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Breviario negazionista PDF Stampa E-mail

8 Giugno 2020

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Da Rassegna di Arianna del 6-6-2020 (N.d.d.)

 

A marzo, chi scrive affermò che alla fine dell’emergenza Coronavirus sarebbero state più numerose le vittime economiche dei lutti, pur terribili. Non potevamo ancora sapere del tutto che il contagio si sarebbe trasformato in un immenso esperimento di ingegneria psico sociale e che alle numerose dittature cui siamo assoggettati – finanziaria, oligarchica, tecnologica - avremmo dovuto aggiungere la dittatura sanitaria, con il suo insopportabile contorno di prescrizioni, maschere, distanziamento sociale eccetera eccetera. Purtroppo, la previsione iniziale si sta rivelando esatta: nessun merito o capacità divinatoria, solo la semplice arte di fare due più due. In più, siamo precipitati nel meraviglioso mondo della tele scuola, del telelavoro, delle app per andare in spiaggia e della fantastica applicazione “Immuni”, la quale - dica ciò che vuole il governo e la caricatura chiamata garante per la privacy (privatezza non si può dire, è termine dell’antiquata lingua italiana, parlata solo da alcuni cavernicoli) – consente di tracciare i nostri corpi a vantaggio del potere di sorveglianza. Biopotere, ma inutile insistere: da quell’orecchio il gregge chiamato popolo non ci sente. Da qualche settimana, poi, e con sempre maggiore intensità, il potere, il governo, i suoi fedeli servitori della stampa, della cultura, della scienza, hanno coniato un nuovo, sanguinoso epiteto per coloro che si ribellano alla narrazione ufficiale. Sono diventati “negazionisti”, uno stigma peggiore della lettera scarlatta marchiata alle adultere del passato (protestante). Chi non la pensa come loro – o semplicemente continua a pensare – è un appestato come i neonazisti che negano la verità ufficiale dell’Olocausto scolpita nel marmo. Poiché abbiamo la pelle dura come il carapace delle tartarughe, evitiamo di difenderci dalle accuse strumentali – è ciò a cui vuole costringerci l’avversario- ci facciamo un’amara risata sulla libertà che non c’è e tentiamo di dire la nostra sulle modalità esistenziali che ci vengono imposte sulla scia di Covid 19, sui drammi economici e finanziari che stiamo per vivere – in cui milioni di connazionali sono già immersi – e sui totalitarismi che avanzano, apparentemente in ordine sparso, ma in realtà marciando divisi per colpire uniti.

 

Iniziamo dal telelavoro: una gran comodità, come pagare con la carta di credito e comprare biglietti online. Per diverse attività, questo supporrà una diminuzione dei dipendenti e insieme un magnifico risparmio per le aziende. Non più grandi uffici con affitti in proporzione; spese generali in caduta libera e concorrenza al ribasso- un’altra – tra gli aspiranti telelavoratori. Una delizia per il sistema: tutto a carico del salariato, pardon imprenditore di se stesso, salvo qualche modesto contributo a trattativa privata. Il tele lavoro rende opachi gli orari – certo, stiamo a casa, ma scommettiamo che lavoreremo più a lungo? – crea ulteriori problemi a ciò che resta della vita familiare. Meno pendolarismo e treni meno affollati, un sollievo, ma anche ulteriore solitudine. Non conosceremo neppure i nostri colleghi, non ci sentiremo legati a loro né personalmente né tanto meno come categorie portatrici di interessi. Gli stipendi, inevitabilmente, scenderanno e per bloccare la prevedibile rabbia sociale si renderà indispensabile la distribuzione di un reddito minimo universale. Non dimentichiamo che è in pieno svolgimento, insieme con la rivoluzione digitale, l’automazione con la generalizzazione di robot in grado di svolgere un numero crescente di professioni, anche cognitive. Il saccheggio di chi si ostinasse a lavorare e produrre renderà necessaria un’aggressiva politica fiscale, ovvero terrore fiscale, rivolto non contro la plutocrazia e i padroni universali promotori della devastazione economica e sociale, ma nei confronti di chi vive del proprio lavoro. Per essere gioiosamente accolte dalle masse – proletarizzate nel portafogli e istupidite nella capacità di giudizio - sarà indispensabile più di oggi che le politiche volute dall’iperclasse siano realizzate da governi detti “di sinistra”. Vecchia storia, lo insegnò il cinico Giovanni Agnelli: la migliore destra economica è la sinistra politica, alla quale infatti la sua classe è saldamente alleata da mezzo secolo. Il tessuto produttivo verrà distrutto a velocità maggiore di quella sperimentata nell’ultimo quarto di secolo (perdita di un quarto delle produzioni) e le bocche ribelli o affamate saranno tappate con sovvenzioni, qualche pensionamento e mance, riservate ovviamente ai ceti e gruppi sociali più vicini alla “sinistra”. Nel frattempo, saranno stati sciolti gli ultimi vincoli comunitari che legavano i lavoratori, sempre più precari, messi in competizione tra di loro per ricevere le briciole del padrone, governativo o economico-finanziario, che in fondo è lo stesso. Tutto ciò a beneficio delle grandi multinazionali, di nuove delocalizzazioni e l’acquisto a prezzo di saldo, da parte degli avvoltoi chiamati graziosamente mercati, di pezzi interi del sistema produttivo.  Tutte operazioni per le quali occorre un clima sociale controllato, quindi governi di finta sinistra in grado di canalizzare la protesta sociale, indirizzandola verso finti nemici. Non i giganti, non i lupi vestiti da Agnelli, ma i lavoratori autonomi, gli artigiani, i piccoli proprietari. Il primo a comprenderlo fu Pier Paolo Pasolini: “la rivoluzione neocapitalista si presenta astutamente come opposizione, in compagnia delle forze del mondo che vanno verso sinistra”. Almeno, lo capisse una buona volta la sedicente destra, che più allineata e istituzionale non si può. Anche nei prossimi anni sarà la sinistra – fucsia, secondo la fulminante definizione di Diego Fusaro – a portare a compimento il progetto. In Italia, dietro a Conte e ai figuranti a Cinque Stelle, comandano Gualtieri, l’uomo di Bruxelles, e soprattutto Vittorio Colao, il manager bocconiano delle telecomunicazioni a capo di una misteriosa “task force” governativa, che dirige da remoto, da Londra.

 

Telelavoro, ultima picconata alla scuola con le lezioni a distanza, generalizzazione del reddito di cittadinanza, paura. La gente, terrorizzata dal virus, in gran parte incapace di pensiero critico, bombardata dalla disinformazione a senso unico, si convince che tutte le mostruose operazioni di riconversione – economica, esistenziale, antropologica – avvengano a suo beneficio. Oltre a qualche spicciolo e al dubbio piacere di manovrare inedite app, verranno gratificati di nuovi diritti nella sfera ludica e sessuale: diritti da biancheria intima e autorizzazione alla movida con obbligo di sballo. I giovani avranno tele diplomi, tele lauree, tele master che non varranno a nulla, se non per essere indicati come punteggio nelle richieste di benefici statali. Potranno tele lavorare, riscuotere il reddito di cittadinanza – basso, molto basso, ovvio - diventeranno più oziosi, più mediocri e più solitari. Esattamente come li vogliono gli iperpadroni: essenziale che siano occupati negli sballi e abbiano qualche soldarello in tasca per non farsi domande e ancor meno ribellarsi. Quando tutto andrà in malora – succederà presto – gli organizzatori del baraccone faranno come il protagonista di un film di Woody Allen: prendi i soldi e scappa.

 

Siamo negazionisti e pure confessi. Eppure, la democrazia dovrebbe essere tutt’altro che uniformità e conformità, come vogliono i nostri “superiori”. Neghiamo anche la validità degli interventi finanziari europoidi anticrisi. Il cosiddetto Recovery Fund (tutte le fregature vengono battezzate in inglese; questo dovrebbe insospettire il gregge, se levasse lo sguardo oltre la greppia della magra pastura) è un imbroglio, uno in più, nel tempo in cui le aste dei BTP (Buoni del Tesoro Poliennali) navigano oltre i cento miliardi, segno che l’Italia, se ne avesse la volontà politica, potrebbe agevolmente autofinanziarsi. Non ci sarà nessuna pioggia di soldi: non lo permetteranno i governi del Nord Europa, non lo consente lo stesso meccanismo, che oltretutto ha bisogno di molto tempo, mentre l’emergenza è immediata. È oggi che occorre scegliere tra vita e morte, non nel 2021. Quanto ai soldi, le cifre vanno prese con le molle. Sempre di prestiti si tratta, da restituire con le tasse; l’unico vantaggio è un buon tasso di interesse: le cure palliative del malato terminale. Non ci resta- è la strategia del governo – che scegliere se morire di fame o di debiti europei. Gli italiani si bevono le panzane di lorsignori: è la preoccupazione di una personalità niente affatto incline al populismo e non certo di destra, il sociologo Luca Ricolfi, un liberal progressista.   “Gli italiani si sono fatti rubare la democrazia senza reagire”, è la sua conclusione. Ricolfi, distinto e maturo professore torinese, sembra uno scamiciato populista quando sbotta, a proposito del livello della classe dirigente di governo: “dipendesse da me, vedrei bene a capo del governo un contadino che ha fatto il classico”. Sì, ci hanno rubato quel che restava della democrazia e non ce ne siamo accorti, paralizzati dalla paura, tra guanti, mascherine, igienizzanti e disciplinate file davanti ai supermercati. Colpa nostra: l’autore di Sinistra e Popolo, La società signorile di massa e Il sacco del Nord, pugni nello stomaco della vulgata diffusa dal potere, ci offre una riflessione capitale: “La sinistra rinasce continuamente perché è un camaleonte senza vergogna di sé, la destra resta al palo perché non riesce a cambiare”. Soprattutto, non riesce a uscire dai suoi luoghi comuni, a cominciare dalla mitologia “legge e ordine” e dall’incapacità di prendere atto che i nemici dell’impresa sono le grandi corporazioni multinazionali.

 

Il Covid ci lascerà molto più poveri di prima. C’è un ulteriore problema: la società parassita di massa che stanno accuratamente predisponendo. Quando la base industriale del Paese si sarà ridotta del 20-25%, la domanda di sussidi e di assistenza del Sud non potrà che esplodere, accentuando il modello sussidi più lavoro nero già molto diffuso. Parola di Ricolfi, che iscriviamo al partito negazionista e alla corrente avversa al grottesco strapotere degli esperti e dei membri delle task force di cui si è perso il conto. “La politica ha deciso di costituire comitati tecnico-scientifici scegliendo in base alla carica ricoperta (manager e burocrati della sanità) e non in base alla competenza. “ Un ulteriore rischio è l’esplosione della rabbia sociale: “Quando la paura sparirà, o ci saremo abituati a tollerarla, molti si troveranno senza lavoro, con poco reddito, bassi consumi, molta disperazione. Questo governo sta prendendo con molta allegria soldi che non ha, e prima o poi i mercati, ancor più delle autorità europee, ci chiederanno il conto. Dobbiamo fare come in Irlanda: niente burocrazia e imposta societaria non oltre il 12.5%. E magari restituirci il voto, così almeno potremo incolpare noi stessi quando sceglieremo l’ennesimo governo di mediocri”. Non c’è molto da aggiungere, se non registrare l’amara sorpresa dello scienziato sociale per la docilità e lo scarso amore per libertà e democrazia. “Abbiamo bevuto tutto ciò che le autorità ci dicevano, senza pretendere l’unica cosa che dovevamo pretendere: serietà e trasparenza. In democrazia, ogni popolo ha i governanti (e i giornalisti) che si merita”.

 

Intanto, mentre tutte le aziende commerciali erano chiuse, un cantiere non si è mai fermato. Costruisce il nuovo centro di smistamento di Amazon a Pisa. Migliaia di posti di lavoro spariranno, compensati – si fa per dire- da un centinaio di assunzioni low cost di chi spedirà pacchi ordinati via computer. C’è un vasto tessuto d’impresa perdente, anzi morente, ma il capitalismo vincente macina nuovi profitti, ridisegna il mercato a sua immagine e prende direttamente le redini del mondo, ovvero si fa potere. Il potere già senza volto ha gettato la maschera nel momento in cui l’ha imposta a tutti noi. Le previsioni sono radiose per pochissimi e terribili per l’immensa maggioranza. L’anagrafe si sposta nel salotto di casa degli impiegati, Google si fa scuola e università. Amazon, lo straricco Jeff Bezos è un benefattore dell’umanità: qualche monetina dei suoi cento e più miliardi va alla Protezione Civile. La pubblica amministrazione esulta: potrà riconvertire in lavoratori casalinghi un terzo dei dipendenti. Le immancabili “linee guida” arrivano direttamente da Londra, dal dominus Vittorio Colao. Lo Stato si prepara gioioso all’estinzione fisica delle sue istituzioni. Esternalizzerà, come già capita per le figure professionali più basse. Chiameremo per un documento o un’informazione e ci risponderanno dall’estero, da un call center in cui poveri cristi in fila davanti ad apparati elettronici, con cuffie e microfoni, faranno quel che potranno per pochi euro. Un esponente del Club Bilderberg, Lucio Caracciolo, è chiarissimo. Bisogna prepararsi e rassegnarsi. Sarà colpa nostra se non saremo vincenti nella nuova lotta per la sopravvivenza, la darwiniana struggle for life. “A un certo punto ci sarà una parte di questo paese (ricordate: l’espressione “questo paese” è il segno sicuro che sta parlando un nostro nemico!) che troverà le energie per ricominciare a costruire un progetto insieme. Il problema è che per arrivare a questo punto, passeremo attraverso delle tragedie, delle crisi veramente molto pesanti, perché l’Italia non è capace di trovare dentro sé stessa spontaneamente le ragioni di un programma comune.” Insomma, peggio per noi se non siamo così bravi nel mestiere di schiavi.  Il “programma comune” di Caracciolo è l’agenda feudale di lorsignori: prima la globalizzazione, impoverimento di molti, profitti per pochi. Ora bisogna correre ancora più veloci: deve scomparire la classe media, una volta orgoglio e motore dell’Europa e dell’Occidente. I nuovi strumenti? Il distanziamento sociale che la fa finita con le relazioni, l’amicizia, la solidarietà, la comunità. La società verrà travolta, ma “loro” vinceranno, regneranno sulle macerie della post umanità, ridotta a maschere, come aveva intuito Pirandello. Il terrore della morte ha funzionato: distrutta l’autorità di ieri, ci hanno fatto introiettare la nuova disciplina attraverso la paura, fisica e individuale. Povero Pasolini, proscritto dalla sua parte culturale e politica per avere pronunciato l’unica verità irricevibile tra i progressisti e i liberal: il nuovo capitalismo è una forma totale di fascismo, il cui fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo. Noi aggiungiamo che è anche una forma di volgare nichilismo. Nel bel mezzo di una crisi sanitaria, economica e civile senza paragoni, le borse salgono. Vivono in un mondo alieno, nemico e ripugnante, in cui non esistono pandemie né tensioni commerciali. L’indice Standard & Poor accumula guadagni. Sembra impossibile, illogico, ma non lo è affatto. Traiamo i giudizi che seguono dal Wall Street Journal, il grande quotidiano americano degli affari. Il mercato si preoccupa unicamente dell’evoluzione di una serie di misure. Del resto non gli importa nulla. Scrive il WSJ: gli Stati Uniti stanno vivendo proteste mai viste da mezzo secolo, mentre tra Pechino e Washington aumenta la tensione con il pretesto di Hong Kong. Tutto ciò in mezzo a una devastante pandemia. Ma neppure questo scenario esplosivo è riuscito ad allontanare i mercati dallo stato di rilassamento in cui vivono. Il differenziale tra i buoni del Tesoro e i titoli spazzatura, inclusi quelli di settori in crisi come energia e industria, è sceso a 5,5 punti percentuali, rispetto ai 9,7 di marzo. Insomma, tutto va bene, madama la marchesa: nessun panico geopolitico e nessun interesse per il mondo degli altri, il trascurabile 99 per cento del pianeta. Per i signori del denaro, fondamentale è che le banche centrali restino disponibili a misure eccezionali e l’atteso rimbalzo avvenga entro un anno. I dati sembrano dar loro ragione: nonostante il collasso dell’economia, i redditi negli Usa sono saliti del 10 per centro, grazie al denaro direttamente affluito dal governo alle famiglie. Proprio lo stesso comportamento dell’esecutivo italiano “de sinistra”. Se il virus si mantiene sotto controllo e le prospettive di Big Pharma restano positive, come quelle dei giganti tecnologici, i mercati stanno allegri e il toro vince sull’orso. A pensarci bene, i negazionisti sono loro. Quello che per noi è il male, la morte, la povertà, per lorsignori è ricchezza e potenza. Confessiamo il sogno di una vita intera: svegliarci un radioso mattino e scoprire che tutte le Borse del mondo sono chiuse per sempre e gli unici mercati sono quelli rionali. La vita è sogno.

 

Roberto Pecchioli

 

 
Il crollo al prossimo virus PDF Stampa E-mail

7 Giugno 2020

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Ennesima occasione sprecata.  O forse Covid-19 nella sua fase acuta, quella del lockdown, degli scali aerei deserti e del coprifuoco, è durata troppo poco per incidere notevolmente sugli eventi. Di certo si è trattato di un "cigno nero" che ha influito e probabilmente influirà molto sul (mal)costume e sulla società e meno sulla geopolitica e sull' economia -se non, per quest' ultima, l'accelerazione del digitale.

 

A nemmeno due mesi di distanza i grandi dibattiti sulla questione ecologica, sui paradigmi economici e quant' altro sono scomparsi. O se non proprio scomparsi, pesantemente annacquati. A proposito, dove è finita Greta Thunberg? Letteralmente sparita dal palcoscenico. A parte un piccolo corteo a Bruxelles ai primi di marzo, quando solo l'Italia -in illo tempore- stava facendo i conti con le terapie intensive intasate, la nostra è uscita di scena. Eppure l'occasione sarebbe stata ghiotta per continuare, sulla scia dell'abbattimento dei valori di inquinamento causa lockdown e con le compagnie aeree in crisi nera e la mobilità ridotta, i licenziamenti, le prospettive di un ritorno alle campagne, la critica del consumismo, eccetera. Girava sui social, verso fine marzo, un video in cui Covid19 si rivolgeva all' Umanità (sullo sfondo di una suadente e calda voce femminile): "non stavate bene, vi ho colpito per fermarvi e farvi riflettere" era il sunto del pippone. Roba da tradurlo in svedese e inviarlo alla Thunberg: da andarne in estasi, materiale per mille scioperi del clima e stronzate simili. Invece il silenzio. Basta, finito, la messa è finita, andate in pace. L' Unione Europea, come una di quelle vecchie sgangherate e tenute in piedi col fil di ferro che non muoiono mai per la rabbia dei parenti, ancora una volta la ha sfangata. O il progetto europeo sarebbe caduto miseramente con Covid o si sarebbe rafforzato, questo era il pensiero di marzo. A me pare si sia rafforzato e l'Italia è destinata ad essere una marginale periferia povera in questo progetto. Se l'Europa unita fosse l'Italia, l'Italia sarebbe qualche nostra provincia depressa, per fare un paragone calzante.

 

Niente di nuovo sotto il sole? Non proprio, Covid ci lascerà i suoi frutti avvelenati, il primo dei quali è il distanziamento sociale che diventerà la norma dappertutto, a partire dalle scuole. Magari la museruola negli ambienti chiusi prima o poi la leveranno, una volta che le aziende si saranno suddivise gli utili ma il distanziamento no. Perché distanziamento fa rima con divieto di assembramento e difficilmente i governi rinunceranno ad una occasione che raramente si presenta nella Storia. Poi ci lascerà un nuovo aumento del controllo: certo, si viaggia ancora ma diventerà la norma registrarsi non solo alle Questure ma pure alle Regioni per motivi sanitari, con tracciamento degli spostamenti. E dal 1 luglio calerà ancora il limite del contante come prelievo, preludio ad una ormai sicura moneta elettronica a breve termine.

 

Eppure a un attento osservatore i cambiamenti non sfuggono. Le nostre città non sono più le stesse neppure con la movida del sabato sera. Manca un qualcosa, un ingrediente, un dettaglio che non le fa essere più quelle di prima. Anche con l'animazione e una parvenza di movida (solo al sabato) si sono intristite, ingrigite. Sono spariti quegli artisti di strada, sparite quelle atmosfere intellettuali nelle grandi librerie del centro, raduno di universitari e giovani, a metà tra il negozio e il caffè letterario. Spariti poi -ed è il tasto per me più dolente- quei portoni spalancati a lutto, assieme alle finestre, col marciapiede sgombero per veglia funebre: tutto quel via-vai di amici, parenti, vicini, compari, i catafalchi funebri in vista dalla strada, i drappi scuri e viola con le civette ricamate, i quadri di Cristi cupi devastati dal dolore, di Madonne lugubri coi pugnali in petto, di santi e di sacri cuori, insomma tutto l' armamentario dei funerali meridionali, che sono un qualcosa impossibile da descrivere, perché bisogna viverli. Le veglie duravano tutta notte e l'atmosfera era impressionante, almeno per uno non del posto, tra l'onirico e il magico. Vi era un andirivieni continuo, si salutavano i parenti stretti attorno al catafalco per la veglia, poi in casa vi erano crocchi di persone ovunque: chi spettegolava, chi piangeva, chi parlava di affari, di soldi, chi ordiva vendette private. Io li associavo sempre alla descrizione della sala dei banchetti della reggia di Alcinoo e di Nausicaa, erano atmosfere quasi omeriche, un qualcosa di unico. Temo che non lo vedremo più. Se così fosse, terrò con me i ricordi delle veglie cui ho partecipato.

 

Addio, 1914, benvenuto (si fa per dire) 1919. Un mondaccio più triste e grigio del solito. Ne vedremo delle belle ma credo che almeno in Europa Covid sia un capitolo chiuso e a fine estate pure nelle Americhe. Resterà solo uno spauracchio, per giustificare cose balorde. Il crollo? Al prossimo virus. Ho sempre pensato che Covid era un avvertimento. Messaggio non recepito dalla massa. La prossima volta sarà cartellino rosso.

 

Simone Torresani

 

 
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6 Giugno 2020

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Da Rassegna di Arianna del 3-6-2020 (N.d.d.)

 

L’argomento che affrontiamo è solo apparentemente minore, o futile, o riservato a una strana fauna subumana, quella dei tifosi del calcio. Il 20 giugno prossimo riprende il campionato di calcio: alleluia brava gente! Non ci iscriviamo al partito dei moralisti indignati: lo sport professionale muove interessi miliardari, contribuisce al benessere, dà lavoro a una quantità infinita di categorie professionali, dai calciatori agli allenatori, dai giornalisti ai venditori di bibite e gadget allo stadio. Le tasse pagate all’Erario contribuiscono al bilancio pubblico con grandi cifre. Ugualmente, non riusciamo a essere soddisfatti: riparte solo lo sport di vertice, quello che interessa le televisioni, domines uniche del grande affare del pallone. Tutti gli altri, i professionisti più poveri, i dilettanti e il resto dell’agonismo sportivo, può aspettare: bambole, non c’è una lira, se non vi chiamate Cristiano Ronaldo e non partecipate alla grande torta dei diritti televisivi. Abbiamo assistito a una trasmissione di un’emittente piemontese sulla ripresa degli allenamenti della pallapugno, o pallone elastico, uno sport di nicchia, popolarissimo nelle Langhe, nel Monferrato e nel ponente della Liguria, pressoché sconosciuto altrove. Con rigore subalpino, l’allenatore di una squadra di serie A elencava tutte le prescrizioni per i suoi atleti, ciò che possono – e soprattutto non possono fare- nel corso delle sedute individuali e di gruppo (distanziati, ovviamente!). Con rassegnazione, non sapeva esprimersi sulla possibilità di riprendere il campionato, che muove un folto pubblico negli sferisteri di provincia, ha i suoi idoli e alimenta un giro di scommesse non trascurabile.  La pallapugno non interessa i broadcaster, i giganti della televisione: pollice verso per gli eroi di paese dalla mano avvolta nel guanto con cui si colpisce la palla.  Al contrario, il calcio di vertice ricomincerà: senza pubblico, con un tour de force serale in piena estate, ma i bilanci sono salvi. Le novità sono straordinarie: esiste un piano B in caso di recrudescenza del virus: se proprio non si potesse giocare, potrebbe entrare in azione un algoritmo. In base alle informazioni su squadre e protagonisti, fornirà con precisione e senza timore di errori il risultato delle partite. Non abbiamo dubbi sul vincitore: chi controlla il modello matematico, quindi il potere. Nomi e cognomi, ragioni sociali delle squadre più potenti li metta il lettore. Ci permettiamo una divagazione: Shoshana Zuboff, nel suo Capitalismo della sorveglianza fa una riflessione di cruciale importanza, che vale per l’intero sistema di potere – di cui lo sport di vertice è un’espressione - tanto più nel presente caratterizzato dallo tsunami del Coronavirus. Questa fase storica è davvero “senza precedenti”. Ciò che è senza precedenti, l’umanità tende a interpretarlo, erroneamente, ricorrendo a categorie di giudizio familiari. In tal modo “rendiamo del tutto invisibili le sue caratteristiche inedite”. L’esperimento psico sociale innescato dal Covid 19 - non abbiamo timore di chiamarlo così, nel rispetto del dolore e dei lutti- è completamente nuovo, lascia spiazzati proprio in quanto tendiamo a fare paragoni, a dare valutazioni sulla base del passato, mentre esso è unico, inusitato, la concretizzazione di un potere strumentalizzante, la sua espressione in un’infrastruttura onnipresente, senziente, interconnessa e computerizzata che la Zuboff chiama “il Grande Altro”, Big Other.

 

L’alveare post umano in cui ci hanno riformattato non è più in grado di rendersi conto dell’ampiezza dei cambiamenti imposti. Il banco vince sempre, si tratti della finanza, di Big Pharma, dei giganti tecnologici o dei padroni dello sport. La presa del potere dall’alto è riuscita con tale estensione e profondità da non venire quasi più percepita. Nel pieno della rivoluzione fordista, un motto dell’esposizione universale di Chicago del 1933 era: “La scienza trova, l’industria applica, l’uomo si adatta”. Vale anche nello sport e proprio la natura popolare, gioiosa, sentimentale della passione sportiva rende possibile una riflessione che possa arrivare al cuore di qualcuno, minoranza certo, ma attiva, pensante e senziente. In Corea hanno messo sugli spalti, al posto dei tifosi, sagome umane di cartone, rivestite di pubblicità a siti erotici. I tifosi cartonati sostituiscono quelli di carne e ossa, spettacolo nello spettacolo, la componente più sana e genuina del calcio. Poiché le loro urla, la partecipazione emotiva alla gara è tanto importante, c’è chi pensa agli applausi finti, come in certe trasmissioni televisive in cui sono programmate e preregistrate anche le risate. Trasmetteranno, prima o poi, finti incitamenti, l’urlo del gol, magari anche qualche ululato di disapprovazione rivolto all’avversario o all’arbitro: non mancano gli altoparlanti e la tecnologia digitale. Marionette, che passione. Nel neo-calcio post Covid, i giocatori non potranno avvicinarsi troppo all’arbitro e sono sconsigliati gli abbracci successivi ai gol. Importante è solo che la partita si giochi e le televisioni paghino orchestra, musica e suonatori. L’unica voce ammessa è quella del denaro, il fruscio virtuale delle banconote. Magari ci sarà pure qualche tifoso che verserà denari per essere raffigurato sui cartoni posti in gradinata.  Scrive Gigi Marengo, giornalista tifoso del Torino, una delle squadre con i tifosi più passionali: “d’altra parte, che alcuni considerassero i tifosi null’altro che figure cartonate, unicamente votate al riempire gli spalti, non era certo un segreto. Con i fans cartonati, più nessun problema di ordine pubblico e più nessuna necessità di esperimenti sociali. La stragrande maggioranza del tifo organizzato italiano aveva chiesto a piena voce di non far ripartire un campionato ovviamente fasullo. Qualcuno lì ha ascoltati? Ovviamente no, son solo tifosi, mica banchieri. Solo il dio denaro ha avuto voce piena; tutto gli altri zitti e muti, senza diritto di parola.” Verità sacrosante, ma funzionerà, vedrete. Lo stesso popolo (perché viene da scrivere plebe?) che si è chiuso in casa terrorizzato, poi in fila davanti al fornaio inveendo contro chi non rispettava il metro di distanza o non indossava correttamente la maschera di Zorro, salvo uscire in massa al fischio del padrone per osservare le frecce tricolori, sarà felice di assistere alle partite virtuali, senza pubblico, giocate in uno stadio qualsiasi. Perché continuare con la finzione di giocare Sampdoria- Genoa a Marassi, ad esempio, se è più funzionale un altro stadio, pardon un’altra location? Troveranno il modo di farci “interagire “(si dice così) con specifiche applicazioni dei nostri telefonini: potremo tifare dal divano, esultare con un clic e altro ancora.

 

È il mondo nuovo, e non solo nello sport. Basta andare a scuola o in antiquati uffici, basta andare in banca o alla biglietteria della stazione, l’homo novus distanziato, silente, fa tutto da casa. Digito, ergo sum. Intanto, pago per essere dominato, a partire dai tifosi di cartapesta, da salotto, che scuciono fior di quattrini per assistere alle partite a ogni ora del giorno e della notte, in qualunque giorno della settimana. Nel tempo, gli appassionati sono stati prima criminalizzati (chi va allo stadio è un violento, un picchiatore, una bestia da rinchiudere dentro una gabbia), poi costretti, se proprio insistevano a recarsi alla partita, a orari assurdi decisi dall’alto, utili solo alle esigenze della televisione padrona. In ogni caso, sono visibili solo le prestazioni delle squadre più importanti: a nessuno deve interessare il Mantova, il Catanzaro o la Triestina.

 

In vent’anni, se le statistiche non mentono, si è verificata una forte polarizzazione del tifo attorno a poche grandi squadre. Le altre sono ai margini, ricevono denaro, ma sono le briciole, il grosso della torta va ai giganti. Il circo Barnum funziona benissimo: quando Cristiano Ronaldo, straordinario attaccante, ma anche evasore fiscale condannato in Spagna, è approdato in Italia, al ramo calcistico dell’holding Fca, società di diritto olandese con sede legale in America, probabilmente per sfruttare la favorevole legge tributaria promulgata di Renzi a favore dei neo residenti stranieri,  in pochi giorni la sua maglietta “ufficiale” ( ufficiale significa che costa molto di più per il marchio) ha venduto un milione e mezzo di esemplari nel mondo. Il banco vince sempre, ma la colpa è della dabbenaggine popolare. Frattanto, forse per la fame di calcio di molti, la prima partita a porte chiuse del campionato tedesco, il più lesto a riprendere, ha avuto un pubblico triplo della media precedente. Ne abbiamo visto in streaming qualche minuto. Al di là del piacere di vedere nuovamente girare la sfera di cuoio, la nostra impressione – ma certo apparteniamo a una minoranza residuale – è stata quella di una recita silenziosa, senza testimoni, con le uniche urla provenienti dalle panchine degli allenatori. Ci sembrava di assistere a una farsa, un montaggio senza senso.

 

Sospettosi, forse complottisti, abbiamo cominciato a pensare che la gara non si fosse giocata e fossimo testimoni di un complesso sistema informatico, ovvero che i calciatori e l’arbitro fossero solo attori messi davanti alle telecamere per intrattenere noi spettatori passivi a casa. Forse il gigantesco centravanti del Bayern Lewandowski è un personaggio della mitologia, Ronaldo un supereroe dei fumetti e Lionel Messi l’invenzione di un videogioco. Fantasia delirante, ma poi ci siamo ricordati di un racconto degli anni 60 scritto da Jorge Luis Borges con l’amico Adolfo Bioy Casares, dal titolo Esse est percipi. “Come, crede lei dunque nella tifoseria e negli idoli? Dove è vissuto, don Domecq? Non c’è risultato, né formazioni, né partita. Gli stadi sono ormai rovine che cadono a pezzi. Oggi tutto passa per la televisione e la radio. La falsa eccitazione degli annunciatori? Non è mai arrivato a pensare che è tutta un’impostura? L’ultima partita di calcio si è giocata in questa capitale il 24 giugno del 37. Da quel preciso momento, il calcio, come la vasta gamma di altri sport, è un genere drammatico, con un solo uomo in cabina di regia e attori in maglietta davanti al cameraman. Signore, chi inventò la cosa, mi misi a domandare. Nessuno lo sa. Tanto varrebbe scoprire chi inventò per primo le inaugurazioni delle scuole o le visite fastose delle teste coronate. Sono cose che non esistono fuori dagli studi di registrazione e delle redazioni. Si convinca, Domecq, la pubblicità massiva è il contrassegno dei tempi moderni. E la conquista dello spazio, gemetti? È un programma straniero, una coproduzione yankee-sovietica. Un lodevole progresso, non neghiamolo, dello spettacolo scientista”. Virtuale e reale si intrecciano, verità e finzione sfumano; resta la vittima, il destinatario-utilizzatore finale a pagamento dello spettacolo. Il titolo del racconto, Esse est percipi, fa riferimento alla frase che riassume il pensiero filosofico di George Berkeley, vescovo anglicano irlandese del XVIII secolo. Essere è essere percepiti, ovvero ciò che chiamiamo realtà dipende dalla percezione del soggetto. Non esiste dunque una realtà obiettiva, come per Tommaso (“una mela è una mela “), tutto dipende da chi osserva. Al limite, non solo la partita può essere una finzione, cioè una fiction, ma possiamo esserlo anche noi stessi; forse esistono solo i giocatori di calcio mentre sono finzione le pandemie, i governi, i conflitti. Borges sembra suggerire che siamo noi tifosi con la nostra carica soggettiva a sostenere, rendere viva la fiction dello sport. È la nostra percezione che dà carne alla fantasia remota creata negli studi, alimentata dalla voce eccitata dei telecronisti.  Ovviamente, il pensiero di Berkeley è più complesso, ma Borges disegna un mondo nel quale la realtà si comporta in base al modello berkeleyano. Per non cadere nel relativismo più estremo, il che lo avrebbe reso un’icona della postmodernità, Berkeley, ecclesiastico e credente, indica Dio come garante ultimo della stabilità del mondo. L’interesse di Berkeley era indagare su come conosciamo il mondo e quali sono gli strumenti per distinguere la realtà dalla finzione. È una problematica già insita nella famosa caverna di Platone, che giunge sino a noi, poiché la nostra relazione con l’alterità è sempre mediata da schermi. Quindi, esiste davvero Lewandowski, tornerà veramente il campionato? I tifosi del Bayern sono veri o di cartone? Il Real Madrid è una squadra reale o una creazione artificiale inventata per umiliare gli avversari? Forse che la Juventus finisca sempre per vincere è un errore di Matrix, o un aiutino del Grande Algoritmo. Non ci sono risposte, ma ci si convince ogni giorno di più di vivere in una bolla, essere noi stessi una fiction distopica, in cui sono l’umanità e la verità le grandi sconfitte. La televisione è riuscita in un’impresa colossale: togliere pubblico e carne agli eventi, convincere che solo ciò che avviene davanti alle telecamere accade davvero, in quanto “è percepito”, il battito delle palpebre di Dio di Berkeley. Urla finte più reali di quelle autentiche, “vero“ pubblico di cartone, una vita a porte chiuse, a distanza di sicurezza. Solo spettatori paganti, utenti, mai protagonisti. Forse è davvero tutto falso, specialmente il risultato, predeterminato da un algoritmo in cui l’elemento principale è la quantità di denaro investito, seguito dal bacino d’utenza e dal numero di “mi piace” sulle reti sociali. Ecco la vera democrazia da remoto, circenses a tariffa con macchina da presa. Diceva Polonio del comportamento di Amleto: c’è del metodo in questa follia. 

 

Roberto Pecchioli

 

 
Un altro 2 Giugno PDF Stampa E-mail

4 Giugno 2020

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Da Rassegna di Arianna del 2-6-2020 (N.d.d.)

 

Il 2 giugno è un giorno strano. Infatti, vi ricorrono sia l’anniversario della nascita della Repubblica, nel 1946, che quello di uno dei peggiori attentati alla vita della Repubblica, avvenuto il 2 giugno del 1992. Quel giorno i massimi vertici dell’economia italiana – il presidente della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, il ministro del bilancio Beniamino Andreatta (i due che dieci anni prima avevano siglato il tragico “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro), il direttore generale del Tesoro Mario Draghi, i vertici dell’Eni, dell’IRI, delle grandi banche pubbliche e delle varie aziende e partecipate di Stato – si incontrarono al largo di Civitavecchia sul panfilo della regina Elisabetta, il “Britannia”, con la crème de la crème della grande finanza internazionale per pianificare a tavolino il saccheggio dell’economia italiana, in primis attraverso la privatizzazione e la liquidazione, a prezzi di saldo, degli straordinari patrimoni industriali e bancari dell’Italia, che avevano fatto la fortuna del nostro paese nel dopoguerra.  All’inizio degli anni Novanta, infatti, la quasi totalità del settore bancario e oltre un terzo delle imprese di maggiore dimensione in Italia erano ancora in mano pubblica: un’eresia intollerabile nel momento in cui si andava imponendo in tutto l’Occidente il dogma del liberismo e del mercatismo selvaggio. L’Italia aveva bisogno di una “terapia shock”, alla sudamericana, per essere ricondotta sulla retta via. Per nostra sfortuna (ma probabilmente non è un caso) questo momento storico coincise con il “golpe bianco” di Tangentopoli, che poco prima aveva spazzato via praticamente tutti i partiti della prima Repubblica, spianando così la strada alla peggiore classe politica che questo paese abbia mai avuto, ovverosia a quegli esponenti dell’establishment italiano – Ciampi, Draghi, Amato, Andreatta, solo per citarne alcuni, che a loro volta erano espressione di uno “Stato nello Stato”, comprendente anche grandi aziende economiche ed editoriali, figure tecniche, movimenti della società civile, intellettuali e pezzi della magistratura – che da tempo sognavano di liquidare una volta per tutte il modello Stato-centrico italiano per mezzo del vincolo europeo, anche al costo di ridurre l’Italia a colonia dei centri di comando europei. Pochi mesi prima dell’incontro del “Britannia”, infatti, era stato siglato il famigerato trattato di Maastricht, che impegnava l’Italia a una drastica politica di austerità fiscale e di abbattimento del debito pubblico. Ed è proprio facendo appello alle pressioni europee in tal senso che i privatizzatori nostrani giustificarono lo smantellamento dell’apparato industriale e di pianificazione pubblico italiano.

 

Come avrebbe detto poi Romano Prodi, artefice dello smantellamento dell’IRI in qualità di presidente dello stesso nel 1993-4: «Erano obblighi europei! Mi [era] stato dato il compito da Ciampi che privatizzare era un compito obbligatorio per tutti i nostri riferimenti europei». In questa frase di Prodi è contenuto tutto il senso del vincolo esterno europeo, che ha agito (e continua ad agire) sia come pressione reale per riformare l’economia in senso neoliberale, sia come giustificazione per le élite nazionali, che a loro volta auspicavano quelle stesse riforme ma erano consapevoli che non sarebbero mai riusciti ad ottenerle «per le vie ordinarie del governo e del Parlamento», come disse Guido Carli, ministro del Tesoro al tempo della firma del trattato di Maastricht, cioè senza una pressione esterna che gli permettesse di aggirare i normali canali democratici. È così che in pochi anni venne svenduto un patrimonio inestimabile accumulato in quasi mezzo secolo di politiche pubbliche, privando l’Italia di una delle principali basi materiali della sua Costituzione: ovverosia ciò che fino a quel momento aveva permesso allo Stato di perseguire (con tutti i limiti del caso) politiche di sviluppo industriale, di orientamento dei consumi, di innovazione strategica, di coesione territoriale, di salvaguardia dell’occupazione. Non a caso è proprio in quegli anni che inizia il lungo declino dell’Italia, a cui verrà dato il colpo di grazia con l’ingresso nell’euro.

 

A distanza di quasi trent'anni da quel tragico 2 giugno del 1992, sarebbe il caso di chiudere una volta per tutte questo triste capitolo della storia italiana, restituendo al popolo ciò che è suo: dai monopoli naturali come la rete autostradale e le reti energetiche - che negli anni sono stati smembrati e consegnati nelle mani di spregiudicati “prenditori”, che ne hanno ricavato rendite e profitti a scapito della qualità e dei costi dei servizi, e dunque a scapito di tutta la collettività - alle banche.

 

Fino ad arrivare al bene pubblico per eccellenza: la moneta.

 

Thomas Fazi

 

 
Re Mida PDF Stampa E-mail

3 Giugno 2020

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Da Rassegna di Arianna dell’1-6-2020 (N.d.d.)

 

Nella sua opera Breve storia dell’euforia finanziaria, l’economista statunitense John K. Galbraith analizza i maggiori crack finanziari della storia e rileva come i fenomeni speculativi si verifichino a intervalli più o meno regolari, con premesse e risultati pressoché identici. Essi si presentano come il frutto dell’avidità e della stupidità umana, i cui effetti sono bruschi arresti della vita economica e impoverimento generalizzato. L’iter è il seguente: dapprima si individua una novità sulla quale focalizzare l’interesse del pubblico –i tulipani, l’oro della Louisiana, il concetto di società per azioni- qualcosa che possa alimentare grandi aspettative o possa essere presentato come un’innovazione capace di generare ingenti profitti per periodi infiniti. I capitali cominciano così a riversarsi su tali prodotti, gonfiando i corsi delle azioni o i prezzi delle merci, che smettono di rappresentare il valore oggettivo del bene e incorporano l’aspettativa dei guadagni futuri; per rincorrere l’investimento si fa largo uso della leva finanziaria, generando situazioni di forte indebitamento. Quando il processo smette di autoalimentarsi, i prezzi calano vertiginosamente, i debiti contratti diventano inesigibili e si assiste al fallimento dei finanziatori, ossia delle banche. I governi sono “costretti” a intervenire per salvare gli istituti di credito e a sostenerne i costi sarà la popolazione, in termini di bilancio statale, perdita di posti di lavoro, impoverimento generale e azzeramento della fiducia, che preclude a futuri investimenti. A questo punto viene ricercata una giustificazione delle ragioni che hanno portato al crollo, si prospettano soluzioni volte a impedire che possa ripetersi, senza però mai affrontare il nodo principale che genera tali corsi e ricorsi economici. Viene ignorato il movente di natura morale, che è il fulcro dell’etica del capitalismo e la rincorsa al maggiore profitto, che sfida ogni rischio e si avvale di qualsiasi mezzo. Da chi sono mossi, infatti, i banchieri, se non dai loro interessi?

 

Possiamo dare a questa domanda una risposta di tipo macroeconomico e una di tipo psicoanalitico, scomodando i padri delle rispettive materie. Keynes avrebbe addotto tale comportamento a “un amore irrazionale per il denaro”, mentre S. Freud lo avrebbe ricondotto alla cosiddetta pulsione di morte. Secondo il fondatore della psicoanalisi, nel profondo dell’individuo si nasconderebbe “la pulsione umana di aggressione e di auto-distruzione” (thanatos, o pulsione di morte), in perenne lotta contro la pulsione di vita (eros), che invece spinge gli individui ad accoppiarsi, assicurando la sopravvivenza della specie. […] M. Keynes, grande conoscitore ed estimatore di Freud, cambia la visuale e gli strumenti di analisi, adottando quelli propri della scienza economica, ma giunge a conclusioni per molti versi analoghe. La pulsione di morte diventa per l’economista inglese l’amore per il denaro, che rappresenta “il problema morale dei nostri tempi”. Attraverso il micidiale meccanismo della concorrenza sfrenata, sia fra diversi Paesi che fra classi sociali, si metterebbe in moto una guerra interminabile, capace di minacciare la sopravvivenza non solo dell’essere umano, ma della stessa natura. Per dirla con le sue testuali parole: “Saremmo capaci di spegnere il sole e le stelle perché essi non producono dividendi”. Egli riprende il mito di re Mida, il re che aveva ottenuto dal dio Dionisio il dono di trasformare in oro tutto ciò che toccava, ma si accorse presto che, pur potendo possedere moltissima ricchezza, sarebbe a breve morto di fame, poiché anche il cibo da lui toccato diventava d’oro, e quindi non commestibile. Secondo Keynes le società opulente, vittime del desiderio di accumulare, con la loro avidità distruggono la produzione, bloccano l’economia e finiscono appunto come re Mida per annegare in un mare d’oro. Il mito offre una profonda analisi della dottrina monetarista dominante e della sua ideologia, dimostrando come la moneta non coincida col valore, che invece deriva dal lavoro e dall’economia reale. La moneta e la tendenza al suo accumulo sono alla base dei principali problemi e squilibri economici, tra cui la disoccupazione involontaria. Nonostante il valore assoluto che le viene comunemente e universalmente attributo, essa è in realtà un mero intermediario di scambio. Per l’essere umano il possesso di denaro svolge il compito di mitigare la propria inquietudine più profonda e il premio che viene chiesto per separarsi da esso non sarebbe altro che la misura del suo grado di inquietudine.

 

Ilaria Bifarini

 

 
RAI sionista PDF Stampa E-mail

2 Giugno 2020

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Da Comedonchisciotte del 30-5-2020 (N.d.d.)

 

Sappiamo quanto sia sentita la longa manus israeliana in Italia: lo abbiamo visto più volte in conferenze vietate perché sgradite alla Comunità ebraica o, in alcuni casi, su chiamata diretta dell’ambasciatore israeliano. Abbiamo visto posizionare ai vertici di quotidiani di grande tiratura figure che abbracciano il sionismo e lo dichiarano con orgoglio, andando oltre la libertà di espressione quando, in nome di questa scelta, si censurano notizie oggettive solo perché sgradite a Israele. Ma stavolta la RAI ha fatto qualcosa di più. Qualcosa che offende l’ONU e tutti i cittadini che credono nella legalità internazionale come tutela del Diritto contro l’arroganza del potere. Quel che ha fatto la RAI suona come una sottile operazione di propaganda – contro l’ONU e le sue numerose Risoluzioni –   utilizzando un programma di evasione, L’Eredità, seguito da milioni di italiani che amano i giochi a quiz. Giochi che a volte hanno coperto di vergogna i concorrenti come nel caso in cui, alla domanda sull’anno in cui Hitler divenne cancelliere, qualcuno rispose 1979, qualcuno 1948 e nessuno 1933, che pure era tra le opzioni. L’errore non era di data, ma di periodo storico e questo la dice lunga sulla formazione dei concorrenti partecipanti a L’Eredità. Stessa cosa si verificò quando la domanda riguardò Mussolini, ma in quei casi gli ignoranti senza possibilità di giustificazione erano i concorrenti. Stavolta invece è andata diversamente e abbiamo approfondito per capire se si trattasse di spaventosa ignoranza da parte della Rai o di un suo servile inchino allo Stato ebraico, il quale vorrebbe illegittimamente e illegalmente appropriarsi della città di Gerusalemme.

 

Veniamo ai fatti. In questi giorni, con tutte le attenzioni per evitare il contagio da COVID-19, sta andando in onda l’edizione straordinaria, con fini di beneficenza, de L’Eredità. Le domande non sono certo difficili: nella trasmissione dello scorso 21 maggio riguardavano le capitali e alla domanda circa la capitale di Israele la concorrente risponde giustamente Tel Aviv. Eh no! Tel Aviv poteva passare finché Trump, dall’alto del suo potere e non certo del Diritto, non avesse deciso di accontentare il suo amico Netanyahu, indagato per frode ma tuttora premier di Israele, mettendo la sua potenza al servizio dell’illegalità e dicendo che per lui la capitale di Israele è Gerusalemme. Per lui! Quindi il conduttore, che nel suo folder ha le risposte fornitegli dai saggi della Rai e non può sbagliare, riprende la concorrente e, in poche parole e pochi secondi comunica a milioni di italiani che la Rai, inchinandosi servilmente ai desiderata israeliani, ha preso a calci il Diritto internazionale dimostrando che per Trump e per Israele le risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non hanno alcun valore. Quindi, se il diritto internazionale non ha valore per qualcuno non lo ha per nessuno e l’ONU può serenamente chiudere i battenti, dato che l’arroganza della forza vince sulle ragioni del diritto. La Comunità palestinese si è fatta sentire e migliaia di cittadini italiani hanno scritto alla Rai per fare le loro rimostranze. Ovviamente ha scritto anche l’Ambasciata palestinese in Italia. Alle richieste dell’ambasciatrice, Abeer Odeh, il direttore di Rai 1, Stefano Coletta, ha risposto in un modo formalmente cortese e sostanzialmente offensivo e sprezzante scrivendo che si dispiaceva per l’accaduto e che, informata la redazione del programma, aveva avuto questa testuale risposta che, nei fatti, faceva sua: “…Ci preme sottolineare che non era nostra intenzione offendere le opinioni e la sensibilità dello Stato di Palestina…Tuttavia teniamo a precisare che il nostro format è un gioco a quiz e le domande si basano su una consultazione di fonti autorevoli e accreditate in campo enciclopedico… Ci riserviamo in una delle prossime puntate di segnalare  le vostre osservazioni nel segno che il servizio pubblico radiotelevisivo garantisce a tutte le voci e le posizioni.” In sostanza, la Rai definisce “fonti autorevoli e accreditate in campo enciclopedico” le sopraffazioni del presidente di una superpotenza quale gli USA a favore delle sopraffazioni dello Stato di Israele che occupa in completa illegalità territori palestinesi dal 1967, dopo essersi autoproclamato Stato nel 1948 approfittando della Risoluzione dell’Assemblea Generale 181 del 1947 – senza peraltro mai rispettarla. La stessa che definiva Gerusalemme città sotto giurisdizione internazionale e non già capitale dello Stato di Israele.  Al tempo stesso la Rai definisce “opinioni e osservazioni” le richieste di rettifica, in base al Diritto, dell’Ambasciata palestinese. Alle pretese di Israele di appropriarsi di Gerusalemme, l’ONU ha risposto più volte con Risoluzioni negative del Consiglio di Sicurezza già nel 1980, ma evidentemente per la RAI l’arroganza – pari solo alla conclamata ignoranza del presidente USA – e le pretese illegittime e illegali dell’indagato Netanyahu sono considerate “fonti autorevoli e accreditate in campo enciclopedico” mentre l’ONU, base della legalità internazionale, può essere gettata nel cassonetto. Non c’è quindi da stupirsi se alcuni concorrenti di una trasmissione come L’Eredità piazzano Mussolini nel 1964 o Hitler nel 1979. Noi non riusciamo a immaginare che anche la dirigenza Rai raggiunga livelli di ignoranza pari a quelli di alcuni suoi concorrenti e quindi riteniamo che tanto la risposta sbagliata al quiz, quanto la risposta profondamente offensiva all’Ambasciata palestinese, siano interni a una chiara logica. Una logica che neanche può definirsi di disinformazione, ma di puro servilismo verso Israele, dimenticando che il peso di quella mannaia che affonda il Diritto internazionale non fa danno ai soli palestinesi, ma a tutti coloro – individui e Stati – che sanno di non poter più contare sulla legalità internazionale se tra la civiltà del diritto e la barbarie della forza vince la seconda. […]

 

Patrizia Cecconi

 

 
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