Il limite della tolleranza |
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1 Aprile 2021 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/limite della tolleranza.jpg)
Quante volte abbiamo sentito il fastidio per le espressioni altrui? Quante volte le abbiamo giudicate con definitivi aggettivi dispregiativi? Quante volte non abbiamo esitato a sentirci dalla parte giusta? E quante volte invece abbiamo accettato, dando pari dignità a quella che chiediamo per noi stessi, prospettive che mai avevamo sospettato esistessero? Quante volte ci siamo comportati secondo le leggi egoiche e quante volte ne abbiamo dimostrato l’emancipazione? La cultura della tolleranza trova il suo fondamento nel concetto di Carità cristiana. Porgi l’altra guancia ne è emblema. Ma una certa disponibilità nei confronti del prossimo è presente anche in altre culture. Sebbene tra i cinque precetti dell’Islam non ve ne sia uno dedicato specificamente alla tolleranza, si trova la zakāt (dono, elemosina, devoluzione), che riguarda l’obbligo di aiuto ai bisognosi. In certe culture rurali e tradizionali come nel Pashtunwali afghano, nel Kanun del nord Albania, nel Codice barbaricino della Barbagia sarda, nel Bushido dei Samurai giapponesi, l’assistenza ai viandanti, con alloggio, cibo e cura, è un momento sostanziale di concreto rispetto delle norme sociali. Per quanto l’applicazione di queste premesse sia personalizzata, vi si può riconoscere l’origine della cultura della tolleranza e della reciproca assistenza. Man mano che la condizione sociale da comunitaria è divenuta materialista e individualista, l’obbligo di attenzione e tolleranza è andato perdendosi nella prassi, è andato calcificandosi nella politica. La tolleranza, da pratica sociale è involuta in concetto intellettuale. Da carnale e sentimentale a principio morale, da essenza a feticcio, spesso ben travestito da buonismo come dogmatica pillola quotidiana per sentirsi bene. Si è perso nell’abitudine al rispetto del canovaccio delle formalità. Un buco del mondo dell’apparenza nel quale siamo precipitati, dove a mezzo del sistema della rana bollita, non c’è ragione per interrogarsi in merito alla Tolleranza, in merito alla sua vera natura. Diamo così per scontato di possederne a sufficienza, di poterla applicare con le pennellate dei nostri gesti e delle nostre parole, di essere in diritto di colpevolizzazione di chi non dimostra pari indice specifico. Ma tutto ciò accade dentro quell’edulcorato buco, senza avvederci degli imperativi che ci impone, che è solo teoria e del tutto corrispondente all’immagine ideale di noi stessi. Quella che cerchiamo di farci riconoscere dal prossimo, nella quale amiamo riconoscerci. Che è poca cosa nel computo delle potenzialità umane. Nel buco ci si dimena nel groviglio delle dinamiche che riguardano il dominio dell’io su noi stessi. Ovvero di una volontà emessa dalla vanità, dall’orgoglio, dall’importanza personale. L’io è anche l’utero della generazione dell’altro, come entità separata da noi; della cosiddetta oggettività; e più in generale del dualismo e della sua sussistenza, nonché inconsapevole celebrazione. Il dominio dell’io genera e sostiene i suoi motti di avidità. Non a caso la cultura della competizione, celebrata come naturale, tramandata come insostituibile o anche solo riducibile da valore assoluto a relativo, ne è sufficiente dimostrazione. Sotto il giogo egoico produciamo le ragioni della legittimazione dell’accumulo, quindi quelle dell’avere come minimo comune multiplo della vita. Avviluppati dalla suggestione dell’io, il meglio che possiamo esprimere riguarda la moralità. Questa è tanto più consistente e rappresentativa di noi quanto più siamo in grado di argomentarla dialetticamente. Un processo che implica il Giudizio, il quale castiga o elegge in funzione di quanto sappiamo cognitivamente mettere in campo. Per quanto la questione riguardi e si esaurisca nella dimensione intellettuale, ovvero la più superficiale, la meno incisiva e necessaria alla nostra evoluzione, ne andiamo fieri come i mostruosi Generali di Enrico Baj. Il mondo delle apparenze è soddisfatto. Il buco egoico è saturo, tutto il resto gli è superfluo. In questo ambito, nel nostro ambito culturale, dire tolleranza è richiamare un valore e riferire di ciò che abbiamo capito, di ciò che vorremmo. Sebbene appaia che più di così non si può, non è che il culmine cultural-intellettualistico. Da quelle altezze crediamo si possa guardare in basso con diritto di superiorità. Inebriati di merito, inconsapevoli del processo autopoieutico e quindi autoreferenziale, ci riteniamo in diritto di autocelebrazione. Ci dà diritto di vita e di morte non solo simbolica, allegorica e metaforica, nei confronti dell’altro. È questa la tolleranza che vantiamo, con la quale preferiamo non fare i conti. Il sistema egocentrico di realtà può realizzare solo il succedaneo della Tolleranza. Un prodotto desiderato, considerato acquisito, ma che nasconde in sé il necessario per riconoscere quanto è stato sopravvalutato, quanto è limitato. Ha in sé tutto per essere contraddetto alla prima circostanza utile, alla prima occasione in cui l’importanza personale istintivamente si sveglia e alza la cresta. Il dominio occulto dell’io ci impone identificazioni varie: a ideologie, morali, sentimenti, ruoli, cose. Ce li fa credere nostri. Segreta riduzione del nostro infinito, alla quale rispondiamo convinti e ubbidienti, con la difesa di quanto è nostro e perciò sacro. Il dominio dell’io sugli esseri umani è indispensabile alla loro storia di guerra. Ma tutto ciò significa che il nostro gradiente di tolleranza dipende dal punto in cui ci consideriamo autorizzati ad intervenire per difendere qualcosa di noi, qualcosa che coincide con noi, qualcosa che siamo noi. Dalla trincea di quel punto, nel buco dell’apparenza, combattiamo secondo leggi che, a parole, non avremmo accettato, e che nei fatti avremmo condannato senza se e senza ma, se da altri rispettate. In nome dell’autodifesa la tolleranza diviene neve al sole. Emancipati dalla rete dell’io e dal mondo che ci mostra, il registro cambia. Non c’è più nulla da difendere. Tutto è temporale e transitorio. Tutti siamo identici. Le suggestioni delle identificazioni ci sono ora evidenti e identiche per tutti. Tutti reagiamo o non reagiamo in funzione della dominanza o emancipazione da forze apparentemente esterne, ma che invece generiamo. Non essere più identificati a nulla è non avere più nulla da difendere, è non avere più ragioni per sopraffare il prossimo. È un processo che tende all’invulnerabilità e dunque alla Tolleranza incarnata, realizzata. Quel genere d’essere che viene detto amore incondizionato. Dedicarsi a girare intorno al commento che allora la Tolleranza non è possibile per restarsene nel cantuccio protetto e caldo in cui vivere la nostra rannicchiata vita, significa non trarre materia per evolvere. Per interrompere il tran-tran, per contaminarci con forze che ne rimescolino lo status quo. L’epilogo egoico usa le categorie e le classificazioni separatorie e analitiche che le sono proprie, nelle quali ritiene di poter collocare le parti di realtà che vede. Singole monadi tra loro separate o collegate secondo strumentale necessità. In tali arbitrarie intitolazioni ripone ciò che chiama Conoscenza. Nel nostro caso, come farebbe con un ansiolitico, prenderà dall’opportuna cassettiera in cui ha riposto il vero, il concetto di utopia. Come per l’ansia, modalità utile per risolvere il problema della falsa tolleranza o della tolleranza secondo comodità. Intravedere le forze che agiscono su noi, cogliere quanto e quando siamo capaci di sentirle o meno, prendere le distanze dal nostro giudizio, permette un’esplorazione di sé altrimenti impedita. Permette di arrivare a ricreare l’amore disinteressato di cui alcuni ciarlatani vaneggiano. Intravedere dimensioni sulle quali la cultura non ci ha permesso di soffermarci, è intravedere anche il mondo che contengono. Un mondo dove l’io c’è ma non si burla più di noi. Lorenzo Merlo
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30 Marzo 2021 Da Rassegna di Arianna del 22-3-2021 (N.d.d.) Vedo molti struggersi per un ‘vaccino’, sospirando una salvezza lungamente attesa. Tra i più impazienti gli ultranovantenni e i centenari, in lotta col tempo e la natura ovvia delle cose. Sancta simplicitas! I giornalisti levano cori di prefiche, scandiscono i numeri del contagio con ritmici e funebri canti. I Dulcamara della pandemiologia ufficiale promettono di salvare un’umanità che, si direbbe, rischia l’estinzione. Mi chiedo quale Natura trista e confusa abbia partorito una stirpe d’uomini tanto derelitta; se le sue dita abbiano tremato mentre ne plasmava le coscienze o se abbia diluito troppo i colori con cui ne ha dipinto le anime. Ora che per legge non posso più avvicinarmi alle persone o toccarle, mi sto convincendo che siano solo ombre, fantasmi. Mi stupisco perciò che abbiano tanta paura di ammalarsi o di morire. Qualcuno mi incolperà per questo d’esser disumano. Dovrò quindi discutere la vexata quaestio: cos’è umano? Mostrare umanità significa per noi esseri buoni, gentili, comprensivi. Pare quindi che la malvagità, la crudeltà, l’insensibilità non siano prerogative umane. Ma, lasciati alle loro inclinazioni, molti uomini si comportano in modo brutale. Nell’uomo v’è uno strano miscuglio di bontà e malvagità. Da un lato, può giungere a livelli di crudeltà che nessun animale potrebbe eguagliare. D’altro canto, quando l’affetto ci lega a qualcuno, diventiamo spontaneamente buoni e comprensivi nei suoi confronti, pronti anche a grandi sacrifici. In certe comunità, come la “Società degli amici” formata da quaccheri, tutti sembrano uniti da vincoli di fraterna solidarietà. Amare il prossimo come sé stessi certo eliminerebbe le nostre tendenze asociali. Purtroppo l’amare qualcuno non dipende dalla volontà come sollevare un braccio o chiudere un occhio. Confucio, molto prima di Cristo, formulò una massima aurea: “non fare agli altri ciò che non vorresti gli altri facessero a te”. Questa disposizione benevola e reciproca tra gli uomini, racchiusa nel concetto di ‘umanità’ (ren), sta alla base dell’etica confuciana e della sua società ideale. Kant, in tempi più vicini a noi, ci propone imperativi categorici, che vincolino l’uomo alle sue responsabilità verso il mondo. In realtà è ingenuo credere di poter educare l’uomo all’amore del prossimo imponendogli una sorta di identificazione o empatia artificiosa, come vorrebbero i confuciani e altri uomini volonterosi. Difficile anche subordinare le nostre azioni a una critica kantiana, sforzandoci di capire se possano venir prese a modello universale. Un’educazione a base di obblighi e divieti incoraggia l’uomo a mentire e a simulare; lo mortifica, fa di lui un essere bidimensionale, inaridisce le parti più profonde e succose della sua umanità. A questa umanità confuciana – puritana o kantiana – fatta di razionalità e moralità, Lao-tse contrappone l’idea di una Natura meravigliosa e terribile da cui l’uomo dipende: “Il Cielo e la Terra non hanno umanità, considerano gli esseri come cani di paglia. Il saggio non ha umanità, considera gli uomini come cani di paglia”. Per comprendere la metafora occorre sapere che nell’antica Cina, in occasione di cerimonie funebri, si utilizzavano cani di paglia come offerte sacrificali. Accuratamente addobbati e trattati con grande rispetto, tali simulacri venivano infine calpestati o bruciati. Il senso sembra essere che la Natura non è benevola verso le sue creature. Ne intreccia pazientemente i fili, dà loro una forma, le riveste riccamente e le sostiene, ma infine le riporta con cinica indifferenza a uno stato di non-essere. Questa interpretazione mi pare non cogliere il segno. Non si accusa qui la Natura di aver introdotto la morte nei suoi disegni o di non avere compassione. Si vuol piuttosto indicare l’armonia sovrumana che regna nei suoi processi di creazione e dissoluzione. Nella Natura v’è una saggezza inattingibile all’uomo. È quindi assurdo che l’uomo pretenda di dominarla o di sottrarsi alle sue regole. Il fatto che si alluda a un rito religioso sembra implicare che i “cani di paglia”, ovvero gli esseri creati, sono espressione di una trascendenza. […] Anche il Saggio taoista può apparire privo di umanità, ma solo perché ne trascende le forme convenzionali. Si pone oltre l’umanità, ma non per questo diviene disumano. Se gli vengono affidate mansioni di governo, vi adempie in conformità alla Norma universale. Questo comporta un atteggiamento politico per noi paradossale. Il Tao, a differenza del Dio giudaico, non comunica con gli uomini attraverso la forza, il comando, il rigore, ma con la ‘debolezza’ ossia la flessibilità. Egli dà forma alle creature, le nutre, le sostiene, e al termine del loro ciclo vitale le riassorbe in sé, ma non le domina. Lascia che esprimano liberamente la loro natura. Così il Saggio non impone agli uomini leggi opprimenti o tributi esosi, non moltiplica i decreti, non fa violenza alla loro natura, ma li governa con mano leggera, con tocchi quasi inavvertibili. Le leggi della Natura cui si ispira non sono infatti una tirannide, un sistema coercitivo e deterministico, ma un Ordine sapiente in cui si radica la realtà degli esseri. Sono come le regole di armonia o di sintassi che non vincolano il musicista o il poeta ma sono invece condizione della libertà, strutture necessarie ad ogni atto creativo. Analogamente, l’amministrazione di uno Stato ideale, governato secondo le leggi dello Spirito, non deve ostacolare il naturale sviluppo dell’umanità ma garantirgli un habitat favorevole. Dividere e rendere antagonisti Spirito e Natura è stato forse uno dei nostri errori più funesti. Al contrario, in questa prospettiva ‘naturale’ e ‘spirituale’ si fondono, appaiono dimensioni complementari dell’essere, in mutuo rapporto, come l’esteriorità e l’interiorità della nostra esperienza. La Natura, fluendo dalla Sorgente metafisica del Tutto, è la spontanea manifestazione di una forza spirituale. Così anche la natura dell’uomo è un riflesso dell’infinito. Il Tao, il Cielo, la Terra e l’Uomo sono aspetti diversi e gerarchici di un’unica Realtà libera e creativa. […] La ricchezza dei paramenti di cui il cane di paglia è ricoperto evoca per altro il nostro intimo legame con la Bellezza. È impossibile concepire la vita umana priva di quell’impulso fondamentale detto Amore o Eros. Ma l’uomo può amare veramente solo ciò che è bello. Perciò ogni uomo, secondo la sua sensibilità, cerca la Bellezza. La vuole godere, creare, condividere. Non è un accessorio ornamentale cui si rivolge quando i suoi bisogni fisici sono soddisfatti, ma l’orizzonte del suo desiderio più radicale. Essenza e scopo della vita è l’estasi, anche se i più sembrano averlo dimenticato. Il Cielo e la Terra dispiegano un’infinità di forme meravigliose. Un tramonto, un fiore, un canto di uccelli, la livrea variopinta di certi pesci; chiunque sia dotato di cuore può vedere quanta bellezza sia profusa nell’universo. L’emozione estetica che l’uomo prova di fronte a una notte stellata non produce alcun vantaggio biologico. È la contemplazione disinteressata di un’Arte suprema, che ha la sua ragion d’essere in sé stessa e non serve a nulla. Il saggio governante dovrebbe quindi incoraggiare la libera creatività dell’uomo e la sua spontanea tendenza verso la realizzazione di forme estetiche. Idea che suona paradossale in un’epoca come la nostra, dominata da un utilitarismo che crea solo banali comodità, bruttezza e schiavitù. La causa di tale declino è certo da ricercare nell’abbandono di autentici valori spirituali. Il bello è una qualità, mentre oggi il mondo sembra dipendere solo dalla quantità, da valori numericamente definibili di cui il denaro è il simbolo più potente e suggestivo. Questo ottundersi della sensibilità estetica ha comportato una parallela degenerazione dell’etica, perché valori come la dignità, la lealtà, la nobiltà, la compassione ecc., hanno le loro radici nella bellezza di un gesto e di un sentimento, nella sua interiore qualità molto più che nella quantità di effetti utili che ne derivano. Il mondo tecnocratico, plutocratico e scientista in cui oggi viviamo, con la sua riduzione ontologica dell’uomo a mera rotella di ingranaggi produttivi e di meccanismi fisiologici, ha prodotto un’eclissi del Bello. Sotto le parvenze del progresso e dell’‘umanità’, la società del profitto opera la rimozione sistematica di ogni “splendore del vero”. Il potere di guidare gli uomini è nelle mani di persone che non hanno più alcuna comunione col Cielo e la Terra. Dietro la politica si nasconde la tirannia di forze economiche e finanziarie, nemiche di ogni trascendenza che non sia quella del denaro. Perciò oggi la politica sta soffocando la naturale libertà umana, con leggi che sono espressione di una deforme meschinità. Torno così al punto da cui sono partito, l’ipocrisia dell’attuale emergenza sanitaria e la falsità del suo esibito umanismo. “Bisogna proteggere i nostri anziani” si dice, e non v’è francamente nulla in questa affermazione che non suoni ‘umano’ e buono. Lascia però perplessi questo anelito quasi faustiano, questa velleità di impedire a persone vecchie e malate di morire. Non si capisce come una pretesa tanto assurda possa giustificare lo sfascio di intere nazioni e l’impoverimento di milioni di persone. Pare che, tutelando i tessuti vecchi di una popolazione, si voglia evitare una tragedia umanitaria, mentre in realtà la si provoca. La morte di ultraottantenni malati non rappresenta infatti alcuna minaccia per la società, per la cultura, per l’arte, né contraddice in alcun modo i valori fondanti di una civiltà. È anzi un evento, oltre che inevitabile, necessario. Rientra in un disegno armonico che consente lo svolgersi di sani processi sociali e naturali. È umano rispettare e curare un vecchio, ma che la vecchiaia si aggrappi ferocemente alla vita, avocandola a sé con arroganza, come un diritto inalienabile, è follia. La morte dei vecchi fa parte di un lutto privato che tutti prima o poi dobbiamo soffrire. Non è una catastrofe collettiva ma un normale flusso generazionale. Catastrofico è decretare norme sanitarie che, per proteggere una piccola percentuale di popolazione vecchia e malata, provocano il disfacimento e la necrosi dei tessuti operosi, creativi, giovani e sani della società. Lasciamo dunque che i vecchi muoiano, com’è giusto, e ritroviamo gli equilibri naturali della nostra umanità. Ovvero, sanifichiamo le anime prima che gli ambienti. Si vive per creare Bellezza, per manifestare su questa terra la forza dello spirito, non per ridursi a larve dell’essere, soggiogati dalla paura di un virus. V’è, nella paura di morire, una sottile linea di confine che separa un sentimento giusto e naturale da una viltà vergognosa. L’abbiamo superata, e l’angoscia della morte è diventata paura di vivere. Non è più la qualità dei nostri pensieri e delle nostre azioni che dà senso all’esistenza ma la quantità di tempo biologico che ci rimane. Pergolesi morì a 27 anni, Shelley a 29, Évariste Galois a 20. Se esistesse un vaccino che debella ogni epidemia, una panacea universale, e se per averlo dovessi sacrificare lo Stabat Mater di Pergolesi, le poesie di Shelley o gli scritti matematici di Galois, mi terrei epidemie e malattie. Lo stesso farei se il prezzo di quel vaccino fosse la libertà degli uomini. Non ha senso sacrificare la bellezza e la libertà per allungare la vita, perché la vita, senza libertà e bellezza, non ha senso. Per altro, è chiaro che il vero obiettivo dell’attuale isteria sanitaria non è geriatrico; lo scopo di questa interminabile pantomima non è certo difendere i vecchi. È una recita organizzata per il diletto di banche e multinazionali, questi gonfi tumori dell’umanità, che nella loro crescita smisurata stanno divorando ogni altro valore che non sia quello del denaro e del potere. A loro l’uomo piace così: un automa programmato e obbediente, mosso da stimoli meccanici. […] Fagocitato da processi produttivi, sacrificato in brutali competizioni, ingannato da miraggi democratici e umanitari, vittima delle propagande di regime, divorato dall’insignificanza della vita, avulso dalla natura e dalle sue radici spirituali, colpito come artista e poeta da una impotentia generandi; conformista, moralista, omologato, anzi, omogeneizzato mediante la triturazione dei suoi pensieri e delle sue emozioni, ridotto a una poltiglia psichica; costretto a reggersi sulle opinioni di media, di esperti di vario genere, di politici o di intellettuali, come su protesi intellettuali, surrogati di una coscienza e di un’anima. Se questa è l’umanità che ci attende, preferisco non essere umano. Ci siamo alienati da quell’idea di Uomo che vien prima e conta assai più dell’uomo biologico. Quest’Uomo universale, che io vedo in controluce attraverso le sue manifestazioni individuali, è un essere che crea Bellezza, dà un Senso alle cose, erige Civiltà. Ma il virus della banalità ontologica lo infetta, provoca in lui sindromi gravi e contagiose. Lui dovremmo proteggere e curare, per lui dichiarare un’emergenza sanitaria, approntare reparti di terapia intensiva. I nostri governanti dovrebbero studiare misure per difenderlo non da un’influenza stagionale ma da una secolare decadenza. Se sono disumano, dunque, è solo perché ho nostalgia dell’uomo. Meglio essere antichi e dignitosi cani di paglia che i grotteschi esemplari di una specie decaduta. Questa è oggi la tragica alternativa tra umano e disumano. Essere partecipi di un sacrificio cosmico, intrecciati di stoffa divina, rivestiti coi sacri finimenti della Bellezza, oppure gli ignari cani di paglia di un Moloch bancario, immolati in una sordida cerimonia medico-scientifica. Non importa se in fondo alla via, a rito concluso, saremo distrutti. Rientreremo tutti nel grande crogiuolo della vita. Alcuni come esseri liberi altri come schiavi. Livio Cadè
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29 Marzo 2021 Da Appelloalpopolo del 22-3-2021 (N.d.d.) Byung-chul Han, filosofo coreano che vive da tempo in Germania e insegna a Berlino, ha da poco pubblicato un libriccino tradotto in Italia da Einaudi, La società senza dolore. La tesi sostenuta dall’autore, benché piuttosto semplice in sé, viene sviluppata con acutezza e profondità di visione, ed è questa: la società contemporanea è dominata da un’algofobia che consiste tanto nella paura della sofferenza fisica e psicologica quanto nella vergogna di provare l’esperienza del dolore, perché essa confligge frontalmente con gli imperativi categorici della performance e del successo. Una civiltà fondata su tali basi rigetta i tempi lunghi, la pazienza, i vincoli comunitari forti (quelli amorosi, ad esempio), che possono anche far soffrire e che soprattutto, sottolinea Han, presuppongono una sorta di fragilità, di ribollente infirmitas originaria, letteralmente impresentabile agli occhi della fredda società senza dolore. Questa tendenza evidentemente de-realizzante scivola nel progressivo distanziamento sociale e travolge la cultura, i cui prodotti “devono assumere una forma che li renda consumabili, cioè compiacenti”, dunque immuni dallo sconcerto primordiale e dall’inquietudine che da sempre generano l’eroismo del pensiero. Senza dolore non si dà catarsi e senza catarsi non c’è arte né sapienza. Τῷ πάθει μάθος, dice Eschilo: la conoscenza proviene dalla sofferenza. E approda alla gioia, alla liberazione. Mentre la società premoderna e quella disciplinare hanno mantenuto un rapporto stretto con il dolore (sia pure in termini diversi: l’una esaltando il martirio, l’altra circoscrivendolo in spazi chiusi come il carcere, la caserma e la fabbrica), nel regime algofobico-analgesico-palliativo questo legame va in frantumi. Han ritiene che fenomeni tipici del nostro tempo come la medicalizzazione e l’abuso di farmaci siano da leggere proprio come espressioni della perversa volontà di sopprimere una volta per tutte la sofferenza. Ma in modo analogo è possibile interpretare anche l’apparente “leggerezza” del nuovo Potere, diventato smart, come scrive Han. Oggi il Potere non opprime, seduce; può coartare, fino a comprimere le libertà personali democratiche, ma con il pretesto di proteggere da virus reali e metaforici l’esistenza biologica delle persone. Se è vero che il dolore viene eliminato perché non si trasformi in contestazione dell’ordine neoliberale, ne deriva, paradossalmente, che la soglia di tolleranza si abbassa di giorno in giorno: la resistenza è una facoltà che va atrofizzandosi a vantaggio della ben più morbida resilienza, e ciò preannuncia l’avvento di un’inquietante “era postumana” nella quale il dolore e la noia verranno completamente sradicati grazie alle biotecnologie. Negli anni Sessanta Caillois descriveva così le funeral home, le “sale del commiato” oggi note anche in Europa ma a quell’epoca diffuse soltanto negli Stati Uniti: “L’atrio è rallegrato da una gran quantità di piante verdi; un salotto gradevolmente se non lussuosamente arredato accoglie il visitatore. Arazzi, statue, soprammobili, fiori freschi nei vasi sembrano avere il compito di rassicurarlo e di metterlo a suo agio: si tratta, dicono, di vincere il dolore con l’ammirazione. Si cerca di distogliere i presenti da ogni sensazione di tristezza e di macabro”. A ben vedere, la civiltà analgesica si sviluppa proprio da questa abnorme, paralizzante rimozione della morte (frutto della reazione uguale e contraria ai lunghi secoli egemonizzati dalla sua onnipresenza); è lo stesso atteggiamento che si ritrova all’origine del paradigma immunitario caratteristico della modernità e che la narrazione sull’attuale pandemia alimenta senza tregua: “nella preoccupazione esclusivamente rivolta alla sopravvivenza”, osserva Han, “noi siamo uguali al virus (…) che si limita a moltiplicarsi, quindi a sopravvivere, senza vivere”. La società senza dolore umilia l’uomo e ne annichilisce la dignità, vanificando quelle aspirazioni individuali e collettive alla grandezza che trovano compimento nel confronto a viso aperto con la realtà ineluttabile della nostra finitezza. Giampiero Marano
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28 Marzo 2021 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/poeti dettatori.jpg)
Da Rassegna di Arianna del 25-3-2021 (N.d.d.) “A cosa servono i poeti?”. Questa domanda, che oggi ha il sapore di un interrogativo adolescenziale che uno studente di liceo potrebbe porre all’insegnante di lettere o durante una chiacchierata tra amici, Martin Heidegger la riteneva così essenziale da farne il titolo di un suo testo fondamentale, non a caso scritto nel 1946, e confluito poi nella raccolta intitolata Sentieri interrotti (o erranti, a seconda del traduttore di Holzwege), quella della svolta (Kehre) con cui il filosofo tedesco si apprestava a sfidare, accompagnato dai versi di Rainer Maria Rilke e, soprattutto, di Hoelderlin, la crisi della metafisica occidentale e il diffondersi del nichilismo. Naturalmente “i poeti” cui si riferiva il grande pensatore non è chiunque si diletti a verseggiare, in rima o liberamente, ma quelli in grado di esplorare, con la forza delle proprie parole, le profondità del linguaggio, inteso come luogo dell’Essere, e di arrischiarsi fino al punto di squarciare per un attimo il velo che copre il mondo, ponendo il lettore (o l’uditore) sulle tracce di quegli dèi che lo hanno ormai abbandonato. Insomma, Heidegger intende quella particolare e rarissima categoria di poeti che egli chiama dettatori e che, con la forza delle immagini che rappresentano attraverso le parole, ordinano l’universo, perché in fondo lo pensano. E in effetti sono costoro che danno origine alle civiltà: da Omero sgorga la tradizione europea, Virgilio formalizza la latinitas, Goethe fonda la nazione tedesca moderna e l’elenco potrebbe continuare, ma i dettatori non svolgono una mera funzione politica, agendo con la forza del loro dettare sui popoli che utilizzano la loro stessa lingua, costruiscono addirittura vere e proprie cosmogonie dal valore universale: dis-velano la Luce e la Verità. E l’interrogativo heideggeriano, con i complessi significati che dischiude, ci trascina inevitabilmente a riflettere su Dante Alighieri, forse il più consapevole, tra i dettatori, della potenza della sua Arte. Dante codifica una Lingua, concepisce una Nazione, definisce un’Assiologia, legittima un’Ideologia (quella imperiale), cesella un Capolavoro artistico, ma soprattutto conduce sé stesso, e noi con lui, all’incontro con ciò che è primigenio. Non è un caso che l’intera impalcatura teologica della Chiesa Cattolica negli ultimi settecento anni, sia nel confronto tra i sapienti, sia nella rappresentazione popolare dell’Aldilà, non abbia potuto prescindere da quanto racchiuso nella Divina Commedia. Quello che ci racconta Dante, in migliaia di endecasillabi in terzine incatenate, è un vero e proprio Pellegrinaggio, come ben comprende chi abbia intrapreso un’impresa del genere e abbia al tempo stesso riflettuto sul fatto che, alla fatica e al progressivo rafforzamento fisico e biologico che un cammino condotto a piedi nel corso dei giorni e delle settimane produce, corrisponde una lenta ma inesorabile trasformazione e progressione spirituale. Un viaggio interiore, che dalla ricerca e dall’adagiarsi nei ricordi più lussuriosi e peccaminosi volti ad alleggerire la sofferenza degli sforzi dei primi giorni di marcia, conduce lentamente, man mano che il fisico si allena e acquista vigore, prima a una più meditata riflessione intellettuale sulle cose del mondo e poi alla ricerca del senso autentico, trascendente, mistico a cui deve condurre alla fine l’itinerario intrapreso: l’apertura dello sguardo sull’Ineffabile. A questo innanzitutto “servono i Poeti” e tanto più oggi, mentre, come dice Agamben, la casa brucia, le nostre certezze crollano e la preoccupazione per la pandemia e le misure prese per contrastarla sembrano volerci ridurre alla nostra sola matrice biologica, la cui salvaguardia medicale dovrebbe essere l’unico fine delle nostre azioni. Come se la Vita non fosse molto altro, non fosse innanzitutto Rischio (più o meno grande) per cogliere ciò che di Bello c’è nel mondo. Un mondo divenuto indigente, per dirla ancora con Heidegger, proprio perché gli dèi e il Dio sono fuggiti, proprio perché tutto sembra ridursi alla paura e all’assurdità di voler scansare ad ogni costo la morte incombente: come se la Morte non incombesse sempre su di noi, essendo consustanziale alla Vita, completandola. Insomma, ricordando Dante nei settecento anni dalla sua scomparsa, avvertiamo l’assenza dei dettatori e comprendiamo che ne avremmo bisogno, se non proprio perché vorremmo seguire le loro tracce in un’epoca così indigente da non essere più in grado nemmeno di notare la mancanza di Dio come mancanza, almeno per rendercela più sopportabile e meno spaesante, esteticamente gradevole, con un po’ di smalto sul nulla. Alessandro Sansoni
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Resilienti cioè arrendevoli |
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27 Marzo 2021 Da Appelloalpopolo del 25-3-2021 (N.d.d.) La parola resilienza è una bella parola? Per capirla meglio, ho letto varie definizioni e spiegazioni e sono giunta alla conclusione che non è una bella parola e che viene evocata con insistenza perché rispecchia i disvalori della società attuale. Se per resilienza intendiamo la capacità di assorbire le difficoltà e risollevarsi, è giusto che se ne occupi la psicologia, per aiutare l’individuo a rafforzarsi. Ma la società non va indirizzata verso la resilienza. La psicologia spiega che serve per trovare dentro di sé la forza di trasformare un momento di crisi in opportunità. Questo mi fa innanzitutto pensare alla colpevolizzazione che dall’alto viene fatta di chi è rimasto indietro. Quante volte abbiamo letto sui giornali esempi “esaltanti” di chi, caduto in disgrazia, grazie alla sua bravura si è rialzato riuscendo a stare meglio di prima! È un tranello. Non è sempre così, in un paese in difficoltà. Ed induce chi vive in condizione di privilegio, a crogiolarsi nella convinzione di esserselo meritato. Quindi il primo disvalore collegato con la resilienza è l’interpretazione distorta che viene data della realtà da parte della politica, che invece di dare il necessario sostegno, nei momenti di crisi, scarica le responsabilità sugli individui. L’altro disvalore, implicito, è il darwinismo sociale. Oggi, riprendendo il concetto di distruzione creatrice di Schumpeter, viene detto che le imprese in difficoltà devono essere “accompagnate alla chiusura”. Questo si concreta nel ripudio di un “assistenzialismo” penalizzante per i suoi costi, che va sostituito con la distruzione, generatrice di nuove opportunità. Si propende per criteri selettivi-restrittivi degli aiuti e si profila il ripristino micidiale del Patto di stabilità. Gli italiani verranno convinti che sia un male necessario cui la società, resiliente, si dovrà adattare. Chi avrà le capacità di “reinventarsi” si salverà. Il concetto di resilienza è collegato a quelli di “flessibilità” e di “formazione permanente”, tanto auspicati per il mondo del lavoro. Per essere resiliente, infatti, devi saper assorbire l’urto e adattarti flettendoti (piegandoti) e devi essere sempre pronto a sfruttare ogni possibilità lavorativa con un processo continuo e senza fine di apprendimento (vita lavorativa precaria). In questo periodo di regressione dei diritti, la società non deve assorbire gli urti e piegarsi. Anzi occorre resistere lottando palmo a palmo contro le ingiustizie imposte da chi ci vorrebbe resilienti e cioè, in realtà, arrendevoli. Claudia Vergella
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