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De-differenziazione PDF Stampa E-mail

5 Febbraio 2021

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 Warren M. Hern nel suo articolo del 1989 “Why Are There So Many of Us” (da me tradotto e pubblicato in https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/2018/08/31/perche-siamo-cosi-tanti/), enumera le quattro caratteristiche principali delle neoplasie maligne:

Crescita rapida e incontrollata

Invasione e distruzione dei tessuti sani adiacenti

De-differenziazione

Metastasi a diversi siti

Successivamente passa ad esaminare il comportamento del genere umano su questo pianeta e ritrova tutte e quattro le caratteristiche in modo sorprendentemente analogo. Relativamente alle prime due l’analogia è palese: è sotto gli occhi di tutti come negli ultimi tempi l’uomo si sia moltiplicato in modo iperbolico ed abbia sottomesso o distrutto ogni bioma a lui circostante. Anche la quarta caratteristica è facilmente ascrivibile al modo di procedere della nostra specie che costruisce strade e mezzi di comunicazione per raggiungere i punti più remoti della Terra ove portare la cosiddetta “civiltà”. Sulla mia pagina Facebook ho proposto sette post “tematici” dedicati alle grandi metastasi. Chi volesse consultarli li trova ora riepilogati nel blog https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/grandi_metastasi/.

La terza caratteristica – la de-differenziazione - merita un discorso un po’ più approfondito, non essendo di per sé evidente come le altre. Senza scendere in descrizioni eccessivamente particolareggiate, ricordiamo che le cellule dei corpi viventi non sono tra loro tutte uguali, ma, in base agli organi e ai tessuti di cui fanno parte, hanno una propria morfologia. Non nascono differenziate. Come sappiamo, lo sviluppo degli esseri viventi più complessi procede dall’incontro di due sole cellule (i gameti) che sono all’origine dell’embrione. Ed è qui, nello stato embrionale, che prende avvio il processo di differenziazione cellulare, cioè la maturazione da una forma primitiva o indifferenziata a una forma matura o differenziata, con funzioni specializzate, processo che le cellule di un organismo pluricellulare multiforme subiscono per ripartirsi i compiti. Se questo è lo stato naturale delle cose, sappiamo anche che la mutazione del materiale genetico di cellule normali è all’origine dei tumori.  Ebbene, le cellule che subiscono la mutazione carcinogenetica, oltre a replicarsi in modo incontrollato e ad invadere i tessuti sani, perdono gradualmente la loro particolarità morfologica, ovvero la differenziazione che madre natura aveva loro assegnato per svolgere i compiti propri degli organi di appartenenza.

Diventano de-differenziate, ovvero vanno rassomigliandosi tutte le une alle altre, perdono ogni loro caratteristica distintiva. Ecco come il grande etologo Konrad Lorenz descrive questo processo: «I cancerologi, per caratterizzare una delle proprietà fondamentali del tumore maligno, parlano di immaturità. Quando una cellula respinge tutte quelle proprietà che le permettevano di integrarsi in un determinato tessuto organico … essa ‘regredisce’ necessariamente a una fase filogeneticamente o ontogeneticamente più antica; essa si comporta cioè come un organismo unicellulare o come una cellula embrionale, e incomincia a riprodursi senza riguardo per la totalità dell’organismo. Più si accentua la regressione, più il tessuto di nuova formazione si distingue da quello normale, più maligno sarà il tumore. Un papilloma che conserva ancora molte proprietà dell’epidermide normale, pur invadendo come verruca la sua superficie, è un tumore benigno; un sarcoma, che è formato da cellule mesodermiche tutte uguali e completamente indifferenziate, è un tumore maligno.» (K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano, 1974, p. 84)

Per determinare la gravità dei tumori è stata elaborata una apposita ‘scala’ o ‘grading’ che misura il grado di aggressività delle neoplasie in base al loro grado di differenziazione cellulare. Il sistema di grading più utilizzato prevede 4 gradi possibili:

GX Grado non determinato

G1 Ben differenziato (grado basso): < 25% di cellule non differenziate

G2 Moderatamente differenziato (grado intermedio) < 50% di cellule non differenziate

G3 Scarsamente differenziato (grado alto) 50-75% di cellule non differenziate

G4 Indifferenziato (grado alto) cioè anaplastico: > 75% di cellule non differenziate

(fonte Wikipedia)

Questo per quanto riguarda i tumori. E per quanto riguarda gli esseri umani? Non stiamo andando verso la più completa indifferenziazione di tutte le caratteristiche che un tempo costituivano gli elementi distintivi di ogni raggruppamento antropico e, all’interno del medesimo, di ogni ceto o casta sociale? Il discorso è delicato. Sappiamo che i fautori del “progresso senza fine” sbandierano questo livellamento come uno dei risultati più positivi dell’avanzata della ragione, della marcia trionfale della cosiddetta civiltà. Per ottenerlo si sono combattute guerre e sono scoppiate sanguinose rivoluzioni. Poi, da un certo punto in avanti, il livellamento è iniziato e progredisce a ritmo crescente. Ma vediamo separatamente quali erano gli elementi principali che connotavano la differenziazione degli esseri umani, quando non erano cellule malignamente aggressive come oggi. Innanzitutto la differenziazione dei tratti somatici (altezza, dimensione corporea, colore della pelle, taglio degli occhi ecc. ecc.), in una parola tutte quelle caratteristiche che un tempo venivano definite “razziali”. Oltre all’aspetto fisico, l’elemento che maggiormente distingueva e separava i vari gruppi umani era il linguaggio. All’interno di ogni popolazione, di ogni etnìa, di ogni tribù si comunicava con idiomi specifici, comprensibili solo dagli appartenenti al gruppo. Ciò innalzava delle vere e proprie barriere all’interscambio di informazioni e contribuiva a preservare la specificità dei singoli raggruppamenti. Infine le varie popolazioni si differenziavano in base alle tradizioni, agli usi, ai costumi, ai rituali, alle credenze religiose, alle superstizioni, al modo di abbigliarsi e di ornarsi, a tutto l’insieme di elementi che le culture locali avevano elaborato e tramandato in migliaia e migliaia di anni. Ebbene, come nel tumore maligno i tratti caratteristici delle singole cellule vanno scomparendo per lasciare il posto ad un unico tipo di cellula indifferenziata, così nel tumore planetario di cui l’uomo è cellula cancerogena si verifica un analogo processo attraverso:

L’omologazione dei tratti somatici

L’abolizione delle barriere linguistiche

L’abbattimento di ogni tradizione e cultura autoctona

Vediamo punto per punto come avviene il processo e perché è destinato a proseguire sino al suo tragico esito finale. L’omologazione dei tratti somatici:

nonostante il colore della pelle e le caratteristiche fisiche collettive siano tra gli elementi che contraddistinguono gli esseri umani in modo più evidente, la loro omologazione rappresenta per il cancro del pianeta un elemento di minore importanza rispetto ai restanti due di cui parleremo. Un uomo può essere bianco, nero o giallo, ma se parla inglese, veste in giacca e cravatta, guarda le serie TV, passa gran parte del suo tempo su Facebook e mangia hamburger e pop corn è pronto a contribuire in modo aggressivo (passivamente o attivamente) all’opera di distruzione della biosfera. Ciò premesso vi è da dire che il rimescolamento dei popoli, iniziato già da qualche secolo ma in corso di intensificazione avanzata, condurrà inevitabilmente all’omologazione anche fisica degli appartenenti alla famiglia umana. La tendenza ad uniformare l’aspetto corporeo riguarda oggi persino i rappresentanti dei due sessi, che in numero sempre maggiore tendono a nascondere le differenze che un tempo venivano messe in risalto e a ostentare i tratti comuni. Ma questo è un fenomeno più culturale che fisico, conseguente a quell’abbattimento delle tradizioni di cui parleremo più sotto. L’abolizione delle barriere linguistiche: il grande tumore planetario, di cui siamo gli agenti inconsapevoli, trova un grave ostacolo al suo avanzamento nelle barriere linguistiche che da sempre hanno separato i vari popoli. La malattia per progredire richiede un’organizzazione sociale la più coesa possibile. Il suo ideale sarebbe che l’orbe terracqueo fosse governato da un’Autorità unica mondiale tramite organi di comando gerarchicamente disciplinati e capillarmente diffusi. Questa visione orwelliana si completerebbe con la diffusione di un unico linguaggio universale. Questo era l’obiettivo di chi ideò l’Esperanto, ma all’epoca (seconda metà dell’Ottocento) i tempi non erano maturi, e il tentativo fallì. Oggi l’omologazione linguistica ha fatto passi da gigante. Secondo Ethnologue.com delle 7.000 lingue parlate nel mondo solo 359 sono veramente globali, parlate da milioni di persone. Le altre sono a rischio estinzione. Pare che scompaia una lingua ogni due settimane. E il 94% della popolazione mondiale parla il 6% delle lingue esistenti, mentre il restante 6% degli umani comunicano attraverso il 94% delle altre lingue. All’interno dei circa 200 Stati nazionali esistenti al mondo, costituitisi durante l’800, dopo la fine della prima guerra mondiale e dopo la seconda con la decolonizzazione, le autorità statali hanno provveduto a far tabula rasa della enorme pluralità di dialetti e idiomi locali esistenti. Gli strumenti di eradicazione sono stati molteplici, dall’istruzione obbligatoria, al servizio militare, alla pubblica amministrazione, finché poi è intervenuta la televisione che, parlando sempre e solo la lingua ufficiale dello Stato, ha definitivamente rimosso l’uso delle parlate locali nelle nuove generazioni.

Ora esistono ancora importanti barriere ma già l’inglese si profila all’orizzonte come lingua universale, in conseguenza della capillare diffusione dell’impero coloniale britannico. Il World Wide Web gioca in tal senso un ruolo importante. Permane il problema del cinese e dell’arabo, ma il processo di omologazione linguistica è avviato e non potrà che progredire. L’abbattimento delle tradizioni e culture autoctone: parallelamente all’uniformazione dei linguaggi si è susseguita quella di mode, costumi e tradizioni. In questo caso gli strumenti più efficaci di livellamento sono stati i mezzi di comunicazione di massa, dapprima i giornali e le riviste illustrate, poi il cinema e la televisione. Ma già l’istruzione obbligatoria e il trasferimento dei funzionari statali e non statali (compresi i preti) da regione a regione, da città a città, avevano fortemente contribuito ad estinguere gran parte delle tradizioni folcloristiche paesane. Lo spopolamento delle campagne e l’emigrazione di massa hanno poi assestato alle culture locali gravi colpi, finché anche in questo caso la rete globale dei computer ha inferto il colpo mortale.

Oramai quasi tutti ci vestiamo allo stesso modo, mangiamo cibi standardizzati, seguiamo gli stessi ritmi lavorativi e abitiamo in case pressoché identiche le une alle altre, sia che si viva in città sia che si viva in campagna o in montagna. Due marchi tra tutti, McDonald e Ikea, insieme a mille altri, danno l’idea di come le nostre abitudini alimentari e abitative si stiano ormai omologando a livello mondiale. Le grandi religioni, prima di divenire esse stesse obsolete, avevano già iniziato a spazzare i miti locali, a volte anche inglobandoli.

Ora il processo di omologazione ha quasi raggiunto il suo obiettivo, e cioè renderci il più possibile simili gli uni agli altri. In tal modo sarà più semplice nonché inevitabile giungere all’istituzione di un Governo Unico Mondiale. La previsione è terrificante, ma ha una sua logica. Solo un’Autorità globale potrà gestire i problemi globali che ci aspettano e per farlo avrà bisogno di una platea di sudditi sufficientemente omogenea. Questa impressionante ‘macchina da combattimento’ sarà in grado di completare l’opera di devastazione dell’intera ecosfera, esattamente come il tumore maligno riesce a distruggere tutti i tessuti sani dell’ammalato di cancro. Le cellule de-differenziate sono le più maligne e aggressive di tutte, e noi uomini siamo decisamente incamminati su quella strada. Dobbiamo prendere atto di questa realtà e divenire ‘cellule maligne consapevoli’, così come ho cercato di suggerire nella mia nuova opera “Il Cancro del Pianeta Consapevole”.

Bruno Sebastiani

 
Bastava ascoltare Gaber PDF Stampa E-mail

4 Febbraio 2021

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 C’è un rosario di evidenze che unisce le perle della crisi del 2008 a quella della gestione della presunta* pandemia? C’è in atto un’azione per conformare società idonee a essere gestite dai fuochisti del vapore del mondo? L’eventualità di un epilogo cruento con reazioni di tipo rivoluzionario, ha un’alternativa di tipo diverso?

Per una volta mi sarebbe piaciuto essere un economista. Avrei compiutamente citato bond e subprime, banche, persone, percentuali e istituti. Non lo sono. Ed è meglio. Mi evito che qualcuno si attacchi ai particolari. Ma non come fanno gli sfortunati inetti all’astrazione, con i quali è difficile andare oltre le forme, oltre le apparenti differenze. Piuttosto come fanno quelli lucidi nel leggere chi gli parla. Nel comprendere la logica di base dell’interlocutore. Sono quelli che hanno le doti per deviare il discorso quando non torna comodo seguirlo. Piazzano un diversivo degno di Sun Tzu e il gioco, con buona probabilità, è fatto. Un buon diversivo è tale quando rapisce e sposta l’attenzione per il tempo necessario a compiere la missione dei nostri interessi.

La crisi del mercato immobiliare americano scoppiata nel 2008, 12 anni fa, si è propagata in tutto il mondo capitalista occidentale. Nel giro di pochi anni, la Grecia è fallita, altri stati hanno traballato, tutti i mercati europei sono stati terremotati. Quelli asiatici ne hanno risentito riducendo la crescita del Pil, il Giappone in particolare. Solo Cina e India sono rimaste escluse dalla crisi. In questo collasso finanziario qualcuno ha osservato il culmine del capitalismo stesso, il termine della sua egemonia sulle menti. È stato scavato un baratro tra la vita a misura d’uomo e quella virtuale. Per nasconderlo, lo si è riempito di avidità camuffata in tutti i modi possibili, con tutti i diversivi necessari, fossero guerre, leggi popolari sull’assistenza sanitaria. E molti seguitavano a credere che opportuni correttivi dei regolamenti avrebbero mantenuto il capitalismo in testa alla classifica dei migliori mondi possibili. Ma il fondo del baratro non ha retto il peso di tanta avidità. Il vuoto che ne restava era il segno, sia di un sistema che aveva saputo fare promesse e che aveva saputo venderle, che di una consapevolezza diffusa e crescente su come realmente veniva e viene concepito il cittadino medio da parte di chi possedeva e possiede i mezzi per guidarne i comportamenti. Su un crescente senso di ingiustizia, vessazione, alienazione. Ma anche – ed è il punto – che i mezzi e le strategie che lo avevano fino a quel momento sorretto non sarebbero più bastate. Era necessaria un’idea guida di nuova generazione, che non mandasse il banco definitivamente all’aria. Le rivolte di carattere rivoluzionario, temute da molti osservatori, dovevano essere scongiurate. Conflitti locali avrebbero sovvertito l’ordine e sostituito i vassalli e i valvassori dei sovrani della terra. Serviva dunque qualcosa che permettesse loro di mantenere lo scettro al cospetto di un’opinione pubblica non più ingenua, quantomeno, come prima. Una nuova strategia per seguitare a godere del servizio dei subalterni del mondo.  [A dire il vero, sui subalterni ci sarebbe molto da discutere. E forse, più se ne discute – a meno di essere intellettualmente disonesti – più si devono riconoscere le responsabilità loro e dei loro esponenti politici. A meno che non si voglia mandare al macero Foucault, Pasolini, Chomsky, Morin e compagnia. Ma sarebbe bastato Gaber]. Se fino al 2008 distribuire briciole era bastante a tenerci a bada, dopo quella data e la corrispondente diffusione della consapevolezza di come siamo considerati – carne da mercato –, è emersa la necessità di mettere in campo diversivi di maggior spessore.Ma nonostante la caduta rovinosa, le élite e il loro occulto vertice, alla faccia di tante nefaste previsioni, non stanno per essere sopraffatte. Hanno tutto sotto relativo controllo. E non per buona sorte, per intelligenza strategica e mezzi economici. In più, con la potenza di fuoco della comunicazione – nonché di censura – di cui dispongono, hanno relativamente poco o nulla da temere. Al massimo sparirà qualcuno di loro – qualche Theodore Kaczynski c’è stato e ci sarà ancora –, ma non il corpo grasso e ben protetto della cricca. Non si può nemmeno dire che abbiano saputo reagire. Sembra infatti preferibile pensare che fossero da tempo in attesa di mettere in atto un piano all’altezza dei tempi. Chiamali stupidi! Indipendentemente da quanto si sarebbe potuto fare prima – “Se me lo dicevi prima”: Jannacci l’ha spiegato meglio di chiunque – oggi la consapevolezza di essere ingannati è considerata perfino nella comunicazione delle banche. Non più tecnici competenti e professionali, con grande esperienza e specializzazione, ma amici che si prendono cura di te. Non come prima, pare di leggere tra le righe dei testi, nelle scelte di foto, grafica e colori. Una versione bancaria del mulino bianco, che ha avuto così tanto successo. Il forte timore e/o la consapevolezza di essere presi in giro, legalmente derubati, si estende da anni a macchia d’olio. Chi tirava il carro – e lo tira ancora – è sul chi vive. La sfiducia nei confronti delle istituzioni e della politica è da tempo ai massimi storici e la salita non accenna a rallentare. Se la domanda è: Ma dove hai preso questo dato? Per strada, è la risposta. E se per strada circola di tutto, esci dall’ufficio con gli arazzi e gli stucchi e scendi giù, dove potrai misurare la distanza dell’uomo comune dalla politica e dalle istituzioni.   A dire il vero è stato fatto. La loro intelligence lavora alacremente per capire quanto manchi alla scintilla che sarà meglio evitare dia fuoco alla miccia del tritolo sociale. Sono per strada eccome, a maggior ragione in questa fase che nessuno è disposto a definire in altro modo che difficile. Ma mentre per tutti la fase è impegnativa, nel senso che si continuano ad aggiungere buchi alla cintura, per qualcuno lo è – o lo è stata – per escogitare quella accennata nuova idea, il diversivo utile allo scopo del controllo sociale e del mantenimento del potere.

È forse in questo quadro che va interpretata la presunta* pandemia da SARS-CoV-2 – sempre non sia essa stessa un diversivo scelto – la quale ha dato loro il terreno per avviare una campagna mediatica, che oltre ad essere terrorizzante, contiene le indicazioni utili per vivere nel nuovo mondo. Tra cui flessibilità, proprietà privata impossibile perché troppo costosa, precarietà, accondiscendenza felice del reddito politico, responsabilità di come vanno le cose, riduzione degli spostamenti, eventuale passaporto sanitario, guerre tra poveri. Mescola tutto con il controllo sanitario, i vaccini a tappeto “per il bene di tutti” e il 5G – presentato come un passo avanti del progresso – e viene fuori la miscela utile per intendere le modalità di una riduzione demografica, diciamo, incruenta. E chi resterà loderà le élite, perché loro e solo loro si saranno occupate dell’ambiente. Loro e solo loro avranno migliorato il mondo. Accadrà non diversamente da come lo fanno ora, assumendo Greta, estraendo dal cappello economie circolari, verdi, ed economie sostenibili. Se le persone credono ora a queste miserie, loro hanno la certezza che crederanno alle prossime. Già conosciamo gli effetti della comunicazione ridondante: il cibo spazzatura è ammaliante e irresistibile; i produttori di latte vaccino ora tacciono, ma al tempo tacciono, tempo perché non hanno denaro per una campagna che sarebbe simile a quella di Hollywood, che in tutti i film faceva casualmente comparire su tutte le tavole, in mano a tutti i bambini. Altrettanto aveva fatto con le Marlboro e la Budweiser. E così via per la generazione di bisogni, per ogni scelta che non faremmo se non già presente in noi attraverso la ridondante comunicazione di commercianti e venditori. Strutturalmente, nulla di differente, ma proprio nulla – salvo per quelli inetti all’astrazione – rispetto a quanto messo in campo a suo tempo negli Stati Uniti con la politica a tassi bassissimi dei mutui immobiliari. La sirena per la casa di proprietà incantò molti in attesa di compiere un passo verso il sogno americano. Più persone firmavano un mutuo e più persone erano controllabili: mai si sarebbero comportate in modo da comprometterne l’estinzione; mai avrebbero reagito a politiche impopolari, al crescente liberismo ammazza cristiani. I debiti dei Paesi non saranno mai saldati, la disoccupazione non potrà calare, anzi, la flessibilità sostituirà la garanzia del posto fisso. Servono persone docili, che siano disponibili al reddito politico, che si spostino poco, che possano lasciarsi controllare contente di scaricare giga in un secondo. La riduzione della disponibilità economica incrementerà la disponibilità a non generare, a non mettere su famiglia. Incrementerà il mercato del condiviso, dello share, le proprietà private saranno tassate in modo crescente, favorendone le vendite agli stessi che ci dicono che così non avremo più spese di manutenzione, e così via; gli affitti diventeranno crescentemente strozzanti (da strozzini). Nel contempo, non potremo rinunciare al digitale, non potremo sottrarci all’obsolescenza sempre più cinica. Il cibo decente avrà prezzi più selettivi di quanto non sia già. L’assuefazione alla comunicazione indurrà crescente dipendenza e alienazione connessa. Si cercherà – più patologicamente di quanto già non sia – il nuovo messaggio, la nuova mail, la nuova notizia pur di avvertire il pulsare del succedaneo della vita, il solo disponibile alla maggioranza. Il bene del pianeta sarà a cura di multinazionali, nessuna amministrazione avrà il denaro per prendersene cura anche nel proprio piccolo. Attraverso quella vetrina, le nuove generazioni celebreranno il bosco risparmiato e contemporaneamente applaudiranno i benefattori dell’ambiente. Il nuovo standard si sta attestando nelle persone. È uno sfregio a tutto ciò che abbiamo creduto: così come l’edonismo e l’opulenza avevano fatto a meno degli uomini che con una stretta di mano non avevano altro da aggiungere, ora la dimensione umana si ritrova con uno spazio ulteriormente ridotto nelle interazioni. Sarà materia da specialisti. Psicologi a loro volta in lotta per gestire l’alienazione, dovranno gestire quella dei loro pazienti. Insegnanti con sempre meno peso educativo diverranno tecnici che spiegano qualche on e off. L’eros, l’infinito spirito della vita, è così rinchiuso in nuove categorie. Chi nascerà domani le scambierà come verità e su quelle fonderà la propria biografia e i propri valori. L’ultima generazione che ha toccato il mondo a misura d’uomo è in estinzione. Il diversivo ha funzionato per il tempo necessario allo scopo. E il bello è che la fascia media sarà l’esercito di quella che le sta sopra. Saranno i collusi delle élite a difenderle, a fare il lavoro sporco. Neri e poveracci si prenderanno tutta la colpa e tutto l’odio. Farne a meno non sarà cruento, sarà normale.

* Secondo la definizione dell’Oms, una pandemia è la diffusione in tutto il mondo di una nuova malattia e generalmente indica il coinvolgimento di almeno due continenti, con una sostenuta trasmissione da uomo a uomo. La gravità di una malattia non è il parametro decisivo perché venga dichiarata una pandemia, che riguarda invece l’efficacia con la quale una malattia si diffonde.

*Presunta in quanto l’attuale tasso di mortalità – rapporto tra decessi e popolazione – mondiale del Covid-19 varia tra lo 0,3 e l’1%. Fino ad oggi la giornata più mortale è stata lo scorso 24 gennaio 2021, che ha segnato 14.045 deceduti nel mondo. Dividendo il dato per 7 miliardi e 700 milioni corrispondente alla popolazione mondiale all’ottobre 2019, risulta 0,5%. Se la mortalità per incidenti d’auto supera il 5% e se gli automobilisti sono presenti in tutti i continenti, forse si tratta di presunta pandemia.

Lorenzo Merlo

 
Indipendenti ma connessi PDF Stampa E-mail

3 Febbraio 2021

 Da Appelloalpopolo del 31-1-2021 (N.d.d.)

Una delle sfide politiche più importanti a cui il sovranismo è chiamato a rispondere è: Riuscire a concepire l’Italia dopo la UE. Riuscire a concepire una Italia indipendente sia da UE che da Nato, Russia e Cina, ma comunque inserita in un mondo multipolare, con connessioni con l’Eurasia (ove vive il 70% della popolazione mondiale e con cui abbiamo scambi economici e culturali dal medioevo), con forti collegamenti con l’Africa (per i motivi di cui sopra) e con il Mediterraneo come propria arena geopolitica e naturale culla di sviluppo. Essere, quindi, in grado di dimostrare che non abbiamo bisogno di tedeschi, inglesi, francesi o americani che ci dettino l’agenda geopolitica, per trovare il nostro posto nel mondo e risultare controparti credibili nei trattati internazionali con coloro che, ci piaccia o meno, rappresentano il fulcro del futuro sviluppo mondiale (ossia i paesi asiatici e africani).

Per ottenere la tanto agognata indipendenza, questo è uno degli obiettivi irrinunciabili a cui dobbiamo lavorare sin da ora (per non dire da ieri)

Emilio Di Somma

 
I vantaggi del lavoro dematerializzato PDF Stampa E-mail

2 Febbraio 2021

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 Iniziamo subito questo discorso con una spiegazione sulle parole (le parole sono importanti, disse Nanni Moretti, a ragione) e vediamo di capire cosa è la provincia, cosa è un'area metropolitana e cosa è una metropoli/megalopoli. Per area metropolitana noi definiamo tutta quella rete di città più o meno grandi ma intimamente interconnesse per lavoro, servizi, infrastrutture, trasporti, grandi centri commerciali e luoghi di divertimento di massa che gravitano intorno a un perno, ad un centro, ad una "metropoli" appunto -cioè "città madre", in greco antico; a differenza che la città sia più o meno popolata si parla di "megalopoli" ma nel complesso la sostanza non cambia per quanto concerne l'urbanistica. Tutto ciò che è al di fuori di una area metropolitana (a prescindere dalla grandezza dei registri anagrafici) è provincia e provinciale è l'aggettivo che lo definisce. La provincia è quindi per definizione meno abitata, più agricola, rurale, meno interconnessa, meno servita dai trasporti, lontana dai flussi del traffico e delle merci e dagli spazi ancora ben definiti che tendono ad aggregare e ad essere luoghi di un vissuto collettivo e condiviso, anziché "non luoghi". Ovviamente più il perno, il nucleo metropolitano è maggiormente abitato più cambiano i ritmi, gli stili di vita, la mentalità, la frenesia, le tendenze e quant' altro: più ristretto, piccolo e meno servita è la provincia, più la blandezza e la lentezza dei ritmi di vita tendono in generale a mantenersi. Sappiamo tutti che il modo materiale di vivere condiziona la nostra spiritualità e il nostro profondo, da qui la differenza ancora palese -nonostante una spietata globalizzazione livellatrice- tra chi è provinciale e chi è metropolitano. Fine della premessa e veniamo al sodo.

Lo stravolgimento delle nostre esistenze avvenuto negli ultimi 11 mesi ha messo in moto dinamiche ormai non più transitorie ma definitive, le quali sicuramente partiranno con una certa esitazione e lentezza ma che col tempo tenderanno ad accelerare esponenzialmente. Tra questi cambiamenti vi è il fenomeno dello smart working -destinato per i processi tecnologici a diventare normale- il quale sta portando ad un epifenomeno per nulla da sottovalutare: se col lavoro da casa sul pc la funzione della grande città come luogo aggregatore di uffici e aziende perde il suo senso, diventa allora inutile vivere all' interno di un agglomerato in cui, per inciso, i prezzi sono più alti che in provincia. Se io posso lavorare, con un wi-fi, da qualsiasi località del mondo e non devo essere presente fisicamente in ufficio, che senso ha restare a vivere in città ipertrofiche, stressanti, inquinate, alienanti e simili a gabbie umane? Il lavoro dematerializzato rende la grande città del tutto inutile.  Per il momento tutto ciò è  ancora in sordina, come rivoli d' acqua d'un ruscello, ma siccome dai piccoli fatti nascono grandi e gravi cose (effetto farfalla della Teoria del Caos) il fenomeno, nei prossimi anni, potrebbe esplodere: già qui nella mia realtà provinciale del profondo sud rurale e delle marine negli ultimi mesi ho assistito al trasferimento di diverse famiglie settentrionali, con figli compresi,  di persone che lavorano in smart working e che nei blandi ritmi di paese stanno riapprezzando uno stile di vita naturale compromesso e perduto. Vi garantisco che pure il sottoscritto tempo fa venne contattato da una coppia di romani in smart working per l'affitto di una delle mie proprietà. Mi vengono alla mente tutte le iniziative di alcuni piccoli borghi abbandonati che danno incentivi, tipo case da ristrutturare in vendita a prezzi simbolici, per attirare giovani e coppie.  Prima della pandemia questa lodevole iniziativa era frenata dall' handicap economico, con scarsa e nulla offerta lavorativa dei luoghi in questione ma ora, con questa prospettiva, cambia tutto a 360 gradi: un salario fisso senza obbligo di presenza, con una qualità di vita eccellente e costi minori è un incentivo troppo allettante per essere scartato. Ora più che mai è il momento di cavalcare l'onda da parte non tanto dei Comuni (mai attendere la politica...) quanto di associazioni, movimenti culturali e anche semplici cittadini. È solo nel quieto e ritmico spazio della provincia remota che noi potremo riprovare, seppur faticosamente, a cercare di ricostruire il senso di comunità, che è una delle ragioni della vita e uno dei nostri bisogni immateriali di gran lunga superiori ai "bisogni primari" descritti da Abramo Maslow (vedi la diatriba Maslow -Vittorio Frankl sui bisogni dell'uomo negli anni Sessanta).

Chiudo con una osservazione per chi mi legge: avrete notato che negli ultimi articoli sono diventato meno cupo e leggermente più aperto alla speranza. Tutto ciò non deriva da un ottimismo idiota alla "Candide" di Voltaire, ma da un sano realismo e analisi oggettiva ed empirica dei fatti che ci circondano. Per la ragione che da sempre divulgo, cioè che quando un sistema complesso e chiuso viene sottoposto a varianti nasce una entropia che porta, spesse volte, ad una eterogenesi dei fini. Ho la onestà intellettuale di scrivere che alcune cose troppo dure e drastiche scritte a novembre forse non le ripeterei; a mia scusante, il fatto che quando la Storia si scrive in "tempo reale" è difficile coglierne sempre gli eventi complessi in una realtà fluida. Non sarà una eterogenesi dei fini regalata, ci saranno macerie pesanti su cui ricostruire e vi sarà da soffrire, soffrire, soffrire e ancora soffrire, il pecorume dormirà e letargherà a lungo, ma neppure finiremo in quella atmosfera da "Ragnarokk", da "Crepuscolo degli Dei" di wagneriana memoria dove "i lupi mangeranno il sole e mangeranno la luna (...), il ponte di Bifrost crollerà (..) e moriranno uomini e dei". Esorto tutti quindi a restare vigili e ben nascosti nel Bosco, pronti a cogliere echi per le valli e sentori esterni. Altro, al momento, non si può ancora fare.

Simone Torresani

 

 
Tramonto del sogno americano PDF Stampa E-mail

1 Febbraio 2021

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 Da Rassegna di Arianna del 26-1-2021 (N.d.d.)

Il modello politico, economico e sociale statunitense non è più attrattivo per il mondo. La democrazia americana ha dimostrato, con le elezioni 2020, di essere una farsa. "Vince" il candidato delle lobby più influenti al momento, non chi prende realmente più voti. Il bluff è finalmente svelato, questa volta tutti o quasi hanno capito. Il sogno americano è tramontato nell'elegia americana che ci racconta di una società divisa, debole, malata, preda di paranoie settarie, irrimediabilmente separata in bande pronte a confrontarsi anche sul piano fisico (guerra civile a bassa intensità?). Chi potrebbe, oggi, razionalmente, sognare l'America se il mito identitario dell'America "sognata" a lungo da molti ingenui, il ceto medio americano, non esiste più? Il modello culturale americano è tramontato per sempre. Se Lady Gaga è l'interprete simbolico diretto di quel modello, chi potrà trarre ispirazione da esso? L'America è passata, a forza di "manovali", "muratori" e "costruttori" al lavoro ininterrottamente da decenni, da James Dean, Clint Eastwood e Ava Gardner a Lady Gaga. Ebbene, R.I.P. USA (senza rimpianti né nostalgie). Un impero morente si chiude su se stesso, e amplifica i suoi tratti paranoici. L'élite americana si chiuderà a riccio sempre di più. Non è in grado di cambiare. L'immagine di Kamala Harris immortalata sorridente e glamour sulla copertina di Vogue mentre fuori l'impero crolla e il Paese brucia è di una violenza ideologica e di un potenziale evocativo-simbolico inauditi. È il ritratto di un'élite separata, incosciente, incapace di leggere il divenire dei tempi e di farsene interprete. Una élite arroccata nei suoi privilegi e nelle sue idiosincrasie ideologiche, sganciata dalla realtà e priva di un'idea di futuro. Quando gli imperi muoiono, tendono a chiudersi. L'Italia segue. Altri Soli sorgeranno a Oriente, e prenderanno il posto di quello che tramonta. La Storia è un fiume in piena.

Paolo Borgognone

 
Una strada nel bosco PDF Stampa E-mail

31 Gennaio 2021

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 Da Rassegna di Arianna del 29-1-2021 (N.d.d.)

Se non ora, quando? È urgente, indispensabile, organizzare un forte contrattacco culturale nei confronti del Grande Reset, dell’egemonia della correttezza politica, dell’arroganza vittimista degli indignati e degli offesi. Occorre fermare e invertire la cancellazione di una civiltà- la nostra- che ha tremila anni; contrastare la narrazione liberista e la riduzione del mondo a monopolio privato di pochi giganteschi gruppi finanziari, economici e tecnologici. Vasto programma, ma non esiste alternativa. O si muore soffocati o si esce dal guscio. Il problema è enorme: da che parte andare, quali principi difendere, a quali interessi, ceti e gruppi sociali rivolgerci?

Poeticamente abita l’uomo, sosteneva Martin Heidegger. Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, scrisse Friedrich Hölderlin. Iniziamo la riflessione con un verso sciolto della poetessa Alda Merini: “il verme non sceglie mai di vivere in una mela marcia. Sceglie sempre di far marcire una mela sana”. C’è già, in nuce, il discrimine tra amico e nemico. L’amico è colui che sa di vivere in un campo di mele marce.  Il compito, titanico, è salvare gli alberi e i frutti ancora sani e su di essi ricostruire.  Se crediamo di essere immersi nella “notte del mondo”, dobbiamo avere il coraggio di insorgere e di battere strade nuove. Le vecchie sono ostruite o crollate. Anche i segnavia sono cancellati, non resta che farsi strada in un bosco marcito per il lavorio incessante dei vermi. C’è una strada nel bosco fu una splendida canzone nata sotto i bombardamenti del 1943, inno di vitalità e speranza. Quando tutto è negato e la verità è scossa dalle fondamenta, è alla verità che occorre aggrapparsi ed incalzare il nemico, ripartendo dai fondamenti. Rifiutare l’imbroglio del politicamente corretto che scinde il linguaggio dalla verità. La neve è bianca, i sessi sono due, il bene e il male esistono, ci sono un padre e una madre, l’erba è verde in primavera. Solo la verità rende liberi, e la libertà è la grande riconquista a cui tendere. Impoverimento, intrusione del biopotere nella sfera intima, sorveglianza, distruzione della civiltà, capovolgimento dei principi e dei significati, il male al posto del bene, la menzogna al potere, uniti con l’impoverimento materiale, la distruzione della speranza in milioni di cuori. Reset significa cancellazione, dovremmo fare più attenzione alle parole. Non ci si può limitare ad opporsi a questa o quella politica, ma costruire un fronte tra i non garantiti di oggi e di domani, poiché il grande reset concentrerà ulteriormente potere, conoscenza e redditi verso l’alto, schiacciando la libertà, diffondendo miseria e proibendo il dissenso. La metafora della mela fu utilizzata da Tommaso d’Aquino in una lezione: se non credete che questa è una mela, ammonì, uscite dall’aula. Nella notte del mondo, una mela è un cocomero o qualunque altra cosa, se il dispositivo del potere così decide.  Per noi, la mela resta una mela, anche se la legge degli uomini accecati prescrive il contrario. C’è una strada nel bosco, ma bisogna avere il coraggio, prima, di “passare al bosco”, nel senso indicato da Ernst Junger, diventare ribelli, smettere di confidare nel sistema o immaginare che sia possibile riformarlo dall’interno. L’egemonia del verme, padrone della mela, ci contagerà, come ha fatto con troppi altri prima di noi. Non vi è che la via più stretta ed impervia, procedere passo passo per ricostruire il sentiero. È una giungla, là fuori, ma dobbiamo attraversarla, piantare semi e tessere pazientemente la tela dell’egemonia.  Scriveva Antoine Saint Exupéry in Pilota di guerra, osservando le rovine: “l’unica vittoria di cui non dubiterei mai è quella racchiusa nel potere del seme. Appena viene piantato nella terra scura, il seme è già vincitore. Ma per assistere al suo trionfo nel grano bisogna che il tempo si dipani. Non mi preoccupo del fango se in quel fango si nasconde un seme. Il seme lo assorbirà per costruire”. Gettare semi, piantare alberi richiede fiducia nel futuro e una grande generosità: inevitabilmente i frutti saranno colti da un’altra generazione. L’obiettivo è riprendere l’egemonia perduta, recuperare l’anima, il cervello, il senso comune conquistato dal nemico. Per riuscirci, è essenziale la lezione di Antonio Gramsci. È arduo indicare come modello qualcuno di cui non si condividono gli obiettivi, ma è impossibile individuare, nel deserto del pensiero tradizionale, maestri di strategia migliori dell’intellettuale sardo, il cui concetto di egemonia oltrepassa lo scopo per cui venne teorizzato. L’egemonia culturale è la chiave per conquistare e mantenere il dominio politico e sociale attraverso il consenso. Lasciamo da parte i motivi per cui è stata perduta e concentriamoci sul fatto che non abbiamo combattuto, né in difesa né in attacco, abbiamo subito per generazioni l’iniziativa di chi era interessato a “decostruire”, far marcire la mela. Abbiamo abbandonato senza reagire le casematte del potere. Una lezione gramsciana è che la classe dominante può evitare scontri pericolosi realizzando rivoluzioni passive, il metodo dell’”americanismo”. La lezione è stata applicata dalle élite neoliberali, che hanno volto a proprio vantaggio il Sessantotto, la rivoluzione sessuale, il femminismo, la secolarizzazione. […] La vittoria postuma di Gramsci sta nel fatto che ha ispirato una duratura classe di intellettuali, alcuni dei quali sono diventati dirigenti politici. L’esatto contrario della tattica inconcludente della “destra”. Una formula gramsciana è l’importanza delle categorie di pessimismo dell'intelligenza e ottimismo della volontà. Realismo, capacità di attendere e di fare passi indietro, ma ferrea concentrazione sull’obiettivo, cambiare l’ordine esistente. […]

Abbiamo accumulato un ritardo drammatico, che la capacità di utilizzare i nuovi media non ha colmato. Quell’abilità ha costituito un campanello d’allarme presso l’avversario, che sta precipitosamente chiudendo tutti i canali di comunicazione in cui si era attivamente inserito il pensiero alternativo. Siamo all’anno zero e la strada nel bosco dovrà essere tracciata con le sole nostre forze, senza mappe, nell’ indifferenza e nel sarcasmo supponente non dei nemici, ma di chi, a livello politico, dovrebbe supportarci. I cani latrano, la carovana passa. Per passare, tuttavia, la carovana deve aprirsi la strada. Di fronte all'egemonia culturale, al predominio schiacciante dei mass media e alla capacità di stabilire la struttura mentale della maggioranza del progressismo, non abbiamo ancora trovato le armi concettuali, la forza del discorso, la vis attrattiva, i registri emotivi che consentono di ingaggiare la battaglia contro un nemico formidabile. […] Su questioni come la teoria del genere, l'approccio al cambiamento climatico, la difesa dell’ambiente, l'aborto, l'istruzione, la bioetica, ma anche sui temi della finanza , dell’economia monopolistica, della precarizzazione sociale, dello smantellamento delle identità spirituali, nazionali e politiche, delle libertà conculcate dalla tecnologia e dalla sorveglianza, della riduzione della persona a materiale plasmabile e compravendibile, l’ erosione della dimensione pubblica e statuale, dell’attacco allo stato di diritto, della decadenza delle istituzioni elettive, siamo pressoché ininfluenti. […]

L’approccio seguito dalle destre rinchiuse nel cerchio del sistema a rappresentarne la variante liberale classica, ovvero il trapassato remoto, può essere ricondotto a tre tattiche diverse, miopi e perdenti. La prima consiste nell'accettazione parziale delle tesi altrui, sfumate, addolcite e temperate, per conquistare la fascia tiepida della cittadinanza. Su tutto si cede progressivamente fino a confondersi con la controparte, per calcoli di corto respiro, pigrizia, incapacità di una visione alternativa, mancanza di fiducia nelle proprie idee. Una destrina a rimorchio, confusa e confondibile, un po’ vigliacca e molto opportunista, felice di essere accolta nel salotto buono, affidabile per i padroni del vapore. La seconda è la tecnica dello struzzo, che nasconde la testa sottoterra. Si rinuncia alla battaglia delle idee, non se ne parla né vi si accenna, si evita il confronto su valori e principi, limitandosi alla gestione economica, l’amministrazione delle cose che ora chiamano governance, la tecnica del potere fondata sull’esistente, senza progetti, diretta dalle oligarchie economiche e finanziarie, cui si aggiungono le burocrazie transnazionali e i colossi BigTech. […] Il terzo comportamento è la magniloquenza trombona, l’attacco duro ma sgangherato, emotivo, accompagnato da gesti e atteggiamenti di sfida, il rimpianto per un inesistente buon tempo antico. […]

I padroni delle parole sono i padroni del mondo; bisogna contendere loro i significati, rammentando la lezione di George Orwell sui totalitarismi: la verità è menzogna, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. È una scelta strategica del potere espropriare le masse delle parole, allontanarle dalla conoscenza, riempirle di “diritti” nella sfera pulsionale, orientarle all’ irresponsabilità a vantaggio della comodità. Combattere la guerra delle parole è la prima battaglia di chi passa al bosco. La seconda è uscire definitivamente dalla gabbia liberale. Oggi tutti si dichiarano liberali, ma l’unico liberalismo da salvare è quello la cui intenzione morale è andata perduta per la prevalenza schiacciante della dimensione economica - il liberismo – e la vittoria dell’indifferentismo morale e religioso. Il liberalismo “buono” è un habitus etico spirituale, il diritto che la maggioranza attribuisce alle minoranze, “la decisione di convivere con il nemico, e di più, con il nemico debole” (J. Ortega). Anticaglie. Al liberalismo reale interessa esclusivamente difendere la proprietà privata dei giganti, confinare nell’intimità i sentimenti morali e religiosi e rendere ininfluente la dimensione pubblica a vantaggio degli interessi privati e dell’egemonia della dimensione economica. È la teorizzazione della legge del più forte e del più ricco. […]

Le nazioni muoiono, sostituite da megacorporazioni con diritto di vita e di morte. La sottomissione avviene attraverso la chiusura mentale e spirituale. Il Nuovo Ordine si è disfatto dell’illusione democratica e ha preso il controllo delle nostre vite. Dunque, la strada nel bosco deve contenere un forte appello alla libertà, intesa come partecipazione, padronanza di noi stessi. La libertà non è il diritto del più forte e nessuna idea può essere vietata.  Siamo chiamati alla resistenza, non all’opposizione. […] Non ci si può limitare a contrastare questa o quella politica, ma fondare un radicale antagonismo. Nessuna destra, nessuna sinistra, ma un fronte, un’alleanza tra i non garantiti di oggi e di domani. I segni sono sinistri: diritti fondamentali derogati, stretta sulla mobilità, imposizione della didattica a distanza e del telelavoro. Erano prontissimi e hanno agito senza indugio. Ci siamo lasciati sorprendere; hanno chiuso fabbriche, uffici, negozi, scuole. E poi musei, biblioteche, cinema e teatri: la cultura contagia. Siamo a un tornante della storia. L’egemonia perduta si ricostruisce tracciando segnavia, indicazioni lungo il sentiero per riconoscerlo. Armati di picca, pala e passione, ribelliamoci e organizziamoci.

Roberto Pecchioli 

 
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