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30 Novembre 2014

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Da Il Ribelle (quotidiano on line) del 27-11-2014 (N.d.d.)

Secondo la Federal Reserve - voce dunque piuttosto interessata - i rischi relativi alla crisi in corso sarebbero rimasti solo per Europa, Cina e Giappone. Si dà per scontato che gli Usa siano ormai fuori dalle secche, malgrado quella statunitense sia tutt’altro che una ripresa, anzi. Ma la Fed si spinge ancora oltre, in modo quasi incredibile: dopo aver terminato il terzo round di Quantitative Easing iniziato nel 2012 (gli altri furono varati nel 2008 e nel 2012) adesso i rischi per gli Stati Uniti “deriverebbero dalle condizioni economiche critiche del resto del mondo”. Come dire: origine dagli Usa (2007), esportazione nel resto del Mondo, e ritorno. Solo che ora la responsabilità sarebbe degli altri. 

A livello di G7, altro carrozzone, i fanalini di coda sarebbero l’Italia e il Giappone. 

Sul nostro Paese sappiamo ormai tutto, e il governo Renzi si barcamena con l’Europa e la finanza creativa - e illusionista - per spuntare quello zero virgola in più che gli permetterebbe di far continuare la sceneggiata ancora per qualche trimestre.

In merito al Giappone le cose sono quanto meno più chiare: malgrado la politica ultra accomodante della Banca giapponese, e l’inondazione di denaro stampato di fresco, le cose vanno male. Malissimo. La terza economia mondiale è in recessione per la terza volta in quattro anni, con un calo del Pil di 1.6 punti percentuali. Shinzo Abe, a differenza di come avviene e avverrà da noi in Italia, ha posticipato l’aumento dell’Iva che era comunque programmato per ottobre 2015, ma sono soprattutto le scelte relative alla politica monetaria a destare sconcerto: malgrado tutti gli sforzi sino a questo momento siano risultati vani, le misure di allentamento continuano. Rotative a pieno regime, insomma.

È sulla Cina, invece, che occorre focalizzarsi. Siamo di fronte, anche in questo caso, a una situazione paradossale. E preoccupante. Perché anche qui le cose vanno male. La People’s Bank of China ha ufficialmente annunciato il proprio “allentamento monetario”, e secondo molti analisti seguiranno a breve ulteriori tagli dei tassi. Per il governo cinese è arrivata l’ora di aiutare le piccole e medie imprese locali e i risparmiatori. Tutto ciò ha un una duplice chiave di lettura. Da una parte il fatto che anche lì, e la cosa è di portata enorme, la propulsione è in difficoltà. La seconda è che anche lì, come altrove, le misure che verranno prese è molto difficile che potranno sortire effetti differenti da quelli inesistenti già sperimentati nel resto del mondo. 

A conferma di questa previsione, largamente condivisa senza che però quasi nessuno sia in grado, o voglia, tirarne le conseguenze, c’è il fatto che dall’estremo Oriente si sia iniziata senza neanche troppa timidezza la guerra valutaria. L’intenzione della banca cinese è quella di alzare il rapporto dollaro/yuan, aspettandosi uno yen e un euro più debole. E, ovviamente, di proseguire verso la dedollarizzazione dei mercati: sempre meno biglietti verdi per gli scambi commerciali.

Sul tavolo globale, al momento, il tutto si gioca dunque nei quartieri generali delle Banche Centrali. Il che conferma una cosa lapalissiana: la famosa “mano invisibile” non funziona (e mai ha funzionato) e così l’economia reale in ogni ordine e grado, tanto che, appunto, il tutto viene spostato nelle capacità illimitate dei numeri. Virtuali.

Anche da noi la strada è stata intrapresa, e a sentire Draghi si continuerà su questa rotta, se è vero - e lo vedremo presto - che alle “misure non convenzionali” già varate faranno seguito ulteriori manovre. Ha poco di che lamentarsi la Germania, per bocca dei tanti esponenti interni o piazzati in vari posti di rilievo dalle parti di Bruxelles e Francoforte. Anche i tedeschi sono sulla soglia della recessione, e certo non possono aspettarsi di continuare ad andare a velocità da locomotiva quando il resto del mondo rallenta, è fermo oppure, nella maggior parte dei casi, indietreggia.

Per ora la BCE non ha imbracciato il bazooka, e si è limitata (si fa per dire) a varare alcune norme che sono solo lontane parenti dei Quantitative Easing veri e propri. Ha offerto denaro alle Banche a più riprese a costi irrisori, ha comperato titoli di Stato in diverse occasioni, ed è recentemente tornata in soccorso sempre delle Banche acquistando crediti in difficoltà. Risultato? Per l’economia reale, praticamente nullo.

Mentre le altre Banche centrali sono già in guerra, a Francoforte ancora si attende a rispondere colpo su colpo. Naturalmente il motivo non è il fatto di sapere che a nulla vale, in senso risolutivo, una guerra del genere, quanto nel fatto che in Europa ancora si attende che alcuni “lavori” a livello nazionale siano portati a termine. Quello relativo al mercato del lavoro in primis e quello inerente le privatizzazioni in seconda battuta. 

In altre parole, sinteticamente: la crisi deve essere spinta ancora più in profondità per rendere necessarie e improcrastinabili quelle riforme che servono a portare a termine l’obiettivo. Poi sarà pronta e messa sul tavolo l’illusione. Insomma prima la (ulteriore) cura dimagrante e poi, solo poi, qualche endovena per tenerci ancora in vita.

Ne abbiamo conferma proprio in queste ore, con il “piano” prospettato da Juncker, secondo il quale si devono mettere in campo 315 miliardi per aprire questa “nuova fase” di crescita. 

Al di là del mero numero in sé - 315 miliardi, che non ci sono - occorre mettere a fuoco un punto sopra ogni altra cosa: da dove arriveranno (arriverebbero…) questi denari. Dunque: il sedicente piano prevede che gli Stati possano investire in “attività produttive” senza far entrare tali investimenti nel computo per il controllo del rapporto deficit/pil. Cioè, in estrema sintesi, si dà l’ok per iniziare nuovamente a spendere a debito. Ancora più importante questo: i fondi necessari a raggiungere la cifra di 315 miliardi ventilata dal presidente della Commissione Europea, ovviamente, dovranno pervenire dagli Stati stessi, ma tali fondi, dice Juncker, non entreranno nel computo economico per il rispetto del Patto di stabilità.

È sconcertante: Stati praticamente in bancarotta dovranno tirare fuori denaro da far confluire alla Ue la quale poi lo distribuirà ai bisognosi. Siccome bisognosi sono praticamente tutti, non si capisce come potranno tirare fuori tale denaro, e soprattutto, una volta che lo avranno versato alla Ue, e una volta che sarà tornato (eventualmente) indietro, ci si dovrebbe spiegare quale sarebbe il vantaggio: ci rientra dall’Ue quello che all’Ue abbiamo dovuto versare. Ah, naturalmente: non si tratta (tratterebbe) di denaro “nostro” ma, come da oltre un decennio, di denaro che la BCE ci presta dietro interesse.

Ricapitoliamo: l’Ue ci dice ok, potete spendere a debito, e anzi, vi prestiamo dei soldi, a patto che quei soldi ce li date prima voi a noi. E ovviamente, per procurarci quei soldi, dobbiamo mendicarli alla BCE.

Domandona finale: lasciando da parte le probabilità di efficacia dell’operazione nel suo complesso, quale è il soggetto che guadagnerà di più e sicuramente al termine del giro delle tre carte?

Ma per quanto riguarda l’Italia, prima che inizi la giostra, naturalmente, il Jobs Act (e tutto quello che ne consegue e che gli è collegato) deve essere portato a compimento, sia chiaro. Altrimenti, dall’Ue, niente aperture…

E allora si può, anzi è utile farlo, tirare alcune somme, visto che sono ormai diversi anni - e non solo trimestri - che le varie “cure” imposte a vario titolo e latitudine per contrastare la recessione iniziata nel 2007 negli Usa stanno servendo a molto poco. O meglio a nulla, se consideriamo, e questa è poi la prova del nove, che da molte più parti rispetto a un paio di anni addietro ove erano solo in pochi a prevederlo, si inizia a parlare con sempre maggiore insistenza della seconda ondata recessiva globale. Come se la prima fosse terminata. Come se la seconda in arrivo non fosse che una conseguenza della prima e ancora di più degli squilibri che la causarono.

Ciò che non cambia è dunque la traiettoria generale: un sistema già nell’abisso per i meccanismi stessi che non potevano che portarlo in tale sprofondo non può fare altro che continuare a rotolare verso il basso. Da allora a oggi, dal 2007 al 2014, tutta una pletora di misure che hanno avuto il solo obiettivo di radere al suolo il lavoro, ciò che rimaneva dei servizi sociali dei vari Stati e il risultato di preparare il terreno a quel mondo nuovo tanto caro, di fatto, a chi risiede stabilmente all’interno dei consessi dei centri di potere. Intere popolazioni di nuovi schiavi - tra disoccupazione, mini-jobs e accettazione di pseudo occupazioni pur di sopravvivere - in uno scenario in cui le uniche entità che hanno guadagnato e guadagneranno dalla situazione sono le stesse che hanno originariamente innescato il processo. A parte i fallimenti roboanti, operati più come monito e foglia di fico, di alcune Banche d’investimento e di qualche colosso assicurativo, per il resto i dividendi e i lauti compensi dei manager hanno ricominciato a circolare, gli utili di questi soggetti a crescere, a fronte delle macerie che si sono accumulate e stratificate negli anni. E della povertà diffusa nei vari Paesi.

Si può dunque, almeno adesso, a fatti compiuti e comprovati, sperare in una analisi differente da parte dei più rispetto a quanto fatto negli anni precedenti? A parte qualche malumore generale fatalmente incanalato in forme di dissidenza e protesta sempre ben irregimentate, a parte manifestazioni sparse e mai unitarie, per cercare (inutilmente) di rivendicare i diritti inerenti al proprio particolare caso (una azienda, un settore della produzione, un mestiere…) non ci sembra di poter registrare nessuna nuova e più generale presa di coscienza.

L’attualità scorre a colpi di news irrilevanti, e anestetizzanti, ma a livello più alto - che poi è l’unico in grado di poter offrire una visuale d’insieme per far arrivare a una conoscenza più completa dello stato delle cose - nulla di nulla. La maggior parte si aggrappa alla speranza e alle parole di ripresa lanciate dai vari maggiordomi nazionali. E tutto procede, senza che nessuno riesca a capire dove si dovrebbe andare a parare, o meglio, attaccare, per reagire a chi ci sta guidando verso il baratro.

E allora le prospettive sono molto semplici da supporre: se a livello più generale e di massa, ancora oggi, malgrado quanto successo e malgrado quanto sta succedendo giorno dopo giorno, ancora non si è neanche capito chi sono i nemici principali, si può sul serio sperare in un cambiamento della situazione?

Valerio Lo Monaco 

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