Avviso Registrazioni

Scusandoci per l'inconveniente, informiamo i nuovi utenti i quali desiderino commentare gli articoli che la registrazione deve essere fatta tramite Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Login Form






Password dimenticata?
Nessun account? Registrati

Cerca


 
  SiteGround web hostingCredits
Letta alla destra di Einaudi, Draghi alla destra di Letta PDF Stampa E-mail

25 Maggio 2021

Image

 Da Rassegna di Arianna del 24-5-2021 (N.d.d.)

«Abbassare le punte» e «innalzare dal basso». Così, nelle sue Lezioni di politica sociale (1944) Luigi Einaudi descriveva lo scopo della redistribuzione della ricchezza che sarebbe derivata dall’adozione di un sistema fiscale basato sulla progressività delle aliquote: vale a dire, su un meccanismo per cui più elevata è la quantità del bene tassato (la ricchezza o il patrimonio), più elevata è la percentuale di imposte che è dovuta al fisco. L’esatto contrario della flat tax, che lascia invece l’aliquota sempre uguale, svincolandola da ogni riferimento all’oggetto della tassazione: sicché, povero e ricco sono tassati esattamente nello stesso modo. Recepito nell’articolo 53 della Costituzione, l’ideale della progressività venne parzialmente realizzato nella prima metà degli anni Settanta, grazie, soprattutto, a un’Imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) strutturata su trentadue scaglioni, con aliquote comprese tra il 10 e il 72 per cento. Negli anni successivi gli scaglioni vennero progressivamente ridotti sino agli attuali cinque. E ora – come ha spiegato Alfonso Gianni – si prospetta la loro ulteriore riduzione a tre; con, in più, lo spauracchio dell’ennesima tassazione separata, mediante flat tax al 15 per cento, per quanto guadagnato in più rispetto all’anno precedente.

Einaudi aggiungeva che le risorse raccolte attraverso la tassazione progressiva devono essere utilizzate per far sì che ciascun cittadino, anche se indigente, possa quantomeno contare «sul minimo necessario alla vita», in virtù di un sistema di diritti attraverso cui far fronte ai suoi bisogni fondamentali. Una visione in cui risorse e diritti sono indissolubilmente legati tra loro: perché senza le risorse non si potrebbero attuare i diritti e senza i diritti non si potrebbe giustificare la raccolta delle risorse. La redistribuzione della ricchezza, in altre parole, opera attraverso due canali: non soltanto quello della raccolta dei fondi tramite un sistema fiscale progressivo, ma anche quello del loro impiego tramite un sistema di politiche pubbliche orientate, in ultima istanza, a consentire a tutti gli esseri umani di poter sviluppare le proprie «attitudini» (nelle parole di Einaudi) e la propria «personalità» (nelle parole della Costituzione). In tal modo, far gravare l’impegno fiscale in misura maggiore sui benestanti non risulta una scelta rivolta contro di loro, ma a favore dell’intera società, di cui gli stessi benestanti sono parte.

Ben diverso è l’orizzonte ideale in cui si inserisce la proposta di Enrico Letta, ispirata ai lavori del Forum Diseguaglianze Diversità e volta ad assicurare una dote monetaria ai diciottenni, finanziandola tramite l’aumento delle imposte sulle eredità più ricche (aumento che sarebbe sacrosanto, considerato che in Italia abbiamo la franchigia più alta e l’aliquota più bassa di tutti i Paesi a noi paragonabili). Affidare un “gruzzoletto” direttamente nelle mani dei singoli individui significa, infatti, operare la redistribuzione esclusivamente attraverso il primo canale, ignorando il secondo in piena sintonia con la logica liberista che vuole che ciascuno coltivi il proprio «capitale umano» facendosi «imprenditore di se stesso». È la logica dei tanti bonus, attraverso cui, negli ultimi anni, lo Stato ha abdicato al proprio ruolo di promotore di politiche pubbliche volte a realizzare l’interesse generale – o meglio: una visione politicamente sostenuta dell’interesse generale – ritenendo preferibile rimettere a ciascun singolo individuo la cura dei propri interessi particolari. Più in generale, è la logica della spoliticizzazione della società, dal momento che dalla somma dei particolari si ottiene un insieme di particolari separati e contrapposti gli uni agli altri, non una visione generale, di cui solo lo Stato, attraverso la rappresentanza, può farsi espressione. Confondere la volontà di tutti con la volontà generale è, come insegna la filosofia politica, un grave errore concettuale. Nel valorizzare il privato a discapito del pubblico, Letta e il Partito democratico si collocano, così, a destra di Einaudi, la cui prospettiva liberale – non liberista – riconosceva il valore delle politiche pubbliche allo stesso modo in cui, sempre negli anni del dopoguerra, lo riconosceva un liberale come William Beveridge, universalmente noto come il “padre” del Welfare State. Che cosa, infatti, se non il radicale disconoscimento del ruolo dello Stato, impedisce a Letta di immaginare che le risorse raccolte attraverso una tassa di scopo siano vincolate alla realizzazione di politiche pubbliche a vantaggio dei più giovani? Tanto più in un contesto segnato dalla mancanza non solo della più elementare alfabetizzazione finanziaria della popolazione giovanile, ma anche da un analfabetismo funzionale sempre più diffuso, per via del sottofinanziamento della scuola. Sconcerta che per il Partito democratico sia così difficile comprendere che il modo più sensato di impiegare risorse a favore dei giovani è tornare a finanziare adeguatamente il diritto allo studio scolastico e universitario.

Ad aggravare il quadro, la pavloviana reazione di chiusura della destra e del Presidente del Consiglio alla proposta di Letta disvela l’ideologia classista che ne anima la visione politica: i ricchi non si toccano, perché la ricchezza, quale ne sia la fonte – l’inadeguata tassazione, gli ingiusti rapporti di mercato, l’elusione e, finanche, l’evasione fiscale, come dimostra il condono deciso dal governo – è il valore assoluto intorno al quale deve ruotare l’intera organizzazione sociale. Nemmeno lo spaventoso debito pubblico – superiore, oramai, al 160 per cento del Pil – che grava proprio sulle generazioni più giovani vale a provocare un ripensamento in chi, come Mario Draghi, confonde a bella posta l’1 per cento più benestante della popolazione con l’insieme dei cittadini («non è il momento di togliere i soldi ai cittadini, ma di darli», ha detto: come se i contribuenti fossero un’unica, omogenea categoria). La triste realtà è che, mentre un po’ ovunque nel mondo la politica si apre alla discussione sulla redistribuzione della ricchezza, così ingiustamente polarizzatasi negli ultimi quarant’anni, la classe dirigente italiana fatica a comprendere il passaggio storico in atto, mostrando, ancora una volta, tutta la propria inadeguatezza.

Francesco Pallante

 
Magic money tree PDF Stampa E-mail

24 Maggio 2021

Image

 Da Appelloalpopolo del 22-5-2021 (N.d.d.)

Scrive Klaus Schwab, nel suo libro Covid 19: the Great Reset, che i governi dovranno sostenere l’economia ricorrendo a sostanziosi deficit di bilancio e che le banche centrali dovranno coadiuvare questa scelta/necessità stampando grandi quantità di denaro per “monetizzare il debito”. Ad un certo punto, però, scrive che, pur essendo una idea perfettamente sostenibile e realizzabile, rischia di far realizzare ai cittadini il fatto che la moneta può essere emessa dal nulla (magic money tree).

Effettivamente, questo sveglierebbe tanti cittadini, almeno quelli non ancora irrimediabilmente persi e non particolarmente stupidi. Si capirebbe perché la politica monetaria deve essere una risorsa gestita dal pubblico e non dal privato: magari il cittadino si chiederebbe perché sono anni che sente dire che “non ci sono i soldi”. Infatti, continua Schwab, il problema non è quello dei soldi ma scegliere se si vuole un mondo con INFLAZIONE o DEFLAZIONE. Naturalmente scegliere in quale dei due mondi si vuole vivere non è neutro:

la deflazione è preferita dai banchieri e dai finanzieri perché protegge il loro accumulo di ricchezze e i loro crediti; – l’inflazione dovrebbe essere preferita dalla gente comune e dai lavoratori, soprattutto quando deriva da maggiori tassi di occupazione e più alti livelli di salari; inoltre agevola il debitore, sia pubblico che privato.

Questo dovrebbe essere il dibattito pubblico: accettare maggiore inflazione (moderata ovviamente) ma occupare quanta più gente possibile oppure accettare la disoccupazione per sconfiggere l’inflazione. I costituenti avevano scelto la prima ipotesi. Fate voi.

Salvatore Scrascia

 
Il nodo centrale PDF Stampa E-mail

23 Maggio 2021

 Da Appelloalpopolo del 21-5-2021 (N.d.d.)

È incredibile come stiano usando i vaccini di multinazionali stramiliardarie come alternativa alla sanità pubblica che hanno distrutto e vogliono continuare a distruggere. E nessuno parla di questo nodo centrale, cioè la sanità pubblica. Questo che stiamo vivendo da più di 30 anni è un indirizzo ideologico-politico-economico iperdogmatico. L’UE è stata edificata su questo indirizzo ideologico, l’UE è questo indirizzo ideologico. E non torneranno indietro. Ci avevano avvertito i nostri padri costituenti, ce lo avevano spiegato chiaramente. Ma li abbiamo considerati vecchi, troppo vecchi e invece erano avanti, troppo avanti! Gli europeisti, invece, che si fingono giovani, ci hanno riportato all’ ‘800! E adesso siamo dentro un processo irreversibile. Non si può modificare l’UE da dentro. Continueranno a smantellare l’apparato statale italiano, il welfare, venderanno il patrimonio pubblico, seppelliranno definitivamente la Costituzione e la bandiera italiana.

Non c’è altro modo per opporsi che combattere per distruggere l’UE costruendo nuovi partiti, non movimenti, ma partiti veri, popolari, costituzionali, strutturati e solidi, come non ce ne sono da 40 anni, isole su cui salvarsi da questa epoca fluida che ci fa vivere come in un perenne naufragio. Ma nessuno vuole farlo, perché costa fatica. Sono tutti quanti persi nell’individualismo-narcisismo-egocentrismo e nell’immobilismo fatalista in cui questo sistema ci ha gettati e agitati dal vento qualunquista delle piazze. So benissimo che queste parole per la maggior parte delle persone risulteranno complottiste, negazioniste, rossobrune, fasciste e tutto il corollario da replicanti delle stronzate che sentono in tv. Che epoca che stiamo vivendo, anzi che stiamo subendo, sopravvivendo…terrificante! Che senso ha vivere così, “deambulando come prostitute in un mondo senza marciapiedi”?

Alessandro Ape

 
Specificità di Gaza PDF Stampa E-mail

22 Maggio 2021

È notizia fresca un (ennesimo) "cessate il fuoco" tra Hamas ed Israele e i nostri lettori, nei giorni precedenti, hanno avuto modo di leggere diverse opinioni sull' annosa ed infinita "questione palestinese". Intendiamoci, per sgomberare il campo da equivoci, che in questo complicato ginepraio alla luce dei fatti si deve anzitutto condannare fermamente l' uso spropositato della forza da parte dello Stato d' Israele e le politiche dei governi israeliani che da quattordici anni a questa parte, erroneamente credendo di risolvere il problema, in realtà non fanno altro che esasperarlo ed alimentarlo in un circolo vizioso in cui non si riesce a vedere la fine e che si autoalimenta in continuazione, d'altronde si dubita che con Netanyahu premier si possa in qualche modo mutare rotta e una delle soluzioni a questa contesa infinita (che un tempo scaldava e appassionava il mondo, specie nell' era dei due blocchi contrapposti, mentre oggi suscita pigolii e timidi interventi) sarebbe davvero la suddivisione in due Stati, suddivisione buona in teoria ma in pratica bloccata da due scogli: lo status di Gerusalemme e il problema del rientro dei profughi.

Lasciamo stare però le eventuali soluzioni secondo la formula "Due Stati" e concentriamoci piuttosto su quello che è il problema attuale da risolvere, il nodo da sciogliere: lo status di Gaza. Ritengo che una delle tante cause sia la situazione non definita e controversa di Gaza. In pratica, cosa è oggi come status giuridico internazionale la Striscia di Gaza, questo territorio costiero di 360 kmq lungo 40 km e largo in media 10, con 1.800.000 abitanti, di cui 1.250.000 profughi? Non è niente. O meglio si tratta di una "zona grigia", non definita o se preferite "un buco nero". Si tratta di un'area, di un territorio reclamato dall' Autorità Nazionale Palestinese, governato de facto da Hamas, ufficialmente sgomberato da installazioni militari e colonie israeliane dal "Piano di Disimpegno Unilaterale" proposto da Sharon nel giugno 2004, approvato dal Parlamento e messo in pratica nell' agosto 2005 allorché 9.000 coloni israeliani sparsi in 21 insediamenti vennero evacuati con la forza militare.

Per chiarire meglio la situazione, ricordiamo che dagli Accordi di Oslo (1993-94) sino appunto al ritiro unilaterale deciso da Sharon, quindi per una decina d' anni, la Striscia fu amministrata congiuntamente alla Cisgiordania da funzionari, governo e polizia dell'ANP legati ad Al-Fatah. La Striscia passò sotto il controllo dell'ANP e nei primi anni Novanta anzi fu scelta da Yasser Arafat come capitale della Palestina, prima della decisione del trasferimento, pochi anni dopo, a Ramallah in Cisgiordania. I guai per Gaza iniziarono con le elezioni palestinesi di fine 2006 in cui Hamas stravinse nella Striscia mentre al -Fatah, braccio politico storico dell'ANP, fece il pieno di consensi in Cisgiordania. Nacque una situazione delicatissima che dopo un tentativo fallito di coesistenza al potere sfociò, nel giugno 2007, in una vera e propria guerra civile nella Striscia tra miliziani di Al-Fatah e le brigate militari di Hamas, con la vittoria di queste ultime, la conquista del palazzo governativo e la cacciata di tutti i funzionari di al-Fatah (alcuni vennero proprio liquidati, in tutti i sensi). La vittoria di Hamas, il suo controllo nella Striscia, suscitò allarme in Israele in quanto Hamas è considerata organizzazione terroristica. Nacque ben presto un embargo, un blocco: Israele militarmente non occupa Gaza e dintorni, ma controlla almeno 6 su 7 valichi di accesso, controlla lo spazio aereo e quello costiero, decide quali beni e merci possono entrare e in che numero possono entrare, la povertà a Gaza dilaga, i livelli di disoccupazione giovanile sono da record, l' economia arranca -funziona solo l' edilizia e non si dura fatica a capirne la ragione, in una catena di lanci di missili e rappresaglie quasi perenni-lo stato di prostrazione e di frustrazione si può immaginare, da qui la radicalizzazione di buona parte della popolazione e l'appoggio ad Hamas, da qui la crisi umanitaria (quasi 8 gazawi su 10 vivono grazie agli aiuti umanitari), i tunnel clandestini, lo stillicidio: l' embargo, lungi dal fiaccare Hamas, lo ha rafforzato e contribuisce a un circolo chiuso e autodistruttivo senza fine.

Ricapitolando, Gaza non è sotto occupazione militare israeliana ma allo stesso tempo Israele ne controlla lo spazio aereo e i confini marittimi e terrestri, nonché gli scambi commerciali e l'entrata di beni e merci; è un territorio governato da Hamas ma Hamas in quanto considerata organizzazione terroristica non è riconosciuta dai governi stranieri; de jure sarebbe parte dello Stato di Palestina gestito dalla ANP ma de facto la ANP a Gaza non governa e decide un bel nulla, il presidente dell' ANP Mahmud Abbas e il premier palestinese Mohammed Shtayyeh sono contestati e non riconosciuti, in loro vece vi sono rispettivamente Azuz Duwaik e Ismail Haniyeh: il primo deve la sua nomina ad Hamas, il secondo è uno dei leader principali dell' organizzazione. Secondo le autorità israeliane  Gaza è un territorio indipendente  governato da una organizzazione legata al terrorismo e in guerra contro Israele; Hamas risponde dicendo di essere un "territorio autonomo" parte della Palestina in stato d' assedio da parte d' Israele; per l' ANP invece lo stato è di "semi-occupazione" di una parte del suo territorio sul quale tuttavia riconosce tra le righe di non avere autorità (la posizione ufficiale infatti parla di "affermazione da parte del partito di Hamas, con un governo semi-autonomo"). Non serve aggiungere altro.

Ancor prima di pensare di risolvere la ormai ultracentenaria questione palestinese, si dovrebbe ragionare e cercare di capire il vero status di Gaza dal punto di vista internazionale e sciogliere questo pericoloso nodo gordiano talmente equivoco ed intricato da giustificare tutto quel che sta accadendo, vera e propria chiave di lettura dei conflitti dal 2007 ad oggi. Dubitiamo largamente che Netanyahu possa recidere la matassa con un colpo di spada così come dubitiamo possano farlo i leader di Hamas. Al netto di tutto, l'embargo di Israele -causa prima del potenziamento di Hamas e della radicalizzazione- deve essere condannato e denunciato da chiunque, sino alla sua cancellazione. Il torto, ora, è dalla parte di Israele e di Netanyahu (anche se i palestinesi non sono stinchi di santo, ma questa è un'altra storia).

Simone Torresani

 
Il "cigno nero" non è il Covid PDF Stampa E-mail

21 Maggio 2021

 Da Appelloalpopolo del 18-5-2021 (N.d.d.)

Dunque, la notizia sarebbe questa: come se non bastasse il covid, un altro elemento sta per scuotere fortemente l’intera economia mondiale, ed è l’aumento generalizzato delle materie prime. Stiamo parlando di tutte le materie prime, vale a dire non solo di quelle che servono a produrre – che so – i microprocessori (anche se è bene ricordare che i microprocessori non servono solamente per far funzionare i computer, ma anche, tanto per dirne una, per l’industria automobilistica, il che ha già portato al fermo produttivo di alcuni stabilimenti in Europa): no, sono aumentate proprio tutte le materie prime, lo zinco, il ferro, il legno, eccetera eccetera. Ora, come è normale che sia, questo aumento delle materie prime si sta per riverberare sui costi di un sacco di settori. Per parlare del mio (che è affine all’edilizia), si incomincia a sentir parlare di aumenti fino al 20% del costo del materiale per fare i cappotti termici delle case, per esempio; oppure sull’acquisto (e dunque a cascata: sul noleggio) dei ponteggi, i cui costi stanno aumentando perché come detto sale il prezzo della materia prima usata per fabbricarli (e il tutto, sia detto anche qui per inciso, si ripercuoterà anche sul discorso dell’ ecobonus del governo, sapete no, la possibilità di portare in detrazione il costo dei lavori di ristrutturazione)…

Bene. Cioè, male. Comunque questo aumento generalizzato è dovuto ad una serie di fattori concomitanti. Da una parte, i lockdown praticati in diverse parti del mondo hanno certamente avuto un ruolo nella misura in cui lo stop and go delle attività, con il suo grado di incertezza, ha mandato in tilt un po’ tutti i produttori, che ad un certo momento non hanno più capito come gestire la situazione. Dall’altra parte c’è un altro fattore, legato (tanto per cambiare) alle Borse: pare infatti che la bolla dei costi sia stata in parte generata anche da una bolla speculativa, a sua volta determinata dal fatto che tutta la liquidità accumulata in questo ultimo decennio di crisi nera dal famoso 1% della popolazione mondiale (rappresentato dai grandi fondi di investimento, dalle compagnie assicurative, dalle banche, dai rentiers, in una parola: dai ricchi), liquidità che non sapeva più dove andare perché con i tassi di interesse ai minimi storici non c’è mai nulla di sufficientemente redditizio per gente che guadagna speculando in Borsa anziché lavorando come tutti noi comuni mortali, ha incominciato a riversarsi proprio sulle scommesse dei cosiddetti futures delle materie prime. Naturalmente, come accade spesso alla gente di cui sopra (che è gente a cui in fondo piace vincere facile), la profezia si è rivelata auto-avverante e quindi la scelta vincente, tanto più che con assoluta sicurezza si poteva contare sulla ripartenza a breve della Cina, che effettivamente adesso in parecchi settori sta facendo letteralmente incetta delle materie prime che gli servono proprio per ripartire (ed ora la ripresa cinese sta per essere seguita a ruota anche da quella degli Stati Uniti), cosa questa che, come è ovvio, già da sola sarebbe bastata ad innescare la fiammata di cui stiamo parlando.

Insomma, cortocircuito. Ed ecco qual è il punto: siamo sicuri che quello a cui siamo di fronte sia il famoso “cigno nero”, espressione che rimanderebbe ad un evento inaspettato capace di determinare conseguenze talmente rilevanti che sono in grado di cambiare il corso della Storia? Ovvero, siamo sicuri che si possa parlare in questi termini a proposito del Covid? Mi spiego. Come detto, la teoria che porta il nome di questo animale viene chiamata in causa tutte le volte che si verificano eventi assolutamente imprevisti, che però dovrebbero possedere anche una seconda caratteristica: quella di essere estremamente divergenti rispetto alla norma, cosa che però non gli impedirebbe di giocare un ruolo molto più importante della massa degli eventi ordinari. Ora, questo si può dire per la cosiddetta “pandemia” di Covid19, e della crisi economica da essa generata? Sicuramente sulle prime parecchie persone risponderebbero di sì, ma a ben vedere è davvero così? Proviamo a ragionare. Incominciamo dall’elemento di ordine strettamente sanitario. Ebbene, lasciate perdere per un momento il vostro vissuto di cittadini del XXI sec. abituati a vivere consumando serenamente immersi in un eterno presente; ma, se è pur vero che nel 2019 un evento simile non se lo sarebbe aspettato nessuno, a mente fredda dovremmo riconoscere che tutto questo casino non lo sta provocando il povero virus, che non è neppure lontanamente paragonabile non dico alla epidemia di peste bubbonica che nel Trecento uccise almeno un terzo della popolazione del continente europeo e più del 10% della popolazione mondiale, ma neppure alla spagnola, che in termini assoluti uccise molte più persone, ma a causa dell’aumento della popolazione non arrivò neppure alla metà di quella percentuale. Già, perché la prima causa del dramma che stiamo vivendo va ravvisata nella sciagurata gestione dell’emergenza da parte di governi che hanno completamente perso la bussola, dato che continuano a cercare di fermare i contagi con misure inefficaci come le chiusure, il coprifuoco, e con dei vaccini sperimentali che anche secondo la stessa Aifa non servono allo scopo (il che equivale a cercare di fermare le onde piantando chiodi sul bagnasciuga), anziché fare qualcosa che sarebbe immediatamente alla nostra portata: potenziando la risposta sul fronte delle terapie di cura, da adottare tempestivamente prima che le persone si aggravino e vengano ospedalizzate in condizioni ormai critiche (e varrà la pena di ricordare una volta di più che le terapie, delle varianti del virus – a differenza dei vaccini – se ne fregano, nel senso che ad oggi non sono state riscontrate minori percentuali di efficacia del plasma o dell’eparina rispetto alla variante inglese, brasiliana o indiana).

Ciò detto e tornando alla crisi economica, adesso forse apparirà più chiaramente quello che cercavo di dire, e cioè: vi sembra che quello a cui stiamo assistendo a latere di una emergenza sanitaria che avremmo potuto affrontare in maniera diversa e senz’altro più razionale, sia una dinamica divergente rispetto alla massa degli eventi ordinari, capace di cambiare il corso della Storia? Oppure, lasciando perdere i discorsi su una Quarta Rivoluzione Industriale che punti sulla digitalizzazione e sulla «sostenibilità» ambientale (che altro non è se non la scusa per dare una verniciata di verde ad un settore che risente profondamente della crisi dei consumi come quello dell’automotive), non è che l’ennesimo cortocircuito a livello produttivo di un sistema (quello del finanz-capitalismo neoliberista) in cui siamo nuovamente immersi fino al collo oramai da più trent’anni, e che funziona con queste modalità (cioè male) da sempre, in quanto di per sé stesso estremamente vulnerabile ad ogni scossone, basato così com’è basato sulla massima libertà di circolazione di merci e capitali e sul profitto fine a sé stesso? E il bello – si fa per dire – è che qualcuno a distanza di 100 anni ancora pretende di dipingerlo come Progresso, o meglio come l’unico sistema possibile (“è la Globalizzazione neoliberista, signora Tina, non ci sono alternative”) … Non proprio un cigno nero questa crisi, insomma; piuttosto il solito mostro assetato di sacrifici umani, più simile ad un Moloch o a un T-Rex.

Luca Russi

 
Il disastro prossimo venturo PDF Stampa E-mail

19 Maggio 2021

Image

 Da Appelloalpopolo del 17-5-2021 (N.d.d.)

Non si può uscire dalla crisi continuando a seguire le stesse ricette che l’hanno prodotta. La principale attività dei giornali in questo periodo è quella di spargere ottimismo: Recovery Fund, PIL in crescita, soldi a go-go per tutti. Questo pare promettere il futuro degli italiani. Al contrario, quello che dovremo affrontare nei prossimi mesi è probabilmente la peggiore crisi dal dopo guerra, i cui effetti saranno ancora più devastanti anche perché la maggior parte delle persone, sommerse dalla propaganda liberista, non la vedrà nemmeno arrivare. Qualche dato per capire meglio.

– Il PIL 2020 italiano è diminuito del 8,9% che tradotto in valore significano circa 160 miliardi. Se le stime per il 2021 sono corrette, il PIL 2021 riprenderà meno della metà di quanto perso in precedenza. In solo due anni perdiamo 250 miliardi di PIL rispetto al trend già non brillante che avevamo negli anni precedenti. Detto così forse non è abbastanza chiaro. Magari risulta più chiaro spiegando che in due anni ogni cittadino ha perso mediamente 4.200 Euro! – Nel corso del 2020 circa 2,7 milioni di persone hanno chiesto la moratoria o sospensione del mutuo per un valore nominale di oltre 300 miliardi. Non ci vuole un economista per capire che quest’ultimo dato indica con chiarezza che quando terminerà la Cassa integrazione, che oggi dà una fonte di reddito a tanti lavoratori, e verrà trasformata in licenziamento, una parte rilevante di quei mutui non potrà essere ripagata, con le ovvie ripercussioni sui bilanci delle banche. – Molte attività commerciali stanno già scomparendo e le piccole e medie imprese non sempre hanno a disposizione tesoreria sufficiente per ripartire. Per questo migliaia di aziende rischieranno la bancarotta e gli imprenditori che hanno rilasciato garanzie personali (fideiussioni) potranno perdere gli immobili acquistati con tanti sacrifici. – Secondo le ultime stime, in Italia si contano 5 milioni di piccole e medie imprese (Pmi). Nel 2020, a causa dell’effetto combinato del Covid e del crollo dei consumi, ne sono scomparse circa 300.000. Secondo uno studio di Fondazione studi dei consulenti del lavoro nell’indagine “Crisi, emergenza e lavoro nelle Pmi”, due imprese su dieci di quelle tuttora in attività potrebbero chiudere nel 2021. Stiamo parlando del 20 per cento del tessuto produttivo di un paese come l’Italia, che si regge proprio sulla piccola e media impresa. Una strage. – Il debito pubblico è già arrivato oltre 2600 miliardi e certamente il necessario supporto ad imprese e famiglie in questo momento di crisi non potrà che farlo incrementare ancora.

Questi i dati reali. Cosa succederà? Niente che non si sia già visto. Per sostenere un debito pubblico così alto dei paesi dell’Eurozona, la BCE non potrà che mantenere a lungo i tassi d’interesse su livelli molto bassi. Il problema nascerebbe se da Cina e USA la ripresa economica fosse molto forte e portasse ad un rialzo dell’inflazione e soprattutto ai rialzi dei prezzi sulle materie prime. In questo caso la pressione si trasferirebbe sul tasso di cambio dell’Euro e probabilmente avremmo anche una inflazione importata che metterebbe a rischio la politica espansiva di BCE. In prospettiva la crisi economica produrrà una esplosione del debito pubblico che, per essere rimborsato, stanti le norme sul patto di stabilità, non potrà che essere controbilanciato da un aumento della pressione fiscale che darà il colpo finale, soprattutto alle PMI.

In sintesi, il panorama italiano è quello di un forte depauperamento del tessuto industriale e di una crescita ulteriore della pressione fiscale. Dal lato dei lavoratori la disoccupazione non potrà che mantenersi su livelli elevatissimi stante la morte di tante piccole imprese, che potrà essere compensata unicamente dalle imprese orientate all’export. Ma la disoccupazione crescente metterà anche a rischio il rimborso di prestiti e mutui alle famiglie: di conseguenza, avremo anche un peggioramento dei bilanci bancari. Vie di uscita semplici non ce ne sono. Quella seguita dai liberisti sarà un ulteriore attacco al patrimonio pubblico italiano ed al poco welfare che è rimasto. Prepariamoci a risentire parlare di sanità troppo costosa, di privatizzazioni, di cessioni di beni pubblici. L’altra soluzione è di uscire dalla UE e dall’Eurozona, riprendere in mano le leve della politica fiscale e monetaria e in questo modo cercare di strappare il nostro Paese dal declino cui è sicuramente destinato seguendo le politiche che negli ultimi 30 anni le idee liberiste e la UE ci hanno imposto. Non ha senso continuare a seguire ricette economiche che hanno prodotto il disastro della nostra economia.

Diego Muneghina

 
<< Inizio < Prec. 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 Pross. > Fine >>

Risultati 737 - 752 di 3744