, con il riconoscere che quanto fatto al Mottarone da alcuni uomini è identico a quanto abbiamo fatto e faremo noi in circostanze di pari valore. Non necessariamente in termini quantitativi ma certamente qualitativi. Chi di noi, consapevole di possibili eventualità sconvenienti, non si è preso qualche rischio adottando scelte che le implicavano? Nessun genitore ha mai portato in macchina il bimbo slegato? “Era solo fino lì” disse poi l’imputato per omicidio colposo. Nessuno ha mai passato un semaforo con la prima frazione di secondo del rosso? Chi ha mai impedito ai bimbi di prendere l’ascensore soli? L’elenco non solo è senza fine ma è utile ognuno lo annoti secondo esperienza e immaginazione. L’esercizio, se motivato da aneliti evolutivi, rischia di essere utile, rischia di migliorare le relazioni, la società. Rischia di realizzare tolleranza autentica, libera da manierismi moralistici e ideologici. Rischia di favorire la presa di coscienza delle identicità che sono in noi. Consapevoli del comune comportamento tra gli uomini, insieme allo sconcerto per l’evento della funivia, avremmo anche sentito rinvenire le occasioni in cui le nostre scelte passate e future, rispettavano e rispetteranno la medesima logica: prendi il rischio tanto non capiterà proprio stavolta.  Nonostante i fatti e astraendoci da questi, non è logica ottusa. È invece creativa, della vita. Solo un certo bigottismo de “gli altri sono altri”, la vuole relegare tra le disdicevoli, la vuole chiamare follia e disinteresse per la vita. Si tratta di una posizione che deriva da una concezione del reale e della vita di tipo amministrativo, in costante ricerca di certezze. Ma la permanente ricerca di sicurezza, della société sécuritaire ci porta lontano dall’eros, dalla passione, dall’esplorazione, da noi, da una vita vissuta a sostituire quella ripetuta. Originale contro fotocopia. La paura ci estranea dalla capacità di stare al mondo, inteso come relazione con l’infinito, col mistero, con l’insospettato e non come un insieme di norme registrate e numerate. La société sécuritaire è una rete a strascico che ci stringe in infrastrutture umane via via più lontane dalle verità della natura, dalle nostre verità. Ci aliena da noi stessi fino a non riconoscere che gli errori dell’altro sono il modello ideale per riconoscere i nostri. Fino a sotterrare la testa piuttosto di vedere che le motivazioni che hanno condotto all’inconveniente altrui, sono identiche alle nostre per i nostri pari inconvenienti. La tendenza al regolamentarismo come religione alla quale fare appello per migliorare i comportamenti, è evolutivamente esiziale. “Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, l’ultimo animale libero ucciso, vi accorgerete che i soldi non si possono mangiare...” Toro Seduto.

Anche stavolta, un’occasione perduta per una cultura che produca persone compiute, non più ignare di banali segreti.

Lorenzo Merlo

 
Il crollo della razionalità PDF Stampa E-mail

15 Giugno 2021

 Da Appelloalpopolo del 13-6-2021 (N.d.d.)

La domanda mi appare come la domanda che ogni persona di intelligenza almeno media dovrebbe porsi: se il vaccino non fosse sufficientemente efficace, come organizzeremo la nostra vita dalla fine di ottobre a maggio prossimo? Non sufficientemente efficace è il vaccino che protegge i vaccinati nella misura del 50% (o in misura minore); che non impedisce, quindi, la morte di 50.000 o 40.000 persone in un anno; o magari di 30.000, tenuto conto che coloro che sono stati malati o infettati asintomatici e – secondo i migliori studi – persino, anche se in minor misura, coloro che, pur senza infettarsi, sono stati a contatto con i malati, hanno sviluppato cellule della memoria, che dovrebbero proteggerli in caso di re-infezione.

È una domanda che nel novembre scorso ho posto a vari parenti, amici, colleghi e conoscenti. Ma nessuno voleva ascoltarla. Non ho ricevuto nemmeno una risposta. Tutti replicavano: intanto speriamo che sia efficace, poi ci si pensa. Questo atteggiamento, comune alle persone che ho interrogato, non può dirsi frutto di propaganda. Certamente già a novembre 2020, TV e stampa nazionali avevano promosso la fiducia nel vaccino; avevano convinto o almeno fatto sperare quasi tutti che fosse molto probabile o addirittura certo che il vaccino sarebbe stato risolutivo. Mai però – per quanto mi risulta – TV e stampa nazionali avevano affermato che nel frattempo non avremmo dovuto interrogarci sul modo di organizzare la vita sociale, in caso di vaccino inefficace, totalmente o parzialmente. La volontà di infilare la testa sotto la sabbia, di tapparsi le orecchie per non ascoltare la domanda, di cambiare discorso per non rispondere, di rifiutare la domanda perché reputata fastidiosa, trovava fondamento, dunque, in un istinto diffusissimo, sollecitato dalla paura ma profondamente radicato nell’animo di tutte le persone. Qualcosa di simile allo scongiuro, al toccar le parti intime o il ferro, alla scaramanzia. Pura superstizione. Il crollo della razionalità; la soppressione della ragione. Un diffuso – per quanto riguarda la mia esperienza addirittura generale, se escludo compagni di partito e contatti social – meccanismo di rimozione impediva a tutti di sollevare la domanda fondamentale.

Sono trascorsi sei mesi ma la domanda fondamentale nessuno vuole ancora porsela. Alcuni, perché, non si sa in base a quali dati, si sono convinti che il vaccino sarà risolutivo: l’ipotesi a fondamento della domanda è per essi insensata e non destinata a realizzarsi, anzi da escludere radicalmente. Altri, per il diffuso o generale meccanismo di rimozione. Sebbene per una persona come me, che ripete a se stessa, quasi quotidianamente, la frase di Robespierre “Sono nato popolo, non sono mai stato altro, altro non voglio essere; disprezzo chiunque abbia la pretesa di essere qualcosa di più”, sia triste constatare la diffusa e quasi generale volontà delle persone di non riflettere sul proprio futuro, devo comunque constatare che TV e carta stampata non mostrano che le élite politiche, accademiche, imprenditoriali o giornalistiche sollevino la domanda fondamentale. Per qualche misteriosa ragione, nelle élite, non diversamente che nel popolo – tra il quale in realtà si rinvengono esigue minoranze di valore – non emerge nemmeno una persona di media intelligenza, che ponga la domanda che chiunque dovrebbe porsi e che anzi ci dovrebbe assillare. È perciò ormai sicuro che, nell’ipotesi che il vaccino non sia sufficientemente efficace – degli indizi della efficacia parziale parlerò in un prossimo articolo – a fine ottobre torneremo ad essere governati da approssimazione e improvvisazione; a soggiacere alla irrazionalità del principio di massima precauzione, che per quasi tutti gli angosciati (ossia per moltissimi), non soltanto non è un principio stupido, ma implica anche “precauzioni” che si sanno inutili; e ad essere circondati da angosciati e ossessionati, che non ci stimeranno o addirittura ci disprezzeranno per il solo fatto che non siamo e non saremo angosciati e ossessionati.

Se a lungo il crollo della razionalità, che è l’elemento più rilevante della crisi pandemica, ha suscitato in me orrore e un grave senso di disapprovazione, persino di disprezzo per le élite che erano chiamate a governare la crisi, ora invece mi appare soltanto il segno di una società ridicola. Questa esperienza, per molti versi drammatica, avrebbe un suo lato utile, se sapessimo cogliere la verità mastodontica che essa ha reso manifesta: le società occidentali sono composte, per lo più, da uomini ridicoli e ciò è vero per le élite almeno quanto è vero per il popolo. Ma è noto che, in genere, le persone che si immedesimavano in Fantozzi non amavano vederne i film. Quindi temo che la riflessione sul contegno tenuto durante la pandemia sarà svolta da poche persone. I codardi vivono immersi nella rimozione.

Stefano D’Andrea

 
Tre possibilità PDF Stampa E-mail

14 Giugno 2021

L’errore da non commettere è continuare a ragionare secondo schemi ormai irrimediabilmente otto-novecenteschi. Bisogna rendersi conto che viviamo in un mondo radicalmente mutato. Destra e sinistra, classe operaia e borghesia, lotta di classe e interclassismo, libertà e dittatura del proletariato, fascismo e comunismo, sono antinomie ormai anacronistiche come potrebbe essere una polemica fra guelfi e ghibellini o fra giacobini e girondini. Sono superati anche temi che ci furono cari e che Massimo Fini e Maurizio Pallante, fra gli altri, ebbero il merito di divulgare: antimodernità, decrescita, democrazia diretta, uno vale uno, Europa delle Regioni…

Nel mondo degli anni ’20 del terzo millennio si presentano tre possibilità. Una è la prospettiva vichiana. Giambattista Vico teorizzò i corsi e ricorsi storici come sviluppo naturale delle società umane. Ogni corso è segnato da tre fasi. Un’età del Senso, in cui gli uomini sono bestioni primitivi; un’età della Fantasia, l’epoca dei grandi miti, della forza delle religioni, degli eroi, della poesia epica; e un’età della Ragione, l’epoca della filosofia, della scienza, della prosa, dei sistemi politici repubblicani o monarchico-costituzionali, dell’ingentilimento dei costumi. Quest’ultima età tende a deteriorarsi nell’abbondanza, negli eccessi, nell’indisciplina, nella decadenza dei costumi e nello spegnimento delle virtù civili, fino a degenerare in una nuova età del Senso, in un ritorno di barbarie che dà inizio a un ricorso storico, in un ciclo che assume la figura della spirale. Ebbene, la decadenza estrema è sotto gli occhi di tutti coloro che non siano accecati dalla propaganda di regime. La barbarie riaffiora con manifestazioni di assoluta evidenza.

La seconda possibilità è la guerra fra le maggiori potenze, che sarebbe inevitabilmente breve e devastante, perché nucleare fin dai primi minuti. Gli USA e i loro alleati hanno steso una rete di basi attorno ai confini e alle acque di Russia e Cina. I missili ultrasonici, non intercettabili dai sistemi antiaerei, possono raggiungere Mosca, San Pietroburgo, Pechino e Shangai in pochissimi minuti. Gli USA hanno messo a punto ordigni atomici in grado di penetrare in profondità per distruggere anche i più corazzati bunker sotterranei. Pertanto un giorno, in presenza di una grave crisi internazionale, qualcuno alla Casa Bianca o al Pentagono potrebbe essere tentato di sferrare il primo colpo, liquidando tutta la dirigenza nemica e decapitando i centri di comando. Dall’altra parte è altrettanto vero che i missili ultrasonici, in possesso anche dei russi e dei cinesi, dal territorio di quei vastissimi Paesi possono colpire in pochissimi minuti le basi nemiche, con un attacco preventivo rapido e definitivo. Inoltre i sommergibili di tutte le grandi potenze, armati con missili nucleari, sono sempre in agguato davanti alle coste dell’avversario. Neanche durante la guerra fredda il mondo fu tanto in pericolo, perché nessuno poteva illudersi di distruggere l’avversario senza che potesse reagire.

La terza possibilità è che si sviluppi il piano della cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale, o Great Reset, già in atto prima della pandemia che lo ha favorito e non creato. Si tratta di un grande progetto di digitalizzazione del mondo intero, di sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, di robotizzazione, ammantato propagandisticamente di una spruzzata green. Il grande piano della finanza e del capitale globale prevede anche il transumanesimo, un vero e proprio superamento del sapiens attraverso manipolazioni genetiche e inserimento di microchip nel corpo. Non è fantascienza. Nei laboratori di chi aspira a farsi dio ci si sta lavorando. La robotizzazione dei processi produttivi e dei servizi produrrà una disoccupazione di massa. Il Reddito di Cittadinanza, finora soltanto una forma di sussidio ai più poveri, dovrà diventare generalizzato, trasformando tutte le modalità della vita associata. Il prolungamento indefinito della vita sarà privilegio delle élite, per cui i nuovi conflitti saranno, più che una lotta di classe, uno scontro fra le masse che avranno un’attesa di vita di un’ottantina d’anni e le élite che vivranno secoli. Non è fantascienza, è qualcosa che si prepara.  Su tutto poi incombe lo spettro del disastro ambientale, soprattutto a causa delle plastiche e dei rifiuti tossici.

Essendo queste le prospettive, chi si ribella a simili scenari deve darsi programmi politici che contrastino la decadenza in atto, la barbarie incombente e la minaccia di guerra totale. Intanto uscire dall’UE. L’Italia non ha nulla a che fare col Baltico, con Estonia, Lettonia, Lituania, con la Danimarca. Ha molto a che fare col Mediterraneo. La proiezione della nostra penisola è nel Mediterraneo. Dobbiamo guardare ai Paesi che vi si affacciano, recuperando finalmente un’indipendenza persa. Sarà anche necessario uscire gradualmente dalla NATO, seguendo intanto l’esempio di una Turchia che ha un piede dentro e uno fuori dall’Alleanza dominata dagli USA. Solo fuori dalla NATO, certamente impresa non facile, potremmo contribuire a una politica di pacificazione, non con gli inutili cortei di un generico pacifismo. Infine si tratta non di sognare una decrescita che sarebbe possibile solo dopo una catastrofe economica e finanziaria, ma di aderire ai progetti di digitalizzazione e robotizzazione cercando di rovesciarne il segno politico. Vedere la rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale e il conseguente Reddito di Cittadinanza generalizzato come l’occasione per riscattare l’umanità dalla servitù del lavoro salariato. Non del lavoro in sé, nel quale l’uomo si realizza, ma del lavoro asservito. Sul piano politico-istituzionale, occorre rendere coscienti che tutti i sistemi politici sono in fondo delle oligarchie. Bisogna avere il coraggio di ribadire che il vero problema di tutti i sistemi politici è il meccanismo di selezione delle élite. Il più efficiente sistema politico è quello che permette ai migliori di emergere. I migliori sono i più capaci per competenze, per attitudine a organizzare e dirigere, per legittime ambizioni. Non sono le urne elettorali ma le dinamiche professionali e sociali i fattori che fanno emergere i migliori. Il voto deve avallare quanto emerge dalla forza delle cose. C’è bisogno di capi, a livello nazionale e locale. Su di loro deve vigilare un’istanza superiore, corte monarchica o presidenza della repubblica o ristretto consiglio di Custodi della costituzione, un’istanza che detenga il monopolio della forza e garantisca che il potere dei capi è temporaneo e sottoposto a periodici controlli da parte dell’elettorato.

Siamo a una svolta storica epocale. L’esaurirsi delle risorse e la barbarie dilagante potrebbero rendere vani tutti questi discorsi. Li si fa per un’esigenza di ottimismo della volontà. Vedere nero nel prossimo futuro è realismo, una parola che coincide col pessimismo della ragione.

Luciano Fuschini

 
L'idiozia come reato penale PDF Stampa E-mail

12 Giugno 2021

Image

L’ultima sortita è di Michela Murgia: un articolo per l’Espresso in cui, nelle parole al plurale che terminano in “i”, si sostituisce la desinenza con una pseudo vocale che va sotto il nome di schwab e che consiste in una "e" ribaltata, che si scrive così: ə. Il problema, in linea con le crociate del politically correct e delle rivendicazioni gender, starebbe nel fatto che quella “i” sarebbe prettamente maschile. Pertanto inadatta – anzi offensiva, sopraffattoria e, brrrrrr, patriarcale – quando il termine riguardi sia maschi sia femmine. Nonché, si intende, gli individui di incerta e instabile collocazione tra le due (arcaiche...) alternative. Quali appunto i cosiddetti fluid gender. O se preferite “ə cosiddettə fluid gender”.

La cosa, al pari delle innumerevoli altre sciocchezze di questi fan dell’egualitarismo fittizio, farebbe solo ridere. Se non fosse che loro insistono. E che le loro smanie si stanno diffondendo. E che c’è il fondato rischio che o prima o dopo, con la solita scusa dell’odio e della discriminazione, arrivi qualche legge che le ratifichi e le trasformi in obblighi. Con tanto di sanzioni. La replica sarebbe elementare, di per sé: a Miché, quelle "i" non sono davvero maschili. So’ neutre. Su, gentilissima lady Murgia, che se ti impegni puoi riuscire a capirlo: in italiano il neutro non è previsto esplicitamente, ma interpretarlo come tale è lasciato all’intelligenza – quando c’è – di chi legge o ascolta.

Esempiuccio: chi appartiene al personale carcerario non è che cambi sesso a seconda di come lo si definisce. Se dici “guardie” non diventano femmine all’unisono (festa grande nei bracci maschili, colmi di delinquentacci rozzi e pertanto, verosimilmente, a maggioranza etero). Se viceversa dici “secondini”, o “agenti”, non diventano, o ridiventano, tutti maschi. Ci vuole tanto, ad afferrare il concetto (con la o)? O l’idea (con la a)? Pare di sì. E una legge, forse, andrebbe fatta su questo. L’idiozia come reato penale con reclusione prolungata fino all’eventuale rinsavimento. Ma di questi tempi, ahinoi, le prigioni scoppierebbero.

Federico Zamboni

 

 
Combattiamo per piantare i semi di un cambiamento PDF Stampa E-mail

11 Giugno 2021

 Da Appelloalpopolo del 7-6-2021 (N.d.d.)

Adesso che, col Faucigate, vi è ulteriore prova del fatto che la classe dirigente del blocco atlantista-occidentale ha perso compattezza e che vediamo, quindi, i suoi esponenti ricominciare a combattersi fra loro, sento affiorare due diversi sentimenti.

Il primo è ovviamente di sollievo. Per quanto m’impegni a promuovere mobilitazioni di piazza e ad analizzarne le potenzialità e la relativa crescita in termini di partecipazione popolare, l’ottimismo della volontà non impedisce di essere coscienti del fatto che è totalmente impossibile vincere: ovvero, qualunque ipotesi di poter invertire materialmente il corso intrapreso dalla storia è, per il momento, pura illusione. Se oggi combattiamo, è per piantare i semi d’un cambiamento che possano gestire le generazioni future, non certo per qualcosa di cui potremo essere testimoni direttamente.

Dinanzi a tale sproporzione di forze, ebbene, il fatto che dopo un anno di apparente unanimità le élite tornino a combattersi fra loro, è per il semplice cittadino un dato recante sollievo e che restituisce, soprattutto, la speranza che la prospettiva del distanziamento sociale permanente possa trovare ostacoli nell’attuazione. D’altro canto, però, questo stesso sollievo è indicativo della condizione d’impotenza, dell’impossibilità d’una sollevazione sociale che non sia numericamente irrisoria oppure estemporanea, nonché dell’azzeramento di una qualsivoglia soggettività di massa. Ed è altresì inevitabile pensare che, comunque vada lo scontro ai vertici del potere, quella maggioranza di popolazione che si è bevuta la menzogna di un’emergenza pandemica legata esclusivamente a problematiche sanitarie, continuerà a rimanere cieca, sorda e obbediente proprio come negli ultimi 13 mesi. Dinanzi al gioco politico che le si para di fronte, la moltitudine liquida continuerà, nell’immediato futuro, a interpretare i fatti solo ed esclusivamente nei termini che vengono ordinati da media e governi.

Una volta che la coscienza della sovranità costituzionale e del ruolo soggettivo delle masse popolari nei processi storici viene azzerata, la sconfitta è definitiva. Riguardo a questo, vorrei ricordare che a generare tale involuzione non è stata solo l’ideologia dominante: quando, nell’ambito della componente più propriamente “complottista” dell’opposizione sociale, comincia a diffondersi una sub-cultura di revisionismo storiografico secondo la quale il movimento operaio e la lotta di classe sarebbero esistiti solo in quanto fenomeni etero-diretti da massoni, sionisti o so-un-cazzo-io, il senso di rassegnazione, d’impotenza e di desistenza non può fare altro che crescere: e cresce a tutto vantaggio della classe dominante…

Riccardo Paccosi

 
Auto-alienazione dal Mediterraneo PDF Stampa E-mail

10 Giugno 2021

Image

 Da Comedonchisciotte dell’8-6-2021 (N.d.d.)

Intervenendo nel 1954 nella delicata questione di Suez, Enrico Mattei riesce a stringere degli accordi vantaggiosi sugli approvvigionamenti di energia provenienti dall’Egitto in base alla famosa formula dell’ENI che prevedeva una spartizione equa degli utili tra l’Italia e i paesi produttori di greggio al 50%, tanto da abbattere la concorrenza dei colossi petroliferi americani e britannici. Mattei dimostrava in questo modo al mondo che, nonostante la sovranità dell’Italia fosse rimasta limitata in politica estera in seguito alla sconfitta nel 2° conflitto mondiale, la DC di De Gasperi e di Fanfani era composta da una classe dirigente capace di promuovere il nostro paese, non solo in Europa, ma anche all’interno dell’area che da sempre ci era stata più congeniale, creando cioè un’egemonia sul Mediterraneo che corrispondeva di fondo all’elaborazione di una propria visione strategico-nazionale.

Diversamente, nello stato attuale, l’Italia scorge un’immagine fastidiosa nella massa d’acqua che la circonda e perfino una temibile minaccia rispetto alla quale non vorrebbe averci nulla a che fare. Non si tratta infatti soltanto di un fenomeno migratorio chiaramente esasperato, sia pure di importanza secondaria, che rende comunque il nostro paese del tutto remissivo anche in questa circostanza rispetto alle condizioni esterne. Si allude piuttosto all’intervento militare NATO in Libia nel 2011, che nel giro di poche settimane riuscì a spazzare via tutti gli accordi diplomatici italiani faticosamente costruiti nel tempo con quella regione; all’occupazione successiva rispettivamente della Russia nella Cirenaica, e della Turchia nella Tripolitania; così come al recente acquisto dei caccia francesi da parte di un Egitto, ansioso di riarmarsi rapidamente per interferire a sua volta su quelle acque. Infine, si fa riferimento alla progressiva e persistente penetrazione in quell’area da parte anche della Cina la quale, per mezzo di tecnologie e di infrastrutture, sta assumendo un ruolo sempre più egemonico al posto nostro. Insomma, siamo in presenza, da 10 anni, di un caos sistemico nord africano che sta tagliando fuori l’Italia dai suoi (è bene sottolinearlo) ‘naturali’ interessi geografici sia di ambito politico che commerciale.

Ora, però, l’ambizione perversa di questo fenomeno di auto-alienazione dal Mediterraneo, partorita dalla nostra classe dirigente durante una parabola lunga ben 35 anni, è stata capace di invertire completamente la causa con l’effetto, accompagnandosi infatti, dapprima, alla paradossale adesione al sistema finanziario europeo, e successivamente alla modifica del Titolo V della Costituzione. Eppure, così facendo, si disconoscono le reali potenzialità di sviluppo del sud Italia che difatti dovrebbero essere sostenute da una massiccia politica economica di investimenti. Mentre, al posto di tali interventi, ci si limita ad elargire occasionalmente qualche elemosina, a fronte, anzi, di una puntuale sottrazione di risorse finanziarie, drenate dalle regioni meridionali verso il nord, tradizionalmente più produttivo, a causa di un assurdo commissariamento imposto loro dalla disciplina di bilancio UE, esacerbato inoltre da un iniquo federalismo fiscale. In altre parole, l’immagine che viene fuori sul Mezzogiorno finisce per corrispondere, nell’opinione pubblica, ad una pesante zavorra, in grado unicamente di frenare lo sviluppo dell’Italia, trascinato a forza da un virtuoso settentrione. Ma le cose stanno davvero in questo modo? A nostro avviso non si tiene conto del fatto che l’interesse particolare del lombardo-veneto, in realtà, nella sua spasmodica volontà di rendere i prezzi delle sue merci fortemente competitivi, ha preferito di gran lunga i tagli al costo del lavoro piuttosto che gli investimenti, tanto quanto la riduzione della domanda interna, per contenere il livello d’inflazione, a scapito del mercato nazionale. Pertanto, la fiducia diffusa e popolare che ha investito questa zona di un ruolo guida risulta ad oggi piuttosto sproporzionata, nella misura in cui si attribuisce tale giudizio proprio quando la sua capacità industriale si è ridotta progressivamente a mera funzione terzista di semi-lavorati a favore dell’industria tedesca. Insomma, lontanissimo dall’essere la nostra locomotiva, le scelte politiche del lombardo-veneto hanno provocato infine una convergenza integrale della nostra economia nella logistica finanziario-produttiva della Germania, piuttosto che essere capace di svilupparne, a sua volta, una propria.

Pertanto, la questione va rovesciata. Se si vuole infatti che l’industria del nord Italia compia un autentico balzo in avanti, è necessario innanzitutto assicurarsi per i prossimi decenni fonti di energia a basso costo provenienti dai paesi produttori vicini, come accadeva negli anni ’50, ed essere in grado inoltre di proteggerli. Al contempo, occorrerà insinuarsi nelle nuove rotte commerciali anche di quei paesi arabo-africani, nostri partners naturali in una prospettiva più propriamente internazionale. Questo affinché ci si possa rendere gradualmente più indipendenti dalle catene del valore del nord Europa e sganciarsi in parte anche dalla competizione ossessiva che domina quei paesi all’interno del loro asfittico mercato continentale, ma accettando di ricoprire invece una posizione dominante all’interno di un’area che, trattandosi appunto del “Mare nostrum”, rimarrebbe decisamente preclusa a loro. Tuttavia, per intraprendere un sì fatto compito l’Italia, oltre a recuperare una più autentica rappresentazione di sé rispetto al suo popolo e al mondo, dovrà riconquistare anche lo spazio marittimo intorno a sé attraverso una massiccia spesa pubblica (sottratta ovviamente al “vincolo esterno” e quindi al limite percentuale del rapporto debito pubblico / PIL, scritto da Bruxelles), col fine di allestire una flotta navale che sia all’avanguardia. Va da sé che quest’ultima dovrebbe poggiarsi su nuove e più sofisticate infrastrutture portuali, aereo-portuali, ferroviarie, auto-stradali, e di stoccaggio merci, al momento quasi del tutto assenti, le quali dovranno essere introdotte capillarmente sulle coste e l’entroterra di quelle zone interessate.

Dunque, occorre smettere di pensare alle regioni manifatturiere dedite all’esportazione come unico centro egemonico territoriale del paese, visto che, sul piano geografico, costituiscono piuttosto le appendici del nord Europa, e ripartire invece da quelle che si affacciano sul mare, situate in misura maggiore nel meridione: operazione inquadrabile solo in una rinnovata ottica di unità nazionale. Difatti, rispetto all’attuale fenomeno della globalizzazione, l’UE si presenta come una sovrastruttura regressiva e anti-storica che reprime, anziché beneficiare, le potenzialità dei singoli paesi membri. E perciò, se l’Italia, al contrario, fosse realmente capace di ripensare se stessa all’interno del suo particolare e distinto ecosistema naturale, sarebbe perfettamente in grado di coesistere adeguatamente con il mercato mondiale da una posizione indipendente e più forte rispetto all’UE. Ma solo se appunto saprà accettare di tramutarsi in una vera e propria potenza di mare.

Jacopo D’Alessio 

 
<< Inizio < Prec. 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 Pross. > Fine >>

Risultati 721 - 736 di 3744