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Anche il mitico Potere non sa più che pesci pigliare PDF Stampa E-mail

14 Marzo 2021 

 "I treni che vanno a Madras" è un racconto di Antonio Tabucchi in cui il significato principale è la chiusura dei cicli e cerchi della vita. Tuttavia viene analizzato anche, a livello inconscio, il tema del viaggio e dell'attesa. Il protagonista è un europeo che deve andare da Bombay a Madras per cercare la risposta a un quesito per lui molto importante e anziché prendere l'aereo, veloce e comodo, decide di viaggiare in ferrovia, un viaggio lungo, lento, scomodo, con imprevisti, della durata di ben due giorni. Qualcuno gli fa notare la stranezza e lui dapprima risponde dicendo che col treno si vede la vera India (frase ripresa da una guida turistica, non farina del suo sacco) e solo poi, dopo una certa introspezione, giunge a darsi una risposta: ha preso il treno e non l'aereo perché ha paura che non otterrà la risposta che desidera e quindi vuole dilatare il viaggio, l'attesa: "cullarmi nell'illusione, anziché bruciare tutto nel breve spazio d' un viaggio aereo".

Bene, veniamo a noi. Da 12 mesi precisi un tarlo mi rodeva nella testa: come è possibile che le popolazioni occidentali in genere e italiana in particolare accettino supinamente queste violenze inaudite alle loro libertà senza reagire e senza, soprattutto, avere o meglio pretendere una prospettiva che dia il senso a tutto. Considerando, inoltre, che sino a inizio 2020 l'edonismo, il viaggio compulsivo, il movimento frenetico erano la norma, l'atteggiamento passivo risulta ancor più incomprensibile. Anche per l'ultimo dei misantropi, in effetti, la risposta che "la gente ha paura" e "si è fatta lavare il cervello" credo non possa reggere più...non è possibile, infatti, che tutti siano "idiotizzati". Una parte sì, ma non tutti.

Una intervista di Mathias Desmet, ricercatore del Dipartimento di Psicoterapia Clinica dell'Università di Gand , unita a sensazioni empiriche che vado sviluppando da tempo e da una attenta osservazione dei fatti e dai dialoghi con diverse persone, danno forse una risposta: per la stragrande maggioranza della popolazione il lockdown di marzo 2020 non fu uno shock ma una liberazione, un sollievo, da una vita, da una routine per molti insostenibile, vuota e insensata. Solo così si spiegano i canti ai balconi, l'atmosfera di festa collettiva, quasi gioiosa, che andava a stridere incredibilmente con le 11 pagine di necrologi de "L' Eco di Bergamo" e con la scena famosa delle bare sui camion militari: ricordiamo che quel giorno e anche quello successivo, dai balconi continuarono i canti, le feste, le danze, come se nulla fosse.

Sono d' accordo nel pensare che il ritorno a una specie di normalità e di liberi tutti nell'estate 2020 ebbe per la maggior parte della popolazione l’effetto di uno shock, anzi il "vero shock" fu il "liberi tutti": più d' uno psicologo e psichiatra denunziò, inascoltato, l'aumento dei livelli di ansia e di stress non da “quarantena" ma da "post-quarantena": per molti le normali incombenze tornarono un peso inaccettabile. Persino membri della mia famiglia, in conversazioni al telefono, mi dissero lo scorso maggio "il peso di tornare alla vita di sempre". Siccome poi  Desmet, nel seguito dell'intervista, si focalizza su altre cose, aggiungo io qualche altra riflessione. È successo semplicemente che l'estate, col mare, i ristoranti, i divertimenti, ha un poco alleviato questo peso, mostrando della "normalità" il lato più accattivante e divertente. Poi è arrivato l'autunno, con la seconda ondata, nuovi morti, nuove restrizioni e qui è successo qualcosa: in molti, in tantissimi, hanno capito prima di tutto che l' epidemia non era stata debellata -aumentando quindi la percezione del pericolo e della paura-  e che le nuove restrizioni non erano così divertenti come a primavera, perché l'impatto sulla vita quotidiana ed economica diveniva ora devastante e quasi irreversibile, i soldi finivano, si accumulavano bollette e pagamenti, F24 e affitti. In una parola: la ricreazione era finita. Da qui è nato un fenomeno pericolosissimo: da una parte la voglia di un ritorno "forzato" alla normalità, perché senza "normalità" si scivola nella disoccupazione e nell' indigenza, e dall' altro un rifiuto inconscio della normalità stessa, che porta le persone -come il viaggiatore da Bombay a Madras- ad accettare di allungare i tempi "del viaggio", perché la meta finale porterebbe a forti delusioni.

In una parola, siamo arrivati nella psicologia delle folle (usiamo il termine di Gustav Le Bon) a un fenomeno di schizofrenia, ossia alla rottura tra la sfera del pensiero e quella delle emozioni. Se prima la società nel complesso stava male, ora la diagnosi è pesante: disturbo da schizofrenia paranoide.

Se questa teoria fosse veritiera -e in larga parte lo è- ci troveremmo di fronte a qualcosa di mai visto nella Storia: moltitudini di popolazioni che rifiutandosi di ritornare al prima, seppur inconsciamente, hanno comunque sconfessato (sempre inconsciamente, ma tant' è..) la narrazione nella quale erano sino a 12 mesi fa immersi. In pratica, se fosse vero (e in buona parte lo è) significa che la vita per i più non ha senso alcuno: niente scopi, niente obiettivi, mete da raggiungere, niente senso e significato nella quotidianità ridotta a una stanca routine e che tutte le magnifiche sorti e progressive tanto decantate dai "progressi", dalla robotica, informatica, I.A. alla fine non significano nulla. Un vivere meccanico, a vuoto.

Si dirà: hai scoperto l'acqua calda. Sino a un certo punto, perché quelle che erano supposizioni, teorie, ipotesi, scuole di pensiero soggettive ora si stanno trasformando nella realtà oggettiva, nel vero. In pratica: prima pensavamo di avere ragione e ora sappiamo di avere ragione. E non è proprio la stessa cosa.

Concludo con due considerazioni: questa nuova visuale di prospettiva fa cadere del tutto le mie residue e scarse teorie di presunti e a questo punto mitologici complotti del Reset, degli azzeramenti, ecc. ecc. Perché la schizofrenia ha preso piede anche nei "Piani Alti" del Potere: gente che non sa più che pesci pigliare e che si affida, come ancora di salvezza, alla tecnologia. Qui ha ragione Massimo Fini: siamo su un treno che corre all' impazzata e dove il conducente, nel locomotore, non c' è più.

E sarebbe buona norma che almeno tra noi, tra noi oppositori radicali, si iniziasse una buona volta per tutte a buttare alle ortiche le assurde mitologie dettate da fantasmi interiori quali il Reset, l'Agenda 2030 et similia e che si iniziasse, appunto, a concentrarsi sulle cose serie.

Simone Torresani

 
Tecnoambientalismo funzionale al potere PDF Stampa E-mail

12 Marzo 2021

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 Essendo, già da molto tempo, vaccinato contro la propaganda, resto immune alle proclamazioni di economie verdi, grandi riassetti, salvaguardie dell'ambiente eccetera. Il fatto che questa forma di economia si prospetti come "verde" significa poco, si trattasse pure di una disposizione autentica. Il senso primario - che resterebbe intatto - di questa forma di economia, del "sistema industriale delle merci", è togliere alle persone la capacità di soddisfare da sé i propri bisogni, realizzando in questo modo una condizione di dipendenza e di sottomissione. Realizzando cioè una situazione di Potere. La prospettiva tecnoambientalista, come tutte le prospettive tecniciste, è assolutamente funzionale al Potere del Denaro. Per motivi "ecologici" si viene obbligati, come individui o come collettività, ai nuovi prodotti messi in commercio; bisognerà quindi, come individui o come collettività, disporre del denaro per acquistarli; bisognerà "smaltire" i vecchi prodotti (e in realtà, le nuove produzioni più complesse determineranno maggiori inquinamenti); bisognerà far fronte alle necessità monetarie derivanti, magari con indebitamento pubblico. Non c'è nessuna tecnica che possa "mettere a posto le cose": il Potere, qualunque veste tecnica voglia indossare, produrrà sempre distruzione.

Il Potere non è peraltro un'invenzione recente. È una possibile perversione connaturata all'essere umano. È il disporre delle vite altrui, per dei vantaggi pratici ma anche per una malata gratificazione di per sé. L'atteggiamento di Potere può benissimo emergere fra persone dei livelli sociali più bassi. Succede che possedere una qualche conoscenza, anche banalmente tecnico-pratica, si sfrutti subito in posizione di Potere. Il Potere è una lusinga molto forte. Magari si parte per contestarlo, e via via l'àmbito contestativo si trasforma in una struttura di Potere.

Considerando il Potere più a grandi linee, in relazione ai rapporti fra i gruppi sociali, bisogna dire che il Potere non nasce certo nell'attuale forma di civiltà e in questi modi. In passato si poteva realizzare con altre forme, magari più direttamente politico-burocratiche. Nel corso della Civiltà Occidentale si è andato attestando uno strumento di Potere subdolo e molto efficace: il denaro. La connotazione di questa civiltà come civiltà di Potere (del Denaro) si è andata rafforzando via via. Ancora nel XIX secolo la visione del Mondo dominante, diciamo l'Ideologia Borghese, e la classe sociale dominante, la Borghesia, potevano vedersi come caratterizzate da una certa buona fede, da una convinzione che il procedere delle cose secondo la direzione borghese avrebbe portato una prosperità generale. Una prospettiva che si sgretolò già alla fine dell'800, come molti artisti e qualche filosofo compresero lì per lì. Al suo posto subentrò il Capitalismo e i capitalisti, come fatto e posizioni di puro Potere (del Denaro). È ciò con cui abbiamo a che fare noi ora. (Se non che, a questo punto, il Sistema di Potere cerchi di passare alla Tecnica come proprio strumento principale.) Volendo perciò "riassettare" in maniera sana, ci sarebbe allora da ricostituire la forma della civiltà, fondandola sulla consapevolezza e l'indipendenza delle persone e delle piccole comunità, che abbiano diritto ad una quota di territorio e risorse naturali per condurre la propria autosussistenza, senza invadenze della tecnica complessa e fuori controllo, del mercato-denaro, della burocrazia e del Potere. Dubito che "dall'alto" andranno in questa direzione. Mi sembra più probabile l'avanzare del processo disgregativo, con la formazione di "vuoti interni" nel Sistema, dove poter realizzare alternative di fatto sia a livello personale che di gruppi. In queste condizioni sarà opportuno determinarsi una specie di "membrana di protezione" intorno al nucleo di alterità, la quale conduca gli inevitabili rapporti con l'esterno in quanto Sistema, preservando l'interno da contaminazioni.

Enrico Caprara

 
Il problema non è la McKinsey PDF Stampa E-mail

11 Marzo 2021

 Da Rassegna di Arianna del 9-3-2021 (N.d.d.)

Mi fanno un po' sorridere le polemiche intorno alla notizia secondo cui Draghi avrebbe appaltato la stesura del Recovery Plan alla società di consulenza statunitense McKinsey.  Ora, siamo tutti d'accordo che la McKinsey è il male assoluto e che la decisione conferma al di là di ogni ragionevole dubbio da quale lato della barricata stia Draghi (ma d'altronde chi scrive non ha mai avuto dubbi; piuttosto dovrebbero farsi qualche domanda coloro che vaneggiavano di un Draghi convertitosi al "keynesismo" e ai problemi dell'economia reale).  Ma il punto è un altro: la lettura che molti "indignados" sembrano dare della notizia è quella secondo cui la McKinsey sarebbe stata chiamata dai "poteri forti" per mettere le mani sui fantastiliardi in arrivo dall'Europa. Insomma, la linea è sempre quella per cui il Recovery Fund rappresenterebbe un'"occasione storica" per il nostro paese, a cui il governo precedente avrebbe voluto dare un'impronta "sociale" e che adesso invece sarà cooptata da quei cattivoni di Confindustria.  Come già detto in più occasioni, però, chi accetta la retorica ufficiale sul Recovery Fund ha già perso in partenza, giacché non siamo di fronte a uno strumento che ha una finalità di sostegno economico (anche perché macroeconomicamente irrilevante) ma unicamente di controllo politico-sociale, consistente nel sostanziale commissariamento, de jure o de facto, del paese ricevente e nella subordinazione della sua politica economica alle direttive della Commissione (ancora più di quanto non lo sia già). Basta leggersi le carte, infatti, per rendersi conto che i soldi vanno spesi come dice la UE (ovvero il capitale nordeuropeo, ovvero la Germania) e che la loro ricezione è subordinata al rispetto delle raccomandazioni specifiche per paese della Commissione, che vanno da sempre nella stessa direzione: tagli della spesa pubblica, compressione dei salari, deregolamentazione dei mercati del lavoro ecc. In pratica siamo di fronte a un super-MES sotto mentite spoglie.

Insomma, il problema è proprio il Recovery Plan, al di là di chi lo gestirà. Fanno dunque sorridere le critiche di coloro che oggi lamentano di aver perso l'occasione, con la caduta del governo Conte, di poter gestire il commissariamento del Recovery Plan in maniera più "sociale". Anzi, semmai Conte è uno dei principali responsabili di questa situazione. Se oggi, infatti, Draghi – letteralmente l’incarnazione vivente del vincolo esterno – può presentarsi come il salvatore della patria che può garantire l’arrivo e il “buon uso” dei fantastiliardi dell’Europa (grazie alla consulenza dei "supercompetenti" della McKinsey) è precisamente perché Conte in primis ha avallato fin dall’inizio la logica del vincolo esterno, presentando il Recovery Fund, per evidenti fini di miope autopropaganda, come un generoso regalo di mamma Europa che lo scolaretto Italia avrebbe dovuto fare di tutto per meritarsi e “spendere bene”, e anzi senza i quali saremmo stati perduti.  Insomma, Conte – sospinto da MoVimento Cinque Stelle e PD – non ha fatto che alimentare l’idea dell’Italia come nazione minus habens incapace di gestire se stessa e perennemente bisognosa dell’aiuto (e a volte della “rieducazione”) di qualche “provvidenziale” attore esterno, per definizione più civilizzato e capace di noi. Chi di vincolo esterno ferisce, di vincolo esterno perisce.

Thomas Fazi

 
Nervi saldi PDF Stampa E-mail

10 Marzo 2021

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 Negli ultimi articoli abbiamo visto come all' interno dei cambiamenti epocali che si profilano all'orizzonte, nel mondo post-covid, vi siano elementi positivi, che potrebbero essere girati a nostro vantaggio (de-urbanizzazione, mobilità ridotta, nuova concezione di lavoro e di turismo in primis). Tuttavia è dovere assoluto mettere in guardia che la futura "economia verde" e la "transizione energetica/ecologica", due concetti chiave del futuro (e che nel Recovery Fund occupano una percentuale rilevante degli investimenti) nascondono al proprio interno numerose insidie e contraddizioni: rischiamo di trovarci di fronte ad un nuovo nodo gordiano da sciogliere reso ancor più difficile dal fatto che al momento non si vedono alternative concrete (le concezioni astratte esistono già ma di quelle non saprei che farne) e gli "Inquilini dei Piani Alti", come giocatori all' ippodromo stanno puntando in massa solo su quel cavallo. Siamo tutti d'accordo che la transizione energetica e l'economia verde debbano essere -anche solo limitandosi ad una osservazione empirica dei fatti, non serve avere conoscenze tecniche e specifiche- una scelta obbligata, ma che tale scelta obbligata sia quella giusta e vincente ne siamo proprio certi? O è forse l'azzardo del cavallo all'ippodromo o, peggio ancora, la firma di una nuova paurosa cambiale in bianco con l'ecosfera e il Pianeta i cui tempi di scadenza rischiano di essere molto più ristretti, rispetto alla cambiale firmata a fine XVIII secolo coi primi accenni di industrializzazione?  Si ha l'impressione che il sollievo e il beneficio di queste nuove politiche risulti alla fine solo transitorio e temporaneo e che la soluzione sia peggio del male, chiudendo un problema e aprendone altri cinque. Vediamo in concreto perché.

La sostituzione di energia ad alto impatto inquinante e degradante degli idrocarburi-che ancora nel 2019 rappresentava l' 87% dell' energia mondiale prodotta- per fare un esempio, con energia "pulita" come quella solare, eolica, mareomotrice, cinetica, a idrogeno e bioenergetica, con lo scopo di raggiungere a breve il 40% e poi il 50% e sino ad un massimo di almeno il 90% nei decenni successivi al 2050, relegando ad esempio il carbon fossile al 5% verso il 2050, non avverrà di certo per opera dello Spirito Santo ma tramite un lavoro immenso di impianti e infrastrutture (nuove centrali, pannelli fotovoltaici, batterie a litio per auto elettriche, pale eoliche, impianti mareomotrici, centrali a biomasse,  centrali geotermiche, ecc. ecc.) che produrranno un apparato colossale non solo funzionante ad altissima energia (che deve a sua volta essere prodotta, creando un circolo vizioso di crescita esponenziale, infinita) ma anche dipendente, per la costruzione di batterie, pannelli, etc. di litio, di coltan, di cobalto, di terre rare -il nome dice tutto- che porteranno ben presto  l' ambiente a essere sfruttato e sotto stress e col problema, gigantesco, dello smaltimento di rifiuti speciali. Taluno parlerà di riciclo, ma a fine 2019 l'European Enviromental Bureau(EEB), una fitta rete di 144 associazioni europee ambientaliste (quindi non di certo dei Salvini di turno...) ha espresso perplessità sia sull' economia verde che sul mito del riciclo, perché "anche il riciclo è in un sistema finito e non infinito e come tale, dunque, ha dei limiti". Due esempi banali ma non troppo: il fotovoltaico ha bisogno di pannelli che devono occupare un certo spazio, non si pensi che un singolo pannello per edificio crei autosufficienza. Questi pannelli sono fatti in: silicio, ferro, argento, polimeri delle plastiche (materiale chimico) e alluminio. Silicio e alluminio non piovono dal cielo e i polimeri alimentano una industria chimica (inquinante). A fine ciclo, dopo alcuni anni, i pannelli vanno smaltiti con una procedura complessa tipica dei materiali elettrici. Sono insomma rifiuti speciali. Immaginiamo miliardi di pannelli da smaltire e le estrazioni massicce di alluminio, silicio, ferro, argento, ecc. ecc., il loro impatto ambientale insomma.

Secondo esempio, le auto elettriche. Nel motore classico a scoppio il carburante, prodotto dagli idrocarburi, bruciando converte energia termica in energia meccanica (in fisica, calore che diventa lavoro) la quale fuoriesce in ossidi di azoto e di zolfo, in anidride carbonica e in particolato di carbonio, le cui particelle (pm 2,5 e pm10) si legano in atmosfera interferendo coi fenomeni e poi ricadendo al suolo ad esempio con la pioggia. L' auto elettrica ha indubbiamente dei vantaggi: non funzionando a idrocarburi, non avviene la trasformazione in ossidi vari e particolato che fuoriesce in atmosfera. L' energia cinetica, di movimento, viene data da accumulatori a ioni di litio tramite corrente elettrica. L' ambiente viene rispettato, se non che la batteria ha un ciclo di vita ben preciso; costi e impatti di estrazione (il litio è presente quasi soltanto in Sudamerica) non sono indifferenti. Anche lo smaltimento delle batterie esaurite è complesso. Vi sono progetti per recuperare parte del litio dalle batterie esaurite, ma al momento sono solo studi, teorie, progetti. La stessa "Repubblica"-che rappresenta tutto ciò che non siamo- pur dopo alcuni peana entusiastici sul riciclo di litio e cobalto ha ammesso che sono "sfide per il futuro". E ricordatevi che ha detto la EEB: "il riciclo, in un sistema finito, è limitato".

Per concludere.  Mai come ora servono i nervi saldi. Se dalla nebbia in cui siamo avvolti si vedono ombre positive, altrettante negative ne incombono. Ecco perché non mi stanco ad esortarvi a scrutare col binocolo dal Bosco quel che avviene "là fuori", per essere pronti a nuovi cimenti tenendo sempre a mente i quattro capisaldi principali dell'antimodernità: anticapitalismo, anti-imperialismo, anti-industrialismo, anti-progressismo. Perché la sfida non è quella di riciclare meglio il litio, ma di creare una nuova narrazione che deve inserirsi all' interno di un differente paradigma di struttura.

Simone Torresani

 
La stampa libera PDF Stampa E-mail

9 Marzo 2021

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 Da Rassegna di Arianna del 6-3-2021 (N.d.d.)

Il papa è in visita apostolica in Iraq. Certo, ci sono notizie ben più importanti, come gli stanchi tentativi di épater les bourgeois da parte di qualche ospite a Sanremo, e tuttavia qualche servizio giornalistico, sia in televisione che sui quotidiani fa capolino. Ora, nelle ultime 24 ore avrò sentito una decina di servizi TV sulla visita papale. Si vedevano pezzi di città distrutte, edifici postapocalittici, tutti i segni di un paese macellato. E cos'è che impariamo a questo proposito dai nostri coraggiosi inviati? Apprendiamo che il papa è in visita in un paese "martoriato dal terrorismo", e "minacciato dall'ISIS". Insomma chiunque non sia troppo vigile, o sia semplicemente troppo giovane per averne memoria, impara che l'Iraq è stato un paese orrendamente piagato e demolito dal terrorismo e dall'Isis. E d'altra parte si sa, di questi islamici rissosi non ci si può fidare; una bella fortuna che noi occidentali progrediti atlantisti si sia di ben altra tempra morale. Dell'aggressione unilaterale da parte degli USA, fondata su prove fabbricate, durata 8 anni (2003-2011), che ha fatto 650.000 morti accertati, un numero indefinito di vittime collaterali e successive, che ha decapitato l'intera classe dirigente irachena, e ha raso al suolo l'intero sistema istituzionale e civile del paese, di ciò non una parola. Niente. Un buco nero.

‘Sti islamici intolleranti si azzuffano tra di loro e poi - signora mia - guardi un po' che disastri. Fortuna che siamo arrivati noi, prima a liberarli da un'oppressiva dittatura, ed ora a chiedergli di comportarsi in modo civile e tollerante con le altre confessioni religiose. Del fatto che prima dell'intervento americano e della sequela di governi fantoccio messi in piedi dopo il 2011 in Iraq i bambini andavano a scuola, erano aperti musei di fama internazionale, e c'era così tanta intolleranza che il ministro degli esteri (Tareq Aziz) era cattolico, di tutto ciò non una parola.

E questi sono quelli che poi ci spiegano tutto sulla turpitudine delle fake news e sulle violazioni della libertà di stampa in Cina.

Andrea Zhok

 
Solo nell'utopia sta la speranza PDF Stampa E-mail

8 Marzo 2021

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 Da Rassegna di Arianna dell’1-3-2021 (N.d.d.)

La civiltà industriale è un fenomeno incompatibile con il Sistema più grande di cui fa parte, cioè con il Sistema Biologico Terrestre, o con l’Ecosfera, o con la Terra stessa. Sostenibili sono soltanto i processi che non alterano il funzionamento del Sistema più grande di cui fanno parte. Quasi nessun processo della nostra civiltà ha questa caratteristica. Quindi la civiltà industriale (se volete, la “crescita”) ne ha per poco. Il Covid-19 potrebbe essere il fattore scatenante della sua fine. Già si comincia a sospettare che i vaccini non faranno terminare la pandemia, infatti le mutazioni del virus sono rapidissime: fra poco qualche virus mutato si farà la doccia con il vaccino. Le somministrazioni a macchia di leopardo non fanno che favorire le mutazioni. Il Covid-19 ha tutta l’aria di un mezzo con cui la Terra, che è un Organismo, cerca di difendersi dal suo male, la crescita economica, che sta distruggendo la Vita, alterandone pesantemente i cicli essenziali. Che il Grande Organismo sia cosciente o no, a questi effetti non ha alcuna importanza. Anche noi non siamo coscienti di quanto il nostro sistema immunitario sta facendo per tenerci in vita.

Le autorità hanno chiuso le scuole, vietato le conferenze, gli scambi di idee, i ritrovi, la convivialità, gli scambi culturali, gli incontri piacevoli, i cinema, gli sport amatoriali, le passeggiate nei boschi: tutto ciò che è cultura, o divertimento. E se provassimo invece a riaprire tutto ciò che “diverte” e ci rende la vita piacevole? Proviamo a riaprire tutto, soprattutto le scuole, e chiudere invece le fabbriche, le grandi industrie, e tutto ciò che è “produzione”, o che sa di competizione, graduatorie, primati, partite, campionati, corse a ”chi arriva prima”: tutta roba che è rimasta in piena attività. Il campionato di calcio non si può fermare, le scuole invece si possono chiudere!! Poi destineremo i vari “ristori” e gli aiuti di ogni genere ai dipendenti delle fabbriche chiuse. Ci sarà anche da ripristinare: far tornare verdi le aree dove giacevano le grandi industrie, Porto Marghera, Mantova, Gioia Tauro, Piombino, Taranto, la ex-Fiat e così via. Proviamo a de-industrializzare l’Italia. Chiudiamo le multinazionali. Abbandoniamo l’economia. Se calano le macchine, tanto meglio. Chissà, magari siamo più contenti…e il virus si calma. La scienza “ufficiale”, cioè quella che viene divulgata, troverà da ridire, ma quella scienza ha una grave limitazione: è ancora cartesiana, riconosce reale soltanto la materia. Facciamo rivivere la cultura e proviamo a uscire progressivamente dalla civiltà industriale, magari potremmo essere un grande esempio per tutto il mondo. Faremo a meno del “mercato globale”, della competizione, poi anche del denaro stesso. Così torneremo “alla normalità”, che è quella degli ultimi milioni di anni, non quella degli ultimi due secoli, o degli ultimi decenni. Potremmo anche cambiare quell’articolo uno, che diventerebbe “L’Italia è una Repubblica fondata sul Mondo Naturale”.

Questo elenco di utopie è terminato. Ma oggi solo nell’utopia sta la speranza.

Un articolo dello scienziato italiano Adriano Buzzati-Traverso (1913-1983), pubblicato sul Corriere della Sera circa 50 anni fa, finiva così: Il periodo di rapida crescita della popolazione e dell’industria prevalso negli ultimi secoli, invece di venir considerato come condizione naturale e capace di durare indefinitamente, apparirà come una delle fasi più anormali nella storia dell’umanità.

Guido Dalla Casa

 
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