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Senza volto PDF Stampa E-mail

22 Febbraio 2021

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 Da Comedonchisciotte del 14-2-2021 (N.d.d.)

Durante una passeggiata pomeridiana sotto i portici del centro un amico mi ha salutato ma io non l’ho riconosciuto. La mascherina che indossava mi aveva impedito di identificarne i connotati. Solo dopo aver contravvenuto le rigide disposizioni anti-Covid, ovvero dopo essersi abbassata la “museruola”, sono riuscito a capire chi fosse e a ricambiare il saluto. Un episodio banale, che sarà accaduto a chi sa quanti italiani in questi tempi di pandemia. Eppure, quel piccolo incidente mi ha fatto riflettere sull’importanza del volto umano. È impossibile una relazione senza il riconoscimento del volto dell’altro. Mi sono ricordato di aver letto da qualche parte che ogni essere umano appena apre gli occhi alla vita cerca un volto: quello della madre. Una ricerca che continua per tutta l’esistenza e che rappresenta l’anima della stessa comunicazione e relazione con gli altri. Noi scopriamo di essere uomini quando riusciamo a fissare un volto e dire “tu”.  Il neonato cerca, infatti, il volto della madre, come il bambino cerca il volto dei genitori, l’amante cerca il volto dell’amato, il discepolo cerca il volto del maestro, l’uomo cerca il volto di Dio.

Il dramma dell’attuale società liquida e postmoderna sta nel fatto che l’uomo di oggi non sa dire coscientemente «tu» a nessuno. Proprio in questa drammaticità risiede e si nasconde l’ossessiva e violenta ricerca di potere che caratterizza largamente i rapporti usuali tra le persone, basati perlopiù sulla sistematica riduzione dell’altro a un disegno di possesso e di uso. Si tratta di un modello culturale da tempo imposto dal potere e alimentato attraverso la sua micidiale macchina di propaganda. Basta guardare una qualsiasi fiction televisiva in prima serata, o leggere i rotocalchi d’intrattenimento. Il potere ha bisogno di distruggere le relazioni sociali, di creare individui soli, isolati, possibilmente single, senza radici, senza identità, fragili, indifesi ed impauriti, ovvero dei soggetti perfettamente manipolabili. La pandemia Covid-19, da questo punto di vista, è stata un’insperata (o voluta?) manna caduta dal cielo. Ha persino legittimato il fatto di dover celare il volto con una maschera. Ma come si fa ad avere una relazione con l’altro senza vederlo in faccia? Proprio il volto umano è la parte del corpo che deve essere sempre denudata e che non deve essere nascosta. Non è un caso se nell’antica Grecia, lo schiavo veniva definito come πρσωπος (apròsopos), ossia senza (a-) volto (pròsopos), quindi senza dignità, senza libertà, una mera “res”, un oggetto nelle mani del padrone. Il volto scoperto è segno di libertà. Pure i lebbrosi allontanati dalla comunità erano senza volto. Il volto è anche ciò che contraddistingue l’uomo dall’animale, come ci ha insegnato il grande Cicerone nella sua opera De Legibus (I, 27): «(…) is qui appellatur vultus, qui nullo in animante esse praeter hominem potest, indicat mores» (quello che si chiama volto, che non può esistere in nessun essere vivente se non nell’uomo, indica il carattere di una persona). Il volto è un elemento essenziale della relazione umana. Persino Dio per farsi conoscere dagli uomini ha dovuto far intravedere il Suo volto diventando uomo, cioè entrando come persona nella storia. Si è rivelato attraverso il volto di Gesù Cristo, che è diventato il volto del destino umano, la natura del significato del nostro essere, proprio perché Gesù Cristo è il volto del Padre. Così la definizione totale del significato dell’uomo nel mondo è passata attraverso un volto. Mi sono anche ricordato che il filosofo lituano Emmanuel Levinas ha dedicato gran parte della sua ricerca filosofica proprio al significato del volto. Per il pensatore lituano, l’epifania, e dunque la manifestazione dell’altro, avviene nel dialogo, nel “faccia a faccia”. L’altro diventa quindi una rivelazione concessa in particolare dal volto, che è il mezzo di comunicazione primo e lo strumento attraverso il quale l’umanità di ciascuno si palesa, al punto da far intravvedere una traccia dell’Infinito. Il volto è il luogo in cui, più che altrove, si giocano le dinamiche dell’uomo, e quindi anche il suo rapporto col Potere. Per questo – come ha lucidamente scritto Giorgio Agamben, un altro filosofo che stimo – il volto è anche «il luogo della politica».

Lo stato d’eccezione in cui è piombata l’umanità a seguito della pandemia Covid-19 è arrivato al punto da far considerare normale il nascondimento del volto, persino doverosa la necessità di impedire l’epifania dell’altro. Sempre Agamben avverte, però, che «un Paese che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini è, allora, un Paese che ha cancellato da sé ogni dimensione politica», e «in questo spazio vuoto, sottoposto in ogni istante a un controllo senza limiti, si muovono ora individui isolati gli uni dagli altri, che hanno perduto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità e possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto». Mai come in questi tempi in cui il diritto appare condizionato dall’emergenza sanitaria, in cui l’Ausnahmezustand (stato d’eccezione) di Carl Schmitt rischia di diventare un paradigma normale di governo, il volto è davvero il luogo della politica. È la sfida alla tirannia che pretende un popolo di “apròsopos”, fatto di individui senza volto, senza dignità, senza identità, senza libertà. Ancora una volta Agamben sul punto è chiarissimo: «Il nostro tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto, lo tiene a distanza, lo maschera e copre. Non devono esserci più volti, ma solo numeri e cifre. Anche il tiranno è senza volto». È proprio così.

Gianfranco Amato

 
Andrà tutto male, un male necessario PDF Stampa E-mail

21 Febbraio 2021 

 Da Appelloalpopolo del 18-2-2021 (N.d.d.)

Il cittadino comune, perlopiù consumatore, lo comprendo. Lo tollero sempre meno, ma lo comprendo. Comprendo sia le speranze di quelli che invocano il “salvatore”, dal quale si attendono, invano, la salvaguardia della propria condizione di consumatore. Comprendo anche quelli che di speranza non ne hanno più e sono rassegnati, perché la condizione di consumatore, alla quale erano morbosamente attaccati, l’hanno ormai persa. NON comprendo invece quelli che come noi hanno studiato, hanno analizzato e hanno più o meno compreso la fase storica che stiamo vivendo, ma che ciononostante affermano che non c’è nulla da fare, o al contrario che bisogna fare qualcosa subito (cosa poi non sanno dire).

L’abbiamo sempre detto, c’è tempo, tanto tempo, una vita a testa, per organizzare la RIVOLUZIONE, che altri probabilmente faranno o che noi riusciremo appena, forse, a vedere. Andrà tutto male, ancora per molto, ma sarà tutto necessario, le rivoluzioni nascono così, e non sono un pranzo di gala, disse qualcuno che ne sapeva. Per cui davvero non capisco quelli della nostra area che si disperano per come stanno andando le cose, perché hanno fretta di recuperare o perché non credono che costruire la riscossa sia possibile: la Storia non finisce, mai, finiscono gli uomini, ma alcuni gettano semi e altri raccolgono le eredità. Le cose stanno andando esattamente come devono andare: “il rivoluzionario non deve avere fretta”.

Lorenzo D’Onofrio

 
Breve sintesi per una storia d'Italia dal dopoguerra PDF Stampa E-mail

20 Febbraio 2021

 Da Appelloalpopolo del 19-2-2021 (N.d.d.)

Prima i partiti avevano una politica e i militanti concorrevano a deciderla. Le competizioni elettorali erano solo una parentesi, seppur importante, nella vita del partito che continuava.

Poi i partiti hanno avuto un programma o un contratto. Perché dovevano convincere i cittadini, ormai usciti dai partiti, a votarli offrendo qualcosa in cambio. Le elezioni erano il solo momento rilevante della vita politica dei cittadini e l’unico momento in cui partiti e cittadini venivano a contatto. In fretta e superficialmente. Alcuni ingenuamente pensando che il contratto li avrebbe messi al riparo da sorprese. Altri, ingenuamente, pensando di scegliere l’offerta meno sconveniente.

Ora il programma ce l’ha una singola persona. Non è chiaro chi rappresenti, a quale titolo abbia un programma, quando lo abbia preparato, con chi lo abbia discusso, e nemmeno importa. Lo declama in Parlamento. E i partiti approvano. E i cittadini ascoltano.

Stefano Rosati

 
Distruzione creativa PDF Stampa E-mail

19 Febbraio 2021

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 Da Comedonchisciotte del 16-2-2021 (N.d.d.)

Molti si chiedono quale sarà la filosofia di politica economica a cui si ispirerà il nascente governo Draghi. Diversi commentatori – basandosi su un’interpretazione assolutamente fallace dell’operato di Draghi alla BCE (l’idea che le politiche monetarie espansive rappresentino una politica “keynesiana”); su un suo ormai celebre articolo di qualche mese fa sul Financial Times, in cui Draghi ha sdoganato il debito pubblico (quello “buono”); e in alcuni casi, persino tirando in ballo i suoi studi con uno dei più grandi economisti keynesiani del secolo scorso, Federico Caffè – sembrano convinti che Draghi si muoverà nel solco di una politica sostanzialmente espansiva, addirittura, appunto, “keynesiana”. Insomma, una politica opposta a quella austeritaria di Monti. Ma è lo stesso Draghi a smentire queste previsioni ireniche nella sua ultima uscita pubblica, ovvero il recentissimo rapporto sulle politiche post-COVID redatto dal G30 – ufficialmente un think tank, fondato su iniziativa della Rockefeller Foundation nel 1978, che fornisce consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale, secondo molti un centro di lobbying dell’alta finanza – presieduto proprio da Draghi insieme a Raghuram Rajan, ex governatore della banca centrale indiana. In esso si dice chiaramente che i governi non dovrebbero sprecare soldi per sostenere le aziende che purtroppo sono destinate al fallimento, definite nel rapporto “aziende zombie” – pensiamo per esempio, per quello che riguarda l’Italia, alle centinaia di migliaia di negozi e di esercizi pubblici messi in ginocchio dalla pandemia e dalle relative misure di contenimento della stessa e solo parzialmente puntellati dagli insufficienti “ristori” del governo –, ma dovrebbero piuttosto assecondare la “distruzione creativa” del libero mercato, lasciando queste aziende al loro destino e favorendo lo spostamento dei lavoratori verso le imprese virtuose che continueranno a essere redditizie e che si svilupperanno dopo la crisi. La tesi di fondo è che il mercato debba essere lasciato libero di agire (perché più efficiente del settore pubblico) e che i governi dovrebbero limitarsi a intervenire solo in presenza di conclamati «fallimenti del mercato» – concetto intrinsecamente liberista che sta a indicare una deviazione rispetto alla normale “efficienza” del mercato –, mentre laddove è un’impresa a fallire per il “naturale” operato del mercato, lo Stato non dovrebbe mettersi di traverso.

Nel documento del G30 ci si concentra anche sul mercato del lavoro, scrivendo che «i governi dovrebbero incoraggiare aggiustamenti nel mercato del lavoro […] che richiederanno che alcuni lavoratori dovranno cambiare azienda o settore, con appropriati percorsi di riqualificazione e assistenza economica». Il messaggio è chiaro: i governi non dovrebbero cercare di impedire le espulsioni di forza-lavoro dalle aziende destinate al fallimento, come in Italia e in diversi altri paesi si è tentato finora di fare, in parte, con il blocco dei licenziamenti (in scadenza a marzo) e il largo ricorso alla cassa integrazione. Piuttosto, dovrebbero assecondare e agevolare questo processo per permettere al mercato di provvedere ad una “efficiente” allocazione di risorse (tra cui gli esseri umani). Come nota l’economista Emiliano Brancaccio, siamo di fronte a «una visione “schumpeteriana” in salsa liberista che rischia di lasciare per strada una marea di disoccupati», nonché a gettare nella disperazione centinaia di migliaia imprenditori piccoli e medi. Altro che Keynes (o Caffè!): la visione di economia e di società incarnata nel documento del G30 – e implicitamente sposata da Draghi – sembra ricordare l’ideologia liberista degli albori, giustamente messa in soffitta in seguito al secondo conflitto mondiale, in cui i rapporti sociali, la vita delle persone, l’essenza stessa della società venivano subordinati ad un unico principio regolatore, quello del mercato. Trattasi di una visione non solo esecrabile dal punto di vista etico e morale, ma anche falsa: non esiste un mercato che opera “esternamente” allo Stato, in base a una sua logica autoregolante, rispetto al quale lo Stato può decidere se intervenire o meno; i mercati, al contrario, sono sempre un prodotto della cornice legale, economica e sociale creata dallo Stato. In altre parole, non c’è nulla di “naturale” nel fatto che una certa azienda fallisca piuttosto che un’altra. Se oggi le piccole attività rischiano la chiusura, mentre le grandi multinazionali macinano profitti da capogiro, è unicamente una conseguenza del fatto che come società ci siamo dati un principio organizzativo – che Draghi oggi punta a rafforzare – che privilegia le grandi imprese private rispetto alle piccole attività. Ma si tratta, appunto, di una scelta politica. Inutile dire che la visione di società del G30 e di Draghi è letteralmente agli antipodi della visione di Keynes e di Caffè – nonché di quella incarnata nella nostra Costituzione, che si appresta ad essere nuovamente stuprata – secondo cui il compito dello Stato è quello di dominare e governare i mercati, e l’opera distruttiva degli stessi, subordinandoli ad obiettivi di progresso economico, sociale, culturale, umano. Abbiate almeno la decenza di non accostare i loro nomi a quello di Draghi.

Thomas Fazi

 
La via metapolitica PDF Stampa E-mail

18 Febbraio 2021

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 Da Rassegna di Arianna del 14-2-2021 (N.d.d.)

L’azione politica in senso stretto non rappresenta più che un elemento tra gli altri di uno scontro molto più vasto. Ne risulta che la «neutralità» non esiste più ammesso che sia mai realmente esistita, e che al lato del potere politico si è costituito un altro potere, definibile come potere «metapolitico» o culturale in senso ampio.                                                                                                     

Tacere significa semplicemente dare un supplemento di potere a coloro che parlano. Il solo fatto di appartenere ad una scuola di pensiero, di richiamarsi ad una dottrina filosofica o religiosa, di votare per un partito piuttosto che per un altro, implica una presa di posizione suscettibile di estendersi a tutti i campi per formare una vera e propria concezione del mondo.                                                                                                                                                   

Conoscete la distinzione che fa Gramsci tra società civile e società politica. Il grande errore dei comunisti degli anni Venti, dice Gramsci, è stato di aver creduto che lo stato e le istituzioni si riducano ad un semplice apparato politico. Di fatto lo stato «organizza il consenso», cioè dirige, non soltanto attraverso il ricorso all’apparato politico, ma anche per mezzo di una ideologia implicita che risulta dalla presenza di valori ammessi e considerati «di per sé evidenti» dalla maggioranza degli associati. Questo apparato «civile» ingloba la cultura, le idee, i costumi, le tradizioni, il cosiddetto buon senso. In altri termini lo stato non esercita la sua autorità soltanto tramite costrizione. Esso beneficia pure, grazie all'esistenza e all'attività di un potere culturale, di una sorta di «egemonia ideologica», d’una adesione spontanea della maggioranza degli spiriti ad una concezione del mondo, che lo consolida, e al tempo stesso lo giustifica nei temi e nei valori che gli sono propri.

Nelle società ove regna una atmosfera culturale omogenea specifica, non vi è così presa di potere politica senza una presa preliminare del potere culturale. In questa prospettiva, la presa di potere non si effettua soltanto tramite una «insurrezione» politica che prende in mano, progressivamente o violentemente, il controllo dello stato, ma attraverso una trasformazione delle idee generali e dello «spirito dei tempi». E la posta di questa guerra è la cultura, considerata come il luogo del controllo e della specificazione dei valori e delle idee. L'uomo nasce come erede, come erede di un popolo, di una stirpe, di una cultura. La sua identità personale è indissociabile dalla sua identità collettiva, ed è precisamente questa parte fondamentale della sua identità, questa parte che lo ricollega al presente a coloro con cui condivide qualcosa, ma ugualmente a coloro che l'hanno preceduto e a tutti coloro che lo seguiranno, che si trova implicitamente negata da tutte le dottrine universaliste, e segnatamente dall’ideologia dei «diritti dell'uomo», la cui caratteristica essenziale è di ragionare partendo da una concezione astratta dell'individuo, senza mai tenere conto delle sue appartenenze naturali e concrete.

Una delle grandi leggi della vita, è la legge della differenziazione crescente. Ciò che fa la ricchezza dell'umanità, è la sua diversità e varietà; che è anche la condizione stessa della sua durata e perpetuazione. Oggi noi siamo di fronte ad un vasto movimento egualitario omogeneizzante, profondamente riduttore delle diversità del mondo. Questo movimento si esprime essenzialmente non soltanto attraverso un certo numero di ideologie negative, ma anche, e forse soprattutto, per mezzo della diffusione su scala mondiale di uno standard di esistenza e di civilizzazione di cui gli Stati Uniti costituiscono l'epicentro. Applicato alla vita dei popoli, l'american way of life si rivela essere un american way of death.                                                                               

La volontà di ritrovare le proprie radici è anche la lotta contro l'integrazione di tutte le culture in un «sistema» americano e occidentalista che impoverisce e spersonalizza. L'uomo deve esercitare in pieno le condizioni della sua autonomia. L'uomo deve essere colto nelle sue appartenenze e i popoli devono poter conservare la loro identità. La storia deve essere presa per quello che è, vale a dire per il risultato della nostra volontà e di essa soltanto. L'Europa infine deve vedersi dare un'altra possibilità che non sia quella d'essere una enclave economica in più nel sistema dei protettorati americani. L'Europa, come lo stesso uomo europeo, deve essere potente, unita, autonoma, indipendente e pienamente sovrana. Noi dobbiamo di nuovo fare la storia, se non vogliamo essere una parte della storia degli altri.

Alain de Benoist

 
Dualismo PDF Stampa E-mail

17 Febbraio 2021

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Che la Civiltà Occidentale abbia da riprendersi, o che - più probabilmente - debba concludere la sua parabola discendente e lasciar posto a qualcosa di altro, la possibilità di ascesa può fondarsi io credo solamente su una forma solida e positiva di spiritualità. Ciò che nella nostra civiltà non mi sembra di vedere. Anni fa sentii un intellettuale e uomo politico, un personaggio di una certa rilevanza nel panorama culturale occidentale, notare come la Civiltà Occidentale avesse due radici, quella ebraica e quella greca. Mi sembra vero: discordo però che abbiano dato buoni frutti. Un certo fondamento spirituale conduce a certi atteggiamenti morali; una certa disposizione morale conduce a certe realizzazioni sociali e politiche. Mi sembra di vedere nella nostra civiltà da una parte la radice monoteista-monista (ebraica) portatrice di moralismo, dall'altra parte la radice politeista-panteista (greca) portatrice di amoralità. Da parte ebraica, la considerazione di un Dio onnipotente pone l'essere umano in una posizione di debolezza morale; alla fin dei conti viene tutto da lui, da questo Dio, tutto ciò che è, è qualcosa che deve essere; anche le nostre inclinazioni equivoche, anche gli accadimenti nefasti, anche le ingiustizie; ha veramente senso impegnarsi per il Bene, oltre che inginocchiarsi ai "comandamenti"? È una debolezza morale che mi sembra emerga abbastanza anche nello stesso clero cattolico. Dall'altra parte, quella greca, nella Natura divinizzata tutto ha "volontà di potenza"; per questa via si arriva facilmente alle posizioni di un Konrad Lorenz, al riconoscimento dell'aggressività come valore, a cui sta dietro per coerenza il riconoscimento della sopraffazione come valore; e qui, magari, i sostenitori naturalistici e lorenziani della aggressività-sopraffazione sono gli stessi che accusano gli americani per il genocidio dei pellerossa, la schiavizzazione degli africani, le bombe atomiche sui giapponesi…

Per quanto mi riguarda, più che da queste due radici, traggo linfa da un filone religioso e spirituale molto antico, quello dualistico della tradizione iranica: Mazdeismo, Zoroastrismo, culti misterici di Mithra, Manicheismo. Nella cultura occidentale questa traccia è ancora abbastanza visibile in Platone; poi resta sotterraneamente, anche in certi aspetti del Cristianesimo. Qui non si tratta del semplicistico (e fuorviante) dualismo anima-corpo, spirito-materia, ma di un dualismo etico-metafisico. Il Bene e il Male sono due princìpi metafisici completamente separati, personificati nella tradizione iranica da Ormuz e Ariman. Questa visione ha conseguenze di grandissima portata: Dio è assente dal Mondo, che è stato creato o meglio ordinato proprio come territorio di mezzo; con la propria assenza dal Mondo, Dio garantisce l'intangibilità del Bene; il Mondo (che non è solo il pianeta Terra in atto) è quindi un territorio di mezzo dove si intrecciano e si scontrano il Bene e il Male, la Luce e la Tenebra; la struttura del Mondo è un riflesso divino, la sua tenuta testimonia la vittoria iniziale ed eterna di Ormuz su Ariman; la Natura è un luogo di simboli che elevano; l'essere umano ha nella profondità una scintilla divina (il Sé), e ciò lo colloca in una posizione di grande importanza e responsabilità: è l'estrema difesa del Bene, l'inviato divino nel Mondo, il combattente generoso. La presenza nel singolo essere umano della scintilla divina dà indubbiamente a questo tipo di prospettiva spirituale una certa connotazione individualistica. Si tratta però dell'individualismo sano, fondato sul Sé. L'essere umano singolo ha nella propria costituzione la possibilità del giudizio, la piena responsabilità del proprio agire, è l'estremo garante della tenuta del Mondo. Qualcosa di molto diverso quindi dall'individualismo-egoismo della mentalità borghese, che focalizza la coscienza sull'Ego e cerca di dimenticare il Sé.

Enrico Caprara

 
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