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8 Aprile 2014

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Da Heimat del 3-3-2014 (N.d.d.)

 

L’antropologia di un’epoca si lascia facilmente avvicinare dal destino di alcune parole, dalla loro eco nella nostra mente e dall’orizzonte di senso al quale rimandano. Per comprendere questi nostri tempi e l’atteggiamento dominante di gran parte delle masse, basti pensare alla parola “suddito”.

Laddove questa parola è usata, lo è quasi esclusivamente in un’accezione negativa, di denuncia verso la degenerazione del Potere. “Suddito” significa oggi privato dei diritti e della dignità che, a giudizio della coscienza democratica, dovrebbero essere propri al singolo. Significa estromesso dalla sovranità che, in virtù di un’astratta legge naturale, dovrebbe spettargli.

Una premessa è necessaria: non voglio mettere in discussione il carattere imperfetto e spesso truffaldino di molte, o di quasi tutte, le democrazie contemporanee.

Intendo solo registrare come vibrino le corde dell’ego nel momento in cui sentiamo pronunciare una parola che, di per sé, dovrebbe esprimere la normale condizione umana, l’ovvia situazione di un ente finito e intriso di limiti, che fin dagli albori della Storia guarda al Cielo in cerca di riscatto e speranza. Che è “sottoposto” alla volontà del Cielo, per quanto incomprensibile e misteriosa possa risultare agli occhi di una civiltà non tradizionale. E suddito, etimologicamente, significa proprio “sottoposto”, subordinato a un’autorità sovrana.

Il punto dolente è la presunzione e l’arroganza dell’uomo moderno, che si sente in diritto e in dovere di sottrarsi a qualsivoglia subordinazione. Persino a quella parentale, se consideriamo a spanne la sensazione di “normalità” con cui oggi assistiamo al rovesciamento dell’autorità tra genitori e figli, la prima e più evidente forma di “sottoposizione” pre-politica.

In questa cattiva fama della parola “suddito” agisce un superbo disprezzo verso l’idea stessa che l’individuo possa essere inserito in una trama e in un ordine gerarchico nel quale, a seconda del proprio destino, possa avere e possa svolgere il proprio ruolo. Il problema sorge davvero quando pensiamo all’essenza di ciò che chiamiamo spiritualità, termine usato con molta leggerezza e con poca attenzione.

Cosa significa spiritualità? Significa capacità di intuire, attraverso la Tradizione, l’unità nella molteplicità, ossia di ricomporre la trama del Reale al di là del dato empirico e di una prima scansione “razionale” della realtà circostante. Significa sapersi inserire, sia considerati in sé stessi che in relazione con gli altri, in un ordine naturalmente gerarchico, nel quale poter comprendere il proprio “posto” nel Reale stesso e il proprio “percorso” di vita.

Nel farlo, non possiamo non riconoscerci “sottoposti” e bisognosi di obbedienza e disciplina.  Anche se l’unica autorità a cui scopriamo di essere davvero tenuti ad obbedire è il nostro “Sè”,  l’ “Atman che è Brahman” , il fondamento divino che alberga in ognuno di noi, abbiamo necessità di rendere “suddito” il nostro ego, essenzialmente ribelle a ogni subordinazione e reso quasi invincibile da decenni di sconsiderata propaganda democratica e libertaria.

Anche e soprattutto per questo, oggi, viviamo in un mondo de-spiritualizzato o che fraintende la spiritualità: perché siamo nel regno dell’ego, in un’era di regressione a uno stadio infantile della psiche collettiva. Un regno dove l’unica autorità è il capriccio individuale col quale ci identifichiamo e la folle pretesa di vederlo sempre soddisfatto. Anche questo è un modo peculiare di essere “sudditi”: il peggiore.

 

Gian Maria Bavestrello

  

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