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L'orrore di fondo PDF Stampa E-mail

18 Aprile 2021

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 Nonostante si sia a un passo dal baratro, avanziamo spediti col vento in poppa della scienza e della tecnologia verso i successi nascosti nell’era digitale. Nonostante qualcuno ci stia informando che potrebbe andare diversamente, non sappiamo rispondergli altro che: “Che vuoi tu, stupido essere inferiore?” E allora, ecco qualche stupida illazione.

L’ecosistema può essere definito come un corpo al quale non si possono sottrarre o aggiungere parti. Se così fosse, ecosistema e bioregione sarebbero sinonimi di equilibrio. È una considerazione banale. Ma non per tutti. A capitanare la crociata di un’altra verità, non naturale ma arrogante, quindi umana, è la cosiddetta scienza, quella con la quale chiunque è disposto a riempirsi la bocca per dimostrare che più in là non si può andare. Per affermare l’ultima verità. E chi non ci crede è semplicemente un idiota. È il trionfo dello scientismo, religione che vede tra i propri adepti la maggioranza degli scienziati. Lo si trova nei sussidiari delle elementari, nei genitori fieri di mostrare come girino gli elettroni, nei copy pubblicitari, in bocca ai giornalisti, nei titoli dei giornali. Lo si sente risuonare al bar tra quelli della briscola e al pub tra quelli con l’ipad. “Scientificamente dimostrato” è la loro parola d’ordine, con la quale avanzano spediti attraverso tutte le porte della vulgata, di chi crede che non sapere sia un peccato che giustamente devono pagare.

La scienza citata è quella più recente, che ha caratterizzato il pensiero dal 1600 in qua, fisica quantica e psico-neuro-endocrino-immunologia a parte. Quella detta newtoniana o meccanicistica, per sua ontologia scompositrice – o demolitrice – dell’intero, per sua missione convinta che nell’analisi risieda la conoscenza, per sua necessità costretta a classificare e nominare. Un percorso interessante che ci ha fatto presente che i muschi procreano con le spore, che il nucleo atomico è pieno di cose ancora più piccole, ecc. Una strada che vanta la convinzione di conoscere la natura, ma di fatto se ne allontana. Che ha perso per strada il principio dell’intero, dell’ecosistema, che ha creduto di poter mettere sotto i suoi vetrini qualunque cosa riuscisse ad afferrare e poi ha pure creduto che ciò che vedeva fosse veramente un paramecio o una nanoparticella, che appartenesse veramente a quella categoria e reagisse veramente a quello stimolo. Nell’entusiasmo della conoscenza non si è avveduta che le proprietà di ciò che aveva isolato non erano che sue proiezioni. Un disastro.

Ora, in tempo digitale, l’arroganza di certo scientismo non si è ridotta, anzi. Il totem che ci vede tutti genuflessi davanti ai suoi poteri si chiama tecnologia. Se prima era il denaro il vascello che avrebbe permesso di navigare in tutti i mari, adesso è l’idolatrata tecnologia, che alcuni chiamano scienza, la nostra certa salvatrice. L’epoca digitale ne ha esponenzializzato le presunte doti. La distanza dalla natura è proporzionalmente cresciuta. Ce lo dicono molte evidenze. Crediamo che conoscenza voglia dire erudizione; non sappiamo muoverci in natura se non affardellati di strumenti a batteria, non possiamo andare ad un appuntamento senza navigatore. Ma sono piccoli campioni della perdizione dell’uomo. Meno piccoli ma più inosservati – se non spettacolarmente – nel loro significato ultimo ed esiziale, sono i campioni provenienti dal mondo animale. Folti gruppi di cetacei che spiaggiano, cioè che muoiono soffocati o ustionati, che, aiutati da anime buone, rifiutano il mare o non possono più riconoscerlo e testardamente dirigono a terra. Basterebbe questo e la sua ripetizione che in questi ultimi anni tutti osserviamo, con sdegno, naturalmente, con gli scientisti in prima fila – come credono gli spetti di diritto divino – a domandarsi come mai? Testuggini capaci di ritornare al luogo di nascita dopo anni e migliaia di miglia di distanza, farfalle che interrompono la migrazione, api, lucciole, cervi volanti che spariscono, addensamenti di meduse, balene e delfini arenati, e con loro una quantità di altri animali, tutti i migratori di terra, aria e di mare, mostrano con frequenza crescente cosa significa vivere entro una biosfera i cui naturali campi geomagnetici, loro sola bussola, sono corrotti da deviazioni di origine umana, anzi, meglio dire tecnologica e scientifica, affinché i devoti del 5G non dimentichino il costo vero dei loro giga-per-secondo. La rete di frequenze digitali, di trasmissioni satellitari, di localizzazioni micrometriche, di tutto lo sconosciuto militare, quello necessario a gestire le condimeteo, le rotte delle armi e dei droni, le barriere di disturbo verso il nemico, come possono essere innocue? Come possono esserlo i rumori e i disturbi che modificano l’habitat, la pesca predatoria, le risonanze negative di tutte le esplosioni nucleari nell’inerte e insofferente Terra? Come possono non generare anomalie al campo magnetico terrestre gli elettrodotti e gli oleodotti? L’inquinamento riversato in aria, terra e acqua può essere inerte? Innocuo? Non è un caso che tra le cause che si vedono riferite dalla stampa ci sia, insieme alle più irrilevanti, il cambiamento climatico, e non compaia invece mai qualcosa di relativo a quanto accennato qui, nonostante la banalità di certe ipotesi. Non lo è in quanto il cambiamento climatico è, per buona parte del mondo scientifico, quello forse più colluso con i potentati economici e militari, un fatto del tutto naturale, per nulla relativo alle scelte dell’uomo. Come potrebbero affermare diversamente visto il loro datore di lavoro? Il fenomeno di animali che perdono la via è noto da secoli. Vittime forse di occasionali naturali deviazioni magnetiche. Ma tende a trattarsi di singole unità, non di gruppi e non frequentemente. Certo sono illazioni utili a sostenere la tesi secondo cui abbiamo commesso un errore – ma meglio dire orrore – di fondo, quello di aver prediletto il sapere alla conoscenza, il prodotto dell’intelletto al sapere estetico. Recuperare il conoscere attraverso il sentire, la sapienza attraverso la bellezza, permette di uscire dalle scatolette delle classificazioni e toccare l’infinito che è in noi. Cosa fare? Niente, a parte prendere coscienza che non siamo fuori dall’ecosistema, che ogni azione che lo disturba implica denaro per qualcuno e pena per il resto del pianeta. Che siamo terra sebbene corrotti dalle idee di superiorità nei suoi confronti. In una parola, che la strada sulla quale siamo in trionfale marcia preceduti da fanfare e adornata da gran pavesi non è quella umana. E anche se le generazioni che verranno o coloro che sopravvivranno non si assumeranno la responsabilità di ciò che è stato, se non saranno in grado di non colpevolizzare i loro padri, l’esperienza del disastro andrà perduta e a loro volta con la fanfara in testa e il gran pavese ai lati troveranno una nuova via verso effimeri successi. La storia è maestra solo nell’assunzione di responsabilità di quanto non abbiamo commesso. Solo identificandosi con quanto commesso da altri giochiamo il nostro jolly evolutivo. Diversamente la sua – ma nostra stessa – mannaia, al prossimo giro del tempo non farà sconti. Ma fin da questa tornata, basta! Basta attendere qualche scientificamente provato. Non servono gli scienziati per salvare la terra, né maestri di scuola, insegnamenti universitari o apprendimenti da guru.

Lorenzo Merlo

 
Omaggio alla persona non all'istituzione PDF Stampa E-mail

17 Aprile 2021

 Quando verrà pubblicato questo articolo a Londra saranno in corso le esequie del principe Filippo di Mountbatten, duca di Edimburgo. Mi sono chiesto se fosse lecito scrivere sul nostro blog questo "coccodrillo" a ricordo di un uomo pubblico che, di primo acchito, nulla pare abbia in comune con noi, col nostro essere radicali, oppositori, ribelli: un "coccodrillo" per omaggiare e ricordare chi era "dall'altra parte della barricata", quello dei palazzi del potere, può appunto sembrare un poco strano ma non è così.

Se essere Ribelli significa essere padroni di noi stessi senza "fantasmi" (M.Stirner) e poter rivendicare il fatto di essere anarchi -non anarchici- nel governo di noi stessi (E.Junger), allora a modo suo, per quanto la sua posizione delicata glielo consentisse, in un certo senso il duca di Edimburgo lo fu. Caustico, mordace, pungente, dissacrante soprattutto verso i suoi simili altolocati ai quali non risparmiò i suoi atteggiamenti graffianti, seppe per quasi un secolo stare, all' occasione, al centro della scena senza prendersi troppo sul serio ma contemporaneamente rispettando con precisione maniacale il suo ruolo. Altre persone probabilmente sarebbero rimaste schiacciate dall' ambiente ipocrita di sepolcri imbiancati, di esclusività e aristocrazia del sangue -tanto meno nobile e giustificabile rispetto alla vera aristocrazia, che è quella del pensiero elevato e delle capacità personali e morali ("il pensiero sta sempre più in alto", disse Seneca) assumendo atteggiamenti di protervia e di superbia, che sfociano fatalmente in un conformismo crasso e ottuso. Non così fu per Filippo che seppe unire, in modo direi piuttosto raro, ad una profondità del senso del dovere e della recitazione d' un ruolo nella vita -e scusate se è poco, assumersi un ruolo e recitarlo coerentemente e seriamente sino in fondo è senso dell' onore, alla base della Vita -anche quella leggerezza, quella ironia, quel dissacrare che ha l'effetto, specialmente quando viene dal centro del potere, di rendere anche chi appare altolocato e irraggiungibile quello che in realtà è: un uomo, una donna, come tutti quanti noi, coi suoi difetti, limiti, insicurezze.

Le sue gaffes, molteplici e graffianti, caustiche e irriverenti, che spesse volte colpivano al cuore il "politicamente corretto" del quale ormai siamo tanto ammorbati dal suo puzzo, non possono, non potevano passare inosservate. Erano l'espressione libera di chi non voleva conformarsi alla ottusità e rivendicava il diritto di dire le cose come stavano, senza indossare maschere o cavalcare spettri, anche se il rischio era quello di offendere. MA così facendo interpretava il sentimento di tutti i comuni mortali.

Poi vi fu il Filippo "ufficiale", diciamo così. Impeccabile, mai sopra le righe, d'una dedizione e serietà impressionanti che lo portarono a presenziare ad eventi, spesso lunghi e faticosi, sino alla non più verde di 96 anni e tutto senza un lamento, un benché minimo gesto di insofferenza. Furono ben trentaquattro mila gli eventi in cui fece il suo dovere, assistendovi. Era consapevole che il suo ruolo di principe consorte portava dei limiti, il primo dei quali era il restare sempre un passo indietro: lo accettò, lo capì e mai ebbe smanie di protagonismo insensato che lo portassero a passi falsi o polemiche.

Se ebbe mende domestiche, che dire? La perfezione non è del genere umano e ci possono stare. Non possiamo pretendere la santità dagli uomini. Mi piace infine ricordare che Filippo trattò molto bonariamente, sempre senza prendersi troppo sul serio, alcuni capivillaggio delle isole Vanuatu, in Oceania, che lo veneravano come un dio, influenzati forse dai "culti del cargo": non disdegnò di incontrarli sia in Patria che a Londra, trattandoli molto affabilmente e non urtando le loro convinzioni ma non permettendo neppure eccessi. Non è retorica dire che è morto il penultimo dei grandi (l'ultima sarà la sua consorte, anche essa unica e inimitabile, detto con ammirazione da chi monarchico non lo è per nulla) e che il duca di Edimburgo, vissuto quasi un secolo, ebbe una vita degna di essere vissuta al di là delle fortune di nascite e di casato. Non importa da chi nasci, importa come vivi ed egli visse bene.

In una frase riassuntiva: ha speso bene la sua giornata.

Per tutte queste ragioni un "coccodrillo" ci sta benissimo, specialmente oggi che il duca affronta l'ultimo dei riti di passaggio, il rito funebre, e si trova alle soglie del "Grande Mistero" oltre il quale non giungono gli echi e le confusioni di questo mondo. Saluto quindi Filippo, duca di Edimburgo, cui ho sempre guardato con simpatia e ammirazione, pur vivendo egli in un ambiente agli antipodi dal mio.

E gli auguro solamente "buon viaggio!".

Simone Torresani

 
Il tiranno ama le maschere PDF Stampa E-mail

16 Aprile 2021

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 Da Rassegna di Arianna del 6-4-2021 (N.d.d.)

Un luogo comune del giornalismo sostiene che la notizia è quando un uomo morde un cane. Più o meno ci è capitato davvero. Non abbiamo riconosciuto una persona che conosciamo da qualche mese, con cui scambiamo qualche commento all’edicola dei giornali. Lo abbiamo sempre visto con la mascherina tirata sopra il naso, ma stavolta non la portava e ha salutato con un sorriso. L’inversione è compiuta: la maschera è diventata volto e la prima riflessione, dopo le debite scuse, è stata paradossale: c’è stato un periodo della nostra vita in cui vivevamo a faccia scoperta, ci stringevamo la mano e non rispettavamo il sacro “distanziamento sociale”? L’essere umano è plastico, flessibile, adattivo; arriva a credere che quella che vive è la normalità. Qualunque sia il nostro pensiero sul virus, è evidente che il potere è riuscito a distruggere le relazioni sociali, la prossimità, la convivialità – diventata reato da denunciare - a plasmare individui solitari. Siamo perfettamente manipolabili e “loro” lo sanno. Hanno imposto per legge, o decreto presidenziale - fa lo stesso, anche i cardini e le gerarchie del diritto sono saltate – un interminabile Ausnahmezustand, lo stato d’eccezione teorizzato da Carl Schmitt. Ora sappiamo chi comanda davvero: coloro che hanno imposto di celare il volto con una maschera. La domanda è raggelante: come si può avere una relazione con l’Altro senza vederlo in faccia? Da sempre, il rapporto con il volto umano è carico di significati e di simboli. Scriveva l’antropologa Ida Magli che mostrare i denti nel sorriso è da sempre il gesto che dimostra non belligeranza, desiderio di instaurare con il prossimo un rapporto amichevole, basato non sulla violenza, ma sulla parola, il Logos. Allo stesso modo, stringersi la mano significa riconoscere l’esistenza di una relazione, la volontà di stabilire un contatto che parte dal corpo fisico. Ci hanno espropriato brutalmente di questi gesti umanissimi e quotidiani, che tendevano ad avvicinare, azzerare le distanze, creare, anche solo per un attimo, una corrente di empatia basata sulla vicinanza. Vietato: volti coperti, cautelosa misura della distanza fisica (che chiamano “sociale” non per caso) un brevissimo, impercettibile contatto tra i gomiti come massimo di prossimità, calore e persino coraggio. L’altro sarà contagiato, è forse un untore? È comunque un pericolo da evitare.  Come è possibile una relazione “umana” senza il mutuo riconoscimento del volto, senza l’atto di avvicinarsi, toccarsi, stringersi la mano, sorridere o, al contrario, esprimere fastidio, ostilità, ma sempre attraverso il linguaggio del corpo e innanzitutto del viso? La maschera è fissa, cela e impedisce di scrutare l’anima oltre il volto. Non sappiamo se attraverso la maschera ci difendiamo dal contagio, ma intanto siamo indifesi dinanzi all’Altro e a nostra volta sconosciuti, imperscrutabili.

Un giorno ci autorizzeranno a togliere la mascherina, ma il danno sarà stato fatto, irreversibilmente: quella maschera ci ha fatto diventare non-persone e ci ha cambiato in profondità. Abbiamo scoperto con raccapriccio –la minoranza che riflette e ancora conosce il “Sé” - che il volto scoperto è un segno di libertà e la maschera lo è di soggezione, oltreché di paura reciproca. Nell’antica Grecia lo schiavo veniva definito l’essere senza volto, “apròsopos”, quindi senza dignità, privo di libertà, mero oggetto a disposizione del padrone. Dunque, chi sfrutta il maledetto virus ci ha reificato, ridotti a cose. Al tempo in cui era diffusa la lebbra, chi ne era affetto doveva andare a volto coperto.

La nostra società ha da tempo dimenticato, o rimosso, il valore dei simboli. Giriamo a vuoto attorno a noi stessi, sempre meno interessati a interagire con l’Altro. Troppi non riescono più a cogliere l’enorme valenza simbolica della maschera, vista come un semplice DPI (dispositivo di protezione individuale); anche la parola dispositivo ha a sua volta un potente valore simbolico. Il potere, diventato biopotere, signoria estesa al corpo fisico, è a sua volta un “dispositivo”, cioè un meccanismo impersonale che ordina, organizza, impone.  L’essere umano, tuttavia, cerca un volto, una rassicurazione, un contatto, sin dalla nascita: il viso della madre è il primo elemento della relazione che il neonato intratterrà con il mondo. La ricerca della relazione e della comunicazione durerà tutta la vita. Qualcuno ha scritto una grande quanto elementare verità: scopriamo di essere uomini quando riusciamo a fissare un volto e dire “tu”.  […]

I rapporti interpersonali sono caratterizzati sempre più dalla riduzione dell’altro a oggetto di possesso e di uso. Dietro la maschera, è più semplice. Per questo il gesto capitale del potere è stato imporci una maschera: più facile distruggere le relazioni sociali, creare individui soli, isolati, singoli e single, senza radici, senza identità, fragili, indifesi ed impauriti, soggetti/oggetti perfettamente manipolabili.  Il volto differenzia l’uomo dall’animale. Lo sapeva Cicerone, per il quale “quello che si chiama volto, che non può esistere in nessun essere vivente se non nell’uomo, indica il carattere di una persona”.  […]

Viviamo in un mondo di rappresentazioni nel quale interpretiamo più parti. La modernità ha introdotto nuove maschere: stili di vita e di comportamento che si esprimono in abiti, automobili, viaggi e mode. Da un anno si è formata persino una moda delle mascherine; il cerchio si chiude, l’uomo “liquido” della postmodernità, raggiunto dalla nuova paura assoluta, sceglie maschere per ogni occasione e ora del giorno: proteggono dal virus- forse – ma soprattutto dall’Altro e permettono di non fare i conti con Sé. C’è chi ne possiede di diversi tipi e fogge, con disegni, colori e forme diverse, come per esprimere al massimo grado la natura cangiante, mutevole, liquida del tempo e dell’umore personale. Sono, in un certo modo, antidoti alla paura, feticci a cui aggrapparsi nella condizione precaria in cui l’uomo sperimenta con raccapriccio che “si sta come in autunno sugli alberi le foglie. Ciascuno diventa “apròsopon”, senza volto: la verità è la maschera, un’altra delle sconcertanti inversioni dell’epoca postmoderna. Chissà che non ci impongano la foto “mascherata” per i documenti d’identità. La realtà, come per Nietzsche, si trasforma in un gioco di forme illusorie dove non è possibile conoscere la verità, ridotta a rappresentazione. Per Gustav Jung, la maschera è un simbolo della dualità ombra/persona. L'Ombra di Jung è l’aspetto oscuro della personalità che l'ego cosciente non identifica, di cui la Persona non è pienamente cosciente. L’uso della maschera finisce per alimentare l’Ombra e destituire la Persona, disconnettendola dall’incontro con l’Altro. È questo un aspetto assai preoccupante del nascondimento, della distanza determinata dalla maschera: la chiusura in sé destituisce la condizione dell’uomo come essere sociale. Su questo ha lungamente riflettuto Emmanuel Lévinas, il filosofo franco lituano che ha studiato la relazione con l’Altro e la sua rivelazione attraverso il volto.  L’Altro uomo, dice Lévinas, non mi è indifferente, mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola riguardare. In francese si dice che “mi riguarda” qualcosa di cui mi occupo, ma “regarder” significa anche “guardare in faccia” qualcosa per prenderla in considerazione.” L’uomo è protagonista di una relazione con gli altri uomini, etica prima che sociale o politica. Per Lévinas, ciò che caratterizza l’uomo è la sua “inevitabile possibilità” di rapportarsi all’Altro. […] Con la maschera, finisce la relazione, la richiesta di aiuto si rovescia in minaccia che diventa timore e genera ostilità, distanza, richiesta imperativa che l’Altro esca dalla nostra vita, ridotta a spazio vitale di sopravvivenza, grottesco lebensraum anti contagio.

La relazione con l’Altro, relazione etica, è dunque parte dell’essenza dell’Io, apertura, accoglienza del volto. Ciò che caratterizza l’uomo in quanto tale è la dimensione morale, la capacità di infrangere l’egoismo e rispondere alla domanda dell’Altro, ovvero di esserne “responsabile”. L’irruzione del volto ci rivela la presenza dell’altro: la maschera lo nega. Il termine deriva dal tardo-latino masca (strega), passato ad indicare i travestimenti carnevaleschi e teatrali. […] Nel volto si gioca anche il rapporto col Potere. Giorgio Agamben dice che “il volto è anche il luogo della politica”. Ecco perché averlo celato, averne ordinato il nascondimento è un atto di potere, anzi di biopotere, senza eguali. […]

Giorgio Agamben avverte: uno Stato che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini ha cancellato ogni dimensione politica. Nello spazio rimasto vuoto, privo di facce riconoscibili, sottoposto a un controllo senza limiti, si muovono individui isolati a cui è sottratto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità, che possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto. Il volto è davvero il luogo della politica, della sfida a viso aperto e scoperto alla tirannia che ci ha derubati anche della nostra faccia e ci pretende individui senza volto, dignità, identità, libertà. Il tempo apolitico non vuole vedere in giro persone: le distanzia, le maschera, le copre, sostituite da statistiche e cifre. La maschera, come il tiranno, fa paura proprio perché si presenta senza volto, tanto nega quanto apparentemente afferma. Non è fatta solo di quanto dice, ma anche di ciò che esclude. Per questo il tiranno ama le maschere, a differenza del bambino e dell’uomo semplice che ne ha paura. Scrive la poetessa russa Anna Achmatova: “Fin da piccola temevo le maschere/perché sempre mi era parso / che un’ombra di più/ fra di loro, senza faccia né nome/ s’intrufolasse. “

Roberto Pecchioli

 
Il potere dell'informazione PDF Stampa E-mail

15 Aprile 2021

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 Da Comedonchisciotte del 13-4-2021 (N.d.d.)

Il nucleo autentico del processo politico e sociale che stiamo vivendo è l’informazione. Essa si mostra non soltanto come un vero e proprio potere, ma come il potere più forte, di gran lunga superiore a quello politico, le cui dimensioni e il cui raggio d’azione sono da tempo globalizzate. Infatti, chi detiene in ultima analisi questo potere è un gruppo ristretto di aziende che prosperano grazie al monopolio del settore dell’informatica, e i cui affari non conoscono confini. Si tratta di un settore dell’economia che da circa vent’anni ha raggiunto il primato su tutti gli altri. Un settore che ha incarnato la nuova forma di capitalismo definita da Shoshana Zuboff capitalismo della sorveglianza, il quale prospera grazie all’enorme massa di dati fornita quotidianamente da noi utenti connessi alla rete. L’informazione è un tutt’uno con questo settore dell’economia, ne incarna la necessità di controllo e condizionamento. Ha finito per avere a disposizione strumenti talmente pervasivi e capillari da trasformarsi in strumento di orientamento dell’opinione pubblica, di vero e proprio modellamento dei comportamenti, con una efficacia mai avuta prima d’ora. Chi detiene il potere dell’informazione innanzitutto è in grado di orientarne l’intero apparato: dalle televisioni, alla carta stampata, a internet, imponendogli un’unica direzione, un unico scopo. Manipolare e dirigere l’opinione pubblica è l’essenza di tale potere, mostrando e amplificando i fatti, oppure sminuendoli e oscurandoli. Anche nel fornire interpretazioni dei fatti, esso presenta all’attenzione della gente una molteplicità di opinioni spesso contrastanti e senza alcun vaglio critico: si mescolano pareri di esperti autentici con opinioni di ciarlatani. In tal modo, il potere dell’informazione riesce ad abolire ogni differenza tra verità e falsità: così si diffonde la convinzione che non si possa mai riuscire a distinguerle. Piuttosto che pensare che questa sia una condizione creata ad arte dall’informazione, il pubblico è portato a credere che sia uno stato naturale delle cose. La confusione non è il solo effetto: da essa nasce la convinzione che sia impossibile esercitare alcuna critica da parte del pubblico. L’informazione ha rinunciato a qualunque tipo di vaglio, in nome di una assoluta libertà, di una assoluta uguaglianza, che non distingue più tra opinioni infondate e idee autentiche. Il pubblico, in balia di questa assoluta libertà dell’informazione, si convince che non abbia senso esercitare alcuna riflessione critica. È facile comprendere che un simile concetto di libertà, nel quale è assente anche il più elementare principio correttivo, si muta immediatamente in tirannia. L’informazione finisce per diventare un mero stimolo emotivo, fomentatrice di reazioni irrazionali, in cui non contano più i fatti o l’autorevolezza delle opinioni, ma l’efficacia simbolica delle parole, degli slogan, delle immagini. A ciò si aggiunge la frammentarietà nella presentazione delle notizie: i fatti sono sempre irrelati, legati all’immediatezza, e solo con fatica si riesce a ricostruire una connessione tra di loro. Il quadro d’insieme resta per lo più oscuro. Ma il mettere assieme, lo stabilire connessioni è la caratteristica più propria della riflessione critica. Ecco quindi che, a livello sociale, piuttosto che un dibattito costruttivo, un confronto razionale tra idee, nascono fazioni, schieramenti: ogni questione diviene divisiva, crea gruppi opposti il cui unico scopo è quello di odiarsi a vicenda. Attualmente i due schieramenti sono quello di chi inizia vagamente a sospettare qualcosa, ma senza avere ancora ben chiaro il quadro complessivo di quello che sta succedendo, guidato unicamente da una istintiva difesa della propria libertà personale; e quello di chi crede in modo timoroso e passivo, avendo per stanchezza e disperazione capitolato di fronte alla negazione sistematica di ogni certezza, all’impossibilità di esercitare qualunque facoltà di critica.

Questo potere, privo com’è di ogni limitazione, di qualunque messa in discussione sul piano del diritto e della politica, ha attualmente eroso ogni altro diritto. Le libertà personali, come il diritto alla libertà di movimento, o alla scelta della cura sanitaria; i diritti sociali, come il diritto al benessere economico, all’istruzione, o alla salute; le stesse garanzie costituzionali, dal momento che i poteri dei singoli amministratori locali eccedono sistematicamente la sfera delle loro competenze, generando un’abitudine all’abuso alla quale ormai ci siamo assuefatti. Sul piano del diritto, ovvero della difesa di quei diritti secolari messi in crisi dal potere dell’informazione, le sentenze dei giudici e le pronunce dei tribunali possono ben poco: come si vede sempre più spesso, vengono semplicemente ignorate nelle disposizioni emanate dall’apparato politico. Il quale si trova ridotto a una mera burocrazia: un apparato che vive grazie al sostegno che il potere dell’informazione gli conferisce e che mette al suo servizio la propria organizzazione. Tale apparato utilizza oramai il linguaggio fortemente emotivo e simbolico dell’informazione, avendo rinunciato a qualunque riflessione autenticamente politica.

Ma su cosa si fonda il potere dell’informazione? E soprattutto a quale tipo di violenza ricorre per imporsi, dal momento che ogni potere ha bisogno di un sistema di coercizione? Il suo potere si fonda unicamente sul numero delle persone che riesce a orientare, di cui riesce a plagiare le opinioni. Tale potere non può esercitare direttamente la violenza: ha necessità di non scoprire i propri scopi, il proprio gioco, pena la crisi di qualsiasi efficacia. La violenza viene così demandata allo scontro sociale: il controllo reciproco, la delazione, al limite, la violenza aperta sono atteggiamenti messi in atto tra i gruppi sociali, fomentati all’interno della società stessa. Basti pensare a come vengano dipinti dall’informazione ufficiale coloro che non si assuefanno alle limitazioni e alle imposizioni: sono apertamente definiti causa del contagio, ovvero “untori”. E storicamente la sorte degli untori è stata terribile: alla condanna e all’annullamento fisico sono sempre seguiti la diffamazione e l’edificazione di “colonne infami”, che conservavano per i posteri la memoria del loro abominio. Colonne che solo molto tempo dopo, quando le società erano ormai ritornate alla consueta lucidità, venivano rimosse con vergogna, considerate esempio di oscurantismo del passato. Un passato che tuttavia ritorna troppo spesso!

Ormai, anche il semplice uscire fuori casa comporta una lotta con noi stessi, uno stato d’ansia, una vaga angoscia. È qualcosa di impercettibile ma costante. Le mascherine, tenacemente incollate sulle facce di chi ci circonda, ricordano a tutti che non siamo più padroni delle nostre scelte: uscire fuori casa e camminare per la strada non è più un atto libero, perché sentiamo che può essere revocato in ogni momento, con una discrezionalità superiore a qualsiasi legge; perché in ogni momento possiamo essere soggetti a un controllo, a una interrogazione. E in molti oramai quell’esame della propria coscienza se lo fanno da soli. Ogni nostro passo è sospetto innanzitutto a noi stessi. Viviamo insomma in un ambiente privo di norme certe e condivise, un ambiente in cui la discrezionalità e l’abuso generano tensione e angoscia illimitate. Ci sentiamo soggetti privi di ogni diritto, e per questo motivo tutti uguali e tutti ugualmente insignificanti. L’unica differenza che si può raggiungere all’interno di una tale massa deriva dall’obbedienza entusiastica agli obblighi che vengono imposti. È l’illusione di poter prendere parte a quel potere che ci opprime, diventarne i sostenitori e i controllori, in modo da salvarsi dall’annullamento dell’insignificanza. Non c’è un angolo del pianeta che sia rimasto immune da questo processo. Per questo la resistenza diventa una necessità, qualcosa a cui non si può sfuggire, pena la perdita della dignità umana. L’esigenza di resistere si fa ogni giorno più pressante, perché le imposizioni si fanno ogni giorno più lesive della libertà: arrivano a violare il nostro corpo, contraddicono il nostro istinto di conservazione. Ma quale tipo di resistenza, di opposizione può essere messa in atto a questo punto? Se il potere dell’informazione esercitasse direttamente la violenza, lo si potrebbe smascherare facilmente: le manifestazioni, la resistenza passiva, la disobbedienza civile potrebbero suscitarlo e così renderlo visibile, identificabile. Invece, ogni manifestazione, ogni opposizione e disobbedienza non fanno che rafforzare l’odio e le convinzioni del gruppo che al contrario sostiene e giustifica l’imposizione di tali obblighi e restrizioni. Probabilmente sono addirittura funzionali alla sua coesione, alla sua durata.

L’opposizione e la resistenza devono lavorare pazientemente sulle coscienze. Nello stesso ambito dell’informazione. Oggi il vero campo di battaglia è la coscienza, la consapevolezza individuale. L’opposizione e la resistenza devono far nascere in ogni cittadino la consapevolezza di un diritto importantissimo: quello ad una informazione onesta e corretta. Restando all’interno del sistema dell’informazione, rivelando le sue strategie, le sue falsità, distinguendo tra verità e menzogna. L’informazione non è un blocco monolitico, per fortuna, e offre la possibilità di creare uno spazio in cui progettare e garantire questo diritto, in cui portarlo all’attenzione di tutti. Resistere, dunque. Aspettando che un giorno la politica riesca a riconquistare la propria dignità, a elaborare i correttivi necessari per limitare e indirizzare un potere così distruttivo.

Stefano Vespo

 
La superstizione regna sovrana PDF Stampa E-mail

14 Aprile 202

Da Appelloalpopolo del 12-4-2021 (N.d.d.)

Questa è l’epoca in cui, mentre a parole si esalta la scienza, trionfano i pregiudizi. La paura blocca la capacità di ragionare, di analizzare la realtà sgombrando la mente da fuorvianti emozioni e credenze irrazionali.

Prendiamo come esempio la mascherina. Più volte ci sono state smentite scientifiche sulla sua efficacia e sulla sua utilità all’aperto. La legge stessa, all’aperto, la impone solo quando non si possano rispettare le distanze di sicurezza. Eppure il comportamento delle persone è in contraddizione con questi enunciati. Nel momento in cui hanno avuto paura, si erano sentiti dire che la mascherina li avrebbe protetti, ed è nato in loro un pregiudizio che li lega indissolubilmente ad essa. Non è vero ma ci credo: la superstizione regna sovrana in un’epoca di paura. La mascherina è diventata un simbolo di coesione come una bandiera o i colori della squadra di calcio: è il segno che contraddistingue chi è prudente ed altruista e sicuramente si precipiterà a vaccinarsi; che contraddistingue il bravo dal cattivo cittadino, il saggio dal folle, il seguace della scienza dal terrapiattista. Al di là di ogni enunciato scientifico e razionale, il valore simbolico permane saldamente. Cosicché il gesto di mettere la mascherina è stato ripetuto (un simbolo non va “usato” bensì ostentato) più volte durante la recente conferenza stampa da Draghi che la toglieva quando parlava e poi la rimetteva. Anche Locatelli che (ben distanziato) lo affiancava, ha seguito lo stesso rituale. La mascherina ha avuto così, non a caso, la visibilità di terza protagonista al tavolo della conferenza stampa.

Come spesso accade quando un pregiudizio si è radicato, neanche una smentita, anche se proviene da personaggi appartenenti al mondo scientifico o all’apparato istituzionale in cui si crede, è capace di riportare al raziocinio. Qualcosa di simile è successa con il vaccino. Le prime persone con cui mi sono confrontata sui vaccini contro il Covid dicevano che lo avrebbero fatto per poter tornare alla vita normale senza restrizioni anti pandemia e per un atto di altruismo che avrebbero impedito loro di contagiare gli altri. Oggi è stato detto chiaramente che chi si vaccina deve continuare ad usare mascherine e distanziamenti e può contagiare. Eppure, con analoghi meccanismi mentali che caratterizzano l’uso delle mascherine, le stesse persone sono rimaste entusiaste dei vaccini. Al loro cervello arriva solo ciò in cui VOGLIONO credere. Non è l’epoca del trionfo della scienza e della competenza dell’esperto e titolato: è l’epoca del trionfo del pregiudizio e dell’atteggiamento scaramantico.

Claudia Vergella

 
Prima del siero c'è il pensiero PDF Stampa E-mail

13 Aprile 2021

 Da Rassegna di Arianna dell’11-4-2021 (N.d.d.)

Nonostante l’avvento del colore da quasi mezzo secolo, la tv e i media dividono l’umanità in bianco e nero; il video come i social premia chi dice bianco o nero, senza sfumature. Infatti la rappresentazione dominante sul vaccino è perentoria: il vaccino è la salvezza per i saggi e la dannazione per gli stolti. Dio vax e No vax, e in mezzo il vuoto. E ambedue abusano della credulità popolare per spargere cieco ottimismo e ottuso allarmismo. Ma il mondo è più vario, non si ferma nemmeno al grigio, cioè a metà tra i due estremi; ma è colorato, a volte colorito. Basta sentire i discorsi veri della gente per accorgersi che sono pochi i credenti e i miscredenti radicali, nel mezzo i più sono esitanti, mutevoli, diffidenti, guardinghi, circostanziati o rassegnati. Lo scetticismo si è fatto ipotetico e selettivo: va bene ma non AstraZeneca. Oltre la fede dei dio vax e la sfiducia dei no vax, prevale lo spirito critico e vigile.

La disputa sul vaccino è un test filosofico di prima importanza per capire come affrontiamo e valutiamo la vita. Non si tratta solo di una scelta tra adoratori e nemici della scienza o di un referendum tra apocalittici e integrati, oggi in versione renitenti o vaccinati. Ma di un ricco campionario di risposte e stati d’animo alla chiamata del vaccino che mostra finalmente qualcosa del nostro modo di concepire la vita, il corpo, la salute; una variegata filosofia pop. Senza accorgercene, stiamo praticando scelte esistenziali che richiamano antiche correnti di pensiero: le nostre scelte e le opinioni annesse sono l’applicazione pratica di orientamenti classici come il razionalismo e il fatalismo, il casualismo, il probabilismo e il problematicismo, lo scetticismo e l’empirismo, fino agli estremi opposti del misticismo e del nichilismo. Brevi compendi di teoria e prassi filosofica rivivono nel dilemma sul flacone ed entrano inconsapevolmente nelle nostre vene e nelle nostre menti. E altre questioni di etica e filosofia morale si pongono nello stabilire se il vaccino sia più un diritto o sia più un dovere; se lo dobbiamo fare per ubbidire alla legge e ottemperare agli obblighi civici e sociosanitari o se possiamo essere obiettori di coscienza e chiamarci fuori. Altra questione di non poco conto è valutare i comportamenti: se salti la fila per vaccinarti sei un individualista liberale con intraprendenza privata nel nome del principio naturale di autoconservazione o sei un egoista amorale con un’indole furbetta e disonesta? A occhi profani stiamo solo discutendo di cose pratiche e sanitarie, in realtà sono in gioco valori, priorità, modi di concepire la vita. Chi per esempio è critico verso i vaccini perché non vuole alterare il suo organismo con fattori estranei si può considerare uno stoico che vive secondo natura o un conservatore e perfino un reazionario che preferisce attenersi al corso naturale degli eventi anziché alla possibilità di modificarlo. E chi viceversa mostra fiducia nel vaccino e nella parola dei virologi preferisce la seconda natura artificiale e confida nei progressi della scienza, accettando di buon grado di sentirsi cavia e prototipo dell’umanità futura. Sarebbe istruttivo confrontare le posizioni di ciascuno sul vaccino e la propria scelta politica o ideologica, misurando il grado di coerenza o incoerenza tra le due posizioni.

La doppia risposta inglese, sia quella iniziale che scommetteva sull’immunità di gregge sia quella successiva che ha puntato sulla vaccinazione rapida e massiccia, rispecchia il pragmatismo britannico; mentre le resistenze maggiori avvengono nei paesi continentali a più alta densità filosofica, di derivazione idealistica, esistenzialista e metafisica. Viceversa, la vaccinazione a tappeto è stata praticata in paesi dove è alta la militarizzazione come forma mentis; in Cina, in Corea o, per motivi diversi, in Israele. Il principio del vaccino rispecchia il noto detto l’uovo oggi e la gallina domani: procurati un piccolo danno e una piccola malattia oggi per non avere un grave danno e una seria malattia domani. È il significato stesso di farmaco, come ci insegnano medici e filosofi: vuol dire sia veleno che rimedio, cura. Il paradosso del vaccino è perseguire la guarigione pur non essendo malati, inoculandosi dosi nocive a fin di salute. Chi pensa che il rifiuto del vaccino sia una forma di oscurantismo deve onestamente riconoscere che anche la posizione opposta nutre nel suo seno una visione vagamente religiosa, minatoria o superstiziosa: se non credi nel vaccino, il covid ti punirà. Gli ottimisti (o incoscienti) replicano: ma se non mi ha colpito per più di un anno, e se ha colpito il 6-8 per cento della gente, non può essere che io come gran parte della popolazione ne sia naturalmente immune, dotato di buoni anticorpi? Non sfidare gli dei, gli replica velatamente lo scientista. Chi rifiuta il vaccino si affida spesso al fatalismo; ma al fatalismo si affida anche chi si fa iniettare la dose e si abbandona più che alla scienza, alla statistica: chi crede ai grandi numeri dice che il rischio è minimo e l’immunità invece è massima. C’è chi oppone ai grandi numeri astratti l’evidenza dei casi personali, conosciuti o di cui ha sentito, che smentiscono le rosee previsioni numeriche. È la diaspora filosofica sul bugiardino. E tu che fai? Io non mi affretto a vaccinarmi né mi rifiuto; pratico l’amor fati con realismo e relativismo, sarò duttile, non ho certezze in merito. In ogni caso il vaccino richiede di assumere una posizione filosofica. Non sto dicendo di fare un simposio socratico per decidersi; dico che la decisione presa sarà l’adesione, anche inconsapevole, a una visione, a una filosofia di vita. Prima del siero c’è il pensiero.

Marcello Veneziani

 
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