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L'arca dell'oligarchia PDF Stampa E-mail

10 Gennaio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 7-1-2024 (N.d.d.)

La più stupida tra le panzane diffuse dal sistema è che i suoi oppositori siano complottisti, paranoici che inventano intrighi e cospirazioni, convinti per debolezza mentale che dietro ogni evento si celi la manona invisibile di una Spectre planetaria. Non che manchino soggetti del genere, ma la verità è che non esiste alcun complotto o macchinazione. Azioni, obiettivi, strumenti, agenti del potere sono sotto gli occhi di tutti. Assomigliano a un giochino della Settimana Enigmistica, la pagina bianca con puntini che sta al lettore unire per comporre l’ immagine. I nostri “superiori “ ci dicono tutto: sta a noi mettere insieme fatti e parole.

Già negli anni Cinquanta del secolo passato, all’alba della rivoluzione tecnologica, Gunther Anders scriveva che l’uomo è antiquato. La sua intelligenza non era più in grado di tener testa alle innovazioni tecnologiche, a scoperte rispetto alle quali si rivelava l’inadeguatezza dell’homo non più tanto sapiens. Anders chiamava “dislivello prometeico” il fossato che si andava allargando tra l’uomo e la macchina. A decenni di distanza appare chiaro il disegno di trascendere l’uomo sino a sostituirlo con l’apparato artificiale. Robot, nanotecnologie, l’auge dell’Intelligenza Artificiale, il cyberuomo ibridato con la macchina, sono realtà. Difficile, per molti, afferrare il senso di tale gigantesca riconfigurazione, il reset più grande, definitivo.

L’ideologia delle élite non è soltanto il liberismo globalista tendente alla privatizzazione del mondo e all’unificazione planetaria sotto il dominio di un’oligarchia padrona di tutti i mezzi. Il vero obiettivo è il transumanesimo, ovvero la volontà di superare la creatura uomo cambiandone irrevocabilmente la natura biologica. Chi scrive ha analizzato tutto questo in un libro, “L’uomo transumano”- uscito da poco, edito da Arianna Editrice- il cui sottotitolo, La fine dell’uomo, è stato oggetto di un contrasto con l’editore. Avremmo preferito il punto interrogativo per dare speranza, indicare una possibilità, lasciare aperta la porta alla confutazione. Dobbiamo dar ragione al marketing: davvero, la fine dell’uomo – homo sapiens sapiens , la specie a cui apparteniamo, è vicina. Ce lo dicono con chiarezza i portavoce dei padroni universali. L’uomo antiquato di Anders è ormai “inutile”, parola di Yuval Harari, intellettuale di riferimento e portavoce del Forum di Davos, transumanista, autore del best seller “Homo Deus”, il cui titolo è un preciso programma ideologico. Harari è egli stesso un prodotto transumano: uomo di fiducia dei signori del mondo, israelo-americano, ateo, omosessuale (l’umanità rovesciata, sterile…). È uno di quelli che la cupola incarica di elaborare idee e diffondere all’uomo antiquato, a piccole dosi e in maniera mirata, il verbo dei superiori. Dobbiamo abituarci. Peggio per noi se non capiamo: loro ci hanno messi al corrente. L’homo deus, che rifà la creazione imperfetta e si mette al posto di Dio, della natura o dell’evoluzione – vecchia , risorgente utopia gnostica – non siamo noi. Sono “loro”, gli illuminati, che si arrogano non solo la direzione dell’umanità, ma addirittura la proprietà degli umani. In una recente intervista al medium svizzero Uncut-news.ch Harari ha sganciato la bomba definitiva, se abbiamo ancora gli strumenti cognitivi per riconoscerla: l’uomo comune- gran parte dell’umanità- è “inutile”. Dunque, occorre liberarsene. L’immagine che usa è biblica: “quando arriverà il diluvio, l’ élite costruirà l’Arca di Noè e la classe inutile ( io, voi, amici, figli e nipoti) affogherà”. Paranoia, indizio di problemi psichiatrici? No, se la voce è di uno dei grilli parlanti di Davos, tradotto in tutte le lingue per educare la transumana futura umanità. Così parla Harari, il tecno-Zarathustra. “Il mondo sta attraversando un profondo cambiamento: l’intelligenza artificiale sta ricoprendo un ruolo sempre più importante. Che impatto ha questo? L’idea che gli esseri umani abbiano un’anima o uno spirito e un libero arbitrio è finita.” Non conosciamo alcun materialismo più assoluto, gelido e disumano di quello distillato dai ventriloqui di lorsignori. Prevedono (o sanno…) che l’umanità sarà divisa in caste biologiche. Invece di un’unica umanità, ci saranno diverse. Il risultato è che la maggior parte delle persone diventa “economicamente inutile” e “politicamente impotente”. I nostri padroni ci chiamano “inutili”, ovvero non utili; non serviamo ai loro scopi, gli unici degni di essere perseguiti. Utilità declinata in senso unicamente economico: braccia da sfruttare, cervelli da spremere. Fine: hanno i robot, le Chatbox dell’Intelligenza Artificiale. A che serve l’obsoleto, malaticcio, lamentoso essere umano, titolare di “diritti” da loro stessi proclamati ? Solo a inquinare Gaia, pianeta di loro proprietà. “Stiamo già vedendo i primi segni di una nuova classe di persone, la classe inutile, coloro che non hanno competenze da utilizzare nella nuova economia.” Non c’è che da liberarsene sopprimendole. “Ora sta iniziando la rivoluzione dell’intelligenza artificiale, creando una classe senza utilità militare o economica e quindi senza potere politico.” Poiché non c’è bisogno delle nostre braccia e del nostro cervello – il mio, il vostro – secondo Harari dobbiamo mantenerci felici con droghe e giochi per computer. No, grazie, all’incultura dello scarto.

La profezia è precisa. “Quando arriverà il diluvio, gli scienziati costruiranno un’arca di Noè per l’élite e il resto annegherà”. Il diluvio potrebbe essere una guerra nucleare – le premesse ci sono – o una nuova pandemia. Le prove hanno funzionato benissimo e l’Organizzazione Mondiale della Sanità avrà presto poteri diretti sugli antiquati Stati nazionali. Oppure una carestia, che l’occidente suicida prepara vietando coltivazioni e allevamento con l’alibi del mutamento climatico. La regione Emilia Romagna paga i contadini per non lavorare i loro terreni. Il diluvio è sotto forma di pioggerella costante: l’appello alla sessualità compulsiva ma sterile (omosessualità, ideologia gender), la diffusione di modelli di vita da cui sono esclusi i figli, cioè la trasmissione della vita. In questi giorni la “fluida” segretaria del PD, portavoce delle magnifiche sorti e progressive, si è pronunciata contro il desiderio di maternità. Con grande enfasi viene celebrato un futuro in cui gli esseri umani (superstiti) non verranno più concepiti e partoriti in modo naturale. Il transito al di là dell’umano viene presentato come liberazione della donna. Per l’uomo, più inutile che antiquato, arriva la pillola che sterilizza. Altro progresso: ecco un modo per vivere in modo nuovo le relazioni sessuali e sentimentali. La pioggia diventa alluvione nelle parti di mondo più avanzate. Avanzate verso la fine… Viene imposto un nuovo diritto capovolto: non più diritto alla vita, ma alla morte di Stato, per malati, anziani, depressi, poveri. L’esercito degli inutili deve avviarsi sereno al suo annientamento, calmo, composto: è per il suo “migliore interesse”, come vietare le cure alla piccola Indy. Se il nostro interesse è stabilito da qualcun altro, non siamo liberi e abbiamo perduto la proprietà di noi stessi, corpo e anima. Questo vogliono i danti causa di Harari. Pensiamoci. Soprattutto, liberiamoci dei dispositivi mentali che rendono egemone l’accettazione pregiudiziale di ogni cambiamento, il determinismo positivista-idealista secondo il quale la storia volgerebbe inevitabilmente verso il progresso e ogni trasformazione sarebbe un’evoluzione positiva. Come tutto ciò si concili con l’inutilità della maggior parte dell’umanità, chiamata a estinguersi perché inservibile nel sistema trans e disumano voluto dall’alto, è al di là della nostra comprensione. Pensiero magico creduto per ripetizione e abolizione del giudizio critico.

Per Harari e per il Dominio l’umanità è un “algoritmo obsoleto”. Dopotutto, qual è la superiorità degli umani sulle galline, afferma il teorico degli uomini inutili, se non che in noi l’informazione fluisce secondo schemi più complessi? Le galline processano più informazioni visive di noi uomini, ma non dipingeranno mai la Cappella Sistina. Sgomenta la deriva anti umana di tendenze e convinzioni le cui conseguenze sono nichilismo e meccanicismo. Ogni ordine, verità, bellezza, è una costruzione sociale, la persona umana non è che una serie di algoritmi contenuti in una massa biochimica. Dunque, la vita diventa disponibile, modificabile. Di manipolazione in manipolazione, di manomissione in manomissione, l’uomo diventa altro da sé in un percorso continuamente in fieri: il transumano sfocia nel postumano e nell’antiumano. Secondo la vulgata transumanista entro cinquant’anni gli umani “faranno tutti parte di una rete con un sistema immunitario centrale.” Segue la minaccia: “non potrete sopravvivere se non sarete connessi.” L’oligarchia sarà una specie di Dio e l’homo sapiens perderà il controllo della sua vita. Continua è la ripetizione del mantra elitista dell’ eccesso di popolazione da combattere. “Loro” preparano il diluvio e ci avvertono. Nel frattempo, devono convincere che è per il nostro bene. Harari afferma in “Da animali a dèi” che “non sembra esserci alcuna barriera tecnica insormontabile che impedisce di produrre superumani. Gli ostacoli principali sono le obiezioni etiche e politiche che hanno rallentato il ritmo della ricerca umana. E per quanto convincenti possano essere le argomentazioni etiche, è difficile vedere come possano resistere a lungo al passo successivo, soprattutto quando la posta in gioco è la possibilità di prolungare indefinitamente la vita umana, sconfiggere malattie incurabili e migliorare le nostre capacità cognitive e mentali”. L’esca è la salute, ma l’obiettivo è la morte.

A Davos, montagna incantata della transumana Agenda 2030, così si è espresso Harari: “la scienza sta sostituendo l’evoluzione per selezione naturale con l’evoluzione attraverso un disegno intelligente. Questo non è il disegno intelligente di qualche Dio che sta al di là delle nuvole (clouds), ma è il NOSTRO disegno intelligente, delle nostre nuvole (i clouds informatici, N.d.A.), i clouds di IBM e di Microsoft. Queste sono le nuvole che guideranno la nostra evoluzione”. Gli applausi scroscianti dei presenti – tutti membri di primo piano delle oligarchie economiche, finanziarie, tecnologiche e politiche – mostrano qual è il pensiero dominante, il materialismo greve da cui è animato, il delirio di onnipotenza convinto di avere detronizzato e sostituito Dio.

Per la cupola di potere, ubriaca di hybris, la transumana futura umanità, diversa antropologicamente e ontologicamente dalla vecchia, ha bisogno di una drastica sfoltita. Harari, ha il pregio della franchezza. La maggior parte delle persone è “inutile”, non più “necessaria”. Siamo obsoleti, eccedenti, un impaccio da risolvere. Corre un brivido lungo la schiena. “Semplicemente non avremo più bisogno della stragrande maggioranza della popolazione, perché il futuro prevede lo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate, come l’intelligenza artificiale [e] la bioingegneria.”

Coloro che non trovano più lavoro a causa dell’avanzare dell’automazione non apportano alcun beneficio alla società, non servono più , non fanno parte del futuro. Raggelante. Il valore della persona umana, per l’élite transumanista, consiste solo nella sua utilità economica. L’uomo è un animale con un’intelligenza più raffinata, un essere esclusivamente biologico-corporeo che si può manipolare, selezionare, modificare geneticamente, ibridare e infine abbattere per eccesso di “capi di umanità”. Anche i “diritti umani” orgoglio dell’uomo occidentale, sono sconfitti. Si tratta, per i transumanisti, di miti privi di senso a livello biologico, una storia inventata, una narrativa, come Dio, il diritto alla vita, alla libertà e così via. Per quanto importanti in determinati contesti storici, diventeranno del tutto insignificanti. L’agenda del Grande Reset (grande cancellazione…) non è che l’attuazione progressiva di un governo mondiale tecnocratico basato sul superamento dell’umano (solve) e la creazione di un mondo del tutto nuovo (coagula), in cui è la macchina a dominare sull’umanità.

Le parole di Yuval Harari in Homo Deus sono esemplari. “Oggi l’umanità è pronta a sostituire la selezione naturale al disegno intelligente e ad estendere la vita oltre l’organico, nel regno dell’inorganico. Invece dell’uomo che crea nuova tecnologia, la tecnologia crea nuova umanità”. E la distrugge in quanto inutile per i disegni di alcuni pazzi padroni di tutto. Se ci piace, continuiamo a tacere o a pensare che non ci riguardi. Se ci fa paura, come è normale, non facciamo gli struzzi nascondendo la testa sotto terra. Costruiamo l’arca degli uomini, cacciamo chi ci vuole morti e ce lo dice senza vergogna. In caso contrario avranno ragione loro: l’ homo sapiens non meriterà di sopravvivere.

Roberto Pecchioli

 
Antropologia del dono PDF Stampa E-mail

7 Gennaio 2023

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 Da Rassegna di Arianna del 4-1-2024 (N.d.d.)

“Un nuovo paradigma sociale. Natura umana e teoria politica in Jean-Claude Michéa” (Meltemi, 2023) è la fatica tramite cui Bianca Fazio ricostruisce il pensiero del filosofo francese e la sua critica al liberalismo. Lungi dal renderci una scialba e asettica introduzione, l’Autrice discende nella costruzione filosofica, ma sarebbe meglio parlare di “decostruzione”, di Michéa. Il filosofo francese – e l’Autrice per lui – muove da un’intuizione spesso ignorata o sottovalutata: i moderni Stati liberali e, in seguito, l’ordine mondiale liberale si fondano su una visione antropologica essenzialmente negativa, cioè quella hobbesiana dell’homo homini lupus e della guerra di tutti contro tutti.

Due cause storiche hanno contribuito ad affermare l’egemonia di una simile visione. In primo luogo, le guerre civili di religione che, dopo la riforma protestante e lo scisma anglicano, hanno imperversato in Europa tra il XVI e il XVII secolo: esse, anziché unire la popolazione di uno stesso Paese verso un nemico esterno – come era stato con le crociate – hanno inasprito le spaccature esistenti tra le classi sociali. In secondo luogo, la rivoluzione scientifica, che ha alterato il rapporto tra uomo e natura, legittimando il primo quale padrone del mondo, e comportato l’estensione del metodo scientifico anche all’ambito morale e politico, allo scopo di costruire un’organizzazione sociale capace di assicurare la pace tra uomini e donne rappresentati – secondo la visione antropologica negativa di cui dicevamo poco prima – come mossi da passioni ferine e abitanti del peggiore dei mondi possibili, cioè del c.d. stato di natura. Come evidenzia l’autrice, “ scopo della legislazione del nuovo ordine sociale è evitare di far sprofondare l’umanità in un’infinita guerra civile planetaria”: per raggiungere questo obiettivo, il diritto deve essere ideologicamente neutro, scevro di alcuna “riflessione particolare su quello che potrebbe essere il miglior modo di vivere in comune”; viene perciò meno l’idea di un bene, naturale o soprannaturale, a fondamento dell’azione politica. Alla neutralità assiologica del nuovo ordine corrisponde la privatizzazione dei valori morali, cioè la relegazione all’ambito individuale delle scelte di carattere morale, così come della religione.

Valore al vertice del sistema politico liberale è la libertà intesa come “metavalore, ovvero un valore che permette la coesistenza di tanti valori diversi fra loro” e dunque agli uomini di condurre la propria esistenza senza bisogno di condividere la sorte né ideali con i propri simili: l’individuo che abita lo spazio liberale è atomizzato e titolare di diritti naturali che gli appartengono non in virtù della sua connessione al corpo sociale ma in forza della sua provenienza dallo stato di natura e che sono connessi tanto alla necessità di proteggersi dalle aggressioni (questo profilo è sottolineato in particolare da Hobbes) quanto alla necessità di appropriarsi di ciò che gli consente di sopravvivere (su questo aspetto insiste invece Locke). Queste nuove basi antropologiche spianano la strada alla sacralità del diritto di proprietà e all’innatismo del commercio: il mercato – presentato pure esso come assiologicamente neutro, al pari del diritto – diviene il motore delle relazioni tra le persone e tra i popoli; esso, consentendo agli uomini di vivere in società seguendo solamente i propri rispettivi interessi, minimizzerà i motivi di discordia, così convertendo “i vizi privati in virtù pubbliche” e contribuendo a realizzare quell’impero del male minore teorizzato da Michéa: luogo politico ove ogni ricerca della verità e del bene viene vanificata in favore dei due imperativi del relativismo etico – a livello personale – e della stabilità del sistema politico sul piano collettivo. Il mercato, e dunque il liberalismo economico, viene a completare il liberalismo politico, di cui rappresenta l’altra faccia della medaglia; secondo Michéa, tramite il mercato “il paradigma liberale finisce per sistematizzare, ampliare e autorizzare proprio quella guerra di tutti contro tutti che si voleva fuggire”: la disparità sociale prodotta dal mercato si innesta così sull’uguaglianza astratta sancita dal diritto liberale.

Ciò che inficia e può delegittimare ai nostri occhi il mercato e il diritto è la circostanza che essi, in quanto costrutti dello Stato liberale e dunque di un’istituzione moderna, sono forme di socializzazione essenzialmente secondarie, che si innestano, mediante la forza dell’autorità statale, su altre forme di socialità, prevaricandole. Queste ultime connotano in via originaria la civiltà umana e si sostanziano nell’“antropologia del dono”, intendendo con questa espressione tutti quegli scambi, da sempre effettuati dagli uomini, che non sono classificabili in termini di acquisto e vendita e non rispondono alla logica capitalista di soddisfare l’interesse ad accumulare una maggiore quantità e qualità di beni: nell’antropologia del dono non è possibile distinguere la sfera economica dalla sfera morale, né il piano economico ha conseguito una sua autonomia rispetto alla vita sociale. Questa antropologia, articolata sul triplice obbligo di dare, ricevere e ricambiare, crea legami sociali: i doni sono di per sé controprestazioni fatte per mantenere un’alleanza vantaggiosa e un fascio di valori – fiducia, lealtà, amicizia, sentimento del bel gesto, primato degli interessi della collettività – attecchisce sulla loro pratica, così che la guerra della generosità sostituisce del tutto la guerra. L’antropologia del dono non concepisce – come invece l’antropologia negativa fondante l’ordine sociale liberale – individui preesistenti alla società, ma indica nel triplice obbligo dare-ricevere-ricambiare il meccanismo fondante di ogni comunità: suo corollario è che i beni e i servizi vengono ad assumere un valore ulteriore rispetto a quelli d’uso e di scambio e cioè un “valore di legame”, che risiede nella loro capacità, se donati, di creare e riprodurre relazioni sociali. Inoltre, l’interiorizzazione del triplice obbligo dell’antropologia del dono fa sì che tra gli uomini prosperi la pratica – teorizzata da George Orwell – della common decency o comune decenza, cioè l’esercizio di una sorta di onestà naturale, che funge da criterio per discernere il giusto e l’ingiusto. Mentre la common decency alligna tra le classi popolari, ove la stima e la considerazione della propria persona risiedono nel rapporto con gli altri, che le fa tornare indietro alla persona stessa, la classe dominante del sistema capitalista ha smarrito questa pratica, avendo interiorizzato il modello dell’individuo pre-sociale e auto-interessato teorizzato dal sistema liberale, “le cui azioni non tengono mai conto dell’esistenza e delle esigenze degli altri”. Comunque, il vuoto etico proprio dell’ordine liberale è presto riempito dal mercato, che si propone di fare la morale agli uomini in mancanza di indicazioni teleologiche volte a conferire significato alla vita: gli ideali che il mercato propugna sono quelli della crescita, intesa come orientamento a “perseguire all’infinito il processo di valorizzazione del capitale”, e del progresso, ereditato dalla filosofia illuminista e dalla sua battaglia contro i poteri dell’Ancien Régime e strumentale, mediante il superamento di tutte le pratiche e i valori ereditati dal passato, a legittimare sul piano culturale la neutralità assiologica del mercato e con ciò a aprire alla commercializzazione sempre più ambiti della vita umana. La crescita e il progresso promanano entrambi da una concezione materialista della storia, che cioè raffigura il corso storico come determinato dallo sviluppo delle forze produttive e della tecnica e che è comune tanto al capitalismo liberista quanto al socialismo produttivista; se ci si smarca da questa concezione, non solo si approda a una visione meno deterministica dell’evoluzione del mondo, ma “la Crescita e il Progresso prendono il volto di ideologie calate dall’alto”: queste portano in sé il germe dell’autodistruzione in quanto mettono a repentaglio i propri presupposti materiali, sia proponendo lo sfruttamento all’infinito delle risorse naturali, essenzialmente finite, che compromettendo – proprio tramite il superamento dei codici comportamentali ereditati dal passato di cui dicevamo prima – le condizioni stesse della sopravvivenza morale dell’umanità.

Il perpetuarsi dell’ordine liberale, con la sua intrinseca neutralità assiologica e la religione dei consumi, porta, secondo Michéa, alla formazione di un uomo nuovo, la cui funzione nella società è quella di capitale umano destinato a produrre ricchezza e la cui esistenza si compendia nell’acquisto di beni e servizi corrispondenti a desideri, emozioni e sogni che gli sono stati indotti dalla propaganda commerciale: tutti questi acquisti sono mirati a costruirsi una nuova identità, che, quand’anche presentata come trasgressiva, rappresenta l’apogeo del conformismo. È evidente che questa vera e propria mutazione antropologica in corso (o perlopiù già compiuta?) erode la possibilità della common decency orwelliana.

Come si può controbattere i corrosivi effetti del liberalismo e rifondare dal basso uno spazio sociale che restituisca a uomini e donne la dignità loro sottratta dal mercato? Michéa propone di ripartire dall’antropologia del dono e quindi da quelle forme di socialità primaria che si articolano sugli obblighi di dare-ricevere-ricambiare: è dalla loro pratica che può emergere, oltre che una più equa ripartizione dei beni materiali, un essere umano meno isolato e più fraterno, mosso da un sentimento del bene che, lungi dall’essergli inculcato da uno Stato etico, deriva dall’esercizio quotidiano della condivisione e dagli sforzi per la costruzione di uno spazio, anche valoriale, comune.

L’Autrice ci guida fino agli esiti più visionari del pensiero di Michéa, in un saggio che, risalendo i secoli, fa strame del pensiero liberale. Si impossessi di quest’opera chi crede che un’alternativa, antropologica ancor prima che economica, sia possibile.

Antonio Semproni

 
Matrice di connessione PDF Stampa E-mail

4 Gennaio 2024

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 Da Rassegna di Arianna del 29-12-2023 (N.d.d.)

L'integrazione delle visioni di Carl Jung e David Bohm  rivela affascinanti connessioni tra la psiche umana e il tessuto della realtà quantistica. Jung ha introdotto il concetto di inconscio collettivo, un'entità che trascende la coscienza individuale e contiene archetipi e simboli universali che influenzano la nostra esperienza quotidiana. Questa visione si allinea con la teoria di Bohm sull'ordine implicato. In questo contesto Bohm sostiene che l'Universo è pervaso da un'infinita rete di connessioni interdipendenti. Questa convergenza di prospettive suggerisce una trama di connessioni profonde tra la psiche umana e il tessuto stesso dell'universo.

Secondo Jung, l'inconscio collettivo costituisce un serbatoio di esperienze e conoscenze che sono condivise da tutta l'umanità. I suoi archetipi, come l'ombra, l'anima e l'animus, influenzano in modo inconscio il nostro modo di pensare, sentire e agire. In questo senso, la nostra coscienza individuale si collega a un livello più profondo di consapevolezza collettiva, indicando una connessione tra l'individuo e l'intero tessuto sociale. La visione di Bohm sull'ordine implicato va ancora oltre, suggerendo che ogni parte dell'universo sia in interazione costante e in continua evoluzione. Questo ordine sottostante, che trascende l'apparente separazione tra le cose, potrebbe essere considerato come una "matrice di connessione" in cui ogni elemento è collegato a livelli più profondi di realtà. In questo contesto, la coscienza individuale si inserisce in un intreccio cosmico, in cui siamo parte integrante di un tutto più grande.

L'integrazione delle prospettive di Jung e Bohm ci invita a riconsiderare il rapporto tra la coscienza individuale e l'universo. L'inconscio collettivo, con la sua carica simbolica e archetipica, risuona con l'ordine implicato dell'universo, che sottolinea la connettività e l'interdipendenza tra tutte le cose. In questo senso, la nostra coscienza individuale può essere considerata una finestra attraverso la quale accediamo alla rete di connessioni cosmiche. In sintesi, l'integrazione delle visioni di Jung sulla psiche umana e di Bohm sull'ordine implicato offre una prospettiva stimolante sulla connessione tra la coscienza individuale e il tessuto universale. L'inconscio collettivo e l'ordine implicato mettono in luce le connessioni profonde che influenzano la nostra esperienza individuale e ci invitano a considerare l'interazione tra la mente umana e l'intero cosmo.

Bruno Del Medico

 
L'anno che verrą PDF Stampa E-mail

1 Gennaio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 30-12-2023 (N.d.d.)

Ho un pessimo rapporto con la fine dell’anno. Già da bimbo non riuscivo a capire perché si dovesse festeggiare il tempo che fugge. Le riflessioni filosofiche infantili non potevano comprendere l’esorcizzazione della morte e, per contrasto, la necessità di sperare, l’illusione di un nuovo inizio. Tuttavia, volevo partecipare all’evento della nascita del nuovo anno, che nel mio mondo incantato non significava botti e brindisi, ma la convinzione che a mezzanotte precisa avvenisse una vera e propria staffetta tra un vecchio barbuto in disarmo – l’anno vecchio – e un giovane baldanzoso che ne prendeva il posto, l’anno nuovo. […] Pure, bisogna assoggettarsi alle abitudini e fare qualche bilancio di fine anno. Aiuta il testo – bellissimo e sorprendente – dell’ Anno che verrà, la canzone di Lucio Dalla. Caro amico ti scrivo, inizia (anch’io scrivo al me stesso di allora) poiché “l’anno vecchio è finito, ormai, ma qualcosa ancora qui non va”. Era il 1979 quando uscì il disco, e già l’imbroglio era chiaro: “Ma la televisione ha detto che il nuovo anno/ porterà una trasformazione. E tutti quanti stiamo già aspettando”. L’artista finge di credere alle speranze: “sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, ogni Cristo scenderà dalla croce, anche gli uccelli faranno ritorno. Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno; anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno”. Finzione, illusione, il futuro come posticipo della speranza. Forse il bambino di allora aveva ragione a non capire: “vedi caro amico cosa si deve inventare, per poter riderci sopra, per continuare a sperare”. […]

Ogni volta dobbiamo sperare, fingere festa per dimenticare, immaginare nuovi inizi. Dovrebbe essere più facile – ma non lo è, il nichilismo costa – per l’uomo occidentale contemporaneo, che, dismessa ogni altra credenza, si è attaccato al mito del progresso. Domani sarà inevitabilmente meglio di ieri. Perché dunque volgersi indietro, restare attaccati a tradizioni, modi di vita, valori che domani il progresso renderà obsoleti, perfino ridicoli? Per Jean Paul Michéa i devoti del progresso somigliano a Orfeo, il mitico cantore che cercò di riportare alla vita terrena la moglie Euridice. Commosse dal suo canto, le Erinni, arcigne guardiane dell’Ade – l’oltretomba degli antichi – permisero che Orfeo portasse con sé Euridice. La condizione era che non dovesse mai voltarsi indietro. Alle porte dell’Ade Orfeo non resistette al dubbio: Euridice era ancora dietro di lui? C’era, ma la promessa era infranta e la fanciulla tornò al suo destino. Strane considerazioni, trucioli di mito buoni per non affrontare la realtà, metafore, simboli dell’enigma umano, l’incomprensione del destino, la ribellione dell’animale sapiente all’ordine delle cose, il cui simbolo sono le feste di fine anno, il baccano che cancella il pensiero, i brindisi, l’allegria comandata, spesso sguaiata, le speranze rinnovate nonostante la certezza che saranno presto vanificate. L’anno vecchio e quello nuovo sono assai simili, anzi non esistono. Siamo noi ad averli inventati per misurare, attraverso il corso del sole, l’unico astro che vediamo ogni giorno , un’astrazione che chiamiamo tempo.

Il lettore è spazientito: perché divaga, perché evita il tema del titolo? L’anno che verrà. Hai ragione, amico lettore: divago, giro attorno all’argomento perché ne ho paura. Lo stato d’animo è lo stesso del Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Che fai tu Luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa Luna? La domanda che pone è la stessa che evitiamo, sfioriamo, cacciamo con ostinazione ogni momento e specialmente al cambio dell’anno: “Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita/ la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale?” Ossia, perché ci affanniamo ai bordi del nulla, dopo aver smesso di credere in Dio, finanche in forma di ipotesi, possibilità, o scommessa (la pari di Blaise Pascal) . Che importa dell’anno che verrà? Ben probabilmente sarà simile a quello che prende commiato, succeduto a sua volta ad altri anni in chiaroscuro, con prevalenza del buio. Per questo esito a dire la mia sul futuro prossimo, a rientrare nella realtà rifugiandomi nell’eldorado infantile o nelle metafore della civiltà di cui sono erede postumo, poiché l’Orfeo postmoderno figlio di nessuno ha imparato la lezione e non si guarda più indietro. Ignaro del passato corre in tondo nel presente.

Il 2023, a dire il vero, non si farà troppo rimpiangere. La guerra in Ucraina è continuata, con il suo carico di morte, distruzione, paura. Rispetto a un anno fa, anche i più creduloni hanno capito che vincerà l’orso russo e che gli sfortunati ucraini “ semplici” ( non le classi dirigenti di servizio…) sono le vittime della volontà occidentale di tenere in scacco la Russia. Vecchia geopolitica, nuove giustificazioni. L’anno che verrà vedrà probabilmente finire quel conflitto e scopriremo la portata delle macerie, il numero delle vittime, il conto a piè di lista. Ne sarà valsa la pena? No, risposta elementare. Tuttavia, se fossimo Black Rock, Vanguard, State Street o un altro dei giganti finanziari occidentali, la penseremmo diversamente. Avremmo comprato a prezzi di saldo il territorio ucraino e le sue risorse, guarderemmo le rovine fregandoci le mani in vista delle ricostruzione. Quanti affaroni e affaracci: è sempre così dopo le guerre. E a noi, all’Italietta fornitrice di armi, che toccherà? Poco, temiamo. Alla Germania l’Oscar del peggior attore non protagonista. Allontanata una volta ancora dall’intesa naturale con il vicino russo, privata dell’energia per la sua industria manifatturiera, sconfitta dal nanismo politico militare, esito della disfatta di ottant’anni fa. L’Europa avrà perduto, il Grande Fratello a stelle strisce no. In difficoltà in tutti gli scenari del mondo, rafforza la presa sui vassalli (o servi della gleba) europei. Si sveglieranno l’anno che verrà? Ne dubitiamo, se “dai fatti occorre trarre significazione”. Allineati e coperti anche nel sostegno all’odiosa operazione di Gaza, ultimo frutto velenoso del 2023, gli europei sempre più escono dalla storia. Coperti di ridicolo, un po’ più poveri, l’anno che verrà faranno i conti con gli strascichi della crisi energetica e batteranno nuovi record nella corsa a disfarsi della loro civiltà. Tutti sperimenteranno le delizie del patto di stabilità europoide, la stretta finanziaria che impedirà per anni ogni politica autonoma e arricchirà ulteriormente i (falsi) creditori finanziari. L’Italia sperimenterà le delizie del mercato libero dell’energia. Aumenti del gas del settanta-ottanta per cento. L’anno che verrà qualcuno dovrà scegliere se riscaldarsi o cenare. Nell’anno che verrà non cambierà il governo. Se dovesse accadere, dopo il governo Draghi e quello Dragoni-Draghetti (Draghi più Meloni e Giorgetti) avremmo il gabinetto (oops…) Dragh-schlein, con vernice arcobaleno e camera LGBT. Per il resto, business, as usual, affari come al solito. In compenso, sono morti il quasi centenario Jacques Delors, l’artefice dell’Unione Europea reale e Wolfgang Schaeuble, il cerbero tedesco che strozzò la Grecia nel 2011. Rispetto per la sua fine, non per la cura che impose: il paziente è morto. Solo l’emigrazione di massa ha fatto diminuire la disoccupazione, il malato ellenico non si è rialzato. Non è certo casuale che sia stata uccisa per prima la nazione che inventò, trenta secoli fa, la civiltà europea.

L’anno che verrà avvicinerà ulteriormente la fine e ciò che più stupisce è l’indifferenza, la voluttà suicida degli ultimi epigoni. Orfeo divenuto fluido non si volterà, non ama più Euridice, anzi neppure sa chi è. Che cosa potranno cambiare i prossimi dodici mesi? Ah, sì, rinnoveremo il parlamento europeo, l’istituzione più inutile della Terra, una mecca per i suoi settecento e passa membri, i loro aiutanti e la ricca, onnipotente burocrazia di Bruxelles. Ci divertiremo con il lungo percorso delle elezioni americane, tra colpi bassi, l’evidenza che la democrazia è sempre più una farsa e che al centro dell’impero comandano il denaro e lo Stato profondo, l’alleanza tra industria, finanza, apparati militari e agenzie riservate. Lo scoprì a sue spese un presidente che veniva dall’esercito, Eisenhower, addirittura nel 1960. I suoi moniti rimasero inascoltati. La libertà di pensiero, di stampa e di parola subiranno pesanti giri di vite. L’ Europa è all’avanguardia con il bavaglio del Digital Service Act. Sonno narcotico delle vittime: basta che nessuno vieti le dipendenze che tanto amano, sesso, droga, alcool, gioco, sballo, “diritti”.

Interessante sarà osservare le convulsioni della chiesa cattolica. I preti predicano al deserto – il giorno di Santo Stefano dodici presenti, compreso il vostro scrivano, per la messa mattutina del vescovo di Chiavari – ma riescono comunque a far danni. Chi finanzia gli scafisti, chi fa presepi in chiesa con due madri attorno al bambino, chi scrive le regole per le benedizioni omo, chi – il cardinale Zuppi – depreca che il presepe sia “divisivo” ma non spende una parola per difenderlo. Ci divertiremo vedendo all’opera la neo Chiesa, a patto, beninteso, di non essere credenti. Dopo essere stata protagonista della storia per molti secoli, e poi antagonista per altri secoli, la Chiesa, scrisse un appartato, acuto pensatore italiano, Andrea Emo, è diventata cortigiana della storia, una cocotte invecchiata dal trucco pesante, al basso servizio di un “potere che non la vuole più “ ( P.P. Pasolini).

Non saranno i rintocchi dell’orologio del 31 dicembre a cambiare le cose, dopo la mezzanotte. L’intuizione degli artisti è più fulminante dei pistolotti dei sapienti: “l’ anno che sta arrivando tra un anno passerà. Io mi sto preparando, è questa la novità”.

Roberto Pecchioli

 

 
Vecchie cariatidi ipocrite PDF Stampa E-mail

31 Dicembre 2023

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Da Rassegna di Arianna del 27-12-2023 (N.d.d.)

L’epoca in cui viviamo non sarà forse la più violenta della storia (violenze efferate vi sono state fin dalla notte dei tempi) ma è di sicuro la più ipocrita. Oggi i massacri non si compiono più in nome del sacro egoismo delle nazioni, ma in nome dei diritti umani e dei buoni sentimenti.

In Afganistan, quelle stesse donne che dovevano essere liberate dalla medioevale tirannia dei talebani potevano però essere fatte a pezzi, insieme ai loro figli, dai droni lanciati contro le abitazioni dei presunti terroristi ( in questa pratica, che ha provocato decine di migliaia di vittime, si è distinto il buon presidente premio Nobel per la pace, Barac Obama). Per portare la democrazia in Libia, si sono chiusi entrambi gli occhi di fronte ai pogrom di cui è stata vittima la locale popolazione di colore. Il sistema mediatico dell’Occidente si è persino inventato, con ributtante cinismo, la presenza dei “mercenari neri di Gheddafi”.

Il razzismo, del resto, può sempre tornar buono. I “buu” di sfregio al centravanti avversario suscitano uno sdegno unanime. Se però dal campo di calcio passiamo al campo di battaglia,  le cose cambiano completamente. Da quasi tre mesi Israele colpisce in modo indiscriminato la popolazione di Gaza. I morti sono più di ventimila. I video postati dagli stessi soldati israeliani ci mostrano scene indecenti: abbattimento di moschee, ospedali, scuole e case private; interi quartieri rasi al suolo;  prigionieri (tra essi anche alcuni bambini) denudati ed esposti come trofei. Come non bastasse, gli attacchi si estendono alla Cisgiordania, alla Siria e al  Libano. Il giorno di Natale, per esempio, è stata bombardata Betlemme.

Di fronte a queste enormità, cosa fa il sistema mediatico?  Minimizza, nasconde, ammicca. Fa capire che, in fondo, se la sono meritata. È gente inferiore. Avrebbe dovuto starsene tranquilla, chiusa all’interno del suo bel muro. Sono arabi e musulmani, che non possono essere offesi facendo a scuola un presepio che non offende nessuno, ma possono essere massacrati. Il razzismo, cacciato con squilli di tromba e fanfare dalla porta principale, ritorna dalla finestra. Colmo dei colmi, a distinguersi in questa opera di demonizzazione sono spesso le vecchie cariatidi del Sessantotto. Quelli che a venti anni volevano fare la rivoluzione ed ora, arrivati alla terza età, si fanno paladini di tutte le più oscene nefandezze dell’Occidente.

Giorgio Bianchi

 
Un augurio per l'anno nuovo PDF Stampa E-mail

29 Dicembre 2023

 Coloro che fossero tentati di cedere allo scoraggiamento debbono pensare che nulla di quanto viene compiuto in quest’ordine può mai andar perduto; che il disordine, l’errore e l’oscurità possono trionfare solo in apparenza e in modo affatto momentaneo; che tutti gli squilibri parziali e transitori debbono necessariamente concorrere alla costituzione del grande equilibrio totale e che nulla potrà mai prevalere in modo definitivo contro la potenza della verità: la loro divisa sia quella adottata in altri tempi da certe organizzazioni iniziatiche dell’Occidente: Vincit omnia Veritas.

René Guénon

 
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