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Siamo messi male PDF Stampa E-mail

21 Luglio 2020

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 Da Rassegna di Arianna del 19-7-2020 (N.d.d.)

L’altro ieri, la missione di analisti dell’IMF, di ritorno dal suo soggiorno americano, ha pubblicato questo rapporto su stato e prospettive dell’economia americana che da sola vale un quarto di quella planetaria. Nel secondo trimestre (A-M-G), il Pil USA ha fatto -37% (lo ripeto per i distratti e coloro che saltano i dati di quantità a priori perché preferiscono le parole: “meno trentasette per cento”). Si prevede che l’economia USA tornerà ai livelli di Pil fine 2019, solo a metà 2022, forse. IMF segnala che gli USA erano già un sistema con una forte componente di povertà interna, la crisi è destinata ad allargare e sprofondare questa parte addensata nelle etnie afro-americana ed ispanica. Al momento sono 15 milioni i disoccupati ed è appena iniziata la catena di fallimenti di esercizi commerciali ed imprese che accompagnerà la lenta ma costante caduta. Ed aggiunge: “il rischio che ci attende è che una grande parte della popolazione americana dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire.”. “Molti anni a venire”, come riportato in post precedenti, viene da Nouriel Roubini e dai "miliardari invocanti tasse", quotato sulla prospettiva del decennio, magari non saranno proprio dieci anni, ma al momento le prospettive sono di crisi profonda e lunga. “Larga parte della popolazione” significa più che la maggioranza. Il “deterioramento dello standard di vita” è l’esatto opposto del contratto sociale americano basato sull’espansione continuata, ciò che tiene in piedi un sistema assai variegato e pieno di contraddizioni e pluralità problematiche.  Tutto questo, nonostante gli eccezionali sforzi di pronto intervento messi in campo dall’Amministrazione e dal FED (che noi in Europa ci sogniamo) e nonostante lo sbandierato +8% dei consumi a maggio. Si stima un rapporto debito/Pil al 160% nel 2030 (reggerà la credibilità dell’unità di conto, scambio e valore internazionale di un paese che ha il 160% di debito pubblico/Pil?), ma si teme che poiché grande parte dei costi di assistenza sanitaria, educazione e disoccupazione sono nei bilanci degli stati federati già per altro al limite o oltre il limite, l’intera situazione possa ulteriormente peggiorare. Ne segue una lunga ricetta di interventi che però è politicamente improbabile per via delle diverse priorità che le élite americana in genere hanno (o l’una o l’altra poco importa) e soprattutto di cui non si vede né la sostenibilità finanziaria, né il certo effetto ristoratore. Ironia della sorte, giusto il giorno prima, il governo cinese annunciava un +3,2% su aspettative del +2,5% per la crescita del proprio Pil nello stesso periodo. 

Tutto ciò, mentre gli USA continuano a macinare record di contagi. Gli USA hanno tre volte i contagiati che abbiamo avuto noi (a parità di popolazione) ma per via del fatto che hanno iniziato dopo e si sono potuti avvalere di qualche parziale miglioramento nelle cure e nei trattamenti, nonché una popolazione decisamente più giovane della nostra, la mortalità è al momento a 430 per milione di abitanti, contro i 580 nostri. Sono però al limite di capienza alcune strutture sanitarie tra cui la Florida ed il Texas, ma non sono i soli. Il conflitto capitale-salute-libertà continua a dilaniare gli americani stante che quando si sceglie il capitale, peggiora la salute ma soprattutto non sembra neanche migliorare il capitale. C’è infatti la psicologia umana in mezzo che valuta il rischio non secondo pura logica statistica. Tutto ciò potrebbe avere una svolta col vaccino ma al momento non si sa bene quando potrà esser operativo, a che condizioni, come verrà preso dalla popolazione, quanto sarà efficace. Non si è mai trovato un vaccino per i coronavirus che pure si conoscono da decenni. Questi tipi di virus hanno una strategia adattativa molto basica: grande semplicità (è un filo di RNA corto) e grande cambiamento (molte mutazioni per darsi più condizioni di possibilità), cambia molto ed in fretta per ingannare i sistemi immunitari. I virus sono qui sulla Terra da forse 3,5 miliardi di anni e sono le entità biologiche più diffuse sul pianeta, evidentemente la strategia ha i suoi perché. Noi invece non solo geneticamente ma soprattutto socialmente, siamo molto complessi e cambiamo poco e molto, molto lentamente. 

Credo che noi non si stia capendo bene in che tipo di problema siamo capitati, un problema che non è italiano o americano ma quantomeno occidentale prima e mondiale poi. Molti si impegnano ad interpretare il virus, la sua genesi, gli interessi in gioco, le pratiche sanitarie, il rumore dei media, criticare il governo, l’Unione europea. Ognuno di questi punti è interessante ma perde il quadro d’insieme ed il quadro d’insieme è un lento armageddon economico e quindi sociale cui saremo soggetti, forse, per anni. È desolante il fatto che tra le tante analisi che si leggono, quelle mainstream non meno di quelle alternative, sembra non comprendersi la profondità della crisi cui siamo condannati. Poco o nulla importa se il virus è così o colà, come e da dove è venuto, se i suoi effetti sono esagerati e da chi e perché, poco importa prevedere catastrofi biopolitiche o incolpare i cinesi o Big Pharma. Questi sono intrattenimenti info-culturali. Il fatto crudo e duro è che nella misura in cui la gente teme di ammalarsi e forse morire, i suoi comportamenti sociali abituali o tali ritenuti, cioè i precedenti, non torneranno a sostenere la vita associata per lungo tempo. In tutto il mondo. Con questo avremo a che fare e per questo non sembra esserci medicina di pronto intervento. Questo minerà il funzionamento della società radicalmente. Molto ma molto più radicalmente di qualsiasi Recovery fund o MES, Trump o Biden, ricetta economica a base di interventi generici e consueti. Manca cioè, a mio avviso, consapevolezza dell’eccezionalità e radicalità del problema. Per adattarsi a questo quadro d’insieme mancano tre cose essenziali. Una è il tempo, il tempo semplicemente non c’è, siamo in ritardo cronico. Qualsiasi intervento risulterà parziale, ci vorrà molto tempo a metterlo in essere e impiegherà molto tempo a dare gli effetti sperati, se li darà. Il secondo è la comprensione del fatto che dovrebbe portare ad una comprensione dell’intervento. Da tempo posto articoli su tassazioni ridistributive straordinarie e diminuzioni immediata dell’orario di lavoro con ridistribuzione dello stesso. Non son le uniche ricette possibili, forse neanche le migliori, ma danno il tono di quanto dovrebbero esser fuori norma gli interventi necessari. Non si può pensare normale in tempi eccezionali. Il terzo è la sistematica rimozione della realtà. Ci vuole una massa critica importante per spingere una società ad una mossa adattiva così importante e seria, qualcosa intorno ad un 60% del corpo sociale, non certo meno. Soprattutto, faccio notare quel “una grande parte della popolazione […] dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire”. C’è da riformulare il contratto sociale, cosa di non poco conto in tutta evidenza, cosa necessaria e di attualità già da tempo prima, ora con una specifica urgenza conclamata. Siamo molto lontano ed in ritardo dall’affermarsi tale consapevolezza nei grandi numeri ma, mi pare, anche nei piccoli. Scusate per quello che a voi […]  apparirà pessimismo ma che per me è semplice realismo consapevole. Mi sentivo di allarmare sul fatto che forse non la stiamo prendendo per il verso giusto. Anche a livello teorico, penso si dovrebbe mettere in campo più pensiero radicale concreto, non narrativo o contro-narrativo e neanche critico, la critica non cambia il reale. C’è da modificare la realtà il prima possibile in quanti più è possibile, con idee semplici e forti.  Forse non ci si riuscirebbe comunque, ma sarebbe sano vederne almeno il tentativo, la discussione, ci sarebbe da provar ad imporre un dibattito pubblico più serio e tra adulti non compromessi da rimozione nevrotica della realtà.  Nella misura in cui la gente pensa che questa sia la realtà, questa sarà la realtà e se questa sarà la realtà come sembra, a lungo, gli effetti saranno quelli annunciati. Toccherebbe darsi una regolata ...

Pierluigi Fagan

 
Modernità è coscienza del Nulla PDF Stampa E-mail

20 Luglio 2020

 Da Rassegna di Arianna del 16-7-2020 (N.d.d.)

Duecento anni fa, proprio di luglio, nasceva un grande filosofo, anche se già celebre come poeta. E con lui nasceva il nichilismo, la scoperta del Nulla. Il giovane fu massimo nel pensiero come nella poesia. Dico di Giacomo Leopardi. Nello Zibaldone dei primi di luglio del 1820 è lo stesso Leopardi ad annunciare la nascita del filosofo dal grembo del poeta, dopo nove mesi di gravidanza nella cecità infelice: la poesia, scrive, si addice agli antichi e ai fanciulli, o i giovanetti, mentre i moderni e gli adulti sono filosofi. “Perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo”. Il neonato filosofo aveva ventidue anni e alle spalle già grandi poesie: basterebbe citare solo l’Infinito per rendersi conto. Ma Leopardi è anche filologo è dicendo ‘moderni’ sa di riferirsi a ciò che è del momento, or ora, e in un suo famoso dialogo la Moda è apparentata alla Morte. Perché la moda, come il moderno che ne deriva, perde il respiro dell’eterno, si situa sull’orlo provvisorio del presente e si affaccia con la sua caducità sul nero orizzonte del Nulla. Modernità è disillusione, disincanto, coscienza del Nulla. Il filosofo Leopardi si confronta col Nulla e può dirsi il fondatore di un pensiero che dopo troverà il suo nome: Nichilismo. Leopardi scopre il nulla, almeno nella modernità. A rinsaldare la sua opera di pensatore con quella di poeta, diremo che Leopardi è un nichilista lirico; il primo ad addentrarsi nelle voragini del nulla è lui. Prima di Nietzsche, di Turgenev e Dostoevskij. Al Nulla in verità si era accostato Schopenhauer due anni prima col Mondo come Volontà e Rappresentazione, situandolo tra la noia e il dolore; ma l’esplicitazione lucida e irreparabile del Nulla è in Leopardi. Nel filosofo polacco-tedesco il Nulla finirà in Oriente e assumerà il significato ulteriore di Nirvana; quello stato di beatitudine e abbandono, vagheggiato pure da Leopardi, nel “naufragar m’è dolce in questo mare…” Qual è invece la lanterna di Leopardi accesa nel buio del Nulla? L’illusione, “il piacer vano dell’illusioni…senza cui la nostra vita sarebbe la più misera e barbara delle cose”. In forma d’illusione trovano riparo le fedi, le speranze, i miti, i conforti, negati dall’implacabile ragione. Le illusioni come rifugio dall’infinita vanità del tutto, come la definisce Leopardi. Basterebbe ridefinire l’illusione in altro modo, intenderla come un forse, una scommessa sulla vita e sull’essere, per uscire dal pensiero tragico ed entrare nella sfera dell’avventura spirituale. Scommessa ardita che presuppone un cuore ardente…

Allontaniamoci da Leopardi e addentriamoci oltre quella soglia disperata per cercare il senso della vita. Di noi, viventi, contemporanei, anno di (dis)grazia 2020. Partiamo dalla pandemia notando che il contrario della speranza non è la disperazione ma la paura. La disperazione è il venir meno della speranza; la paura è invece l’esatto contrario della speranza. Nei mesi scorsi la Paura ha governato il mondo, producendo un effetto perverso che solo un poeta come Giovenale poteva ben sintetizzare. La frase è nota: Propter vitam vivendi perdere causas, per preservare la propria vita si perdono le ragioni per vivere. Ovvero, pur di sopravvivere si smette di vivere, si perde il senso della vita, o come un tempo si diceva, i motivi che la rendono degna di essere vissuta. E il ripiegamento sanitario a cui siamo stati costretti ha prodotto un paradosso: abbiamo rinunciato a vivere, a lavorare, a essere in rapporto agli altri, pur di preservarci dal virus. Dopo mesi di prigionia domestico-sanitaria e annunci di recidiva uniti da crisi sociale-economica, chiediamoci allora del senso della vita. C’è chi risponde che è una domanda oziosa perché la vita non ha un senso, va solo vissuta. Chi cerca un senso è ancora orfano di Dio, dei suoi genitori, delle ancore di salvezza, delle geometrie rassicuranti. Il secondo livello di risposta invece dice che il senso alla vita lo diamo noi, e si risolve nel nostro fare, senza soffermarsi a pensare. Tutto è nella nostra volontà, nei nostri desideri. Ma se la vita ha senso, il senso la oltrepassa: non decidemmo noi di nascere, non decidiamo noi di morire, non decidemmo noi di nascere in quel tempo, in quel luogo, in quella famiglia. La vita è ricevuta, non dirò che è un dono, perché Leopardi e molti infelici ci direbbero che è piuttosto una condanna. Limitiamoci dunque a dire che riceviamo la vita, dono e/o condanna. Per difenderci dai quattro mali inesorabili della vita – la morte, il dolore, la vecchiaia e la solitudine – rispetto a cui sono inermi le scienze, le ideologie e le tecnologie, dobbiamo cercare un quadrifarmaco, come lo chiamava Epicuro, che possa dare un senso alla nostra vita. Mi sono cimentato nella ricerca di quei quattro rimedi in un libro “meta-leopardiano”, intitolato non a caso Dispera Bene, uscito alla vigilia della pandemia. A dirla in breve i quattro rimedi sono: Amor fati, accettare il proprio destino, anzi amarlo, amando la propria origine, la propria condizione e i propri limiti. Senso dei confini, capire che ogni bene è limitato, come limitati siamo noi; ci perdiamo nel nulla se desideriamo l’infinito, l’illimitato. Oltrepassare l’ego, ovvero non vedere il mondo chiusi nel proprio io, assoluto, prioritario, centrale, ma sentirsi parte di un tutto, mettersi dal punto di vista dell’albero e non delle singole foglie caduche. Infine, viaggiare sui tappeti volanti, ossia dotarsi di risorse naturali e culturali, mitiche e spirituali per abitare più mondi oltre il presente, il passato e il futuro, l’eterno e il favoloso.

La vita non va solo vissuta ma va dedicata a qualcosa di più della vita, a qualcuno, a Qualcuno; a una missione, un compito, una proiezione, abbracciando il destino. In quel quadrivio forse troveremo il senso della vita e apriremo uno spiraglio nella notte leopardiana.

Marcello Veneziani

 
Quelli che denunciano il complottismo ignorano la storia PDF Stampa E-mail

19 Luglio 2020

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 Da Rassegna di Arianna del 14-7-2020 (N.d.d.)

Nelle polemiche durante l’emergenza sanitaria sono apparsi due vocaboli infami, che avevano secondo ogni evidenza il solo scopo di screditare coloro che, di fronte alla paura che aveva paralizzato le menti, si ostinavano ancora a pensare: «negazionista» e «complottismo». Sul primo non vale la pena di spendere troppe parole, dal momento che, mettendo irresponsabilmente sullo stesso piano lo sterminio degli ebrei e l’epidemia, chi ne fa uso mostra di partecipare consapevolmente o inconsapevolmente di quell’antisemitismo tuttora così diffuso tanto a destra che a sinistra della nostra cultura. Come suggeriscono amici ebrei giustamente offesi, sarebbe opportuno che la comunità ebraica si pronunciasse su questo indegno abuso terminologico. Vale invece la pena di soffermarsi sul secondo termine, che testimonia di un’ignoranza della storia davvero sorprendente. Chi ha familiarità con le ricerche degli storici, sa bene come le vicende che essi ricostruiscono e raccontano sono necessariamente il frutto di piani e azioni molto spesso concertati da individui, gruppi e fazioni che perseguono con ogni mezzo i loro scopi. Tre esempi fra i mille altri possibili, ciascuno dei quali ha segnato la fine di un’epoca e l’inizio di un nuovo periodo storico.

Nel 415 a.C. Alcibiade mette in gioco il suo prestigio, le sue ricchezze e ogni possibile espediente per convincere gli Ateniesi ad attuare una spedizione in Sicilia che si rivelerà più tardi disastrosa e coinciderà con la fine della potenza di Atene. Per parte loro, i suoi avversari approfittando della mutilazione delle statue di Ermes avvenuta qualche giorno prima della partenza della spedizione, ingaggiano falsi testimoni e congiurano contro di lui per farlo condannare a morte per empietà. Il 18 brumaio (9 novembre 1799), Napoleone Bonaparte, che pure aveva dichiarato la sua fedeltà alla costituzione della repubblica, con un colpo di Stato rovescia il Direttorio e si fa proclamare primo console con pieni poteri, mettendo fine alla Rivoluzione. Nei giorni precedenti, Napoleone si era incontrato con Sieyès, Fouché e Luciano Bonaparte, per mettere a punto la strategia che avrebbe permesso di superare la prevista opposizione del consiglio dei cinquecento. Il 28 ottobre 1922 ha luogo la marcia su Roma di circa 25.000 fascisti. Nei mesi che precedettero l’evento, Mussolini, che l’aveva preparato con i futuri triumviri De Vecchi, De Bono e Bianchi, prende contatto col presidente del consiglio Facta, con D’Annunzio ed esponenti del mondo imprenditoriale (secondo alcuni si sarebbe perfino incontrato segretamente col Re) per saggiare possibili alleanze ed eventuali reazioni. In una sorta di prova generale, Il 2 agosto, i fascisti occupano militarmente Ancona.

In tutti e tre questi eventi, degli individui riuniti in gruppi o partiti hanno agito con decisione per realizzare i fini che si proponevano, misurandosi di volta in volta con circostanze più o meno prevedibili e adattando a queste la propria strategia. Certo, come in ogni vicenda umana, il caso ha la sua parte, ma spiegare col caso la storia degli uomini non ha alcun senso e nessuno storico serio lo ha mai fatto. Non è necessario parlare per questo di un «complotto», ma è certo che chi definisse complottisti gli storici che hanno cercato di ricostruirne nei dettagli le trame e lo svolgimento darebbe prova di ignoranza, se non di idiozia. È per questo tanto più stupefacente che ci si ostini a farlo in un paese, come l’Italia, la cui storia recente è a tal punto il frutto di intrighi e società segrete, manovre e congiure di ogni genere, che gli storici non riescono ancora a venire a capo di molti degli eventi decisivi dell’ultimo cinquantennio, dalle bombe di piazza Fontana al delitto Moro. Ciò è tanto vero, che lo stesso Presidente della Repubblica Cossiga ha dichiarato a suo tempo di aver fatto attivamente parte di una di queste società segrete, nota col nome di Gladio. Per quel che riguarda la pandemia, ricerche attendibili mostrano che essa non è certo giunta inaspettata. Come documenta efficacemente il libro di Patrick Zylberman Tempêtes microbiennes (Gallimard, 2013), l’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 2005, in occasione dell’influenza aviaria, aveva suggerito uno scenario come quello presente, proponendolo ai governi come un modo di assicurarsi l’incondizionato sostegno dei cittadini. Bill Gates, che è il principale finanziatore di quell’organizzazione, ha fatto in più occasioni conoscere le sue idee sui rischi di una pandemia, che, nelle sue previsioni, avrebbe provocato milioni di morti e contro la quale occorreva prepararsi. Così nel 2019, il centro americano Johns-Hopkins, in una ricerca finanziata dalla Bill and Melinda Gates Foundation, ha organizzato un esercizio di simulazione della pandemia di coronavirus, chiamata «Evento 201», riunendo esperti ed epidemiologi, per preparare una risposta coordinata in caso di comparsa di un nuovo virus. Come sempre nella storia, anche in questo caso vi sono uomini e organizzazioni che perseguono i loro obiettivi leciti o illeciti e cercano con ogni mezzo di realizzarli ed è importante che chi vuole comprendere quello che accade li conosca e ne tenga conto. Parlare, per questo, di un complotto non aggiunge nulla alla realtà dei fatti. Ma definire complottisti coloro che cercano di conoscere le vicende storiche per quello che sono è semplicemente infame.

Giorgio Agamben

 
Imagine PDF Stampa E-mail

18 Luglio 2020

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 Da Rassegna di Arianna del 17-7-2020 (N.d.d.)

Tornano le polemiche sulla canzone più amata del ‘900, "Imagine" di John Lennon, dopo una dichiarazione della candidata leghista alla regione Toscana. Gran bella canzone, indimenticabile, ma con parole fatue, aria fritta & politically correct. Di quelle parole hanno fatto un manifesto ideologico per spacciarla come un inno alla pace e una sintesi dei valori odierni. "Immagina che non ci sia il paradiso...e nessun inferno sotto di noi...Immagina la gente vivere per l'oggi… Immagina che non ci siano più patrie...Nessun motivo per cui morire e uccidere, nessuna religione...”.

Se i valori sono questi, perché non dovrebbero bucarsi, rincoglionire di velocità, alcol e musica a tutto volume, e farsi i porci comodi fino in fondo? Se si vive solo per l'oggi, senza più motivi per vivere e per morire, se non c'è più dio né patria né radice, perché poi lamentarsi se il mondo si riduce a un immenso spurgatorio e noi siamo i relativi materiali in transito, frutto di una liberazione che somiglia a un'evacuazione? È questo il senso ultimo della società liquida? In quella canzone hanno condensato in pochi versi l'Ideologia no border d'oggi: la negazione del senso religioso, dell'amor patrio e dei legami famigliari; il dominio assoluto del presente sul passato, sul futuro e sull'eterno, il pacifismo come fine della storia e della politica, l'individualismo globale e l'unificazione del pianeta, senza più frontiere. Bella la canzone di Lennon, anzi bellissima, godete il suono e l'atmosfera, lasciate stare il significato e l'ideologia.

Marcello Veneziani

 
Un pasticcio immondo PDF Stampa E-mail

16 Luglio 2020

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 Da Comedonchisciotte del 15-7-2020 (N.d.d.)

I compromessi possono essere a volte necessari, e comunque si dividono sempre in buoni, pessimi o innumerevoli vie di mezzo.Quello trovato dal governo su e con Atlantia per il futuro di Autostrade per l’Italia – Aspi, la società privata concessionaria di gran parte della rete autostradale di proprietà pubblica è un pasticcio immondo escogitato per salvare capra e cavoli: ossia la faccia della maggioranza di governo e i soldi dei Benetton. Stando a quel che ha reso noto lo stesso governo, dopo una seduta fiume finita alla 5 di mattina, la concessione non viene revocata e resta ad Aspi. “In compenso” la quota azionaria in mano ai Benetton dovrà rapidamente scendere dall’88% attuale al 10% (che non dà diritto a un posto nel cda), al cui posto subentrerà prendendo il 51% Cassa Depositi e Prestiti, una società per azioni, controllata per circa l’83% dal Ministero dell’economia e delle finanze e per circa il 16% da diverse fondazioni bancarie. Sembra una semi-nazionalizzazione, ma non lo è affatto.

Il piano messo a punto dal ministro piddino Gualtieri prevede infatti la quotazione in Borsa della nuova Aspi senza più i Benetton (sganciata dalla holding Atlantia), sotto forma di public company ad azionariato diffuso esposta – come tutte le società per azioni di questo tipo – a scalate messe in atto da qualsiasi investitore finanziario (anche dagli stessi Benetton, ovviamente sotto altra “ragione sociale”). L’operazione dovrebbe concludersi nell’arco di un anno, con una serie di corollari da realizzare nel frattempo. Autostrade per esempio dovrà intanto tagliare le tariffe più di quanto fino ad ora proposto (il 5%) e accettare di ridurre ulteriormente l’indennizzo previsto in caso di revoca delle concessioni. Più generica e indeterminata, invece, la possibilità di rivedere prima o poi le clausole riguardanti le ipotesi di revoca per inadempimenti gravi. Suona quindi come una battuta inoffensiva la “minaccia” del governo, secondo cui se Aspi non ottempererà a queste condizioni – concordate con la società – scatterà la revoca della concessione. Anche perché, da qui a qualche mese, chissà quale governo ci sarà e come la penserà in materia di concessioni pubbliche. Il pessimo compromesso, dunque, salva la faccia solo a chiacchiere ai partiti della maggioranza. Qui lo scontro tra Pd e renziani da un lato e grillini dall’altro è stato sicuramente acceso, con i primi impegnati a difendere gli interessi dei Benetton e i secondi nel cercare di portare a casa qualcosa che somigliasse a una “punizione” per la famiglia del “golfino”, al solo scopo di non perdere un altro pezzo rilevante della propria credibilità. A rimetterci pochissimo sono proprio i Benetton, primi responsabili della strategia “industriale” basata su risparmio nella manutenzione, aumento continuo dei pedaggi e massimizzazione dei profitti che ha prodotto il crollo di Ponte Morandi e un’infinità di problemi su tutta la rete autostradale. Le loro azioni verranno comprate da Cdp, probabilmente al valore di mercato al momento del passaggio di proprietà. E dunque senza quella svalutazione drastica che sarebbe derivata da una scelta più radicale da parte del governo. Soprattutto, questo imbroglio consente di mantenere inalterata la “privatizzazione” della gestione di infrastrutture pubbliche, costruite con fondi statali e affidate a privati rapaci perché ne ricavino un ingiusto profitto. Una revoca sarebbe suonata come una vera nazionalizzazione, come una minaccia agli altri gestori di concessioni pubbliche (da Gavio a Toto, ecc.) e in definitiva come una radicale correzione di rotta rispetto alle politiche neoliberiste degli ultimi 30 anni, unitariamente perseguite da centrosinistra e centrodestra.

In definitiva, si tratta di un altro insulto alle 43 vittime della strage di Ponte Morandi, ai loro familiari, alle famiglie che hanno perso la casa a causa di crollo-demolizione-ricostruzione. Il che dà effettivamente la misura delle “qualità morali” di questo governo e dei partiti che lo compongono, così come della cosiddetta “opposizione” di centrodestra (che voleva, senza nasconderlo neanche troppo, il mantenimento dello statu quo in mano ai Benetton, munifici finanziatori di tutti I partiti presenti in Parlamento).

P.S. L’argomento tirato fuori dai giornali padronali, per cui non si poteva revocare la concessione perché questo avrebbe comportato la perdita del posto di lavoro per migliaia di dipendenti di Aspi è semplicemente falso. Un falso per cui si sono spesi i migliori ideologi degli interessi privati – pensiamo per esempio a Ferruccio De Bortoli, venerato opinionista di via Solferino e dei “salotti buonissimi” – contando sull’ignoranza diffusa e il silenzio complice dei sindacati concertativi (CgilCislUil).

Persino nei passaggi di proprietà tra società private, infatti, è previsto il mantenimento dei posti di lavoro e dei contratti in essere (“clausola sociale”). Impegni che naturalmente quasi tutte le neo-aziende poi disattendono, ma che comunque sono obbligatori per legge. Il concetto semplice da capire è infatti: se anche la concessione viene revocata, non è che tutto il lavoro intorno alle autostrade (caselli, incasso pedaggi, manutenzione ordinaria, gestione delle emergenze di traffico, funzioni amministrative, ecc.) improvvisamente si ferma. I dipendenti, nel passaggio societario, restano al loro posto e con i loro stipendi. Specie se a subentrare è lo Stato, anziché uno squalo privato. E infatti, in tutto il pasticciare notturno, dei dipendenti non si è preoccupato nessuno. Dovranno preoccuparsi loro, come sempre, quando alla fine della temporanea presa di controllo pubblica, torneranno sotto il comando di uno squalo più furbo.

Dante Barontini

 
Rivolta e rivoluzione PDF Stampa E-mail

 

15 Luglio 2020

 

Ho appena letto l'articolo di Riccardo Paccosi pubblicato di recente su questo blog. Premesso che non conosco Paccosi e che l'articolo, ben scritto e comunque ragionato, con una logica calzante e lucido, è ben degno di essere letto, non sono del tutto d'accordo col contenuto. Il fatto è che negli ultimi tempi sto iniziando a diffidare pesantemente sulle analisi a medio-lungo termine, perché non ne stanno imbroccando una. A primavera si diceva che ci avrebbero tenuti in casa sino a luglio e ciò non è successo. Poi si diceva che tempo pochi giorni e si sarebbe richiuso tutto e ciò non è capitato. Le parole di Conte escludono nuovi lockdown: il nostro, cito testualmente, ha detto: "possiamo affrontare con relativa serenità l'estate e la stagione successiva" perché il sistema è pronto ad affrontare eventuali nuovi emergenze. Non escludo lockdown in scala minima: ospedali, RSA, qualche grande palazzo a densità abitativa, ma dai segnali che colgo in giro escludo il confinamento totale. Magari qualche restrizione, sì. Colgo con parziale ottimismo anche il dietrofront di estendere sino al 31 ottobre e non al 31 dicembre lo "Stato di emergenza sanitaria" e passando dal voto parlamentare -seppur il Parlamento ormai sia una scatola vuota. Vogliamo parlare della patrimoniale? Da nove anni pontificano la patrimoniale ogni autunno -e puntualmente non arriva. Avevano previsto le frontiere europee chiuse sino al 2021 e non è accaduto. Avevano previsto ampi dibattiti sulla finanza ed economia e sono caduti nel dimenticatoio. Le parole di Draghi sul debito da azzerare sono già belle che dimenticate. I grandi temi ecologisti pure.

A me pare che sia rimasto, alla fine, il solito mondaccio decadente infame di una civiltà morente al capolinea, civiltà che assomiglia a uno di quei vecchi incartapecoriti che sembrano tirare le cuoia ogni istante e vivono a dispetto degli eredi. Qui dove sono io, nel "Sud del Sud dei Santi" (trovo meravigliosa questa espressione di Carmelo Bene, leccese di Campi Salentina) a parte stadi chiusi e grandi sagre paesane assenti o in scala ridotta e l'assenza di quelle fantastiche veglie e riti funebri, nulla pare cambiato.

Vorrei inoltre ricordare che la lingua italiana distingue tra rivolta e rivoluzione, per nulla e in nulla sinonimi, anzi con distinti significati. Escludo la rivoluzione in Italia. Non escludo qualche rivolta o mini rivolta. Non succedono già? I dimostranti che bloccano la statale jonica in Calabria contro i migranti positivi al Covid non sono forse rivoltosi? I palermitani che a fine marzo fecero una "spesa proletaria" forse non furono rivoltosi? La rivolta è un atto breve, secco, violento, finalizzato all'ottenimento di qualcosa di spicciolo, la rivolta non ha profondi travagli di pensiero politico-ideologici, ampi respiri a lungo termine, la rivolta è fatta dalla pancia, la rivoluzione dalla testa. Ecco perché i due atti non sono simili. Lenin, Mao, il Che Guevara erano rivoluzionari, non rivoltosi. Lenin non avrebbe mai concepito come atto politico la spesa senza pagare, il Che Guevara non avrebbe mai perso tempo e uomini per occupare cento metri di strada statale. Il rivoluzionario ha l'espressione greve di pensiero d'un Lenin, il volto apostolico scavato dal troppo pensare di un Giuseppe Mazzini, lo sguardo tormentato e irrequieto d'un Necaev. Il rivoltoso può essere il mio vicino di casa, uomo rispettabilissimo, che ha i cinque minuti in cui si incazza. Il Potere non teme le rivolte. Le rivolte le plachi in un battibaleno: sposti i migranti dal luogo X a quello Y, a chi fa la spesa senza pagare in quanto rimasto al verde eroghi i buoni pasto… Il Potere teme invece le rivoluzioni. E certo il Potere dorme sonni tranquilli, che non ci sono segnali di rivoluzione almeno in Italia. Neppure in Europa e nel resto del mondo, direi. Ma dire: "non ci sarà alcuna reazione popolare" mi sembra prematuro e avventato. Ci saranno rivolte. Al premier di turno che verrà svegliato alle luci dell'alba con qualche strada occupata, dimostrazione, gli si risponderà: "Non è la rivoluzione, è una rivolta". Insomma non capiterà la frase opposta come il mattino del 15 luglio 1789 a Luigi XVI ("Sire, non è una rivolta, è una rivoluzione"). Ci saranno reazioni popolari. Sussidi a pioggia e altri palliativi li calmeranno.

Simone Torresani

 
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