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Né indolenza né rassegnazione PDF Stampa E-mail

14 Ottobre 2014

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Da Appelloalpopolo del 2-10-2014 (N.d.d.)

John Locke (1632 – 1704), primo teorico del regime liberale, sosteneva che il popolo ha il diritto di ribellarsi contro il potere che viola i diritti naturali e osservava anche che gli oppressi tendono a sopportare a lungo senza rivoltarsi e che solo dopo una lunga serie di abusi si scuotono e si ribellano. Non quando ma perché il popolo non si ribella è la domanda che i cittadini più consapevoli si rivolgono in questa congiuntura in cui innumerevoli analisi socio-politico-economiche hanno illustrato a sufficienza i fondamentali meccanismi economici e politici che muovono la Commissione di Bruxelles e l’intero apparato dell’Unione europea. Gli effetti di queste politiche sono evidenti, reali e subìte, ma il popolo non sembra volersi scuotere e le spiegazioni di questa passività, che solitamente si propongono, sono poco convincenti.

Di solito si sente dire che il popolo non avrebbe ancora sperimentato un netto peggioramento delle condizioni di vita e che avrebbe trovato, per ora, un modo per sopravvivere alla crisi senza precipitare nella povertà assoluta. Il popolo si ribellerà quando davvero arriverà la fame; solo quando l’ingiustizia e l’impoverimento diventeranno intollerabili. Tuttavia la miseria non sembra la condizione sufficiente e necessaria per la rivolta, giacché il popolo greco che, anno dopo anno, vede le sue condizioni di vita peggiorare di continuo, non ha fatto autentiche rivolte se non qualche effimera dimostrazione anche violenta ma sterile.

Alcuni spiegano l’inerzia popolare con la corruzione diffusa a tutti i livelli e in tutti i ceti: il popolo è corrotto. Ormai la corruzione e l’illegalità avrebbero infettato anche i ceti subalterni che, a maggioranza, accettano di badare illecitamente agli affari propri e di assistere al miserevole spettacolo offerto dai politici senza ribellarsi perché al posto loro farebbero lo stesso. Il ceto dominante, a sua volta, avrebbe trovato il modo di compromettere stabilmente i ceti popolari nella frode, nel clientelismo e nella trasformazione dei diritti in privilegi privati. La spiegazione sembra parziale e insufficiente perché il disprezzo per i politici è diffusissimo e semmai testimonia del contrario, vale a dire che è falso che in Italia tutti rubano e prevaricano.

Non corrotti dal malcostume, ma disincantati, restii al sacrificio condiviso, chiusi nel piccolo interesse personale, tutti sarebbero diventati individualisti. La gran parte dei cittadini avrebbe introiettato e assimilato l’ideologia neoliberista in misura così pervasiva che ormai ognuno, homo oeconomicus, calcola freddamente i propri interessi materiali e resta indifferente ad altri modi di vivere e di pensare. Dinanzi al progetto dei ceti dominanti apolidi vòlto a distruggere i diritti e i redditi dei ceti subalterni, tutti si scoprono cittadini isolati e inermi che non riescono a reagire. Fa il paio con questa spiegazione l’altra che afferma: sono scomparsi i legami comunitari. L’individualismo e la perdita dei legami comunitari, facce della stessa medaglia, sono comportamenti maturatisi con la diffusione dei falsi miti della “libera” impresa, dell’autorealizzazione, del consumismo, della competizione assoluta come fonte di prosperità. Oggi il popolo avrebbe perso i legami comunitari che in passato cementavano le lotte sociali. Ma è anche vero che spesso era l’opposizione sociale a formare i legami, non determinati a priori, ma sulla base di drammi condivisi e di nemici comunemente individuati.

Altra brutale spiegazione è che il popolo è stupido e ignorante perché non sarebbe cosciente della minaccia che un’oligarchia mai eletta ha sferrato contro i suoi diritti e, per giunta, non comprenderebbe argomenti troppo difficili come le dinamiche socio-economiche. Questa spiegazione presuppone che per ribellarsi la gran parte della popolazione debba essere esperta di politica, o di economia o di diritto. In ogni caso, questa presunta “stupidità” più che spiegare girerebbe in tondo tautologicamente in questi termini: il popolo è stupido perché non si ribella, il popolo non si ribella perché è stupido. Non meno crudele di questa interpretazione è quella di natura demografica, sostenuta da chi non crede a una rivoluzione perché la popolazione europea, e in particolare quella italiana, è troppo vecchia per ribellarsi. A far scoppiare le rivolte sarebbero da sempre i giovani in fascia d’età tra i 20 e i 35 anni, oltre la quale l’età media della maggioranza dei cittadini piegherebbe alla rassegnazione. La tesi sembra poter riguardare i paesi extraeuropei che registrano un’alta disoccupazione giovanile, una miseria diffusa e una società violenta. La sua premessa logica è che la ribellione si debba manifestare soltanto con cortei, manifestazioni, marce, adunate, dimostrazioni, scioperi, scontri anche violenti, non consigliabili ai vecchi.

“Manca un ceto dirigente” è l’altra spiegazione della riluttanza popolare a ribellarsi. I ceti subalterni, specialmente dopo il salto degli ex comunisti dall’altra parte della staccionata, sarebbero rimasti privi di un vero gruppo dirigente pronto e capace di guidarli in una lotta dura e intransigente. Del resto, non c’è ancora un partito politico organizzato intorno a un programma di fuoruscita dell’euro e di sovvertimento dell’Unione europea, che dica al popolo con chiarezza e compiuta verità che bande di felloni ci stanno portando via sovranità, democrazia e benessere e che dentro il sistema economico liberista non c’è futuro. Ma non sempre, nei grandi mutamenti storici, c’è un gruppo dirigente già formato; in molti casi esso matura nel progredire della lotta, sempreché l’incendio divampi.

Forse una ragione più convincente sta nel generale effetto sedativo mediatico, totale e incontrastato che, da almeno vent’anni, avvelena la nostra comunità nazionale. Per controllare e modificare le menti i poteri forti sfruttano l’appetito pressoché insaziabile di distrazioni, tramite l’industria mediatica. I mass-media possono, abilmente manovrati, indurre apatia sociale con un bombardamento d’informazioni mischiate all’intrattenimento; sono infatti diventati strumenti di “infosvago”, che diffondono l’informazione per divertire e il divertimento per disinformare e indottrinare. Una società fissata e parossisticamente contratta soltanto su suoni e immagini ossessivamente scanditi perde la dimensione e la concezione del dialogo e si consegna all’impero dell’ipnosi collettiva eterodiretta. La televisione è la moderna catena mentale a cui sono legati gli schiavi tratti al “Mercato”, distratti dalla contingenza sociale e politica, resi deliberatamente apatici e disabituati a pensare. La sua funzione politica consiste nell’ottundere la capacità di giudizio e di reazione, livellare gusti e idee in modo da rendere le persone indifferenti alle notizie vere che, trasmesse per flusso ininterrotto e annegate in un mare di notizie finte, di fatto sono sottratte alla riflessione. Questa forma di raffinata censura è l’ultimo anello della catena manipolativa. Milioni di Italiani, vittime di questo apparato di disinformazione, subiscono un indottrinamento antropologico e culturale che li ha convinti di aver vissuto sopra i propri mezzi, di non potersi permettere lo stato sociale, di aver portato troppo in alto la spesa pubblica e di dover liberalizzare ancora il mercato del lavoro. Soltanto una minoranza esigua di cittadini, in perenne ricerca della corretta informazione, percepisce l’avanzata inarrestabile del progetto di impoverimento nel nostro Paese attuato dai partiti euroallineati e dalle banche. Costoro dispongono di mezzi finanziari e tecnologici praticamente illimitati, controllano strettamente la propaganda dei media che, insistendo con ostinazione sui vizi nazionali (corruzione, evasione fiscale, …), instillano sensi di colpa e complessi di inferiorità e spingono gran parte degli Italiani a odiare e disprezzare il proprio paese. Quanto più ci si abbandona a una spregevole geremiade sui vizi nazionali e ci si crogiola in essa, tanto meno si trova la forza morale di ribellarsi per recuperare la Costituzione, ricostruire la Repubblica e far risorgere la Patria. Insomma l’opinione pubblica, soggiogata dalla propaganda e incapace di distinguere il bene dal male, non coglie quello che sta accadendo. “Finché non diverranno coscienti della loro forza, non si ribelleranno e, finché non si ribelleranno, non diverranno coscienti della loro forza.”(G. Orwell, “1984”). Non solo odio e disprezzo alimentati contro se stessi, ma paure e false speranze sono i sentimenti tra i quali il popolo oscilla frastornato. La paura del salto nel buio, delle conseguenze artatamente drammatizzate di un ritorno alla lira e di un’uscita dall’UE, del domani più drammatico del presente, si alterna con la speranza che arrivi un liberatore, che le cose cambino da sole; che lo straniero cattivo rinsavisca; che “io speriamo che me la cavo”, che la crisi finirà sicuramente entro “quest’anno”, riferito a tutti gli anni dal 2008 a oggi.

Immiserito, corrotto, ignorante, stupido, invecchiato, plagiato e manipolato, davvero vulgus decipi vult? Ma c’è ancora un’ipotesi a spiegazione dell’inerzia popolare: la disumanizzazione e l’impersonalità del potere. Il popolo non sa contro di chi reagire, non vede il nemico. In chi s’incarna il potere? Dove è insediato? Dove è la sua Bastiglia? Il suo Palazzo d’inverno? Carl Schmitt (1888 -1985), filosofo del diritto, sosteneva che l’aspetto più inquietante del potere è la sua disumanizzazione (Dialogo sul potere). Il suddito, fino a che vede il despota, mantiene l’esatta percezione del male, può figurarselo e sa che, eliminando quel male, può riavere la libertà. Ma quando il potere è impersonale, anonimo, diffuso, insediato da nessuna parte, il cittadino si smarrisce e vive il potere come automatismo. L’Unione europea è giunta progressivamente a espropriare totalmente il potere ai cittadini a vantaggio di funzioni e centri direzionali lontanissimi dall’agorà, dall’assemblea, dai parlamenti, dal demos.

Infine, può giovare l’accenno anche alla tesi definibile come ideologico-messianica: saremmo ormai incapaci di concepire la società alternativa. Anche i ceti popolari si sarebbero rassegnati a vedere il capitalismo come l’unica realtà possibile, contro la quale non ha senso ribellarsi e all’interno della quale la distruzione dei diritti e dei redditi appare loro come una catastrofe naturale. È una spiegazione che forse riesce a convincere l’ideologo, ma non il cittadino comune che, quando decide di sollevarsi, non ha in mente nessuna società paradisiaca collocata nel futuro. In passato il popolo è insorto infinite volte, in Europa e altrove, senza coltivare alcuna idea di società alternativa, ma anzi chiedendo a volte il ripristino dei vecchi rapporti sociali, la tutela da false innovazioni o dall’arrivo di nuovi padroni. Insomma, la rivolta può nascere anche senza essere ispirata da un’ideale società futura, perché non questa manca al popolo, ma la prospettiva immediata, praticabile, credibile, giusta, che nella situazione attuale, è la fuoruscita dalla Unione europea e dall’euro, imperniata intorno al recupero delle sovranità nazionali. Non sono ancora molti a prospettare questa riconquista, per la quale bisogna studiare, prepararsi, riaggregarsi, riflettere, trovare soluzioni e candidarsi alla guida di se stessi come Popolo, in breve far nascere il nuovo Principe.

Luciano Del Vecchio 

Commenti
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fosco2007@alice.it
admin (Super Administrator) 14-10-2014 19:16

Si può discutere che la soluzione ai disastri attuali sia l'uscita da UE ed euro, ma è indiscutibile la profondità dell'analisi contenuta in questo testo.
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